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La Libia si presentava sino al 17 febbraio 2011, giornata di proteste che ha dato il via al conflitto interno al paese, come uno dei paesi più dinamici della regione africana, grazie alle immense risorse di idrocarburi che le hanno permesso di giocare un ruolo di primo piano a livello regionale. Dal colpo di stato di Mu‘ammar Gheddafi nel 1969, la Libia ha storicamente improntato la propria politica estera su due direttrici: quella dell’antimperialismo (spesso interpretato in chiave antioccidentale, ma talvolta, in passato, anche antisovietica) e quella del panarabismo, divenuto poi panafricanismo una volta frustrate le ambizioni di leadership del mondo arabo del colonnello Gheddafi. Entrambe sono state funzionali anche al perseguimento di obiettivi di legittimazione e stabilità interna, contribuendo all’individuazione di nemici comuni o di ragioni d’essere, capaci di cementare la debole identità nazionale libica.
Dopo i decenni di isolamento internazionale, negli ultimi anni, e in particolare dal 2001 in poi, il regime di Gheddafi aveva intrapreso un cammino di riavvicinamento e dialogo con l’Occidente, scandito dallo smantellamento dei programmi di armamento nucleare e chimico.
La Libia sembrava un paese atto a integrarsi nuovamente e pienamente nella comunità internazionale, non rappresentando alcuna minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Tuttavia, le rivolte arabe di inizio 2011, e in particolare quelle che hanno avuto come risultato la caduta di Ben ̔Alī in Tunisia e di Mubarak in Egitto, paesi confinanti con la Libia, hanno creato condizioni favorevoli all’avvio di un’insurrezione in Cirenaica, regione storicamente ostile alla gestione del potere di Gheddafi, e in altre città libiche.
A favore della rivolta hanno giocato anche fattori legati alla recente trasformazione economica del paese, al processo di privatizzazione e differenziazione dell’economia, avviati nel tentativo di svincolarsi dal rigido schema dell’economia ‘rentier’, basato sulla redistribuzione ai cittadini della rendita derivante dalle risorse energetiche. In particolare i licenziamenti nel settore pubblico hanno contribuito a creare un clima di dissenso nei confronti della gestione economica del regime, percepito come corrotto e favorevole al clan familiare di Gheddafi.
Tuttavia gli insorti, seppur organizzatisi in un Consiglio nazionale transitorio (Cnt), con a capo l’ex ministro della giustizia Mustafa Abdel Jalil, non sono riusciti prontamente a prendere il controllo della capitale e della maggior parte della Tripolitania, a causa del consenso di cui ancora godeva il regime in molte zone del paese. Il risultato del mancato successo della rivolta è stato lo scoppio di una vera e propria guerra civile nel paese.
La dura repressione dell’esercito e delle milizie del regime, e una situazione di sempre più evidente prevalenza delle forze di Gheddafi su quelle disorganizzate e mal equipaggiate del Cnt, hanno indotto, prima, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ad adottare il 26 febbraio un regime di sanzioni contro Tripoli, che includesse l’embargo agli armamenti, la proibizione a Gheddafi e ai membri della sua famiglia di uscire dal paese e il congelamento dei beni del colonnello all’estero; poi, il 17 marzo, su iniziativa francese e inglese, una risoluzione che autorizzasse la comunità internazionale a istituire una no fly zone e a utilizzare ‘tutti i mezzi necessari’, tranne l’occupazione militare, per proteggere i civili e imporre un cessate il fuoco.
Nei giorni successivi sono iniziate le operazioni di no fly zone unitamente al bombardamento di obiettivi militari e strategici da parte di alcuni paesi occidentali, come Francia, Regno Unito e Stati Uniti, e di alcuni paesi arabi, come Qatar ed Emirati Arabi Uniti (Uae). In seguito le operazioni militari sono state poste sotto il comando della Nato nella missione denominata ‘Unified Protector’, a cui ha preso pienamente parte anche l’Italia, da sempre primo partner commerciale di Tripoli. Proprio sul piano politico-diplomatico, la comunità internazionale si è trovata a dover gestire il problema del comando delle operazioni e del suo passaggio dalla coalizione dei volenterosi alla Nato, con la Francia che ha continuato a spingere per la costituzione di un ‘direttorio’ al di fuori dell’Alleanza che ne stabilisse l’orientamento politico. Si è poi trovata una soluzione che ha fatto rientrare tutto il controllo e la gestione della missione in ambito Nato, con quartier generale a Napoli.
