Ottocento, lingua dell’
di Silvia Morgana
La storia linguistica dell’Ottocento copre un arco cronologico più esteso rispetto al mero XIX secolo e va dall’arrivo dei francesi in Italia nel 1796 fino al 1915: è infatti l’inizio della prima guerra mondiale, con i rivolgimenti politici e sociali conseguenti, ad attivare di fatto i processi determinanti per l’evoluzione novecentesca del quadro sociolinguistico e la storia dell’italiano scritto e parlato (➔ Novecento, lingua del).
Entro il periodo considerato, l’unificazione politica, con la proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, è spartiacque così importante per gli effetti linguistici da rendere opportuna un’ulteriore partizione storiografica, tra primo Ottocento e secondo Ottocento.
di Silvia Morgana
La dominazione francese nel triennio rivoluzionario e poi nel periodo napoleonico modificò l’assetto politico dell’Italia ed ebbe forti ripercussioni linguistiche: si fece ancora più consistente la pressione del francese sulle varietà parlate (i dialetti) e sui vari generi dell’italiano scritto (Morgana 1994), anche se in misura diversa nelle varie aree. Fu più forte in Piemonte, dove, con l’annessione alla Francia nel 1799, venne adottato ufficialmente il francese nei tribunali e nelle istituzioni scolastiche e amministrative, ma anche negli altri territori si moltiplicarono proposte normative per la francesizzazione. A esse si affiancò una fitta produzione libraria in francese o in traduzione e si stamparono anche giornali in francese o bilingui. Sotto il governo napoleonico si instaurò un apparato amministrativo e burocratico moderno e nel 1806 nel Regno italico fu emanato il Codice civile in testo bilingue, italiano e francese, un passo importante per la diffusione di una terminologia giuridica unitaria (Zolli 1974).
L’ondata di francesizzazione e di ➔ francesismi innescò già ai primi del secolo un moto di reazione e «un culto fortissimo della lingua, sentita come vincolo della nazione e stimolo del sentimento di italianità» (Vitale 1984: 386), ideale condiviso dalle correnti del ➔ purismo e del ➔ classicismo. Fatto importante per la storia dell’italiano è anche la recuperata autonomia dell’Accademia della Crusca, ripristinata da Napoleone nel 1811 (➔ accademie nella storia della lingua).
Il Romanticismo fece emergere l’aspirazione a una lingua come strumento sociale, di comunicazione scritta e parlata, e rivalutò i dialetti e la letteratura dialettale come «immagine fedelissima […] dei popoli» (Vitale 1984: 367). I dialetti erano invece visti dai classicisti come un ostacolo alla diffusione nazionale della «comune lingua» italiana, come osservò Pietro Giordani sulla «Biblioteca italiana» (1816). Su questo punto concordava anche Alessandro ➔ Manzoni, che pure condivise con i romantici il concetto del dialetto come lingua viva e vera e propose poi il fiorentino parlato colto come strumento di unificazione linguistica nazionale. Anche i letterati della corrente neotoscanista, tra cui ➔ Niccolò Tommaseo, aspiravano a una lingua parlata, naturale e non artificiosa, rivendicando la preminenza del toscano sugli altri dialetti e l’uso del toscano vivo, senza però trascurare la tradizione letteraria (➔ questione della lingua).
L’insegnamento dell’italiano (➔ scuola e lingua) per le classi più elevate era ancora limitato all’istruzione privata, domestica e nei seminari, ma si diffuse l’istruzione popolare promossa dalla politica scolastica francese e poi austriaca, anche se con molte carenze e forti squilibri geografici e sociali. La preparazione dei maestri era scarsa (ma dal 1818 in Lombardo-Veneto, Piemonte, Ducato di Parma e Toscana nacquero scuole di formazione) e, soprattutto nelle aree agricole, i lavori stagionali provocavano l’abbandono della scuola di base. Nell’insegnamento scolastico dell’italiano la politica scolastica francese fu di repressione del dialetto, mentre la Restaurazione austriaca ribadì nell’istruzione elementare il metodo «dal dialetto alla lingua», già introdotto da Francesco Soave nelle riforme settecentesche e raccomandato anche dai puristi. Le Novelle morali di Soave furono tra i libri di lettura più diffusi per la scuola e il pubblico giovanile (85 edizioni tra il 1782 e il 1883); a esse si affiancarono le opere «per ammaestramento dei fanciulli» del purista Giuseppe Taverna (1830) e il fortunatissimo Giannetto del lombardo Luigi A. Parravicini (1ª ed. 1837). Denominatore comune era la ricerca di uno stile non «annodato» e con «periodi brevi e semplici» (così Taverna), la frequenza dei dialoghi, l’interesse per la pronuncia e la nomenclatura (Morgana 2003: 271 segg.).
Strumenti indispensabili per l’apprendimento dell’italiano, soprattutto per i non toscani, erano le grammatiche, di stampo classicista o purista, come le Regole della lingua italiana del napoletano Basilio Puoti, del 1833 (➔ grammatica) e i vocabolari, numerosi nel «secolo dei dizionari» (Marazzini 2009). Uscirono infatti opere generali, vocabolari dialettali, specialistici, metodici, di arti e mestieri (➔ lessicografia). Esemplare è il caso di Manzoni, che partendo dalle due lingue vive a lui note, il milanese e il francese, cercò dapprima di ‘conquistare’ per via libresca l’italiano della tradizione studiando e annotando i vocabolari.
L’italiano continuava a essere diffuso prevalentemente negli usi scritti, dove però si faceva sentire la concorrenza del francese anche negli usi privati (diari, lettere) e nella comunicazione scientifica (Morgana 2001), mentre negli usi parlati erano impiegati per lo più i dialetti o commistioni di dialetto e italiano. Per le classi colte era segno di distinzione passare dal dialetto all’italiano, spesso dando desinenze italiane ai vocaboli dialettali (il «parlar finito», secondo la testimonianza di Manzoni), oppure usare il francese come lingua di conversazione. Gli scambi comunicativi tra parlanti di regioni diverse richiedevano per farsi intendere il ricorso all’italiano (➔ Ugo Foscolo parla in proposito di un «linguaggio comune […] mercantile e itinerario»; cit. in Migliorini 19613: 593), ma, sempre secondo Manzoni, ne risulta «un vestito […] pieno di toppe, di buchi e di sbrani» e non «l’intendersi di quelli che possiedono una lingua in comune» (Bruni 1996). Se l’italofonia, cioè la capacità di parlare italiano, era ancora molto scarsa nella penisola (a parte in Toscana e a Roma, dove la distanza del dialetto dall’italiano era minore), la competenza passiva (la capacità di comprendere la lingua) era un po’ più estesa, specie nelle aree urbane, grazie a canali di diffusione dell’italiano come la Chiesa (➔ Chiesa e lingua), il teatro (➔ teatro e lingua), la politica e l’amministrazione (avvisi e proclami letti in pubblico). Nella predicazione e nell’insegnamento del catechismo (➔ predicazione e lingua) però si usava anche il dialetto, soprattutto nelle aree rurali.
