Limbo
Il termine (di cui si hanno due attestazioni nella Commedia: If IV 45 gente di molto valore / conobbi che 'n quel limbo eran sospesi; Pg XXII 14 discese / nel limbo de lo 'nferno Giovenale) è strettamente legato alla topografia dell'oltretomba; significa infatti " orlo ", " zona marginale " dell'Inferno. Mentre per la rappresentazione letteraria del L. il poeta è stato sensibile a una serie d'immagini e concetti della letteratura patristica e persino della tradizione dei Vangeli apocrifi (ad es. il Descensus Christi ad inferos), di quella figurativa (si ricorda la Discesa al Limbo del Maestro della Passione nella basilica veneziana di S. Marco), di quella classica (basterà rammentare gli Elisi di Aen. VI 638 ss.), di quella medievale (la Domus Naturae nell'Anticlaudianus di Alano da Lilla; la sede delle virtù morali nel Tesoretto di B. Latini), il fondamento dottrinario che sovraintende alla concezione del L. è di stretta derivazione tomistica.
Esplicite sono le parole di s. Tommaso (Sum. theol., Suppl. 69 5): " si consideretur quantum ad situm loci, sic probabile est quod idem locus, vel quasi continuus, sit infernus et limbus: ita tamen quod quaedam superior pars inferni limbus Patrum dicatur ". Infatti (ibid.) " existentes... in inferno secundum diversitatem culpae diversam sortiuntur et poenam. Et ideo secundum quod gravioribus peccatis etiam irretiuntur damnati secundum hoc obscuriorem locum et profundiorem obtinent in inferno. Unde et sancti Patres, in quibus minimum erat de ratione culpae, supremum et minus tenebrosum locum habuerunt omnibus puniendis ".
Tale luogo, secondo s. Tommaso (Suppl. 69 6), poteva essere la sede sia del " limbus Patrum " che del " limbus puerorum ", cioè sia degli Ebrei giusti prima della risurrezione di Cristo che dei bambini morti prima del battesimo. Però si avrebbe un'ulteriore distinzione, una suddivisione fra le due categorie: " limbus Patrum et limbus puerorum absque dubio differunt secundum qualitatem praemii vel poenae: pueris enim non adest spes beatae vitae, quae Patribus in limbo aderat, in quibus etiam lumen fidei et gratiae refulgebat. Sed quantum ad situm probabiliter creditur utrorumque locus idem fuisse: nisi quod requies beatorum adhuc erat in superiori loco quam limbus puerorum, sicut de limbo et inferno dictum est ". Che poi il L. non sia stato per sempre sede degli Ebrei giusti è spiegato nello stesso luogo di s. Tommaso (art. 4) in questo modo: " Limbus... inferni et sinus Abrahae fuerunt ante Christi adventum unum per accidens, et non per se. Et ideo nihil prohibet post Christi adventum esse sinum Abrahae omnino diversum a limbo; quia ea quae sunt per accidens, separari contingit ".
D., come si vede, perfettamente si accorda con s. Tommaso nella descrizione del L. materiale, considerato appunto il cerchio più esterno e meno profondo della voragine infernale. Non se ne distacca neppure nel considerare il L. dimora temporanea degli Ebrei giusti prima della venuta di Cristo e definitiva dei bambini non battezzati; tra i primi infatti, e cioè i santi patriarchi e profeti d'Israele, cita espressamente Adamo, il primo parente, Abele suo secondogenito, Noè che ebbe da Dio il privilegio di scampare con i suoi figli dal diluvio, Mosè legista e ubidente, Abramo, David, Isacco e il figlio Giacobbe (Israèl), i dodici figli di Giacobbe e la seconda moglie Rachele (If IV 55-60): un elenco che solo apparentemente potrebbe sembrare casuale, ma che in realtà consente a D. di rappresentare implicitamente le sei età della storia umana: " La prima età da Adamo a Noè; la seconda da Noè ad Abramo; la terza da Abramo a Davide; la quarta da Davide alla cattività di Babilonia; la quinta dalla cattività di Babilonia alla nascita del Cristo; la sesta, infine, dalla nascita del Cristo alla consumazione dei secoli " (F. Mazzoni, Il c. IV dell'Inferno, in " Studi d. " XLII [1965] 116), secondo una partizione che D. mutuava dal pensiero di Isidoro (Etym. V XXIX), e di B. Latini (Tresor I XX-XLII). Costituisce invece una radicale innovazione dantesca l'inserimento, accanto agl'infanti, degli adulti giusti nell'ordine naturale ma privi di battesimo, o che, se furon dinanzi al cristianesmo, / non adorar debitamente a Dio (If IV 37-38). Qui D. si pone in contrasto con la grandissima maggioranza dei teologi e assume una posizione personalissima (consentitagli anche dall'assoluta carenza di definizioni dogmatiche) perché sembra negare che la grazia possa arrivare all'uomo adulto per vie a noi misteriose.
