lingua parlata
L’espressione lingua parlata identifica un insieme di caratteristiche strutturali e funzionali che si manifestano primariamente, ma non in modo esclusivo, quando si usa la lingua attraverso il canale fonico-uditivo in condizioni naturali e spontanee. La lingua parlata è quindi costituita da un insieme di usi linguistici prodotti dalle specifiche condizioni enunciative del parlare, non (o solo parzialmente) osservabili in altre modalità di trasmissione (per es., nella ➔ lingua scritta).
La lingua parlata ha un’ampia gamma di registri e non si manifesta solo nei registri informali o trascurati. Tuttavia spesso l’espressione lingua parlata è usata per identificare la lingua colloquiale o informale (➔ colloquiale, lingua) o varietà diastratiche basse (➔ variazione diastratica). L’identificazione di lingua parlata e registri informali o varietà basse induce fraintendimenti e confusioni tra piani di variazione diversi. È bene dunque distinguere le proprietà generali della lingua parlata da quelle che derivano da fattori di variazione diafasica o diastratica.
Gli studi sulla lingua parlata concordano sul fatto che gli enunciati (o testi) parlati hanno in tutte le lingue caratteristiche simili, che li rendono diversi da quelli prodotti attraverso altre modalità di trasmissione, per es. nella comunicazione scritta. Le differenze registrate tra parlato e scritto non dipendono tuttavia da ‘grammatiche’ diverse, come nel caso, per es., della differenza tra enunciati italiani e tedeschi, ma dal fatto che, data la diversità delle condizioni in cui generalmente si parla e si scrive, si scelgono le strutture che sono meglio compatibili con le diverse situazioni enunciative. Ciò significa che non si può propriamente parlare di una grammatica del parlato opposta a una grammatica dello scritto, ma che è meglio parlare di usi linguistici tipici e preferiti nell’una o nell’altra modalità di comunicazione. Una piena comprensione delle strutture della lingua parlata deve quindi necessariamente fare riferimento alle più generali condizioni di produzione e ricezione dei testi parlati.
Nei paragrafi seguenti saranno esaminati i fattori enunciativi che più fortemente condizionano la fisionomia della lingua parlata in contesti naturali e spontanei, evidenziandone la relazione con le strutture linguistiche più comuni dei testi parlati.
Le proprietà del sistema fonico-uditivo che in modo più evidente condizionano la testualità e le strutture della lingua parlata sono:
(a) l’organizzazione temporale del segnale;
(b) la non-ripetibilità e permanenza del segnale;
(c) la contemporaneità tra produzione e ricezione del segnale.
Nel sistema fonico-uditivo i suoni si susseguono nel tempo invece di essere simultanei nello spazio (come nella lingua scritta). Tutti i parametri connessi ai fenomeni temporali (➔ ritmo, velocità e durata) permeano l’intero processo di produzione e ricezione della parola, a livello sia segmentale sia prosodico (➔ prosodia), tanto che ne sono condizionate le unità linguistiche di tutti i livelli (cfr. § 3.2.5).
Le produzioni foniche sono effimere: non si può tornare su un enunciato appena detto come si può con un enunciato scritto, poiché le tracce acustiche non permangono. Tale evanescenza non permette quindi né all’emittente né al ricevente di avere di fronte il testo prodotto nella sua interezza, ma costringe a seguire via via lo svolgersi dell’enunciazione (cfr. §§ 3.1.2, 3.2.3, 3.2.4). La contemporaneità di emissione e ricezione dei segnali fa sì che le sequenze di produzione articolatoria e ricezione uditiva dei suoni coincidano, diversamente da quanto avviene quando si scrive. Ciò incide direttamente sulla velocità e sul tipo di pianificazione, costringendo l’emittente a un ritmo di produzione più veloce di quello usato quando si scrive, e imposto dall’esterno. È evidente tuttavia che il solo uso del canale fonico-uditivo non è sufficiente a definire un testo come parlato: un testo letto ad alta voce, benché sia trasmesso attraverso il canale fonico-uditivo, non è parlato.