Restava basso anche il tasso di alfabetizzazione, specie femminile, con forti squilibri tra le aree del Nord e quelle del Sud (➔ analfabetismo e alfabetizzazione). Nei primi tre decenni la percentuale di allievi tra i 6 e i 12 anni frequentanti una scuola andava dal massimo del 53% della Lombardia (1830) al minimo del 12% del Regno delle due Sicilie. L’alfabetismo però crebbe, seppur molto lentamente: secondo il censimento del 1871, il livello di analfabetismo era del 73% tra i nati nel periodo 1801-1810, mentre scendeva al 52% tra i nati nel periodo 1841-1850 (Vigo 1971, Appendice statistica).
Crebbe in modo vorticoso anche la produzione editoriale, che aveva come centro Milano (Berengo 1980), e per la storia linguistica ha grande rilievo lo sviluppo della stampa periodica, con la nascita di nuove testate (una quarantina solo a Milano; ➔ giornali, lingua dei). Nacque il giornalismo politico e i giornali (quelli del triennio giacobino e poi quelli del 1848, spesso di breve durata) diventarono «strumenti di persuasione e di lotta» con forte tasso di elementi retorici e con riflessi sui contenuti e sulla lingua (Masini 2009: 311).
La lingua della prosa letteraria mantiene forti legami con la tradizione ed è molto eterogenea, anche per la presenza di «allotropi sinonimici, ossia di forme intercambiabili come significato e livello stilistico» (Serianni 1989) del tipo giovine / giovane, potea / poteva, ecc. Tradizione e novità caratterizzano la lingua delle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1ª ed. 1802), il romanzo che Foscolo aspirava a improntare a «uno stile medio epistolare» specie nella sintassi (Patota 1987: 153). Improntata a un elegante classicismo ma con tratti di modernità è anche la lingua delle Operette morali (1ª ed. 1827), caratterizzate dalla molteplicità di registri stilistici (Vitale 1992a) e poi corrette da ➔ Giacomo Leopardi per l’edizione del 1835, dove lo scrittore mira «ad accentuare la aggraziata e armoniosa varietà della sua scrittura» (Vitale 1992a: 227). La prosa puristica di Antonio Cesari, arcaizzante nella sintassi e nel lessico, infarcita di voci e riboboli toscani trecenteschi, suggestiona non solo i testi scolastici e la narrativa per i fanciulli, ma in modo diverso vari generi e scrittori in prosa (Bricchi 2000). Nella sua Storia della guerra della indipendenza degli Stati Uniti d’America (1809) il piemontese Carlo Botta impiega voci disusate (inciprignire «incrudelire»), espressioni popolareggianti attinte anche al patrimonio toscano cinquecentesco (dormirvi sotto lo scorpione «esserci sotto un inganno») e una sintassi ricca di inversioni e di tmesi. I romanzi storici sono caratterizzati dall’enfasi retorica e tendono a un registro alto e anticolloquiale, anche nel dialogato (Zangrandi 2002), per lo più in direzione opposta alla lingua d’uso vivo perseguita da Manzoni. Il livornese Domenico Guerrazzi in La Battaglia di Benevento (1827-1828) esibisce una lingua elevata e fortemente arcaizzante, caratteristiche che accentua nella 2ª edizione (1852), mentre il gesuita trentino Antonio Bresciani, «romanziere dell’antirisorgimento» (Picchiorri 2008), nella sua trilogia di romanzi sui moti del 1848 mostra una più spiccata eterogeneità linguistica. La sintassi denota una «componente arcaica e tradizionale», con punte influenzate dal purismo, ma anche l’«emersione di costrutti propri della lingua d’uso» (Picchiorri 2008), in sintonia con la corrente neotoscanista. Il lessico è esuberante e mescola voci letterarie e arcaiche con popolarismi e idiomatismi toscani, sia di tradizione letteraria sia dell’uso vivo, e anche con dialettismi di varie aree usati in funzione evocativa di ambienti e personaggi.
Al neotoscanismo, come già accennato, si ispira anche il dalmata Tommaseo, la cui opera narrativa più celebre, Fede e bellezza (1840), dall’assetto sintattico moderno, è però una miscela di forme letterarie e ricercate e di toscanismi popolari a volte affettati (Martinelli 1983). In quello stesso anno esce l’edizione definitiva dei Promessi sposi, punto di arrivo della ricerca manzoniana di una lingua media viva e omogenea, che però non ha seguito nella narrativa coeva. All’opposto si collocano le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (1857-1858, postume), che utilizzano consapevolmente una gamma ampia di componenti linguistiche (Mengaldo 1999), ma perfino gli scrittori della cerchia manzoniana continuano a servirsi di varie commistioni di letterarietà e colloquialità inserendo regionalismi e locuzioni idiomatiche secondo il modello della prima edizione dei Promessi sposi, la ‘Ventisettana’. Ne sono esempi il Marco Visconti di Tommaso Grossi (1ª ed. 1834; Dramisino 1996) e la prosa «pezzata» della Margherita Pusterla di Cesare Cantù (1838; Stella 1999: 145 segg.).
