moda, linguaggio della
Il perimetro del linguaggio della moda è difficilmente definibile. Il termine moda (dal fr. mode, connesso al lat. modus «maniera») è attestato per la prima volta in italiano nel trattato moraleggiante La carrozza da nolo, ovvero del vestire alla moda (1648) di Agostino Lampugnani. La formazione del linguaggio, però, è da ritenersi anteriore a quest’epoca, dato che del lusso vestimentario si ha attestazione fin dalle origini dell’italiano. L’espressione, inoltre, si adopera sia con l’accezione di linguaggio in uso tra gli addetti ai lavori, sia a proposito delle strategie adottate dai mezzi di comunicazione di massa. Molti vi includono non solo le voci dei prodotti sartoriali ma anche nomi d’operazioni tessili, macchinari, prodotti, ecc. Gli stessi lemmari dei dizionari tecnici risultano notevolmente difformi (Catricalà 20092: 111), anche se tutti includono i nomi degli indumenti, dei tessuti e delle professioni del settore.
Gli studi sulla moda dedicano particolare attenzione alla questione delle fonti, tra cui si annoverano le antiche leggi suntuarie (come la Lex Oppia del 215 a.C.) o le medievali prammatiche del vestire, altri documenti d’archivio, come statuti o testamenti (Levi Pisetzky 2005; Tramontana 1993), nonché opere letterarie (Merkel 1981).
Integrando descrizioni e immagini, i testi iconico-verbali risultano i più adatti allo studio del linguaggio della moda (Danelli 2005: 479). Tra i più antichi si trovano il Libro del sarto d’area milanese, contenente la prima raccolta di figurini (con relative istruzioni: «A far ditta casacca li va braccie tre», c. 71v), e il catalogo Habiti antichi et moderni di tutto il mondo (1598) di Cesare Vecellio. A epoca più recente si ascrivono le riviste di moda (che nel 1920 avevano raggiunto le 70 testate; Carrarini 2003: 797) e i cataloghi di vendita per corrispondenza (Catricalà 2004). I non numerosi studi linguistici sull’argomento (Fiori 1990; Calligaro 1999; Corbucci 2008; Canonica-Sawina 1994: 11-29) si basano sullo spoglio delle riviste proprio per la loro vasta diffusione.
Per lo più trascurate rimangono le fonti sul parlato (nelle sfilate, nei grandi magazzini, ecc.) e quelle trasmesse (in TV, nei film, ecc.). Rimane eccezionale l’esperienza della prima Mostra etnografica italiana del 1911: nel Fondo Loria (ora al Museo delle arti e tradizioni popolari di Roma) furono raccolte centinaia di costumi tradizionali con i relativi nomi locali. In considerazione della storia dialettale della penisola sarebbe molto importante tener conto di questo versante (come sottolineato da Foresti 1978 e Sanga 1986). Di molte forme diatopicamente marcate (come, per es., il napoletano magnosa, il fiorentino fioretto, ecc., per copricapo; Atlante linguistico italiano) è utile tener conto anche per via dei ➔ geosinonimi (per es., grembiule / traversa, ecc.; Simone 2003: 146 e 420). Inoltre, anche se il mondo chic (termine apparso nel 1873) rifugge ora ogni forma di dialettalità, i binomi costume / moda, lessico popolare / aristocratico, e soprattutto uso medio / varietà specialistica sono da secoli compresenti e rilevanti per la funzione identitaria degli abiti (Simmel 1895: 16). Gli studi semiologici, più di altri, hanno approfondito tali aspetti, utilizzando il concetto di vestema «unità funzionale del sistema moda» di Barthes (1967).
La storia linguistica dell’abbigliamento in Italia comincia quando vengono dismesse le fogge tipiche della tradizione romana (toga, stola, dalmatica, ecc.) e giungono via via dal mondo germanico le brachae, dal mondo arabo il ricamo (arabo raqama «scrivere o tessere») e dal regno dei Franchi la camisa. Da allora ogni epoca è stata contrassegnata da una serie di parole chiave.