La rigidità di questa posizione sarà successivamente riaffermata: tu dicevi: " Un uom nasce a la riva / de l'Indo, e quivi non è chi ragioni / di Cristo, né chi legga né chi scriva; / e tutti suoi voleri e atti buoni / sono, quanto ragione umana vede, / sanza peccato in vita o in sermoni. / Muore non battezzato e sanza fede: / ov'è questa giustizia che 'l condanna? / Ov'è la colpa sua, se ei non crede? " / Or tu chi se', che vuo' sedere a scranna, / per giudicar di lungi mille miglia / con la veduta corta d'una spanna? (Pd XIX 70-81). È una rigidità temperata soltanto da due eccezioni, che riguardano le anime di Catone e Rifeo (mentre Traiano, dopo il miracolo della sua resurrezione, potrà ricevere il battesimo di acqua), eccezioni che riesce impossibile spiegare sia sul piano teologico che sul piano puramente logico. S. Tommaso ammette invece, esplicitamente, che possano salvarsi anche gl'infedeli negativi, cioè coloro che non ebbero alcuna notizia della fede o non ne ebbero notizie sufficienti. Tale forma di infidelitas non può per lui considerarsi peccato; caso mai è più una disgrazia che una colpa. Pertanto " non habet rationem peccati sed magis poenae: quia talis ignorantia divinorum ex peccato primi parentis consecuta est " (Sum. theol. II II 10 1), e logicamente l'infedele negativo " non autem damnatur propter infidelitatis peccatum " (ibid.). Ma per salvarsi, per evitare la pena e conseguire la beatitudine, occorre la fede in Cristo o esplicita o implicita. In realtà per s. Tommaso è impossibile che un adulto viva senza commettere peccati attuali, col solo peccato originale. Tuttavia tale affermazione non prelude a un'inesorabile condanna, bensì alla possibilità della salvezza. Le parole di s. Tommaso, com'è stato ben fatto rilevare dal Bottagisio, sono di estrema chiarezza: " Ista positio apud quosdam impossibilis reputatur, quod aliquis adultus habeat peccatum originale sine actuali. Cum enim adultus esse incipit, si quod in se est faciat, gratiam ei dabitur, per quam a peccato originali erit immunis " (Verit. 28 3); e ancora: " Non est possibile aliquem adultum esse in solo peccato originali absque gratia, quia statim cum usum liberi arbitrii acceperit, si se ad gratiam praeparaverit, gratiam habebit, alias ipsa negligentia ei imputabitur ad peccatum mortale " (28 12 ad 2).
Conseguentemente è impossibile che si trovi nell'altra vita un solo adulto col solo peccato originale. La volontà salvifica di Dio fa sì che qualsiasi adulto, anche se vissuto in luoghi selvaggi, dove non gli sia giunta alcuna parola sulla fede cristiana, abbia aiuti sufficienti per giungere a salvamento, purché non sia lui a frapporre ostacoli. Dio vuole tutti salvi e non nega la grazia " facienti quod in se est ". Una fede esplicita o implicita può sempre portare l'uomo alla salvezza.