Notevole ibridismo mostra anche la lingua della commedia, su cui influisce solo in parte il grande modello goldoniano (➔ Goldoni; Trifone 2000: 84 segg.). Il romano Giovanni Giraud (L’aio nell’imbarazzo, 1807) aspira all’«imitazione del discorso familiare» che realizza attraverso un dialogo spezzato e frammentario, ma impiega tratti anticolloquiali e letterariamente elevati (l’‘imperativo tragico’: «Cielo, m’assisti …»; i pronomi soggetto egli, dessa, ecc.; ➔ imperativo; ➔ melodramma, lingua del). Ancora più consistente la componente di letterarietà tradizionale nel torinese Alberto Nota (La fiera, 1817), che infarcisce il suo linguaggio comico anche di stilemi tragici e melodrammatici, mentre una maggiore naturalezza nei dialoghi e una «riuscita mimesi dello stile goldoniano» (Trifone 2000) è realizzata dal modenese Paolo Ferrari con la fortunata commedia Goldoni e le sue sedici commedie nuove (1851).
La lingua della prosa scientifica, oscillante come tasso di letterarietà a seconda dei generi e degli autori, appare in alcune branche già notevolmente tecnicizzata nella terminologia settoriale. È il caso della medicina (➔ medicina, lingua della), dove sono impiegati tecnicismi specifici (come cefalgia, edema) e tecnicismi collaterali, come accusare (dolore), (infermità) conclamata, ecc. (Serianni 2005: 113 segg.).
La lingua della poesia (➔ lingua poetica) inizia a mostrare segnali di rinnovamento, nonostante l’influenza del gusto neoclassico, che favorisce il ricorso al bagaglio mitologico e a cultismi e latinismi (come in Vincenzo Monti e in Foscolo), caratteri che connotano anche la poesia del giovane Manzoni. Se Leopardi riesce a ottenere un profondo rinnovamento dall’interno, ma senza rompere la continuità del linguaggio lirico, la poesia romantica con le sue esigenze di realismo comincia a corrodere l’assetto tradizionale. Ne risulta un impasto ibrido di vecchio e nuovo nella grammatica e specialmente nel lessico, dove affiorano forme prosaiche, colloquialismi e neologismi.
La commistione di registri stilistici e lessicali è praticata consapevolmente nella poesia satirico-giocosa, di cui è maestro il toscano Giuseppe Giusti. La ricerca dell’effetto comico è realizzata proprio attraverso l’accostamento di aulico e quotidiano e «l’apertura indiscriminata a neologismi e forestierismi», fino all’uso inedito di parole in rima come country: incontri, écoutez: che (Serianni 1989: 117). La lingua elevata della poesia è utilizzata dalla tragedia, su cui influisce in modo vistoso il modello alfieriano. Se ne distacca però maggiormente Manzoni nel Carmagnola e nell’Adelchi. I libretti dell’opera seria ne esasperano le caratteristiche, fissando un codice alto e convenzionale e un repertorio di espressioni e di formule riciclabili da un testo all’altro, mentre l’opera buffa pratica in direzione dell’effetto comico la commistione di registri linguistici (Bonomi 2009).
La lingua non letteraria mostra notevole eterogeneità. La stampa periodica oscilla tra vecchio e nuovo, ma complessivamente si attesta su usi medi di scrittura e mette in circolazione una mole impressionante di voci nuove, aprendosi da un lato ai ➔ regionalismi, dall’altro ai ➔ forestierismi (Masini 2009). Gli scriventi colti usano moltissimo, per dialogare a distanza, la corrispondenza epistolare, che risponde a precise convenzioni e formule (la ‘grammatica’ epistolare) ed è caratterizzata da un tessuto linguistico composito (Antonelli 2003). Il canale epistolare è utilizzato anche da scriventi poco alfabetizzati (Antonelli, Chiummo & Palermo 2004), che mostrano le approssimazioni linguistiche e testuali tipiche dei semicolti (irregolarità ortografiche, forme influenzate dall’uso popolare e regionale, carenze morfosintattiche, ecc.; ➔ italiano popolare). Sono molte le testimonianze di uso dell’italiano da parte di semicolti e semicolte di varie aree, che hanno una conoscenza solo parziale dell’italiano ma scrivono anche diari, memorie, cronache locali (Bruni 1994).
Per la storia linguistica interna sono ancora valide le pagine di Migliorini (19613: 622-667), integrabili con i numerosi spogli di testi letterari e non letterari, in particolare sulla lingua dei giornali e sulla scrittura epistolare (Antonelli 2003). Se la grammatica della poesia mantiene il suo tradizionale inventario di suoni e forme (Serianni 2009), per la prosa la situazione è quella di grande incertezza tra forme concorrenti lamentata da Manzoni, che nella correzione del romanzo optò per lo più per gli esiti meno marcati letterariamente (Vitale 1992b).
2.5.1. Grafia. Per quanto riguarda la grafia, è ancora oscillante ma vitale l’uso di ‹j› con valore di i semiconsonante (jeri, muoja) e finale con valore di -ii (studj); per l’uso delle doppie, persiste la solita incertezza specie negli scriventi settentrionali, con scempiamenti e ipercorrettismi (occorono, piutosto, dotte «dote»). Alcuni scriventi (Carlo Cattaneo, ➔ Graziadio Isaia Ascoli) usano consapevolmente grafie etimologiche (academia, publico, commune), in linea con la proposta di riforma grafica di stampo etimologizzante uniformante del lessicografo milanese Giovanni Gherardini, che ha una certa fortuna (Maraschio 1993: 220; ➔ ortografia).
2.5.2. Fonetica. Sul piano fonetico, il dittongo uo (buono, spagnuolo) continua a prevalere negli usi scritti, ma nella lingua epistolare colta è abbastanza diffuso còre dove, più che di influsso fiorentineggiante, «si potrà ipotizzare un’influenza della lingua poetica, magari attraverso la mediazione del melodramma» (Antonelli 2003: 89). Altre oscillazioni, di cui il primo elemento appare progressivamente in regresso, nei tipi siegue / segue, inimico / nemico, offerire, sofferire / offrire, soffrire, officiale / ufficiale, eguale / uguale, imperadore / imperatore, giugnere / giungere, sagrificare / sacrificare.
2.5.3. Morfologia e sintassi. In morfologia, resiste l’oscillazione in plurali del tipo dittongi / dittonghi, capegli / capelli. Nei pronomi, sono in regresso le forme eglino, elle, elleno, mentre persiste l’alternanza ei / egli e negli atoni ne / ci (ne toglie «ci toglie»). In declino anche il tipo qualche speranze «alcune speranze». I tipi lui, lei, loro soggetto in contesti non marcati e cosa per che cosa, preferiti da Manzoni nella Quarantana, sono ancora di uso limitato. Nei verbi, alcune forme sono sostanzialmente intercambiabili, come veggo, veggono / vedo, vedono e io aveva / io avevo, mentre altre sono sempre più rare in prosa: il futuro poetico fia «sarà», imperfetti del tipo venìa, sentìano, i condizionali fora e sarìa «sarebbe».