In condizioni naturali, la lingua parlata è prodotta e ricevuta in tempo reale. Ciò comporta un basso grado di progettazione da parte dell’emittente e un basso grado di attenzione selettiva da parte del destinatario. A ciò si aggiunge che i parlanti devono gestire l’intero processo senza il supporto di una memoria esterna, per es. un testo già pronto (cfr. § 3.2.1). I gradi di pianificazione linguistica e di attenzione sono in parte interdipendenti, ma non c’è una necessaria corrispondenza tra i due versanti del processo.
Qualsiasi testo parlato integra in modo sistematico elementi verbali e non verbali. Ciò avviene facendo appello agli elementi della situazione comunicativa e utilizzando altre modalità di comunicazione: mimica, ➔ gesti, movimenti del corpo. La condivisione della situazione rende più comodo e immediato riferirsi al contesto piuttosto che tradurre esplicitamente in parole il riferimento agli elementi della situazione: non solo si possono usare i ➔ deittici (passami quello di contro a passami il quaderno; cfr. § 3.2.2), ma si possono integrare gli enunciati indicando oggetti o persone. La possibilità di riferimenti diretti agli elementi del contesto accelera e ottimizza i tempi di produzione e ricezione dei messaggi, fattore determinante nel caso di un’elaborazione linguistica in tempo reale, in cui a parità di condizioni è vantaggiosa la brevità.
La forte interazione tra elementi verbali e l’uso di espressioni facciali, gesti e movimenti del corpo permette al parlante di comunicare su più piani contemporaneamente. L’uso di questi elementi non solo accompagna la sequenza verbale, ma produce significati aggiuntivi, divenendo parte integrante dell’enunciazione (Magno Caldognetto, Ursini & Poggi 2004). Il ruolo di questi fattori è talmente rilevante nei dialoghi spontanei che si suole definire la comunicazione faccia-a-faccia una comunicazione multimodale.
Il modello primario della lingua parlata è il dialogo (➔ conversazione): impariamo a parlare dialogando con gli altri e la maggior parte delle nostre produzioni parlate avviene in contesti dialogici. Al contrario, la scrittura prevede di solito un contesto monologico.
Ciò determina numerose differenze tra i due tipi di produzione linguistica. Nel parlato c’è maggiore vicinanza comunicativa tra gli interlocutori, il che consente una comunicazione carica di coinvolgimento emotivo. Questa dimensione interattiva coinvolge la testualità e le strutture del parlato in modo pervasivo, tanto che secondo alcuni autori è da ritenersi un elemento distintivo primario del parlato rispetto allo scritto (Koch 1988).
Dalla dialogicità del parlato deriva inoltre un diverso grado di libertà nella programmazione e durata dei propri enunciati rispetto allo scritto. Mentre chi scrive ha normalmente la libertà di decidere la lunghezza e la struttura dei propri enunciati, nel dialogo il parlante deve tener conto del fatto che il destinatario può a sua volta prendere la parola. L’alternanza di turni di parola è l’elemento che più direttamente influenza le strutture linguistiche del parlato, poiché il dialogo è per definizione costituito da porzioni brevi di testo: interruzioni, cambi di progetto, sovrapposizione di turni di parlanti diversi, ecc., sono caratteristiche normali dei dialoghi spontanei.
L’alternanza di turni, lungi dall’essere un fattore di disturbo, è invece la cornice più funzionale per l’elaborazione linguistica in tempo reale. Il turno è un meccanismo di controllo per il processo di produzione e ricezione in tempo reale poiché consente la produzione e la ricezione di porzioni di testo adeguate al carico di memoria possibile nella condizione data. Al contrario il monologo, se si escludono i parlanti professionisti allenati, rende più difficile un buon equilibrio tra progettazione e produzione. Ne consegue che i monologhi parlati spontanei sono spesso più frammentati e ripetitivi e presentano una maggiore occorrenza delle cosiddette disfluenze (cfr. § 3.1.2) dei testi dialogici.
Un altro elemento che condiziona i testi parlati è il maggiore o minore grado di libertà di presa di parola da parte dei partecipanti al discorso. Mentre in una conversazione tra amici si è liberi di intervenire in qualsiasi momento, ciò non è possibile in un colloquio di lavoro o in un dibattito. Queste diversità condizionano la durata dei turni e quindi anche il loro grado di pianificabilità, con conseguenze decisive per la loro struttura linguistica (De Mauro et al. 1993).
