Vedi Libia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Fino al 2011 uno dei paesi più stabili di tutto l’arco mediorientale e nordafricano, a seguito delle rivolte innescatesi contro l’ex regime di Muammar Gheddafi e l’intervento esterno a guida Nato del marzo 2011 (che, nell’ottobre di quell’anno ha portato anche alla morte di Gheddafi), la Libia appare oggi un vero e proprio ‘stato fallito’, caratterizzato da un conflitto interno di natura politico-tribale, dall’assenza di istituzioni forti e dall’ascesa di forze radicali, legate al jihadismo ispirato dallo Stato islamico (Is). Prima dell’accordo siglato all’inizio del 2016, i cui risultati, a fine gennaio 2016, sono ancora da testare, il confronto vedeva due governi, e due parlamenti, l’uno contro l’altro: quello ufficiale, riconosciuto dalla comunità internazionale, ha abbandonato la capitale Tripoli nell’agosto del 2014 rifugiandosi a Tobruk, città nell’est del paese, vicina al confine egiziano. A Tripoli si è nuovamente insediato il vecchio parlamento, eletto nel 2012, che ha a sua volta formato un nuovo governo. La polarizzazione politica si è estesa nell’ultimo anno anche al campo della sicurezza. Il governo di Tobruk è controllato da una sorta di alleanza tra le forze laiche del partito di Mahmoud Jibril e varie fazioni autonomiste/federaliste prevalentemente cirenaiche. Guidato da Abdullah al-Thinni, può contare in Cirenaica sulle varie forze riorganizzate all’interno della ‘Operazione Dignità’ dal generale Khalifa Belqasim Haftar, pienamente reintegrato all’interno di un costituente, seppur alquanto debole, nuovo esercito libico.
In Tripolitania il governo di Tobruk può contare sulle milizie di Zintan, il parlamento e il governo di Tripoli, guidati da Omar al-Hassi, sono invece sotto il controllo delle variegate forze islamiste con una forte preponderanza del partito legato alla Fratellanza musulmana libica. Diverse milizie dichiaratamente ‘islamiste’ infatti, coalizzatesi all’interno della missione ‘Operazione Alba’, appoggiano il governo di Tripoli. Tra queste la forza preponderante è quella delle milizie di Misurata, terza città del paese, certamente aperta a commerci marittimi e di scarse propensioni islamico-radicali. Due fronti di aperto confronto vedono contrapporsi questi due schieramenti: in Tripolitania, a Kikla, 82 km da Tripoli, si affrontano le forze zintaniane contro quelle misuratine; in Cirenaica, a Bengasi, continuano a guerreggiare le forze di Haftar contro varie milizie islamiche, tra le quali quelle più radicali di Ansar al-Sharia. Nel contempo, ampie zone del paese, soprattutto nell’est e nel sud, sono cadute sotto il controllo di forze dichiaratamente jihadiste come la stessa Ansar al-Sharia o gruppi radicali che dichiarano la propria appartenenza all’Is, come avvenuto a Derna, una sorta di città-stato sulle coste del Mediterraneo ormai roccaforte del radicalismo.
Dal punto di vista politico e geopolitico, quindi, la frammentazione politica, la precaria situazione di sicurezza e la permeabilità dei propri confini a molteplici traffici rendono la Libia post-Gheddafi un paese molto diverso da quello conosciuto sotto i quarantadue anni di regime del Colonnello.
Le cause di questo aggravarsi della situazione sono diverse. Le peculiarità del regime di Gheddafi, sostanzialmente costruito attorno alla propria figura, non hanno permesso la sopravvivenza di istituzioni che potessero contribuire alla stabilità nel periodo di transizione. Inoltre la ‘rivoluzione libica’ del 2011 si è fin da subito caratterizzata come rivolta armata, alimentata in buona parte da attori esterni e dai chiari contorni di guerra civile.