Sul piano sintattico, nella prosa primo-ottocentesca sono impiegati molti costrutti tradizionali, latineggianti e arcaizzanti, ma alcuni appaiono in declino, come i tipi in vedere, con ricevere, in confessando. Si fanno strada tratti più moderni, come la tendenza a omettere il pronome soggetto. Nella scrittura epistolare affiorano tratti dell’oralità repressi dalla norma grammaticale, come se non andava restavo, il ➔ che polivalente e vari tipi di concordanza a senso, e sono frequenti anche vari processi di tematizzazione (dislocazioni con ripresa pronominale, frasi scisse) con funzione testuale, «particolarmente congeniali alle strategie pragmatiche messe in atto nella comunicazione epistolare» (Antonelli 2003: 209). Nell’ordine delle parole, ha sapore ormai antiquato il tipo lo si mise «se lo mise», mentre sono segnale di modernità nella scrittura la tendenza all’ordine diretto SVO (soggetto verbo oggetto), il regresso di inversioni e tmesi, dell’anteposizione dell’aggettivo al nome (Mauroni 2006) (➔ ordine degli elementi).
2.5.4. Lessico. Nel lessico, il vorticoso rinnovamento lessicale primo-ottocentesco è promosso in larga misura dagli avvenimenti politici e dai rapidi progressi della scienza e della tecnica e si attua, in gran parte in settori extraletterari. Ricchissimo il contingente di voci nuove, spesso di origine straniera, di cui è specchio la stampa periodica (Bonomi, De Stefanis Ciccone & Masini 1990). Il lessico politico si allarga già dal triennio rivoluzionario, consolidandosi poi in epoca napoleonica, rinnovandosi anche dal punto di vista semantico, sul modello francese. Si diffondono vocaboli come cittadino, democrazia, uguaglianza, libertà, tirannia, massa, patriota; altri si tecnicizzano in senso politico-parlamentare, come aggiornare (le sessioni), appoggiare (la mozione), voto di fiducia, ministero, unanimità, conservatore, centro, destra e sinistra. Prendono un significato speciale, riferiti alle vicende italiane, vocaboli come nazionale unità (attestato nella stampa milanese dal 1819), carbonaro, carboneria, risorgimento, mentre altri si riferiscono ai rapporti diplomatici tra stati (trattative, equilibrio europeo). Si afferma una terminologia moderna in ambito burocratico e amministrativo: atto della nascita, stato civile, sistema decimale, prefetto, spettanza, utente, delibera, ratifica, revoca, diramare, riscontrare (➔ giuridico-amministrativo, linguaggio), nomi di istituzioni (corte di cassazione, orfanotrofio, asilo infantile, scuola secondaria), termini del diritto (pretore, corte d’appello, palazzo di giustizia, giudice istruttore, ricorrere in cassazione, codice penale, amnistiare), dell’economia e della finanza (beneficio, effetti pubblici, cedola, valuta, preventivo, crisi commerciale), dell’ambito militare (congedo, reduce, reclutamento, bombardamento, dichiarazione di guerra, passare in rivista). Il rinnovamento e la trasformazione del gusto letterario e artistico si riflettono nel lessico (a partire da classicismo e romanticismo), e con lo sviluppo dei giornali si diffonde anche la terminologia del settore: cronaca, rubrica, corrispondenza, articolista.
Al successo del teatro e del melodramma si legano espressioni come andare in scena, mettere in scena, agente, librettista, interprete, palco scenico, locuzioni metaforiche come fare furore, fare fiasco, e si fissano nell’uso lacerti melodrammatici come una furtiva lacrima, disperato è l’amor mio, palpito, bollenti spiriti. Imponente il rinnovamento terminologico in ambito scientifico, che esce dall’ambito strettamente specialistico attraverso la divulgazione giornalistica. Numerosissime le voci legate alle nuove invenzioni e alle scoperte tecnologiche, allo sviluppo dell’industria (carbonifero, platinatura), dei trasporti e dei mezzi di comunicazione (omnibus, bicicli, nave di linea, ponte girevole, circonvallazione). La terminologia ferroviaria, in gran parte di origine straniera, si introduce dal 1839 con le strade ferrate (locomotiva, vagone, treno, tunnel). La stampa e in particolare il longevo «Corriere delle Dame» (Milano, 1804-1875) divulgano la ricchissima e in parte effimera terminologia della moda, debitrice prevalentemente del francese, ma anche con molte creazioni lessicali originali, come crinolina, scamiciata, soprabito (Sergio 2010) (➔ moda, linguaggio della). L’influsso del francese e l’apporto di francesismi è straripante in tutti i campi, come conferma anche la fioritura di repertori puristici che tentano di arginarli (Zolli 1974). Affiora anche un discreto contingente di ➔ anglicismi, veicolato dalle traduzioni e dalla stampa periodica (dove rappresenta circa il 15% dei forestierismi; molti però sono mediati dal francese), soprattutto dell’ambito politico, sportivo, del vestiario. Modesto invece l’apporto germanico, nonostante la dominazione austriaca (➔ germanismi). A parte i ➔ dialettismi e i regionalismi che affiorano nella lingua scritta, non sono ancora molti nel primo Ottocento i prestiti dai dialetti alla lingua. Alcuni dialettismi, specie di area settentrionale, entrano nell’uso generale: si tratta di termini gastronomici, come grissini (Piemonte), panettone e risotto (Milano), cappelletti e cotichino (Emilia), oppure burocratici e amministrativi come fedina, secondino, calmiere. Si diffondono anche voci e locuzioni toscane popolari, molte delle quali devono la loro fortuna a Giusti (becero, figuro, sbraitare, birba, musoneria, sbarcare il lunario; Zolli 1986; Migliorini 19613: 648 segg.).
di Laura Ricci
Il conseguimento dell’unità politica (1861) e la proclamazione di Roma capitale (1870; ➔ Risorgimento e lingua) imprimono un moto di accelerazione al processo di unificazione linguistica, destinato tuttavia a completarsi solo nel corso del Novecento (➔ Novecento, lingua del). La parte più progressista del Paese si adopera per la fondazione di una nazione unitaria non solo istituzionalmente, ma anche nel sentimento dei cittadini, nell’attenuazione delle spinte localistiche, nella diffusione allargata e uniforme della cultura. Alla realizzazione di tale obiettivo si frappongono però non pochi ostacoli.