Un testo parlato è il risultato di un processo cui contribuiscono tutti gli attori dell’evento, il prodotto di più ‘autori’, che cooperano nella costruzione del senso (Nencioni 1976). La coerenza (➔ coerenza, procedure di) e la coesione (➔ coesione, procedure di) non solo derivano dall’intervento di più autori, ma nel parlato sono per definizione in fieri. Infatti, mentre in un testo scritto la coerenza e la coesione derivano normalmente da un’attività di progettazione che precede la stesura, nel parlato sono il risultato di un processo aperto anche al ricevente.
Se si escludono le proprietà del sistema fonico-uditivo che rimangono necessariamente invariate, gli elementi appena elencati possono realizzarsi in modi diversi in rapporto a situazioni comunicative diverse e alle competenze comunicative specifiche di ciascun parlante. È possibile quindi distinguere le varie manifestazioni di parlato sulla base dei valori assunti da ciascuno degli elementi indicati. Abbiamo infatti parlati più o meno pianificati, più o meno dialogici, con maggiore o minore partecipazione di più autori, ecc.
Una conversazione tra familiari presenterà il minimo grado di pianificazione e attenzione selettiva, il massimo grado di dialogicità, la massima integrazione tra elementi verbali e non verbali, la massima vicinanza comunicativa e sarà il prodotto di tutti i partecipanti. Al contrario una lezione sarà in parte pianificata, avrà un maggior grado di attenzione selettiva da parte dei destinatari, un minor grado di dialogicità, di integrazione tra elementi verbali e non verbali, una minore vicinanza comunicativa e sarà sostanzialmente il prodotto di un unico parlante.
La variabilità di ciascuno degli elementi caratterizzanti della lingua parlata produce varie strutture testuali che presentano tratti linguistici in parte coincidenti e in parte diversi. Esaminiamo qui i tratti linguistici tipicamente associati agli usi più frequenti e comuni della lingua parlata: ciò che, dal classico saggio di Nencioni (1976) in poi, si chiama, nella tradizione italiana, parlato-parlato. Quando rilevante, saranno anche segnalate le principali differenze tra i tratti linguistici del parlato-parlato e quelli di altri tipi di produzione parlata. Tutti gli esempi, se non altrimenti specificato, sono tratti dai due maggiori corpora di parlato oggi disponibili, raccolti in varie zone d’Italia (➔ corpora di italiano): LIP (De Mauro et al. 1993) e CLIPS (Albano Leoni 2006; Savy & Cutugno 2010). I testi sono riportati in trascrizione integrale e senza nessun intervento di normalizzazione. Il simbolo # indica pausa e le doppie sbarre // indicano confini prosodici.
Le principali costanti linguistiche che ricorrono con sistematicità nel parlato si possono raggruppare in tre categorie: caratteristiche foniche; caratteristiche testuali; caratteristiche lessicali e sintattiche.
3.1.1Bassa specificazione del segnale. Quando si parla si è normalmente più concentrati su ciò che si vuole comunicare e si presta poca attenzione al livello di accuratezza della realizzazione fonica. Nel parlato spontaneo il parlante tende ad articolare quel tanto che è necessario alla comprensione di ciò che sta dicendo, ma elimina ogni gesto articolatorio che non sia esplicitamente necessario (Brown 19902). Ciò produce un basso grado di specificazione segmentale del segnale (Albano Leoni & Maturi 1992; Savy 1999, 2001), che può dar luogo a fenomeni diversi. Si riportano a titolo di esempio alcuni esempi di parlato di milanesi analizzati in Savy (1999):
(a) fenomeni di fusione derivanti da coarticolazione e/o indebolimento delle articolazioni consonantiche (per queste due tabelle realizzato come [perˈkwesːədətaˈbεjː]);
(b) elisione di foni o di sillabe (dalle pellicole realizzato come [dalepeˈlikə]);
(c) mutamenti di timbro delle vocali (pagina nuova realizzato come [ˈpaʒinəˈnwɔvo]).
È bene sottolineare che non si tratta di fatti sporadici limitati a tipi di parlato particolarmente trascurato e diafasicamente basso né a particolari varietà diatopiche. La maggior parte del parlato presenta i fenomeni descritti in proporzioni tali da poterli definire la norma nel parlato spontaneo.
