fumetti, linguaggio dei
«Quasi per un paradosso, proprio quando gli accademici hanno cominciato a occuparsene, il fumetto ha smesso, almeno in Occidente [...], di essere un fenomeno popolare per diventare con poche eccezioni un fenomeno di nicchia» (Aprile & Zeoli 2005: 9). A differenza di altri mass media, in effetti, la fortuna del fumetto, e conseguentemente la sua influenza linguistica soprattutto sulle giovani generazioni, sembrano oggi sensibilmente diminuite rispetto al periodo aureo collocabile, approssimativamente, tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta del XX secolo.
Questo vale per l’Europa e per gli Stati Uniti, ma ben diversa è la situazione giapponese, con l’elevatissimo consumo di manga, anche da parte del pubblico adulto. Alcuni termini ed espressioni oggi comuni in italiano debbono i natali, o almeno la diffusione o la rivitalizzazione, proprio a questa forma di comunicazione, a cominciare dal termine stesso di fumetto, sostitutivo dell’inglese balloon, per indicare la nuvoletta contenente i dialoghi e, per metonimia, il medium stesso, registrato nella nostra lingua a partire dal 1942 (Morgana 2003: 165).
Tra le convenzioni subito stabilizzatesi nel nuovo mezzo, è nota la rigogliosa messe di ideofoni (parole onomatopeiche indicanti rumori o emozioni) propagata dai fumetti, da bang a boom, da slurp a smack, pronunciati in italiano perlopiù come sono scritti e provenienti spesso da parole inglesi di senso compiuto, come gulp «boccone, sorso», mumble «mormorio», sigh «sospiro». La forza del modello ha determinato la nascita «di nuove onomatopee con basi italiane, formate sul modello inglese con finale in consonante, come strap (strappare), sgrat (grattare), rasp (raspare), zomp (zompare, saltare), che si possono considerare pseudoanglicismi» (Morgana 2003: 168-169). D’altro canto, non mancano neppure le espressioni letterarie, o latineggianti, quali me misero, me tapino, sitibondo di vendetta, sursum corda, che debbono la loro fortuna ai primi fumetti Disney tradotti in Italia, in grado di coniugare agilità sintattica e formalità, rispetto della norma e impiego ironico della letterarietà, specificità lessicale e composte aperture al parlato.
Tuttora è possibile incontrare, nei fumetti non soltanto Disney, forme ormai rare come egli o loro dativo plurale; un’ottima tenuta mostrano il congiuntivo, il condizionale, il futuro e il passato remoto, mentre tendenzialmente bassa è la frequenza del turpiloquio, come è alta quella dell’autocensura e della reticenza. Fin dai primi numeri di Topolino, anche l’intemperanza interpuntoria (con l’abuso dei puntini di sospensione e la serie di più punti interrogativi ed esclamativi) diventa un marchio di fabbrica, ben presto imitato anche in letteratura.
Nato negli Stati Uniti nel 1895, il fumetto giunge in Italia nel 1908, decurtato, però, per lungo tempo, delle nuvolette. Per dimostrare le innovazioni linguistiche della prima produzione Disney, basta mettere a confronto le didascalie di una celebre striscia italiana, Il Signor Bonaventura, di Sergio Tofano (a partire dal 1917), con un vecchio Topolino:
Qui comincia l’avventura / del signor Bonaventura, / che del fiume la corrente / sta a veder beatamente. / C’è lì sotto un canottiere / dalle amabili maniere, / che una grassa dama invita / in barchetta ad una gita. / Ma la dama colossale / pesa certo un buon quintale, / ed il fragile canotto, / giusto ciel! le affonda sotto ... / Il signor Bonaventura / intuisce una sciagura, / e già lancia il grido acuto: / “Un naufragio! Aiuto! Aiuto!” / Mentre quegli il grido gitta, / Barbariccia ne aprofitta / e con un malvagio urtone / vuol mandarlo in perdizione. / Con un urlo il poveretto / casca fuor del parapetto. / Ghigna l’altro, soddisfatto / del terribile misfatto. / Quei, cascando sulla prora, / contrappesa la signora, / ed il fragile legnetto / torna in bilico perfetto («Corriere dei Piccoli» 23 giugno 1929)
Tofano coniuga i cascami poetici più spiccioli (gli arcaismi lessicali come dama, perdizione e prora; quelli fonetici come quegli, quei e gitta; quelli sintattici come l’inversione: del fiume la corrente, una grassa dama invita; l’uso di diminutivi arcadici e leziosi: barchetta, legnetto; espressioni da opera lirica: giusto ciel!; la presenza dell’apocope, veder, fuor, della metonimia, legnetto «barca», e delle figure foniche dell’assonanza e dell’allitterazione: gitta Barbariccia approfitta, ecc.) con lo stile delle filastrocche per bambini, il tutto in ottonari, il verso dell’Opera dei Pupi e delle ariette metastasiane, cantabile per eccellenza. Antirealismo, grafico e linguistico, ed eterea ironia (nata dall’accostamento di quello stile a contesti quotidiani, bassi e ludici) sono le cifre distintive di testi siffatti.