Infine le mancanze della comunità internazionale e le intromissioni degli attori esterni in campo politico costituiscono certamente un’importante concausa dell’attuale crisi. Appare evidente come si sia, per esempio, attivato troppo presto un processo di transizione basato sulle elezioni anziché su un tentativo – accompagnato dalla comunità internazionale – di costruzione delle istituzioni e di rafforzamento dello stato di diritto. Le tre elezioni (Congresso generale 2012, Assemblea costituente 2014, Camera dei rappresentanti 2014) tenutesi in un breve arco temporale, hanno contribuito a dividere il paese anziché unirlo e rigenerarlo, facendo venir meno una reale fase di nation building nella quale si sarebbe dovuto discutere il più apertamente possibile del comune terreno sul quale ricostruire la nuova nazione libica.
Dal punto di vista delle relazioni internazionali, il governo ufficiale libico si è contraddistinto nel 2014 per richieste d’aiuto alla comunità internazionale nella lotta agli islamisti, raccogliendo l’appoggio di Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, che sono intervenuti fornendo armamenti e attraverso alcuni raid aerei. D’altro canto il governo di Tripoli è sostenuto da Turchia e Qatar. Queste interferenze esterne rendono più difficile l’avvio di un reale processo di riconciliazione nazionale.
Nell’ottobre del 2015, l’inviato speciale delle Nazioni Unite Bernardino Leon ha annunciato un nuovo accordo per la formazione di un governo di unità nazionale, ma il piano è stato rigettato da entrambi i parlamenti a distanza di poche settimane. La credibilità dello stesso Leon è stata minata dalla rivelazione di aver accettato un lavoro all’accademia diplomatica degli Emirati Arabi Uniti, un paese che appoggia apertamente il governo di Tobruk. Leon ha lasciato l’incarico il 6 novembre ed è stato sostituito dal tedesco Martin Kobler, che nel gennaio 2016 è stato l’artefice della creazione di un nuovo governo di unità nazionale, che deve ancora essere riconosciuto dalle parti.
La popolazione libica conta solo 6,2 milioni di persone: la densità demografica è molto bassa, la maggior parte della popolazione vive sulla costa e si concentra soprattutto nelle zone di Tripoli e Bengasi. La crescita della popolazione è sostenuta (il tasso di crescita tra il 2005 e il 2010 è stato del 2%) e la fascia giovanile (tra zero e 30 anni) è maggioritaria.
I libici sono prevalentemente di etnia araba e berbera, ma esistono anche significative minoranze tribali tuareg e tebu. Circa il 10% della popolazione è costituito da immigrati, provenienti per la maggior parte dall’Africa subsahariana. Si stima che circa il 97% dei libici sia musulmano sunnita; ai pochi non musulmani sotto il regime di Gheddafi era consentito praticare la loro fede con relativa libertà. Dalla caduta del regime ci sono stati frequenti attacchi contro luoghi signficativi per occidentali e cristiani, ma anche contro i santuari del sufismo da parte di gruppi salafiti jihadisti.
La Libia è stata per lungo tempo un paese di immigrazione, per l’elevata domanda di manodopera nei settori del petrolio e del gas e in quello dell’edilizia. Inoltre, la Libia è tuttora un paese di transito per gli immigrati provenienti dall’Africa subsahariana (Sudan, Ciad e Niger) e diretti in Europa. Di qui l’interesse dell’Italia e dell’Unione Europea (Eu), nel porre un freno al fenomeno migratorio, stipulando con il paese africano accordi in grado di delegare a Tripoli le prime competenze in materia di pattugliamento delle coste. In questo modo, la Libia si è trasformata di recente in una sorta di paese ‘cuscinetto’. Il Trattato di amicizia italo-libico e l’accordo tra Eu e Libia dell’ottobre 2010, al 2016 sospesi, hanno mirato al rafforzamento dei controlli della frontiera marittima da parte della Libia ed esternalizzato parte delle responsabilità nella riduzione della pressione migratoria. Tuttavia, le condizioni degli immigrati in Libia sono state aspramente criticate da alcune organizzazioni che si occupano di diritti umani: la Libia non dispone di una legislazione adeguata per la tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, pur non esistendo dati ufficiali sul traffico di esseri umani da e verso il paese, l’ingente afflusso di immigrati irregolari e la stretta dei controlli alle frontiere ha creato spesso condizioni di vita insostenibili. La crisi libica del 2011 ha implicato un relativo e momentaneo aumento dell’immigrazione proveniente dal paese, e condizioni di vita assai difficili per le minoranze nere all’interno del paese, considerate