3.1.2 Disfluenza. La necessità di organizzare il discorso in tempo reale produce numerose interruzioni del flusso verbale, chiamate disfluenze. In senso lato, si tratta di momenti di pausa necessari al parlante come meccanismo di controllo della pianificazione del discorso, i quali sono tanto più numerosi quanto maggiore è la durata dell’enunciazione.
I fenomeni di disfluenza, di vario tipo, possono incidere sulla sequenza verbale in modi molto diversi. Si possono distinguere le disfluenze fonetiche da quelle testuali. Le prime interrompono o alterano la catena fonica, ma lasciano inalterata la sequenza verbale: appartengono a questo primo tipo le pause piene realizzate con laringalizzazioni, nasalizzazioni, allungamenti di vocali o consonanti, vocalizzazioni varie (Pettorino & Giannini 2005). Le disfluenze testuali, invece, non necessariamente alterano la catena fonica, ma interrompono la sequenza verbale, richiedendo, di norma, un’operazione di ‘ricostruzione’ testuale da parte dell’ascoltatore: appartengono a questo tipo le false partenze, le autocorrezioni, le autoripetizioni.
Essendo legati a momenti di esitazione nella pianificazione, i due tipi di disfluenza spesso occorrono insieme, come si può vedere nel testo qui di seguito (da una trasmissione radiofonica inclusa nel corpus CLIPS; si segnalano tra parentesi uncinate le disfluenze fonetiche e in sottolineato le disfluenze testuali):
(1) A. la canzone Losing my religion proprio così la è stata ‹ss›sicuramente‹ee› la canzone che ha caratterizzato la mia adolescenza con cui ‹inspirazione› che è legata soprattutto questa canzone a # ad una ragazza ovviamente quindi insomma una cosa abbastanza‹aa›.
3.2.1Discontinuità. Sebbene i testi parlati siano il prodotto di un processo fisicamente continuo, di fatto la loro struttura mostra una forte discontinuità: false partenze, interruzioni, cambi di progetto sono comuni a tutti i testi di parlato spontaneo:
(2) A. sì però io lascerei‹ii› sono problemi # delle cose private del del delle specialmente le le cose # ‹inspirazione› diciamo così fra virgolette le disgra+ non le metterei mai in # prima pagina comunque vabbè lasciamo stare
Al contrario la scrittura, che è un processo per definizione discontinuo, produce di fatto testi continui. I testi parlati, non solo i dialoghi, sono di norma costituiti da una successione di brevi porzioni di testo. I testi scritti, invece, sostenuti come sono da una memoria esterna, possono presentare porzioni di testo più lunghe e gerarchicamente organizzate. Ciò è naturalmente vero per i testi più tipicamente parlati e scritti: testi parlati fortemente pianificati, per es., una conferenza, o testi scritti come note o appunti non presentano queste caratteristiche.
3.2.2Uso della deissi. La forte integrazione tra elementi verbali e contestuali si manifesta a livello testuale con un uso frequente di ➔ deittici: pronomi personali, possessivi, marche di prima e seconda persona, dimostrativi, indicazioni temporali. Si possono ricondurre a fenomeni di tipo deittico anche alcune forme di ➔ ellissi (Berretta 1994). Parliamo in questo caso di enunciati in cui l’ellissi va ricondotta non necessariamente al già detto, ma al già noto o presente ai partecipanti alla comunicazione. Si veda il dialogo seguente tra un impiegato e un utente in un ufficio pubblico; i deittici sono sottolineati e gli enunciati ellittici sono in corsivo:
(3) A: dichiaro e gli faccio compilare questo
B: poi deve intanto si faccia firmare questo che è qua
A: già che son qui mi faccio firmare questo e poi dopo quando è tutto
B: consegna giù in segreteria
A: non devo più tornare qui
[…]
A: però devo in corso Porta Romana dopo
B: dopo
I testi parlati spontanei usano spesso, e quasi obbligatoriamente, elementi deittici (Givón 1995). Se provassimo infatti a sostituire gli elementi deittici, per es. nel testo (3), avremmo un effetto quasi inaccettabile.
Alla stessa esigenza si possono ricondurre anche i casi di riduzione e troncamento, per es. delle cifre dei prezzi: due e cinquanta può infatti significare a seconda dei contesti anche duecentocinquanta o duecentocinquantamila.