Si veda a confronto un brano da Topolino del 1932, nel quale Minni (successivamente, Minnie) e Topolino sono alle prese con Pluto che ruba loro un pollo:
Preferisci la carne bianca o la coscia? // Preferisco entrambi!! // La carne bianca dovrebbe trovarsi qua! // È la prima volta che mi cimento con un pollo! Si capisce, eh? // Gosh! Come scivola questo volatile! // Sweeeshh // Lascia! Non giochiamo al tiro alla fune! // Arrrrr! // Che gli prende? Non è mai stato tanto vorace! // Crash! // Ti diletti con le armature ora! Vuoi essere un antico cavaliere? // Perché no? // Ti catturerò e offrirò alla principessa Minni il pollo che ... // Clank Bam // Oohhh! Come sono carini! // Guarda, Minni! Pluto è papà! // Allegro, vecchio mio! Ignoravo che avessi una famiglia da sfamare! (Disney 1977: 20; le doppie barre indicano il passaggio da una nuvoletta o didascalia all’altra)
Qui la comicità nasce, prima di tutto, dall’ambientazione nel mondo di topi, paperi e altri animali. Il dettato, non più in versi, è agile e brillante, per benefica influenza del parlato-scritto angloamericano, senza peraltro mai scendere al di sotto della soglia della norma grammaticale (si notino gli inserti nominali e le espressioni colloquiali: allegro, vecchio mio!, che gli prende?; la mimesi del tratto orale dell’interruzione: il pollo che ...; la frase scissa con che temporale: è la prima volta che) e senza rinunciare a certe strutture proprie dello scritto scolastico: la ripetizione del verbo nella risposta preferisco entrambi; l’uso di futuri, congiuntivi e condizionali, in una sintassi ipersemplificata, vincolata anche alle dimensioni esigue delle nuvolette, e cionondimeno sorvegliata: ignoravo che avessi. Gli elementi di scarto linguistico verso l’alto (cimentarsi, dilettarsi, volatile) non sono altro che macchie di colore (non necessariamente ironiche) inserite nell’italiano medio, che brillano per contrasto e, proprio per questo, si scolpiscono nella memoria. Così come, d’altro canto, le interiezioni e gli ideofoni, dalle forme grafiche spesso assai fantasiose e destinati a enorme fortuna (sweeeshh, oohhh), oltreché gli espedienti del lettering (o modalità grafiche nell’uso delle parole), anch’essi subito diventati convenzionali e riconosciuti dai lettori, come, per es., il grassetto (qui reso con il corsivo) per contrassegnare l’elevato volume della voce, l’enfasi emotiva e talora la focalizzazione di parti della frase («come sono carini!»).
Se la lingua dei primi fumetti Disney spiccava per modernità, in confronto alla letteratura e al cinema di consumo coevi (notoriamente molto più formali e ingessati delle produzioni d’autore), le produzioni Disney più recenti (create direttamente da autori italiani dal 1949) sono contrassegnate, di contro, da certo formalismo scolastico, talora di sapore vagamente rétro, volutamente distante dall’abbassamento diafasico dell’italiano dei media (➔ lingua e media; ➔ variazione diafasica; ➔ variazione diamesica).
In altre parole, le differenze tra i primi e gli ultimi numeri di Topolino non sembrano affatto tanto vistose quanto quelle che hanno colpito l’italiano scritto nel corso dell’ultimo settantennio. Ciò è in parte dovuto al rispetto delle convenzioni interne al mezzo e ai generi, grazie alle quali una testata conferma la complicità e la fedeltà del lettore, in parte alla vocazione pedagogica dei fumetti Disney:
Apri bene i padiglioni auricolari, straniero! Se non te la batti entro un minuto, ti riempio di piombo! // Uak! Noioso millantatore, metti il naso fuori del tuo nascondiglio e vedrai cosa ti succede! (Paperino 1966, in I classici 2003: 148).