In realtà, il restringere a due sole anime, come già abbiamo constatato, cioè a Catone e a Rifeo, la possibilità che la grazia possa giungere per vie misteriose, ci rende perplessi sulla volontà di D. di proporsi un'assoluta coerenza sul piano puramente teologico. Si potrebbe aggiungere un particolare significativo: Cesare, che è posto nel L., è poi ricordato in Pg XXVI 78 come lussurioso contro natura, onde sembrerebbe dover essere punito all'Inferno. D'altronde sarebbe ben difficile sostenere che D. ritenesse macchiati del solo peccato originale, ma puri e innocenti nell'ordine naturale, altri personaggi posti nel L. (basti pensare a Ovidio). Inoltre nel L. dantesco sono presenti non solo infedeli negativi, ma pure, accanto a essi, infedeli positivi, come Dioscoride, Tolomeo, il Saladino, Avicenna, Galeno e Averroè (cfr. F. Forti, Il L. dantesco, p. 17). È da notare ancora che tutti gli spiriti magni, tra i quali sono annoverati gl'infedeli positivi sopra citati, sono posti in un luogo onorevole, che potrebbe identificarsi grosso modo con il luogo assegnato da s. Tommaso, come abbiamo potuto precedentemente constatare, agli Ebrei giusti poi liberati da Cristo, superiore a quello dei bambini morti prima del battesimo.
È stato intelligentemente rilevato dal Forti come l'espressione spiriti magni non vada intesa in senso vago e generico, ma abbia una precisa accezione tecnica derivata dall'aristotelica Etica Nicomachea, dove il concetto di μεγαλοψυχία, cioè " magnanimitas ", esprime quella virtù che si oppone sia all'eccesso di presunzione sia a quello di pusillanimità. La magnanimità viene pertanto a essere considerata da D. come consapevolezza della propria grandezza e della propria attitudine a imprese egregie. Viene in tal modo superata la difficoltà di spiegarsi l'eterogeneità degli abitatori del nobile castello. Ma tutto questo non può portare alcun lume a chi volesse a tutti i costi ricercare una coerenza teologica nella rappresentazione dantesca del Limbo.
Il L. di D. ben difficilmente può essere sistemato teologicamente. Dalla rivelazione cristiana D. trae, più che una teologia razionale, una profonda ispirazione che si traduce in forme poetiche e profetiche. E la poesia dantesca, pur così imbevuta di teologia, è sospinta da una sua autonoma esigenza che le fa creare un suo meraviglioso, autonomo mondo, che poggia sulla teologia come sul suo più genuino substrato per meglio spaziare nella sfera poetica. Nel L. pertanto non viene espressa una precisa e chiara formulazione teologica, ma poeticamente, mediante una rappresentazione visiva, viene espresso il concetto che la natura umana, se non è illuminata dalla luce della grazia, non può con le sue sole forze raggiungere la perfezione di cui è capace, che consiste nell'unione con Dio. La schiera dei personaggi, degli spiriti magni, anche se, come si è visto, riconducibile all'unicità della categoria della μεγαλοψυχία, è poeticamente viva proprio nella sua varietà, nella molteplicità dei suoi particolari. Così il dramma della natura umana, incapace di elevarsi con le sue sole forze alla luce della più grande Verità, sembra avere la più corale consacrazione, la più universale conferma. È il dramma che D. sentirà sempre a sé vicino, sempre presente alla sua coscienza e sempre immanente alla sua poesia, incentrato nella figura di Virgilio. È il dramma del limite della natura umana.
Ma, se pur al di fuori di una precisa sistemazione nel campo della dottrina teologica, il L. non si colloca isolato al di fuori della costruzione poetica che D. innalza dalla teologia. Nella configurazione del mondo dell'aldilà, in cui la fantasia dà carne al dramma dell'umanità nel suo insieme e al dramma dei singoli peccatori, il L. e, soprattutto, il nobile castello (v.) dove splende la luce, rappresentano il punto più alto a cui possa giungere l'umana natura, non considerato soltanto nella prospettiva di un limite fatalmente insuperabile, ma come culmine di una nobiltà non negata, anche se di per sé stessa insufficiente.