3.2.3 Ridondanza. Date le condizioni di costruzione e ricezione dei testi il parlato ha bisogno di molta ridondanza, essendo più esposto dello scritto al ‘rumore’.
La prima potenziale fonte di disturbo è la quasi contemporaneità tra la produzione e la ricezione del testo. Sia nei testi parlati sia in quelli scritti si registra una distribuzione dell’attività semiotica tra produttore e ricevente. Ma, mentre la ricezione di un testo scritto avviene con tempi e modi indipendenti dalla produzione, nel parlato la ricezione è di norma simultanea alla produzione. Ne consegue che chi scrive può essere meno ridondante perché trasferisce un maggiore carico di lavoro sul lettore del testo che ha tempo per ricostruire la rete di relazioni semantico-sintattiche. La ridondanza si registra, prima ancora che a livello di strutture linguistiche, a livello dell’andamento tematico, che raramente ha una progressione lineare e spesso viene sviluppato attraverso un parziale ritorno sul già detto. Ciò avviene in generale in tutti i testi parlati, ma naturalmente il fenomeno è più accentuato nei testi argomentativi rispetto a quelli narrativi (Sornicola 1981).
La ridondanza tematica può produrre strutture testuali varie e non si associa automaticamente alla ripetizione o reduplicazione delle strutture linguistiche, ma può essere prodotta da varie strategie testuali. Tra queste la più comune è senz’altro la parafrasi (Sornicola 1981), cioè il progressivo ampliamento del tema attraverso un processo di riformulazione:
(4) insomma ormai le cose # ce le abbiamo tra le mani le sappiamo le dovremmo sapere dovremmo averle tra le mani
Un’altra fonte di rumore è l’avvicendamento dei turni, che può determinare sovrapposizioni dei partecipanti alla comunicazione e, quindi, la parziale o totale perdita di informazione. La ridondanza è una delle strategie riparatrici per evitare che ciò accada.
3.2.4 Ripetizione. Nel parlato spontaneo c’è un’alta percentuale di ripetizioni. Esistono vari tipi di ripetizione, che si possono ricondurre a due macrocategorie (Bazzanella 1992; Voghera 1992):
(a) ripetizione di enunciati altrui per dare coerenza e coesione al discorso;
(b) autoripetizione di tipo automatico come meccanismo di controllo della programmazione del discorso.
L’uso dell’autoripetizione (o della ripetizione di enunciati altrui) dipende strettamente dal tipo di testo: maggiore è la frequenza di scambio comunicativo minore sarà l’autoripetizione. La quantità di autoripetizione sembra infatti proporzionale alla durata dell’enunciazione, poiché una della sue funzioni principali è quella di guadagnare tempo per la progettazione e, implicitamente, per l’elaborazione:
(5) A. # questo giocatore ‹eeh› secondo me è uno dei più forti secondo me dai ‹eeh› non facciamo gli ipocriti è # sicuramente uno dei più forti # è uno dei più forti che c’è che c’è sicuramente
Naturalmente, in molti casi la ripetizione è usata come espediente stilistico di rafforzamento o enfasi. Queste sue funzioni sono indipendenti dalle condizioni enunciative e quindi si realizzano sia nei testi parlati sia in quelli scritti.
3.2.5 Prosodia come strumento di coesione testuale. La ➔ prosodia interagisce in modo complesso sia con il livello fonico segmentale sia con livelli superiori (sintattico, semantico e testuale). Tutti i parametri prosodici svolgono una funzione linguistica. Per la costruzione del significato sono pertinenti non solo il livello tonale degli enunciati, ma anche la segmentazione in unità prosodiche e i fenomeni legati al tempo dell’enunciato. La velocità imposta al nostro eloquio non è solo funzione di stati d’animo o di atteggiamenti del parlante, ma anche della scansione testuale. Di fatto si imprime una velocità diversa a parti diverse del testo a seconda che vogliamo metterle in primo o secondo piano, o far aumentare o diminuire l’attenzione dell’ascoltatore (Savy & Cutugno 1999).