Va inoltre sempre ricordato l’attardarsi dell’italiano, rispetto ad altre lingue, nell’affermazione del parlato riprodotto affrancato dai cascami della lingua letteraria (Becciu 1971: 53; Paccagnella 2002: 618). Naturalmente non manca la creatività, soprattutto lessicale, in particolar modo nelle serie dedicate alla parodia di opere letterarie famose, da I promessi paperi a Il Paperin Furioso. Notevole la serie dei composti inventati: megadeposito di fantastiliardi, ovottero, ingannanebbia, torrinsotto, mangiapanini (Morgana 2003: 186; cfr. in generale Pietrini 2008).
Decisamente più semplici, sintetici fino all’epigrammatico, quasi privi di giochi linguistici, i dialoghi (dal 1950) dei Peanuts, di Charles M. Schulz, la cui leggerezza infantile è solo apparente: ogni battuta sembra infatti ponderata e assestata a smascherare le debolezze e i luoghi comuni degli adulti:
Sei il mio fratello maggiore ... Dovresti essere il mio esempio ... // Allora cosa vuoi che faccia? // L’esempio (Peanuts, anni Novanta, in I classici 2003: 252).
A proposito di creatività, è proprio a partire dagli anni Sessanta che vengono immessi sul mercato prodotti la cui comicità passa soprattutto per l’invenzione linguistica. Tra questi, è celeberrimo Sturmtruppen di Bonvi, dal 1969, con prevedibili, ma non per questo meno gustose, mescidanze maccheroniche italo-tedesche:
Continuate ad andare afanti!! // ... Abbiamo il cambio fuori uso!! ... Ci è rimasta una sola marcia utilizzabilen!! // ... E allora innestaten kuell’unica marcia e continuiamo l’assalten!! // ... Ma gliel’hai detten che era la retromarcen? // ... Non me l’hanno mica chiesten ... (Sturmtruppen 1992, in I classici 2003: 147).
Meno vistose, meno ripetitive e più raffinate le soluzioni di Asterix, di René Goscinny e Albert Uderzo, la cui comicità nasce dall’accostamento di espressioni moderne a nomi e contesti antico-romani:
Credono di mettermi con le spalle al muro! Sono pazzi questi romani! [...] // Presto, scavalchiamo il muro! Ormai i romani sono sul chi vive! // Questi comunque non lo sono più! // Già, mi sembrano piuttosto sul chi muore! // Per Javeh! Voi e i romani sembravate Davide contro Golia! Però che sventole si son prese! // Già ... E non mi secca per niente d’essermi liberato di quella spia di un druido! // Ecco la casa di Sansone Chiomatus, il mercante! (Asterix 1981, in I classici 2003: 89).
Il plurilinguismo è un ingrediente fondamentale anche di altri fumetti. Tra quelli italiani d’ambientazione western, Tex Willer, di Gianluigi (e poi Sergio) Bonelli, dal 1948, spicca per la presenza di iberismi:
Bueno, fratello rosso!... Cochise sarà certo generoso con voi e, da parte nostra, riceverete intanto, oltre ai cavalli dei quattro bianchi, qualcosa che vi farà scordare il brutto episodio di poco fa. // Tiger!... Ti spiace consegnare a questi tre amigos, le fiasche appese alle nostre selle?... [...] // Ed è così che, pochi minuti dopo ... [...] // Peste!... Mai visto indiani tanto contenti! // E noi lo siamo anche più di loro, perché ora possiamo tornarcene a casa senza perdere altro tempo. // Vamonos! (Tex 1982, in I classici 2003).
Ancora più spiccato, «fino al manierismo», il plurilinguismo di Corto Maltese, di Hugo Pratt (Paccagnella 2002: 616, da consultare soprattutto sul formalismo di Tex, insieme con Aprile et al. 2007).
Come si sarà notato nella didascalia di Tex («pochi minuti dopo ...»), i fumetti sono spesso caratterizzati da ridondanza e prolissità (con la già citata eccezione, tra le altre, dei Peanuts; Becciu 1971: 34-67), dettate dall’esigenza degli editori di farsi comprendere da tutti, sciogliendo pure i nodi narrativi e iconici più elementari, e anche, spesso, di ribadire certi stereotipi. Tale atteggiamento, caratteristico soprattutto dei fumetti di supereroi (con curioso contrasto tra l’enfatizzazione dell’agilità e del movimento nell’immagine e la lentezza autoriflessiva delle parole), è da taluni ricondotto a retaggi della lingua teatrale:
Sembra, a leggere questi fumetti, che i loro personaggi non possano fare a meno di esprimere a parole tutto quello che sentono, sia – il che è ancora abbastanza naturale – quando interagiscono con altri personaggi, sia – cosa invece alquanto più strana – quando agiscono in assoluta solitudine. Il fatto è che in entrambi i casi la tradizione teatrale della parola gioca un ruolo determinante (Barbieri 1991: 222).