L'Acheronte separa due mondi: al di fuori sono sdegnosamente respinti quegli uomini che sono più lontani dall'ideale etico del poeta (e neanche in questo caso è rispettata una precisa classificazione teologica), ma oltre di esso vive e si agita un mondo di personaggi che hanno spesso, anche se spregevoli per i peccati commessi, una certa maestà, che nasce sia dall'ammirazione che D. prova per ciò che di encomiabile essi hanno compiuto (anche se ciò non li giustifica dei peccati commessi in altri campi), sia dalla reverenza che egli ha per la creatura di Dio.
Nei vari gironi che seguiranno, le grandi figure che prepotentemente balzano alla ribalta, per qualche segno di una loro innegabile grandezza, costituiscono l'eccezione che dà spicco a un ambiente per sua natura sordo, negativo. Le categorie degli eretici e dei sodomiti, per esempio, non hanno certo, di per sé stesse, un particolare rilievo agli occhi di Dante. Ma in mezzo a esse acquistano particolare vita poetica Farinata e Brunetto Latini, che hanno lasciato sulla terra un'impronta della loro personalità per certe innegabili virtù che, se pur travolte da grandi peccati, non possono per questo essere sic et simpliciter, neppure nell'Inferno, cancellate e dimenticate. Nel L. l'ammirazione del poeta si rivolge verso qualcosa di più generico, forse di più astratto. Si ha l'esaltazione della natura umana in generale, dove l'individualità viene a essere assorbita dalla categoria.
Neanche il piccolo corteo di poeti che muove incontro a Virgilio e a D. acquista particolare rilievo nel quadro generale. Personifica piuttosto, con mentalità tutta medievale, una rassegna dei principali stili poetici, inquadrata secondo una rigida classificazione gerarchica. Anche se Omero è presentato in modo particolarmente solenne, se con quella spada in mano / ... vien dinanzi ai tre sì come sire (If IV 86-87), se nella bella scola è segnor de l'altissimo canto / che sovra li altri com'aquila vola (vv. 94-96), è pur sempre in certo senso confuso con la schiera degli altri spiriti magnanimi che sembianz'avevan né trista né lieta (v. 84), nella schiera di quelle genti con occhi tardi e gravi, / di grande autorità ne' lor sembianti, che parlavan rado, con voci soavi (vv. 112-114).
Ancor meno risalto di Omero ha Aristotele, anche se come maestro di color che sanno (v. 131) è il capo riconosciuto nella gerarchia della filosofica famiglia.
Nel L., forse, più che di un contrasto fra il singolo personaggio (o un ristretto numero di personaggi) e la turba che fa da contorno e da sfondo, sarebbe lecito parlare di un contrasto fra la schiera dei magnanimi e la schiera degli anonimi, di coloro che sul piano umano non meritano l'ammirato ricordo. Qui la coralità subentra all'individualità nella funzione di protagonista. Qui alla fiumana del volgo sconosciuto si contrappone un insieme di nomi grandi e venerati ma che si confondono tra loro, che sfumano nel mito anche quando sono personaggi storici che possono essere delineati con tutta precisione.
L'inquadramento gerarchico della scuola dei poeti e di quella dei filosofi, come si è visto, non dissolve certo tale impressione, contribuendo invece ad accentuarla; ma l'accentua in modo particolare la carenza di particolari descrittivi che, pur senza evadere dall'allegoria dell'insieme, ci presentino una scena ricca di una certa sua dinamica autonoma. I riferimenti topografici si limitano a un nobile castello, / sette volte cerchiato d'alte mura, / difeso intorno d'un bel fiumicello (vv. 106-108), e da un loco aperto, luminoso e alto / ... sovra 'l verde smalto (vv. 116-118).