sostenitrici del regime di Gheddafi. Nel corso del 2013 l’Italia ha dato il via all’operazione militare umanitaria ‘Mare nostrum’ per il pattugliamento con quattro navi della marina della zona di mare italiana e internazionale tra Italia e Libia. Nel 2014 Mare Nostrum è stata riassorbita nella missione europea Triton, mentre il flusso di immigrazione dalla Libia verso l’Italia, proprio a causa del nuovo conflitto, raggiungeva la cifra record di circa 170.000 persone. Nell’aprile del 2015, quasi 1000 migranti sono morti in mare in seguito al naufragio dell’imbarcazione su cui viaggiavano. La tragedia ha suscitato la reazione dei paesi europei che hanno deciso di potenziare l’operazione ‘Triton’. Nel corso dell’anno, nonostante la situazione in Libia sia rimasta altamente instabile, gli arrivi hanno registrato una leggera flessione rispetto al 2014, con poco più di 140.000 persone sbarcate in Italia.
L’economia libica dipende dai proventi del settore degli idrocarburi, che vi contribuiscono per circa due terzi del pil nominale. Il paese possiede vasti giacimenti di petrolio e di gas ed esporta tali prodotti verso l’Italia – maggiore partner commerciale, che assorbe la quasi totalità delle esportazioni di gas e il 27% di quelle petrolifere – la Germania, la Spagna e la Francia.
In particolare la Libia vanta ingenti riserve di greggio accertate: circa 44 miliardi di barili, le maggiori d’Africa e tra le più vaste in assoluto. La Libia non ha però la tecnologia necessaria a sviluppare il settore degli idrocarburi e rimane quindi dipendente dagli investimenti provenienti dall’estero: per questo, la svolta moderata nella politica estera libica impressa al paese da Gheddafi nella prima parte degli anni Duemila ha offerto alle imprese straniere le garanzie necessarie perché potessero insediarsi con minori preoccupazioni. Tuttavia, la mutevole politica di Gheddafi, che aveva per esempio minacciato la nazionalizzazione del settore degli idrocarburi, le condizioni piuttosto sfavorevoli imposte dal governo libico alle compagnie internazionali e, infine, le condizioni di sicurezza instabili che caratterizzano il paese nel post-Gheddafi, creano incertezze e scoraggiano gli investitori. Tra i principali investitori un ruolo di rilievo è ricoperto dall’Italia, e in particolare da Eni. I legami con l’ex colonia italiana, una volta ripresi, sono divenuti negli ultimi anni molto stretti.
Il conflitto civile del 2011 ha comportato per lunga parte dell’anno un blocco delle esportazioni di petrolio e gas e, quindi, una drastica diminuzione delle entrate e del pil annuale (-61%). A cominciare da ottobre 2011 la produzione petrolifera libica è tornata a crescere e ha quasi raggiunto alla fine del 2012 i livelli pre-guerra, ossia circa 1,5 milioni di barili al giorno. Tuttavia, l’attuale situazione d’instabilità del paese sta avendo forti ripercussioni anche sul fondamentale settore produttivo dell’energia. Dall’inizio di giugno 2013, l’estrazione di idrocarburi ha subito gravi interruzioni perché oggetto degli scioperi serrati dei lavoratori del settore e delle guardie preposte al controllo delle infrastrutture o perché colpiti dai sabotaggi delle milizie armate. Il 2014 ha registrato addirittura un importante tentativo di vendita irregolare da parte del gruppo autonomista cirenaico capeggiato da Ibrahim Jethran che aveva occupato diversi impianti energetici. Jethran accusava la Fratellanza musulmana libica di aver rovesciato la maggioranza laica all’interno del parlamento e, allo stesso tempo, rivendicava una maggior redistribuzione alla Cirenaica delle risorse energetiche. Nel marzo 2014 il gruppo è riuscito sorprendentemente a vendere un carico di greggio alla petroliera Morning Glory battente bandiera nord-coreana, che pochi giorni più tardi tuttavia veniva bloccata dalla marina americana e fatta rientrare in Libia. L’operazione è stata permessa grazie alla risoluzione n. 2146 del Consiglio di Sicurezza Un che impedisce le vendite illegali di greggio. Nel corso del 2014 i due governi libici si sono contesi anche il controllo delle istituzioni economiche più importanti del paese, tra cui la Banca centrale e la Compagnia nazionale del petrolio (Lnoc). L’incertezza su chi gestisca queste istituzioni è stata evidente quando al vertice Opec di Vienna di novembre si sono presentate due delegazioni diverse. Dopo un picco toccato alla fine del 2014, durante il 2015 la produzione di petrolio ha subito una nuova riduzione ritornando vicina ai 400.000 barili al giorno, con un andamento che segue da vicino l’evoluzione della situazione politica.