La massima semplificazione della fruizione da parte del lettore non è ottenuta, beninteso, soltanto con la ridondanza, ma anche, in alcuni titoli, con la scarnificazione sintattica e lessicale. Diabolik, di Angela e Luciana Giussani, dal 1962, raramente presenta nuvolette contenenti più d’una proposizione («La fame fa sembrare buono tutto! Ieri ti sono piaciute anche le bacche. // La vita primitiva mi diverte. // Tesoro, fra qualche giorno comincerai a rimpiangere le comodità»); anche il tratto marcato delle vignette e del lettering conferma l’intento delle due autrici di creare «un fumetto che fosse di facile lettura, in un’edizione tascabile adatta ai luoghi affollati, dichiaratamente per un pubblico adulto» (Diabolik, in I classici 2003: 5, 180).
Oltre all’ovvia interazione tra linguaggio delle immagini e linguaggio verbale, alla base del fumetto forse più ancora che di altri media (cinema e televisione, più sbilanciati verso l’immagine il primo, verso la parola la seconda), va tenuto conto dei rapporti tra media, caratteristici della cultura di massa e della postmodernità, basate sul riuso e sulla parodia. Basti pensare alla pubblicità che si serve del fumetto e alle tecniche cinematografiche in quest’ultimo travasate, a cominciare dalla terminologia tecnica: gli addetti ai lavori, infatti, anche nel fumetto parlano di sceneggiatura, di inquadratura, di montaggio, ecc. E, viceversa, il cinema deve al fumetto gag, personaggi e maestranze: Cesare Zavattini, Federico Fellini e molti altri approdano al cinema dal mondo delle vignette. E non mancano rapporti reciproci con la televisione, i videogiochi, la grafica computerizzata, la visual art.
Il rapporto osmotico con il cinema, soprattutto quello americano, è cruciale anche dal punto di vista linguistico, per via dell’evidente influenza di taluni ‘doppiaggismi’ nella lingua del fumetto ancora in anni a noi vicini (➔ doppiaggio e lingua). Basti pensare all’estensione dell’uso del voi quale allocutivo di cortesia, o a espressioni come dannazione!:
Dannazione! Speriamo che non sia successo nulla ... Quando la comunicazione si è interrotta, ho sentito distintamente l’allarme suonare ... [...] // Avete sbirciato lo schermo del mio computer ... // È vero ... E ancor più di prima, Never, ho voglia di raccontarvi una lunga storia (Nathan Never 1995, di Antonio Serra, in I classici 2003: 124-125).
Quest’ultimo fumetto mostra anche il massiccio ingresso, nella produzione italiana, degli pseudotecnicismi della fantascienza, di chiara derivazione cinematografica prima e manga poi (già penetrati attraverso i cartoni animati televisivi giapponesi, a partire da Goldrake, giunto in Italia nel 1978 e derivato, a sua volta, da un manga):
Talos, Selena, Bhahl! Andate, difendete la fortezza e la macchina del tempo a tutti i costi! Io devo cominciare la procedura di attivazione del flusso canalizzatore spaziotemporale e del campo di stasi ... [...] // ... E abbiate fede nella vittoria dei tecnodroidi! (ivi: 28-29).
Il voi e numerosi riferimenti filmici sono usuali anche in Dylan Dog, di Tiziano Sclavi, dal 1986, a cominciare dalle fattezze dei protagonisti, ispirati a Rupert Everett e a Groucho Marx: «Vi amo, voglio un figlio da voi, se non ce l’avete mi accontento di un nipote. [...] // Giuda ballerino!... // Ho pensato di farvi cosa gradita ...» (Dylan Dog, in I classici 2003: 211, 219). Nel brano seguente, tratto da Julia (di Giancarlo Berardi, 1998), l’espressione idiomatica e passatista avere del fegato, l’espressione allocutiva sorellina e la domanda-coda lo sai? sembrano davvero ricalcate sull’inglese, come nel doppiaggio di un vecchio film di consumo: «Hai del fegato, sorellina. Potrei torcerti il collo e farti sparire per sempre, lo sai?» (Frezza 1999: 161).