I primi sondaggi dell’Italia postunitaria rivelano una complessiva arretratezza e profondi dislivelli tra regioni e classi sociali: dal censimento del 1861 emerge una percentuale media di analfabeti del 75%, con picchi del 90% al Sud e nelle isole; il calcolo della popolazione italofona varia, in base alla diversa interpretazione dei dati disponibili, tra il 2,5% (De Mauro 1991: 36-45) e il 9,5% (Castellani 2009b). Solo l’insieme di vari fattori demografici, sociali e culturali – l’amministrazione centralizzata, l’esercito nazionale e il servizio di leva, l’emigrazione e la mobilità interna, lo sviluppo della stampa periodica, la nascita e il progressivo consolidamento della scuola statale – favorì, a partire dagli ultimi anni del secolo, una graduale evoluzione del desolante stato iniziale. Occorre però precisare che la fondamentale tensione unitaria non bastò ad appianare, nemmeno nelle epoche successive, la vivace dialettica, per certi aspetti salutare, tra centro e periferia e tra lingua e dialetti.
Per la scolarizzazione (➔ scuola e lingua), l’impianto legislativo è costituito da due testi, la legge Casati (promulgata nel 1859 per il Regno di Sardegna, poi estesa a tutta l’Italia) e la legge Coppino (1877), che stabilivano i princìpi basilari della gratuità della scuola elementare e dell’obbligatorietà della frequenza, quest’ultima inizialmente limitata al primo biennio (D’Amico 2010: 55-154). In principio, il tasso di evasione scolastica fu altissimo, a causa del largo impiego del lavoro minorile e anche per le remore persistenti di alcuni gruppi intellettuali, che, con opposti moventi ideologici, o paventavano il disordine sociale derivante da un’acculturazione di massa, o sminuivano il problema dell’istruzione rispetto alle urgenze materiali del popolo. Nel suo difficile esordio, la scuola pubblica italiana aveva inoltre insegnanti scarsamente preparati e poco retribuiti, strutture fatiscenti, classi che contavano fino a cento scolari.
Nonostante le oggettive deficienze iniziali e il percorso accidentato, il sistema scolastico fu via via efficace nel ridurre il divario fra i ceti e nel ridimensionare la percentuale di analfabeti, anche in quelle aree meridionali e rurali di cui i primi sondaggi avevano rivelato la maggiore debolezza culturale. Anche la crescita dell’italiano, intesa come estensione della lingua comune, scritta e parlata, a fasce della popolazione che lungamente ne erano state escluse, avvenne per gradi, in gran parte grazie allo spontaneo processo di coesione innescato dall’unificazione politica. Spinsero a favore dell’italianizzazione anche specifiche iniziative culturali, prima fra tutte la nomina da parte del Ministero dell’Istruzione (1868) di una commissione di saggi, con il compito di definire il modello linguistico di riferimento e di indicare le vie utili alla diffusione della norma (➔ questione della lingua). La comunanza di intenti non fu sufficiente ad azzerare le divergenze operative tra i componenti del gruppo, ma la relazione che ne uscì (Dell’unità della lingua italiana e dei mezzi per diffonderla, 1868), a firma di Alessandro Manzoni, è il più importante contributo sulla questione della lingua postunitaria. Nella relazione Manzoni indirizzava verso un concreto progetto esecutivo gli esiti teorici di una lunga meditazione, non solo rinnovando la sua fiducia verso un esempio univoco e preciso – il fiorentino dei parlanti colti (Dardi 2008; Sgroi 2009) –, ma anche indicando gli strumenti principali per la sua espansione: la scelta di insegnanti toscani o educati in Toscana e soprattutto la compilazione di un vocabolario basato sull’uso di Firenze.
La soluzione indicata e la rigidità del metodo dispiacquero, com’è noto, a letterati celebri come ➔ Giosuè Carducci, che declassò il problema dell’unità della lingua a una «fissazione giacobina», specialmente se da risolversi con «l’accentramento dei favellari di milioni di pensanti italiani dentro una città sola anzi forse dentro i salotti d’un solo quartiere di quella sola città» (cit. in Tomasin 2007: 32-33). Anche il maggiore linguista del tempo, ➔ Graziadio Isaia Ascoli, sottolineò con vigore, nel Proemio all’«Archivio Glottologico Italiano» (1873), le pecche della teoria manzoniana: la mancata coincidenza tra capitale linguistica e capitale politica, l’eccessivo credito assegnato al toscano contemporaneo, il deciso accantonamento dell’italiano letterario tradizionale (Ascoli 2008).
Le autorevoli obiezioni alla riforma linguistica auspicata da Manzoni non compromisero però del tutto la fortuna del fiorentino vivo, una formula che aveva il merito di aggiornare il tradizionale primato toscano mediante le aperture alla lingua parlata. Voci colloquiali e modi di dire prettamente fiorentini trovano spazio fra le letture scolastiche, ed è lecito collegare al filotoscanismo manzoniano i pur diversissimi capolavori di Carlo Collodi e di Edmondo De Amicis (Castellani 2009c). Se nelle Avventure di Pinocchio (1883) l’espressiva coloritura regionale e familiare appare la misura giusta per comunicare in modo amichevole con i «piccoli lettori», nel libro Cuore (1886) conta la consapevole adesione dell’autore al pensiero manzoniano e la condivisione di un ideale linguistico che conciliasse l’impegno unitario con la simpatia per l’uso vivo (Ricci 2009: 330-335).
Altre fortunate opere, di là dalla prosa narrativa in senso stretto, contribuirono all’evoluzione della lingua letteraria tradizionale verso una scrittura di tono medio. Ebbe un vasto e duraturo successo, anche grazie all’affabilità discorsiva, la Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi (1891): la lingua di Firenze, prescelta per la ricchezza e la vitalità (➔ gastronomia, lingua della) oltre che in ossequio alla tradizione, pone questo capolavoro dell’arte culinaria fra i libri «che hanno contribuito alla delineazione di un italiano nazionale dell’uso non solo scritto, ma anche parlato» (Frosini 2009: 87).