La crescente instabilità che ha seguito la fine della guerra ha inflitto un duro colpo alle speranze di ripresa dell’economia: il pil è in diminuzione (-6,1% stimato nel 2015), la ricostruzione delle infrastrutture in seguito alla guerra è ferma e i capitali esteri scarseggiano. Nel 2013 il Fondo Monetario aveva accordato alla Banca centrale un prestito temporaneo per scongiurare una sua insolvenza, nel 2015 entrambe le fazioni hanno istituito una loro banca, confondendo ulteriormente la situazione. Le compagnie petrolifere occidentali continuano infatti ad effettuare i pagamenti tramite la banca di Tripoli, mentre il Fondo Monetario riconosce ufficialmente solo la banca di Tobruk.
La Libia di Gheddafi, nonostante l’assenza di libertà politiche e civili, possedeva un livello di sviluppo umano relativamente elevato rispetto ai vicini africani. Il tasso di alfabetizzazione per esempio raggiungeva il 100% tra i giovani; le condizioni dei servizi sanitari generici offerti alla popolazione erano sufficienti: in base ai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, il 97% della popolazione aveva accesso alle strutture sanitarie, ma soltanto il 54,4% all’acqua potabile. La mortalità infantile era piuttosto bassa (17 su 1000 nati). Quanto alla parità di genere, Gheddafi aveva cercato, almeno pubblicamente, di promuovere lo status della donna rispetto alla cultura tradizionale e di scoraggiare la discriminazione. Nel 2012 il National Transitional Congress (Ntc) ha cercato per legge di riservare una quota di seggi a donne alle elezioni di luglio, ma ha dovuto rinunciare inserendo solamente l’obbligo di alternanza di sesso tra i candidati della quota proporzionale, il che ha assegnato alle donne complessivamente 80 seggi. La situazione è invece da sempre critica per quanto concerne i diritti civili e politici. L’attività politica sotto il regime di Gheddafi è sempre stata molto controllata, la libertà di assemblea era consentita solo alle manifestazioni filo-governative, non vi erano sindacati indipendenti e la corruzione era piuttosto diffusa. La Libia post-regime aveva offerto, in una prima fase, dati incoraggianti. Alle elezioni di luglio 2012 ha concorso il numero record di 140 partiti registrati, ma le formazioni politiche sono state più di 350. Le elezioni hanno prodotto un congresso molto eterogeneo dal punto di vista politico. Il sistema elettorale ha permesso l’elezione con il sistema maggioritario su circoscrizioni locali di 120 membri indipendenti che rispondevano quindi più alla comunità di appartenenza che a qualche partito. Tuttavia la scarsissima partecipazione in termini numerici della popolazione libica alle ultime votazioni del 2014 ha costituito un importante indicatore sul grado di disillusione della popolazione libica nei confronti di una transizione pacifica e democratica. Nella nuova Libia il pluralismo sembrava essere garantito, come la libertà d’espressione: nel giro di pochi mesi erano sorti moltissimi media, gruppi civili, associazioni e sindacati. Tuttavia, negli ultimi due anni, le libertà civili e i diritti politici sono stati fortemente limitati da minacce, agguati personali e intimidazioni, perlopiù esercitate da radicali islamici, ma anche dalle milizie che gestiscono singole aree. Il maggior pericolo deriva dai gruppi salafiti e jihadisti violenti e dalle vendette incrociate dei vecchi appartenenti al regime gheddafiano.