Con l’implementazione della no fly zone, le ostilità a terra sono continuate su due fronti principali: quello orientale della Cirenaica, e quello di Misurata, città ribelle all’interno della Tripolitania, terza cittadina in ordine di grandezza della Libia. Se l’intervento internazionale ha aiutato le milizie dei ribelli a rafforzare le posizioni in Cirenaica, distruggendo le colonne di blindati del regime (le cui truppe hanno poi cambiato tattica, utilizzando mezzi più agili e confondendosi con gli insorti), a Misurata il supporto aereo è stato inferiore a causa dell’alto rischio di danni collaterali, trattandosi di condurre raid in territorio urbano. I raid aerei sono continuati costantemente per settimane con il chiaro obiettivo del collasso del regime e la sua sostituzione con il Cnt. Tra la fine di agosto e l’inizio di settembre 2011 le forze militari dei ribelli sono riuscite ad entrare a Tripoli e ad occupare buona parte della Tripolitania. Dopo le difficoltà incontrate all’interno del Cnt nella formazione di un nuovo governo che includesse le diverse anime della rivolta, le ultime sacche di resistenza dei lealisti, concentrate nelle cittadine di Bani Walid e Sirte, sono state vinte a metà ottobre. Il 20 ottobre i ribelli hanno ucciso Gheddafi proprio a Sirte, sua città natale.
In seguito alla rivoluzione culminata nel colpo di stato di Gheddafi nel 1969, la Libia assunse ufficialmente la forma di governo della Jamahiriyah. Si tratta di un termine arabo coniato da Gheddafi stesso, che nelle sue intenzioni voleva significare ‘governo delle masse’. Ufficialmente Gheddafi non ricopriva alcun ruolo all’interno del paese, ma de facto fu il capo di stato e il comandante delle Forze armate. Il sistema istituzionale libico si basava sul cosiddetto Libro verde, scritto da Gheddafi e pubblicato nel 1975, in cui egli rigettava i tradizionali sistemi democratici e partitici. Nella visione di Gheddafi il potere doveva essere nelle mani dei comitati popolari, riuniti nel Congresso generale del popolo, che ufficialmente esercitava il potere legislativo.
La popolazione libica consta di soli 6,4 milioni di persone: la densità demografica è molto bassa e la maggior parte della popolazione vive sulla costa, concentrandosi soprattutto nelle zone di Tripoli e Bengasi. La crescita della popolazione è sostenuta (il tasso di crescita tra il 2005 e il 2010 è stato del 2%) e la componente giovanile (la fascia di età tra gli 0 e i 30 anni) è maggioritaria.
I libici sono prevalentemente di etnia araba e berbera, ma esistono anche significative minoranze tribali Tuareg. Circa il 10% della popolazione è costituito da immigrati, provenienti per la maggior parte dall’Africa sub-sahariana. Si stima che circa il 97% dei libici sia musulmano sunnita; ai pochi non musulmani è consentito di praticare la loro fede con relativa libertà.
La Libia è da tempo un paese di immigrazione, a causa dell’elevata domanda di manodopera nei settori del petrolio e del gas e in quello dell’edilizia. Il paese attrae immigrati provenienti in prevalenza dai vicini stati dell’Africa sub-sahariana e, in misura minore, dal Nord Africa. Inoltre, la Libia è un paese di transito per gli immigrati provenienti dall’Africa sub-sahariana (Sudan, Ciad e Niger) e diretti in Europa. Di qui l’interesse dell’Italia, ma anche dell’Unione Europea (Eu), a porre un freno al fenomeno migratorio, stipulando con il paese africano accordi in grado di delegare a Tripoli stessa le prime competenze in materia di pattugliamento delle coste. In questo modo, la Libia si è trasformata di recente in una sorta di paese ‘cuscinetto’. Il Trattato di amicizia e l’accordo tra Eu e Libia dell’ottobre 2010 hanno mirato, infatti, al rafforzamento dei controlli della frontiera marittima da parte della Libia, esternalizzando in tal modo parte delle responsabilità nella riduzione della pressione migratoria. Tuttavia, le condizioni degli immigrati in Libia sono state oggetto di critiche da parte di alcune organizzazioni che si occupano di diritti umani: la Libia non dispone di una legislazione adeguata per la tutela dei rifugiati e dei richiedenti asilo e, pur non esistendo dati ufficiali sul traffico di esseri umani da e verso il paese, l’ingente afflusso di immigrati irregolari e la stretta dei controlli alle frontiere ha spesso comportato un rischio reale per le condizioni dei medesimi. L’avvio della crisi libica ha implicato un nuovo aumento dell’immigrazione proveniente dal paese, alimentando nuovamente l’ipotesi che il regime di Gheddafi possa aver usato l’emigrazione verso l’Italia come arma di rappresaglia e pressione. Inoltre, la guerra ha creato una difficile situazione ai confini del paese.