Un ruolo importante per l’italianizzazione va riconosciuto ai moderni mezzi di comunicazione di massa, più capillari e decisivi nel XX secolo, ma già rappresentati nel secondo Ottocento dai primi quotidiani (tra cui «La Nazione» di Firenze dal 1859, il «Corriere della sera» di Milano dal 1876, «Il Messaggero» di Roma dal 1878). Le tirature iniziali erano modeste, ma già alla fine del secolo la distribuzione nelle edicole, l’interesse per la politica alimentato dall’estensione del voto, la crescente curiosità per i fatti di cronaca ne favorirono la diffusione presso il largo pubblico. L’italiano promosso dai giornali (➔ giornali, lingua dei), pur composito nel lessico e vario nei registri, si presenta tendenzialmente unitario grazie alla screziatura solo occasionale di ➔ regionalismi e ➔ dialettismi, adoperati per colorire la cronaca locale. Nella sintassi e negli usi verbali si affermano alcune peculiarità, come il ➔ condizionale ‘di dissociazione’, con cui il cronista riferisce i fatti ancora da accertare («il generale Hahn avrebbe dato le sue dimissioni», «egli avrebbe posto fine ai suoi giorni per causa di essere caduto in condizioni di miseria»), o come l’➔ imperfetto cronistico, che sottolinea, quasi prolungandole, le azioni descritte («Jeri, un tale […] si immergeva un coltello nel petto, e si tagliava poscia la gola», «sabato sera la meretrice Francesca Guadagnini riceveva una coltellata»: Masini 1977: 95, 101; Scavuzzo 1988: 80-81, 88-89). La ricettività verso i ➔ neologismi, i ➔ linguaggi settoriali, i ➔ forestierismi è superiore a quella riscontrabile in altri testi coevi; la percentuale di ➔ francesismi è ancora soverchiante rispetto a quella delle altre lingue, ma comincia a farsi notare la componente degli ➔ anglicismi, molti dei quali significativamente attestati nella forma del prestito integrale (club, meeting, revolver).
La prioritaria ricerca della lingua comune determinò in questa fase rinnovate modalità di confronto con le varietà regionali diverse dal toscano. Una sorta di antidialettalismo funzionale caratterizza alcuni vocabolari bilingui, compilati per insegnare il corrispettivo italiano delle voci locali. Nel suo repertorio di Abruzzesismi (1884), Fedele Romani elenca gli errori di pronuncia (fešta, penzo) e i regionalismi da schivare (faticare «lavorare», tiratoio «cassetto»). Il Nuovo vocabolario siciliano italiano di Antonio Traina (1868-1873), pur esaltando la nobile vicenda e i caratteri distintivi del siciliano, si propone come strumento utile per l’acquisizione del lessico nazionale (Trovato 2002: 863). De Amicis, nell’Idioma gentile (1905), saggio destinato alla divulgazione scolastica, fa bonariamente il verso a tutti i dialetti, compreso il fiorentino plebeo dell’«amìo Enrìo» (Tosto 2003). Anche i programmi scolastici del periodo «impongono, massime nelle prime tre classi, una speciale cura nella correzione della fonetica dialettale e dell’uso di idiotismi» (Gensini 2005: 22).
Le istanze di uniformazione lessicale non frenano del tutto, com’è naturale, l’apporto delle varietà regionali (Zolli 1986). Tra i numerosi dialettismi che penetrano in questo periodo nell’italiano comune, molti sono legati a referenti materiali e alla vita pratica. Citando dal solo campo semantico della gastronomia, arrivano dal Piemonte la fontina e il gianduiotto, dalla Lombardia il gorgonzola e la grappa, dalla Toscana il cacciucco e i ricciarelli; sono voci emiliano-romagnole tortellini e piada (o piadina), romanesche abbacchio e fettuccine, napoletane mozzarella e pizza. Settori ben rappresentati sono anche quelli che riguardano realtà territoriali naturali o artistiche (dai faraglioni ai nuraghi), e fatti, a volte connotati negativamente, legati al contesto socio-antropologico locale, come la teppa (Lombardia, da cui poi teppismo e teppista), la camorra (Campania) e la mafia (Sicilia).
Produttivo e vario negli orientamenti proposti è il campo delle grammatiche postunitarie (Catricalà 1991), tra cui figurano, accanto alle compilazioni didattiche, alcune opere importanti (➔ grammatica), come la Grammatica e sintassi italiana dell’uso moderno (1879-1881) di Raffaello Fornaciari, innovativa soprattutto nella parte dedicata all’analisi del periodo, e la Grammatica italiana di Luigi Morandi e Giulio Cappuccini (1894), di impostazione manzoniana.
Il canone delle letture proposte, a parte un’esigua sezione moderna in cui primeggiano I promessi sposi, comprende in massima parte esempi antichi e specificamente trecenteschi. Nei programmi ministeriali prevalgono le scelte puristico-classicistiche e la concezione del testo letterario come modello di bello stile; tuttavia, in questa fase di articolata discussione sulle pratiche dell’educazione linguistica, affiorano anche posizioni più innovative, a vantaggio di un equilibramento tra antichità e modernità e di un accostamento storico-linguistico più consapevole alle testimonianze dei primi secoli (Moretti 2009).
Nella ➔ lessicografia, il più vistoso esito del manzonismo è il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (1870-1897) di Giambattista Giorgini e Emilio Broglio, che condivide con i repertori dialettali bilingui l’intento di arginare la varietà dei ➔ geosinonimi a vantaggio di un modello comune, qui rigorosamente individuato nel fiorentino contemporaneo. Su questa linea si pongono due fortunati vocabolari dell’uso, quello di Giuseppe Rigutini e Pietro Fanfani (Vocabolario della lingua parlata, 1875) e quello di Policarpo Petrocchi (Nòvo dizionàrio universale della lingua italiana, 1887-1891), accompagnati anche nelle successive ristampe da vasto successo editoriale.