Ma la poesia è spesso presente, e viva. Non certo nell'arida elencazione di nomi, talvolta neppure sommariamente catalogati, accostati magari in modo più o meno fortuito: e vidi il buon accoglitor del quale, / Dïascoride dico; e vidi Orfeo, / Tulïo e Lino e Seneca morale; / Euclide geomètra e Tolomeo, / Ipocràte, Avicenna e Galïeno, / Averoìs che 'l gran comento feo (vv. 140-144). È la poesia dell'indefinito, dell'oscurità che non lascia intravvedere i contorni delle cose, del dolore non espresso in parole, del silenzio non rotto da alte grida, bensì da sospiri, che fanno tremare l'aura etterna (v. 27).
Difficilmente in tutto il mondo infernale rappresentato da D. si trovano luoghi in cui il senso dell'eternità sia più tragicamente presente. Queste turbe... molte e grandi, / d'infanti e di femmine e di viri (vv. 29-30), che soffrono un duol sanza martìri (v. 28), cioè soltanto la pena del danno e non quella del senso, ci appaiono come le anime più consapevoli del loro tragico destino. La loro pena più atroce nasce da una continua meditazione sul loro stato. Sono uomini eternamente ‛ sospesi ', collocati in uno stato che non s'acqueta, perché spinti eternamente a desiderare quel Dio che pur sanno che è loro inesorabilmente negato. Se non soffrono la pena del senso sembrano soffrire molto più intensamente delle anime infernali la pena del danno. Il loro pensiero, non distratto da tormenti fisici, sembra diventare esso stesso il loro principale strumento di tortura.
L'unico particolare, forse, che s'imponga nel desolato quadro della selva... di spiriti spessi (v. 66), e che ha in sé certamente una vitalità poetica superiore .a quella del simbolico castello, è il foco / ch'emisperio di tenebre vincia (vv. 68-69), che felicemente s'inserisce nel quadro generale perché esso stesso sfumato, privo di contorni precisi, colto soltanto nella sua funzione d'illuminare e nobilitare il luogo più elevato, dove si raccolgono le anime degne di universale ricordo.
Ma il dramma del L. non vive soltanto in un preciso luogo della vasta regione percorsa da D. nel corso del suo viaggio ultraterreno, non è topograficamente delimitato. Forse è ancora più forte e più vivo fuori della valle infernale. Lo sentiamo ben presente nel dialogo tra Virgilio e Catone (Pg I 78-81, 85-90).
Ancora più compiutamente, più esplicitamente il dramma si rivela nell'incontro con Sordello (Pg VII 25-36). Qui abbiamo una vera e propria ricostruzione del L. attraverso una rievocazione sfrondata di tutti gli elementi superflui che sono presenti nel canto IV dell'Inferno. Rilievo più che altro strutturale hanno invece i vv. 97-114 del canto XXII del Purgatorio, che contengono un elenco di personaggi che completa quello di If IV 121-144.
Il dramma del L., cioè il dramma dell'insufficienza della natura umana, non rimane però neppure circoscritto in una serie di episodi separatamente considerati, come quelli ora citati. Vive, e continuamente si rinnova, nella presenza di Virgilio, in tutto lo svolgersi del viaggio attraverso l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. La malinconia della prima guida dantesca, malinconia che procede da un mistero che attira forse più di ogni altro argomento la mente di D., è una nota costante che pervade tutto il poema, non soltanto le prime due cantiche. La Ragione, che porta alla Fede, che a un certo punto deve riconoscere che è ragionevole il mistero, non costituisce soltanto un passaggio, sia pure obbligato. Virgilio non è un semplice punto di appoggio per giungere a Beatrice. È molto di più, cioè la rappresentazione di tutta una grande civiltà sinceramente ammirata; ma anche molto di meno, in quanto la civiltà che egli incarna e simboleggia non può uscire da limiti ben precisati.
Nell'aspirazione che, nel corso del poema, si dispiega verso mete che vanno oltre, infinitamente, i ristretti confini terreni, Virgilio è un monito vivente al nostro intelletto che vorrebbe, e non può, comprendere tutto. Nella grande sinfonia dantesca rappresenta un contrappunto indispensabile al tema centrale di Beatrice.
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