A seguito dello scoppio del conflitto il governo italiano ha sospeso l’accordo firmato il 30 agosto del 2008 tra Italia e Libia nella città libica di Bengasi e ratificato dai rispettivi paesi tra il febbraio e il marzo del 2009. Secondo le disposizioni previste dal Trattato, l’Italia si impegna a pagare 5 miliardi di dollari alla Libia in 20 anni come compensazione per la colonizzazione italiana, da destinare al finanziamento della costruzione di infrastrutture.
La Libia si è invece impegnata a cooperare con Roma nella lotta all’immigrazione clandestina e nell’aumento degli investimenti dei propri fondi sovrani in Italia. Il Trattato contiene anche una clausola di non aggressione reciproca, che fa salvo i patti stipulati in precedenza. La firma del Trattato ha suscitato polemiche in Italia, soprattutto attorno alla questione del rispetto dei diritti umani in Libia.
L’economia libica dipende dai proventi del settore degli idrocarburi, che vi contribuiscono per circa due terzi del pil nominale. Il paese, infatti, possiede vasti giacimenti di petrolio e di gas, ed esporta tali prodotti verso l’Italia – maggiore partner commerciale, che assorbe il 70% delle esportazioni totali di gas e il 35% di quelle petrolifere – la Germania, la Spagna e la Francia.
In particolare la Libia vanta ingenti riserve di greggio accertate: circa 44 miliardi di barili, le maggiori d’Africa e tra le più vaste in assoluto. La Libia è però carente nella tecnologia necessaria a sviluppare il settore degli idrocarburi e rimane quindi dipendente dagli investimenti provenienti dall’estero: per questo, la svolta moderata nella politica estera libica impressa al paese da Gheddafi nella prima parte degli anni Duemila ha offerto alle imprese straniere le garanzie necessarie perché potessero insediarsi con minori preoccupazioni. Tuttavia la mutevole politica di Gheddafi, che ha per esempio paventato la nazionalizzazione del settore degli idrocarburi, continua a creare incertezze e scoraggia gli investitori. Tra i principali investitori un ruolo di rilievo è ricoperto dall’Italia, e in particolare da Eni. I legami con l’ex colonia italiana, una volta ripresi, sono divenuti negli ultimi anni molto stretti: il recente Trattato di amicizia promuove i rapporti economici e prevede anche maggiore cooperazione nel campo delle energie rinnovabili; inoltre la partecipazione del governo libico nella banca italiana Unicredit è aumentata. La Libia aveva anche avviato una collaborazione con la Francia – ora sospesa – per la ricerca e il trasferimento di tecnologia nucleare civile.
La crisi economica mondiale ha avuto un impatto limitato, provocando una diminuzione del pil dello 0,7% nel 2009, e la Libia è tornata a crescere a ritmi sostenuti (3,3% nel 2010), riuscendo a ottenere un avanzo primario (la differenza tra le entrate e le uscite statali è rimasta positiva). Molto più importanti saranno, invece, le ricadute della guerra civile. Nel 2011, secondo alcune fonti, l’economia libica potrebbe avere un tasso negativo attorno al 30%. Dal 2001 il governo di Tripoli aveva avviato una graduale e prudente riforma economica, incentivando un processo di liberalizzazione e privatizzazione: le riforme sono state molto lente ma, in prospettiva, avrebbero dovuto avvicinare il paese a un modello più assimilabile a quello di un’economia di mercato. Inoltre, la Libia aveva recentemente intrapreso importanti tentativi per attirare gli investimenti esteri in settori diversi da quello degli idrocarburi (turismo, telecomunicazioni e costruzioni) al fine di diversificare l’economia. Proprio con questo scopo e con quello di acquisire importante tecnologia e know how per il proprio sviluppo interno, negli ultimi anni la Libia aveva adottato una strategia di penetrazione finanziaria all’interno di importanti imprese europee e in primis italiane.
Al di là dei recenti avvenimenti, in una prospettiva di lungo periodo, la Libia dovrà comunque affrontare la questione della disoccupazione, soprattutto giovanile, che, secondo i dati ufficiali, si attesta attorno al 20%. Negli ultimi anni il regime aveva cercato di affrontare tale problema con una politica di ‘libicizzazione’, richiedendo cioè alle aziende straniere di assumere cittadini libici, senza tuttavia ottenere risultati significativi.