L’attuale situazione caotica del paese è caratterizzata della presenza di numerose milizie armate sul territorio libico. Queste non si sono disarmate alla fine del conflitto del 2011 e attualmente restano le vere detentrici del potere nel paese. Le varie autorità nazionali succedutesi dalla caduta del regime non sono state in grado di riconquistare il monopolio dell’uso della forza. Le sanzioni al regime di Gheddafi nel marzo 2011 hanno imposto l’embargo su qualsiasi tipo di armamento, mentre l’intervento Nato ha eliminato buona parte delle forze armate terrestri e aeree del regime.
Dopo la fine del conflitto si è registrato inoltre un flusso piuttosto rilevante di armamenti in uscita dal paese e diretto ad aree conflittuali africane e mediorientali. La Libia ha una forte necessità di ricostituire le proprie forze armate anche dal punto di vista dei mezzi e delle strutture. Tuttavia sinora ciò le è stato impedito proprio dalle limitazioni ancora esistenti nel quadro delle sanzioni dell’Un. Diversi paesi occidentali, dagli Stati Uniti all’Italia, al Regno Unito, hanno collaborato nel corso del 2013-14 con il governo libico nella costituzione e nell’addestramento delle forze di polizia e dell’esercito, tuttavia con modesti risultati. La polarizzazione nel campo della sicurezza, tramutatasi in aperto conflitto tra le due fazioni, ha alimentato una nuova rincorsa agli armamenti, nel tentativo di rafforzamento di una parte sull’altra. La comunità internazionale, l’Eu in particolare, ha cercato di collaborare con la Libia nel tentativo di rafforzare i carenti controlli alle frontiere, causa del proliferare di traffici di armi, di persone e di droga, ma lo sforzo è stato reso vano nel momento in cui la Libia è ricaduta in un conflitto tra le due fazioni a metà 2014. Su questo fronte è da rilevare come il ritorno nel Mali di decine di ribelli tuareg che avevano combattuto a fianco delle milizie pro-Gheddafi durante la rivoluzione libica e il riarmo di Aqim (al-Qaida nel Maghreb islamico), proprio grazie all’arsenale del regime libico, abbiano costituito una delle cause di instabilità del Mali e la conseguente presa di potere nei territori settentrionali del Mali stesso a opera delle milizie islamiche.
Dagli ultimi mesi del 2014 da molti media internazionali è stata riportata la penetrazione di Is in Libia. In realtà il panorama jihadista in Libia è molto variegato poiché molti altri gruppi salafiti-jihadisti sembrano avere un santuario in Libia, compresi Aqim, gruppi egiziani e tunisini. Varie formazioni dichiaratamente jihadiste sono comparse sulla scena libica dal 2012 e si sono progressivamente rafforzate con lo sgretolarsi dello stato libico. Tra questi vi sono certamente gruppi che cercano di imporre la costituzione di un califfato in Libia anche attraverso l’uso della forza. Ansar al-Sharia Libia, responsabile dell’uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens nel settembre del 2012, resta una delle forze militari più cospicue nell’est del paese, in particolare nella città di Bengasi dove è attualmente contrastata dalle forze militari di Haftar, ed è stata designata prima dal Dipartimento di stato americano, poi dall’Un come organizzazione terroristica. Tuttavia, nel corso del 2015 la situazione sul campo è diventata sempre più complicata a causa del rafforzamento dei gruppi legati all’Is. Questi ultimi hanno proclamato la loro affiliazione al sedicente Califfato, instaurando due province in Tripolitania e Cirenaica, con basi a Sirte e Derna.