Le unità prosodiche rappresentano il dominio per un’ampia serie di fenomeni, e in particolar modo per i fenomeni di focus (➔ focalizzazioni) e più in generale per il rapporto tra contenuto proposizionale, distribuzione dell’informazione e ordine dei costituenti. È attraverso la scansione prosodica che è, per es., possibile distinguere le diverse interpretazioni da assegnare a una stessa sequenza verbale, come nella distinzione tra (6) a. e (6) b.:
(6) a. [la vecchia porta] [la sbarra]
b. [la vecchia] [porta la sbarra]
mettere in rilievo parti dell’enunciato:
(7) non senti NULla diciamo
o segnalare le relazioni tra diverse porzioni di testo, per es. un inciso o un commento:
(8) // richiede // cosa che è importantissima// la solidarietà prima di tutto//.
3.2.6
Marcatori di discorso. Quando si parla si devono fornire non solo informazioni sufficienti perché il contenuto arrivi al destinatario, ma anche una griglia per l’elaborazione del testo. Si deve, cioè, aiutare il destinatario a riconoscere le varie porzioni del testo e le connessioni tra di esse. Ciò avviene essenzialmente in due modi: attraverso l’uso di indici prosodici e attraverso l’uso di marcatori del discorso (➔ segnali discorsivi).
Questi sono di vari tipi e possono avere una funzione pragmatica e/o testuale. Nel primo caso il loro uso è legato alla necessità di tenere sotto controllo lo svolgersi del discorso in rapporto all’interlocutore e alla situazione enunciativa. Si tratta di un’esigenza di tutti i testi parlati, sia dialogici sia monologici, che non sembra avere un corrispettivo negli usi scritti, anche informali. Alla stessa funzione possono essere ricondotti gli usi dei marcatori del discorso come riempitivi di pausa, che consentono al parlante di prendere tempo senza perdere il turno di parola: è bene ricordare che l’assenza di un supporto esterno per seguire l’andamento del discorso condiziona non solo l’elaborazione dei testi parlati, ma anche la loro progettazione.
Accanto a questi usi pragmatici, troviamo usi più propriamente testuali. Un testo parlato è per definizione un testo aperto. Chi parla raramente produce un testo coerente dall’inizio alla fine, molto più spesso il parlante deve rimotivare e dare coerenza a ciò che ha detto in corso d’opera. I marcatori del discorso possono svolgere questo compito. In alcuni casi quindi i marcatori del discorso assolvono alla stessa funzione della punteggiatura nello scritto: ritagliare porzioni testuali e tematiche riconoscibili da parte del destinatario, senza per questo creare delle rotture discorsive. Si veda l’uso di cioè nell’esempio seguente:
(9) e poi volevo fare un’altra domanda eh anche se forse sarebbe opportuno farla domani eh cioè l’abbozzo semplicemente cioè vorrei cercare di capire eh capire che tipo di configurazione si vorrebbe dare a questo centro multiculturale cioè deve essere un centro multiculturale ...
3.3.1Uso di lessico e strutture polisemiche. La lingua parlata è caratterizzata da una forte preferenza per strutture polisemiche. Ciò dipende dal fatto che si deve parlare e progettare contemporaneamente e che non si ha sempre tempo sufficiente per cercare le parole o le strutture più elaborate. La preferenza per strutture polisemiche si manifesta a tutti i livelli.
A livello lessicale si preferiscono i sinonimi di maggiore ampiezza semantica: macchina al posto di automobile, fare al posto di eseguire, dire al posto di affermare, dichiarare, asserire, ecc. Lo stesso vale anche per le parole grammaticali: si preferisce infatti usare ma invece di tuttavia o sen(n)onché, cioè invece di ossia, anche se al posto di quantunque, benché o sebbene, e così via (De Mauro et al. 1993; Berretta 1994).
Generalmente i testi parlati prediligono l’uso di connettivi che possono svolgere funzioni diverse. I tipi di subordinatori più frequenti hanno infatti in comune due proprietà: capacità di modificare costituenti di frase morfologicamente e funzionalmente diversi, e ampiezza (o vaghezza) dei valori semantici. Queste due proprietà sono rappresentate in modo esemplare sia dai pronomi relativi (➔ relativi, pronomi) sia dalla congiunzione che, i quali occupano i primi posti in ordine di frequenza tra i subordinatori dei testi parlati (Voghera 1992). Nelle frasi relative (➔ relative, frasi) infatti può essere ripreso da un pronome relativo qualsiasi elemento nominale (soggetto, oggetto, sintagmi preposizionali) e si può avere l’uso di indicativo, congiuntivo, condizionale e infinito.