Crescono i dizionari tecnici e specialistici, aperti all’accoglimento di parole moderne e vòlti a soddisfare le esigenze di una società in via di trasformazione (Marazzini 2009: 278-282). Si possono ricordare il Dizionario della economia politica e del commercio (1857-1861) di Girolamo Boccardo, il Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo (1881), compilato da Giulio Rezasco, e il Vocabolario marino e militare (1889) di Alberto Guglielmotti. Di grande rilievo, per l’ampiezza d’informazione e per l’originalità del taglio, è il grande Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo (1865-1879). Frutto di un lavoro collettivo ma dominato dalla personalità dell’ideatore, che invade di privati umori ideologici molte delle definizioni introdotte, il dizionario, di tipo storico ma con numerose esemplificazioni dalla lingua viva, ricostruisce l’evoluzione, le attestazioni d’autore e le varie accezioni semantiche di moltissime voci, configurandosi a lungo come uno strumento di consultazione di primaria importanza.
La norma interviene anche a sostegno della stabilizzazione della grafia e delle forme, ancora oscillanti su diversi punti, sia per la secolare polimorfia dell’italiano, sia per il recente contrasto tra innovazioni manzoniane e varianti di antica eredità.
Il ➔ monottongo fiorentino si afferma solo in casi specifici (dopo /j/ e dopo palatale, ovvero in parole come aiola, gioco, spagnolo, figliolo); fuori d’accento, la regola del ➔ dittongo mobile è applicata irregolarmente, e si alternano pertanto movendo e muovendo, sedette e siedette; l’impiego di -o nella prima persona dell’imperfetto si sarebbe generalizzato solo nel primo Novecento; analogamente, si allarga non senza prolungata resistenza l’opzione manzoniana a favore dei pronomi lui e lei in funzione di soggetto (➔ personali, pronomi; ➔ soggetto). Nelle serie di ➔ allotropi (ad es., vedo / veggo / veggio) la selezione avviene a vantaggio della forma più colloquiale.
L’enclisi pronominale (➔ parole enclitiche), tratto tipicissimo dell’italiano scritto fino all’Ottocento, si avvia a diventare un arcaismo morfosintattico, presente solo in scritture di orientamento passatista e in forme cristallizzate, del resto tuttora possibili (trattasi di …, vendesi appartamento). Nella sintassi, oltre al complessivo alleggerimento del periodo ipotattico di marca letteraria, si notano altri fenomeni di semplificazione, come l’estensione dell’indicativo alle subordinate completive (➔ completive, frasi) che di regola richiederebbero il congiuntivo, e come lo ➔ stile nominale, che avrebbe avuto una notevole fortuna in vari ambiti già a partire dai primi decenni del Novecento.
Per l’➔ortografia, contrassegnata da alcuni punti critici, si tentano progetti di riforma. Policarpo Petrocchi, nel già citato Nòvo dizionàrio, distingue con segni speciali le s e le z sonore dalle sorde, applica l’accento per individuare le parole non piane (diffìcile, règola), segnala il timbro aperto delle vocali toniche. Più audace e articolato il programma di Pier Gabriele Goidànich, fondatore nel 1910 della Società Ortografica Italiana, che propose tra l’altro l’impiego del ‹k› per l’occlusiva velare sorda (kasa, ke, kiamare, kuota; Maraschio 1993: 224-226).
Nella prosa letteraria, i decenni che seguono l’ultima edizione dei Promessi sposi (1840-1842) sono segnati da un’intensa ricerca formale, notevole soprattutto per l’apparizione di componenti linguistiche regionali. Variano i moventi, dallo sperimentalismo espressionista, che si giova di forze centrifughe per ravvivare la medietà dell’italiano tradizionale, alla tensione ‘verista’, che aspira alla verisimiglianza della comunicazione ancorata ai contesti umili. Diversi sono anche i mezzi stilistici impiegati, che vanno dalla sporadica inserzione di macchie di colore dialettale alla creazione di una prosa del tutto rinnovata e intimamente coinvolta con le emergenti varietà dell’➔italiano regionale e colloquiale. Tra i numerosi esempi di uso del dialetto, in genere riservato alle battute di dialogo dei personaggi popolari, si possono citare i lombardismi di Emilio De Marchi (chicchera «tazza», credenzone «credulone»), gli intercalari veneti di Antonio Fogazzaro («Dove la va, sciora Lüisa, co sto temp?», «Cossa t’han faa, poer Friend, cossa t’han faa, di’ sü!»), i meridionalismi di Matilde Serao (quartino o quartierino «appartamento»; stare con funzione ausiliare al posto di essere; l’avverbio assai posposto all’aggettivo).
Si tratta di casi in cui non di rado la citazione vernacolare evolve in ipercaratterizzazione e convive, non sempre pacificamente, con l’italiano letterario della tradizione (Testa 1997: 85-113; Bruni 1999: 137-192), la cui persistenza è testimoniata anche dal mancato accoglimento di quei fenomeni già corretti da Manzoni in direzione moderna e antilibresca (lui < egli; (io) amavo < (io) amava). In scrittori come Carlo Dossi, Giovanni Faldella, Vittorio Imbriani e Paolo Valera, accomunati dal gusto per il pastiche linguistico (➔ mistilinguismo), il dialetto è piuttosto un ingrediente funzionale all’uso eversivo della lingua, polemicamente distante dal monolinguismo manzoniano (Serianni 1990: 130-133).
La divaricazione presente in molti esempi della narrativa ottocentesca tra componenti culte e popolari si ricompone nei capolavori di ➔ Giovanni Verga, I Malavoglia (1881) e la raccolta di novelle Vita dei campi (1881). La naturale adozione di tratti colloquiali e regionali nel tessuto della narrazione e la costruzione di un’originalissima sintassi corale fondata sulla centralità del ➔ discorso indiretto libero rappresentano soluzioni efficaci, sia per la credibilità delle umili situazioni rappresentate, sia per l’immedesimazione nelle vicende narrate (Nencioni 1988). Il rifiuto del dialetto trascritto, avvertito come soluzione angusta e circoscritta, avviene a vantaggio della più ampia categoria dell’oralità, espressivamente rappresentata, oltre che dai tratti tipici della varietà parlata (il ➔ che polivalente, il ci attualizzante, le ridondanze pronominali, le forme accorciate ’sto, ’sta), anche dalle fitte locuzioni proverbiali e idiomatiche adattate dall’uso demotico alla prosa italiana (Alfieri 1985).