A cominciare dal 2006, con l’istituzione della Libyan Investment Authority (Lia), un fondo sovrano dotato di un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari, la Libia ha adottato una politica dei propri investimenti all’estero più organizzata del passato. La creazione del fondo sovrano è stato permesso dal surplus di riserve monetarie derivante dalle esportazioni di riserve energetiche, petrolio e gas, accumulate nel corso del tempo, in particolare dall’inizio degli anni duemila quando sono tornate ad operare in Libia le compagnie straniere. Nel 2008, periodo in cui il prezzo del greggio ha toccato il suo massimo storico, l’iniziale capitale è stato notevolmente accresciuto fino a giungere attorno ai 70 miliardi di dollari odierni.
La maggior parte di questo denaro è stato investito in strumenti finanziari di breve periodo, mentre solamente il 25% di questo capitale è stato utilizzato per investimenti di lungo periodo. Tra questi ultimi la Lia si è concentrata su tre aree geografiche di particolare rilevanza per il governo libico: l’Europa con circa il 68% di investimenti, il Nord America il 18% circa e il rimanente nei mercati emergenti. Alla Libia appartengono inoltre altri fondi sovrani di minor entità, comunque collegati alla Lia, come il Libyan Energy Fund, la Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico) e la Africa Investment Portfolio (Laip), specializzato in investimenti in Africa.
Secondo tutti i maggiori istituti mondiali specializzati, come lo statunitense Swf Institute o il Monitor Group, i fondi libici manterrebbero un alto livello di opacità su disponibilità finanziarie e obiettivi degli investimenti, un limite che ha probabilmente costituito un ostacolo rilevante per una maggiore penetrazione nell’economia occidentale.
Infatti, a seguito del Trattato di Amicizia firmato con l’Italia nell’agosto del 2008, il regime di Gheddafi aveva manifestato grande interesse verso l’acquisizione di quote di capitale di società italiane. L’investimento più importante è stato quello che ha riguardato UniCredit. L’operazione è inizialmente avvenuta nell’ottobre 2008 quando la Central Bank of Lybia ha acquistato sul mercato una quota di UniCredit raggiungendo il 4,9% del capitale. L’iniziativa, in un periodo di forte crisi economica, è stata accolta con favore, non solamente degli azionisti UniCredit, ma anche dal governo italiano e ha permesso alla banca di ottenere un’importante iniezione di liquidi. La posizione degli azionisti libici all’interno dell’azienda è stata ribadita anche nel seguente aumento di capitale, divenendo di fatto i primi azionisti della banca, operazione foriera di polemiche, nell’agosto 2010 con l’acquisto di un’ulteriore quota (più del 2%) proprio da parte della Lia.
In Italia vi sono poi state anche altre operazioni di minore entità (Eni e Finmeccanica) e altre chiare manifestazioni di interesse. L’azione di Tripoli tendeva sostanzialmente a costituire un investimento più differenziato e profondo di quello effettuato in passato (nel 1976 investitori libici entrarono nel capitale Fiat con una quoto attorno al 10%).
Le motivazioni che sottostanno a queste operazioni erano essenzialmente economiche e strategiche. Dal punto di vista libico, la volubilità del petrolio, sempre soggetto a forti sbalzi di valore e destinato a ridursi col passare del tempo, è stata ampiamente evidenziata nel corso degli ultimi anni. Osservando i settori di interesse dei fondi libici ¬ quello energetico, bancario, finanziario, infrastrutturale e tecnologico ¬ si può constatare come la finalità sia stata non solo quella di investire allo scopo di massimizzare i rendimenti entro certi margini di rischio, ma anche di ottenere partecipazioni in settori potenzialmente strategici per lo sviluppo libico. I fondi alimentati dalla rendita petrolifera vengono infatti impiegati principalmente per ridurre l’impatto della volatilità delle entrate petrolifere ma anche per garantire alle generazioni future gli stessi potenziali di crescita attuali: la rendita da capitale dovrebbe progressivamente sostituire la rendita petrolifera via via che si esauriranno le riserve di idrocarburi.
A causa della guerra in Libia, i fondi di proprietà del governo di Tripoli sono stati “congelati” a inizio marzo 2011 dalle sanzioni internazionali imposte al paese, rendendo incerto il futuro delle partecipazioni libiche nelle imprese occidentali. Il tentativo della coalizione militare che partecipa all’azione contro il regime di Gheddafi è quella della creazione di un Trust Fund, istituzione tipica del diritto anglosassone, che permette al disponente di creare dei benefici verso un altro individuo o soggetto, nel quale fare confluire i depositi congelati (circa 130 miliardi di dollari secondo indiscrezioni di stampa) e i proventi del petrolio già in mano agli insorti per creare un nuovo “tesoro” del popolo libico.