A queste due caratteristiche si aggiunge la possibilità della relativa di inserirsi tra i costituenti di una frase. La congiunzione che mostra una flessibilità sintattica ancora maggiore (➔ che polivalente).
Infine, anche nell’uso dei verbi si tende a usare quanto è più possibile tempi e modi polivalenti: nei primi dieci verbi del LIP in ordine di frequenza, il presente indicativo copre circa il 60% delle occorrenze (De Mauro et al. 1993).
3.3.2Bassa densità lessicale e frequenza delle parti del discorso. L’uso di strutture non marcate o polifunzionali e di deittici fa sì che l’informazione sia spesso diluita e passi piuttosto attraverso l’intonazione e i segnali non verbali. Ciò determina la bassa densità lessicale del parlato, cioè il maggior numero di parole funzionali vuote rispetto a quelle piene (Halliday 1985): il parlato ha in particolare un maggior numero di congiunzioni e pronomi (Voghera 2004).
La maggiore quantità di ➔ pronomi nel parlato è legato a vari fattori, tra i quali bisogna almeno ricordare i seguenti:
(a) il già menzionato uso dei deittici;
(b) l’uso di catene anaforiche (➔ anaforiche, espressioni);
(c) l’uso di ➔ dislocazioni, a destra (lo compro io il giornale) e sinistra (il giornale lo compro io) con riprese pronominali;
(d) l’uso di verbi pronominali (me ne vado; ➔ pronominali, verbi).
Il maggior numero di congiunzioni è attribuibile al fatto che il parlato preferisce una sintassi in cui il nodo centrale è un verbo, con frasi connesse tra loro attraverso congiunzioni. Lo scritto, invece, preferisce una sintassi più compatta in cui le valenze dei verbi sono saturate da sintagmi complessi, connessi tra loro da preposizioni. Alla diversità di strategie sintattiche è riconducibile anche una minore frequenza dei nomi nel parlato rispetto allo scritto (Cresti & Moneglia 2005; Voghera 2005). Nel parlato infatti le valenze dei verbi (➔ argomenti) possono essere saturate da pronomi o sintagmi nominali semplici, poiché le relazioni sintattiche possono essere spesso facilmente ricostruite facendo appello al contesto. In tal modo, i parlanti possono sostituire i nomi con espressioni deittiche o persino ometterli.
3.3.3Uso di sintassi additiva. La concatenazione di frasi è la forma sintattica più congeniale alla struttura informativa del parlato, per vari motivi. La pianificazione in fieri del parlato favorisce una progressione sintattica additiva più che la creazione di rapporti gerarchici tra frasi. In tal modo la sequenza delle frasi tende a riprodurre la sequenza degli eventi (tecnicamente, tende a presentarsi come più iconica rispetto alla realtà riferita: mangio e poi esco al posto di esco dopo aver mangiato; Berretta 1994). Ciò consente una programmazione e produzione parallele, che facilitano i processi elaborativi, grazie a un minor carico di memoria per il destinatario. Al contrario una sintassi fortemente gerarchizzata richiede maggiore prepianificazione e la necessità da parte sia del produttore sia del ricevente di tenere sotto controllo ampie porzioni di testo.
Il parlato ha una sintassi di tipo concatenativo, con minor numero di subordinate e con un tipo di subordinazione che tende a conservare la progressione dell’informazione e successione delle frasi.
L’elemento che più caratterizza il parlato non è tanto la scarsa subordinazione, ma altri parametri quali: l’ordine rispettivo di principale e subordinata; il grado di dipendenza della subordinata dalla principale; il rapporto tra concatenazione degli eventi e sequenza delle clausole; il grado di specializzazione semantica del connettivo.
3.3.4 Frasi senza verbo. Un’altra caratteristica sintattica della lingua parlata (cfr. Berretta 1994; Cresti & Moneglia 2005), è l’ampio uso di frasi senza verbo (➔ stile nominale). Si tratta di strutture molto diverse dal punto di vista sintattico, sul cui statuto teorico il dibattito è aperto.
Bisogna distinguere le frasi senza verbo dalle frasi ellittiche (➔ ellittici, enunciati), costituite da strutture che sono inserite in un turno di risposta:
(10) A: quando arriva Giovanni?