Nel periodo compreso fra tardo Ottocento e primo Novecento la ➔ lingua poetica, che per molti secoli aveva mantenuto, per lo meno nella fondamentale compagine grammaticale, una straordinaria tenuta, si avviava a una profonda mutazione, che preludeva alla netta perdita di centralità e di prestigio che avrebbe colpito i generi della poesia in epoche più recenti (Serianni 2009: 245-261). È in parte da correggere il luogo comune che considera l’opera di Carducci il canto del cigno della poesia aulica e fedele al codice lirico tradizionale. Anche nelle sue poesie, complessivamente solidali con la consuetudine classica, non mancano i sintomi della modernità linguistica, da rintracciare nella rivitalizzazione di materiali antichi, nelle aperture ai registri comico e ironico, nell’attribuzione, in luoghi particolari, di inusuali valori simbolici (Tomasin 2007). Ma è soprattutto con ➔ Giovanni Pascoli e con ➔ Gabriele D’Annunzio che l’alternanza tra istituti poetici ereditati e soluzioni formali già novecentesche si configura come una stagione di transito verso la dissoluzione delle forme tradizionali. I tratti di rinnovamento linguistico comuni a entrambi contemplano la riduzione degli aulicismi morfologici, l’ampliamento del vocabolario, l’intenso sfruttamento delle potenzialità allusive del significante.
In Pascoli la ricerca lessicale muove in diverse direzioni. Una è quella dell’antilirismo, che induce all’accoglimento di parole semplici, solitamente escluse dal selettivo campionario della lirica; nelle Myricae (1891) e nei Canti di Castelvecchio (1903) figurano numerose voci della vita quotidiana e campestre, come anatra, bricia di pane, bucato, camicia, cucina, cucitrice, galline, grembiule, massaia, mucche, pentola, scodella, sparecchiare, stalle, tacchina, tovaglia, vacche. Un’altra tendenza spinge verso l’esplorazione dei lessici speciali, principalmente in quei settori, agricolo e botanico, che circoscrivono il prediletto microcosmo del poeta: albatrelli, bergamotte, biancospino, caprifoglio, fiengreco, galle, gattici, lupinella, prunalbi, rosolacci, viburni, vitalba. Un’evidente particolarità della lingua pascoliana consiste, inoltre, nella ricorrenza delle forme onomatopeiche (il don don delle campane, il tin tin dei pettirossi, lo sci e sci dei taglialegna) o dalle evocative sonorità (Coletti 1993: 393-398).
La cifra stilistica del linguaggio poetico dannunziano risiede specialmente nella vastità ed eterogeneità delle forme impiegate e nella predilezione per le parole rare. Fin dalla produzione giovanile (Canto Novo, 1882; Intermezzo di rime, 1883; La Chimera, 1890; Elegie romane, 1892) spiccano i preziosismi lessicali (➔ cultismi), la raffinatezza musicale del ritmo e la letterarietà delle costruzioni sintattiche, ricche di inversioni e tmesi: «rompeano molti al cielo di turchese / mandorli in fiore» (“Ricordo di Ripetta”, in Intermezzo); «Morta la cara mano / che tanti al capo sogni di gloria mi cinse, che tanti / sparsemi di dolcezza brividi nelle vene!» (“Villa Chigi”, in Elegie romane). Permangono le opzioni morfologiche proprie della lirica, come le forme monottongate cor, fochi, novo; l’imperfetto senza labiodentale ‹v› nella terza persona singolare e plurale (avea, potea, vedea); l’apocope in diè, piè e simili.
La creatività linguistica di D’Annunzio si impone con il ciclo delle Laudi, massimamente con Alcyone (1903), la raccolta più celebrata per gli eleganti intrecci fonici e per i ricercati materiali linguistici, desunti da fonti disparate e dai vocabolari settoriali. Dalla classicità, prescelta per il valore aristocratico che conferisce al dettato poetico, D’Annunzio recupera arditi ➔ latinismi (adusto, callido, equoreo, falbo, letifero, onusto, predace, teda, ubero, virente) e, con analoga funzione nobilitante, rimette in circolazione ➔ arcaismi e varianti grafiche arcaizzanti (aita, albricocco, assemprano, bulicare, doventare, guatare, laude, persica, priego, ugne). La selezione di voci dai suoni suggestivi e inconsueti (bruire, isciacquio, istrepire) e il denso sfruttamento delle risorse compositive della lingua rappresentano altri aspetti originali e fecondi (Coletti 1993: 399-407).
La compresenza di antico e nuovo caratterizza anche altre esperienze di fine secolo.
Nei poeti della Scapigliatura il ribellismo dei programmi e lo sfruttamento di tematiche inedite legate alla modernità, come l’industrializzazione e la lotta di classe, faticano a trovare un’adeguata espressione, tanto che le aperture al lessico tecnico e domestico addirittura stridono con gli aulicismi morfologici e sintattici predominanti (Arcangeli 2003).
In direzione spoetizzante vanno le voci di mestieri, cibi e suppellettili registrate in Emilio Praga (arrotino, ciabattini, facchini, operai; aglio, cipolle, focacce, patate; casseruole, ombrello, botte, bicchiere), così come i frequenti diminutivi (camicetta, fiorellino, gattuccio, scarpetta). Anche in Vittorio Betteloni figurano diverse parole dell’uso familiare (crestina, infermiera, tabaccajo; cintura, guanti, scialle; arrosto, fritto, insalata) e persino qualche locuzione colloquiale, come «tiro avanti», «così stanno le cose», «stavi fresca davvero». È degna di nota, infine, l’estensione del lessico tramite il ricorso ad alcuni tecnicismi, come fosforo, microscopio, telescopio.
Sebbene convivendo con opposte componenti lessicali iperletterarie (i dantismi, gli arcaismi, gli studiati termini composti e derivati), i tratti citati rappresentano una linea di tendenza destinata a proseguire. La riduzione degli aulicismi e il riaccostamento della lingua poetica alla lingua corrente contrassegnano in particolare l’esperienza dei poeti crepuscolari, che si affidano a un tono volutamente dimesso e antilirico per pronunciare, all’inizio del Novecento, la crisi del poeta vate e del suo verso altisonante.
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