Sempre di stampo ‘doppiaggese’ sembra la tendenza dei fumetti all’eliminazione delle «discriminazioni sociali: il mandriano e il cow-boy si esprimono esattamente come lo sceriffo e il medico condotto, il gangster come il capo della polizia» (Becciu 1971: 53).
Soltanto tenendo ben presenti le convenzioni della lingua fumettistica sinora delineate, la sua semplicità, regolarità, formalità (quando non letterarietà) e didascalicità, l’elevato grado di stereotipia assimilabile soprattutto alla lingua del doppiaggio, la forte carica eufemistica e dialettofobica, si può apprezzare il drastico rinnovamento operato dagli autori italiani della fine degli anni Settanta (con qualche eccezione precedente: Dino Buzzati, Poema a fumetti, 1969). Con la rivista «Frigidaire», fondata nel 1980 da Vincenzo Sparagna, Stefano Tamburini e Filippo Scozzari, il fumetto italiano diventa caustico, spesso sfruttando la carica eversiva della pornografia, e s’accompagna con la militanza politica, con la satira e con il giornalismo d’assalto. Andrea Pazienza, tra i collaboratori di «Frigidaire» e prima ancora de «Il Male», fondata da Pino Zac nel 1977, si segnala per fumetti come: Le straordinarie avventure di Pentothal, 1977; Zanardi, 1980; il graphic novel (o romanzo a fumetti, a sfondo perlopiù autobiografico, divenuto oggi il genere di fumetto per antonomasia, come mostra il successo mondiale di Persepolis, di Marjane Satrapi: Gli ultimi giorni di Pompeo, 1987; Raffaelli 2009.
Con Pazienza, il turpiloquio e l’invettiva, fino alla bestemmia, i gerghi (soprattutto quello dei tossicodipendenti), la sessualità senza veli e la mimesi degli elementi più estenuanti del parlato spontaneo, in particolar modo quello sotto l’effetto degli stupefacenti (soprattutto le ripetizioni, le autocorrezioni, le esitazioni e la balbuzie), entrano a pieno titolo nel fumetto, che diventa sempre più assimilabile a un moderno romanzo autobiografico ed espressionistico. Il monologo interiore si sposa con il dialogo satirico, i termini settoriali (medici e farmacologici in primis) e quelli deformati e inventati si inseriscono in uno stile a tratti lirico, il linguaggio letterario si alterna con quelli regionale e popolare (Cresti 1992: 117):
taglia, scorcia, sensovieta
Cala da quella macchina, direzione amministrativa, direzione quella casa di là dalla via. Ovvìa, sembra un po’ la stessa. Assiso sui gradini d’una bicocca, uno sfaccendato alza l’occhi su Pompi e ce li rimane. Occhi da calo-calo
È da ieri alle due* *14 che so qui che aspetto Mister X da Borgo Y con la roba, né mi posso smuovere per tema ch’ei giunga durante la ricerca, e bla bla bla. Tu ci hai mica uno schizzo?
Pompeo preme d’impeto, la mascelle una morsa, saluta nessuno, senza rimpianti, nel secco, a-affascinato dall’idea del salto nel vuoto e // in odore di vertigine – è in corpo! Sembra troppa anche al corpo, troppa l’agita: l’agitazione // Nel plesso, dolorosa e buia, // un’implosione // Ecco ... // pensa Pompeo
Ma quando? Quanto? Quanso?
Sei pastiglie di un antidolorifico mestruale a desinenza codeinica
(Pazienza 2006: 29-31, 109, 116, 125)
L’ultima didascalia del suo capolavoro Pompeo («Si buttò come fosse stato, all’improvviso, spintonato», ivi: 131) coincide non soltanto con la tragica fine dell’autore, ma anche con il tramonto della penultima generazione fumettistica italiana e, secondo taluni, di un’intera epoca: «Pompeo di Andrea Pazienza è una delle più grandi opere sulla perdita storica e personale che ha travolto la generazione politica del ’77» (Frezza 1999: 198).
Pazienza, Andrea (2006), Pompeo, Roma, Gruppo editoriale L’espresso; Modena, Panini (1a ed. Gli ultimi giorni di Pompeo fino all’estremo, Montepulciano, Editori del Grifo, 1987).
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I classici 2003 = I classici del fumetto di Repubblica, diretto da M.M. Lupoi, parti introduttive di L. Raffaelli, Roma, La Repubblica, 45 voll.
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