B: lunedì, ma chissà a che ora
o da clausole generalmente coordinate o subordinate a frasi enunciate in turni precedenti:
(11) A: Giovanni non viene solo
B: ma Mario sì
Le frasi senza verbo non sono esclusive del parlato, ma nel parlato possono assumere forme condizionate dalla struttura dell’enunciazione (Giordano & Voghera 2009). Troviamo, per es., frasi senza verbo che esprimono una predicazione di un soggetto presente in un enunciato diverso:
(12) A1: ho incontrato Maria
B1: l’ho vista anch’io
A2: sempre bella
L’espressione sempre bella nel turno A2 è una predicazione il cui soggetto è Maria in A1. Nel parlato si ha spesso il caso in cui il soggetto della predicazione non è espresso verbalmente ma è presente nel contesto:
(13) sempre bella! [indicando una foto]
Frequenti sono le frasi senza verbo che esprimono argomenti:
(14) A: non so proprio a chi chiederlo
B: a Maria?
Possono infine considerarsi frasi senza verbo a pieno titolo quelle espresse da marcatori del discorso (sì insomma), formule (mille grazie) e fonosimboli (ahah), quando occorrano isolati.
Gli usi parlati, in quanto manifestazione primaria della lingua di una comunità (De Mauro 1971), esibiscono più di quelli scritti i tratti di variazione diatopica, diafasica e diastratica (➔ variazione linguistica; Berruto 1993). Ciò avviene per tutte le lingue, ma assume nell’italiano parlato caratteristiche proprie.
Solo fino a qualche decennio fa, l’italiano era prevalentemente una lingua scritta conosciuta e usata dagli strati più istruiti della popolazione, mentre la lingua parlata per eccellenza era il dialetto. La diffusione dell’italiano in tutte le zone del paese e in strati sempre più larghi della popolazione di tutte le condizioni sociali è quindi un fatto relativamente recente (➔ sociolinguistica). Ciò ha aperto spazio a processi che si manifestano con l’aumento della diversificazione interna all’italiano contemporaneo, non solo parlato, legata a usi e pratiche sociali diverse, alla varietà degli utenti reali e/o potenziali, ai contesti e alle modalità comunicative.
La ➔ variazione diatopica si manifesta attraverso forti tracce del ➔ sostrato dialettale, almeno a livello fonologico, ma spesso anche nel lessico e nella morfosintassi. Dal punto di vista diafasico e diastratico (➔ variazione diafasica; ➔ variazione diastratica), la varietà delle condizioni d’uso e degli utenti ha determinato la diffusione di usi linguistici che prima erano marcati come informali, familiari o appartenenti a registri bassi. Si pensi alla realizzazione del relativo con il che invariabile anche per i casi obliqui, come in è un fabbricato che il proprietario è il Comune di Roma (da un radiogiornale) o alla ripresa pronominale dopo il pronome relativo obliquo, come in è un segnale politico del quale bisogna tenerne conto (discorso politico; esempi in Berretta 1994).
Ma la diffusione dell’italiano come lingua parlata ha altre conseguenze di carattere più generale. Il fatto che sia usato anche come lingua parlata ha cambiato il rapporto tra utenti e lingua nazionale, che è divenuto diretto e che non ha bisogno della mediazione della scrittura: basti pensare al numero sempre crescente di persone che hanno l’italiano come madrelingua o come una delle lingue materne.
Tutto quanto ha innescato un processo di normalizzazione dell’italiano parlato. Ciò significa, da un lato, che questo sta diventando per un numero sempre crescente di cittadini il modo normale di comunicare, e, dall’altro, che il parlato è entrato a far parte della norma linguistica, in quanto porzione del sistema di riferimento basilare, anche per gli usi non parlati. Tutto ciò emerge, tra l’altro, dal fatto che anche in situazioni parlate formali (per es., nel linguaggio politico; ➔ politica, linguaggio della) o nella scrittura contemporanea (per es., nei giornali, ma anche nella narrativa) emergono tratti del parlato.
Albano Leoni, Federico (2006), Il corpus CLIPS: presentazione del progetto, in www.clips.unina.it.
Albano Leoni, Federico & Maturi, Pietro (1992), Per una verifica pragmatica dei modelli fonologici, in Gobber 1992, pp. 39-49.
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