La Libia possiede un livello di sviluppo umano relativamente elevato rispetto ai vicini africani. Il tasso di alfabetizzazione è elevato, e raggiunge il 100% tra i giovani; le condizioni dei servizi sanitari generici offerti alla popolazione sono sufficienti: in base ai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, il 97% della popolazione ha accesso alle strutture sanitarie, ma soltanto il 54,4% ha accesso all’acqua potabile. La mortalità infantile è bassa (17 su 1000 nati). Quanto alla parità di genere, Gheddafi ha cercato di promuovere lo status della donna rispetto alla cultura tradizionale e di scoraggiare la discriminazione. In particolare, Gheddafi ha incentivato l’accesso all’istruzione e al lavoro delle donne affinché queste potessero avere un ruolo attivo nella Jamahiriyah.
La situazione è invece storicamente stata critica per quanto concerne i diritti civili e politici. L’attività politica del regime di Gheddafi è sempre stata molto controllata, la libertà di assemblea è consentita principalmente solo alle manifestazioni filogovernative, non vi sono sindacati indipendenti e la corruzione è diffusa. Inoltre, il governo controlla strettamente i media, i quali, per esempio, evitano di pubblicare notizie che possano offendere l’islam. Negli ultimi anni era tollerato un moderato dissenso verso il governo, ma mai verso la figura del ‘leader’ (Gheddafi non ricopriva alcun incarico pubblico formale). I giornalisti che violano tali restrizioni rischiano la pena capitale e quelli che scrivono dall’estero possono essere denunciati all’ingresso in Libia. Alla televisione satellitare e a internet vengono imposti limiti nei contenuti. Infine, Amnesty International denuncia casi di tortura, detenzione arbitraria e un generale clima di impunità.
Con la fine della Guerra fredda e il conseguente collasso dell’Unione Sovietica, la Libia ha dovuto in parte rivedere i propri piani per la difesa, dal momento che Mosca aveva storicamente rappresentato il fornitore privilegiato di Tripoli in ottica antioccidentale (con un trasferimento di armi pari a circa 25 miliardi di dollari tra il 1970 e il 1989). Complice la caduta del sistema sovietico e dell’alleanza tra i due paesi, Tripoli si è trovata senza una propria industria della difesa all’avanguardia e nella necessità di ammodernare il proprio apparato militare, con la progressiva obsolescenza delle armi e delle tecnologie di cui era in dotazione. Contemporaneamente, la fine dell’isolamento internazionale all’inizio del 21° secolo ha consentito a Tripoli di fare leva in misura sempre maggiore sulla sua influenza economica, soprattutto grazie all’esportazione delle sue ingenti risorse petrolifere, e di diminuire la portata delle sue strategie di deterrenza militare (al tempo stesso meno necessarie, vista la distensione avvenuta a livello regionale e internazionale). Così, nel 2003 la Libia ha scelto di rinunciare ai suoi programmi di sviluppo di armi di distruzione di massa. D’altro canto il paese poteva recentemente contare su contratti per la fornitura di armi e per il trasferimento di tecnologia militare stipulati non solo con la Russia, ma anche con altri paesi, tra cui l’Ucraina, l’Italia e la Francia. Le sanzioni imposte al regime di Gheddafi nel marzo 2011 hanno imposto l’embargo su qualsiasi tipo di armamento, mentre l’intervento Nato ha eliminato buona parte delle forze armate terrestri e aeree del regime.
La Libia di Gheddafi ha mirato nell’ultimo decennio a giocare un ruolo di primo piano all’interno della regione africana, e lo stesso colonnello ha più volte dichiarato che il suo paese vuole essere un punto di riferimento per tutti i paesi dell’area. Lo strumento che Tripoli ha utilizzato per aumentare la sua influenza sul continente è l’Unione Africana (Au), organizzazione all’interno della quale la Libia ricopre un ruolo di rilievo. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e il successivo reintegro della Libia nella comunità internazionale, anche per il regime di Tripoli la lotta al terrorismo di matrice islamica è stata una delle priorità in materia di sicurezza interna. Di recente, la Libia ha stipulato degli accordi di cooperazione nel settore militare e della difesa con alcuni paesi confinanti e con l’Italia. Il paese è al centro di interessi di sicurezza regionali anche per ciò che concerne il tema dell’immigrazione, dal momento che esso costituisce un territorio di passaggio per i flussi migratori provenienti dall’Africa sub-sahariana e diretti verso l’Europa.