Col primo millennio appaiono le calzature per uomini poulaine, con punta lunga, e nuove vesti femminili, come la pellanda (detta cioppa nel Sud). Nel 1343, nella Prammatica del vestire, le decorazioni sono stupefacenti: «mantellum drappi rilevati in campo coloris gialli cum uccellinis pappagallis farfallis et rosis albis et vermiliis et aliis multis figuris» (in D’Ancona 1906: 117). A curarle, tra i nuovi artigiani compaiono sarti (dal lat. sarcīre «rappezzare»), setaioli, baldigrari («mercatanti di panni»: GDLI 1961-2002), berrettai, cuffiai, ghirlandai, guantai, merciai, farsettai, marzocchiai, ecc., che usano il nuovo tessuto di fustagno (etimologia incerta, o dal lat. fustis «legno» per la durezza, o nome di un quartiere del Cairo, Fustat: DELI 19992).
Nel Quattrocento si confezionano maniche ad ala, a campana, ecc. (Levi Pisetzky 2005: I, 366), mentre si diffonde l’uso di livrea, broccato (dal lat. broccum «dente sporgente» per i riccioli) e taffettà (dal fr. taffetas, pers. tafta «tessuto»). Tra gli oltre duecento habiti d’Italia del citato catalogo di Vecellio compaiono baschine, calzoni a la galeota, nonché verdugali (dallo spagn. verdugo «boia, giustiziere»), gorgiere e zimarre (dall’arabo sammūr «zibellino»), dette anche vesti alla pretina o alla romana (Vecellio 1590: 52).
Nel Seicento si aggiungono accappatoio e fisciù. Con l’età dei Lumi entrano nel guardaroba maschile marsina (o frac) «giacca a coda di rondine» (dal conte belga F. de Marsin) e redingote (francese, dall’ingl. riding-coat «veste per cavalcare»); in quello femminile tournure, panier e blouse di chiffon.
Con l’unità d’Italia diventano di gran moda smoking (1888: ma gli angloamericani attuali lo chiamano tuxedo; ➔ anglicismi), sottogonna di crinolina (da crine + lino) e rifiniture di percalle. Il Novecento si apre in clima futurista con l’anticravatta in metallo e la tuta di Thayat (1920: da tutta perché è una veste tutta intera, la possono indossare tutti, copre tutta la persona e la T mancante è nella forma dello stesso abito). Meno di cinquant’anni dopo, minigonna e blue jeans (da una distorsione di Genova, essendo fatti di una tela genovese destinata alle vele) aprono la nuova era della moda globale giovanile e, al contempo, della contromoda e dello street style (1994: GRADIT 1999-2007), di grande interesse per i cacciatori di moda (o coolhunters).
L’attuale mappa lessicale della moda suggerisce una serie di itinerari diversi da quello storico-etimologico. Ogni voce può essere collocata, per es., in uno specifico dominio iperonimico (come abbigliamento femminile) o di base (come gonna, pantalone, calza) o iponimico (come gonna a portafoglio, a tubino, ecc.; pantalone jeans, short, palazzo, ecc.; calza collant, autoreggente, calzamaglia, ecc.).
Gli iponimi sono i più esposti al rinnovamento e alla obsolescenza. I termini di base sono usati di recente in composti tipo gonna-pantalone o abito-sottoveste (cfr. altre lingue: ingl. bustier-dress, fr. robe-foulard, spagn. bufanda-capa). Sul piano funzionale, il fenomeno corrisponde alla strategia inventiva che cerca nell’incrocio nuove soluzioni di vestibilità (1971: «proprietà degli abiti di adattarsi a ogni corporatura»); rispetto alla struttura del lessico, la tendenza ha favorito l’apparizione di forme prefissali nuovissime, come panta- (1971: pantagonna; 1997: pantajazz «pantaloni per danza»; GDLI 2004).
Tra i tanti prefissi produttivi non mancano quelli classici come anti- (i tessuti antifiamma, antimacchia, ecc.) o poli- (poliacrilico, poliammide, ecc.), che indicano le qualità dei prodotti trattati chimicamente. Sono presenti anche prefissi con funzione di quantificatore, come mono- o bi- (giacca monobottone; bicorno «cappello a due punte»). A tali forme è stato assimilato bikini «costume due pezzi» (1949, dall’omonimo atollo) a tal punto da coniare retroformazioni, come monokini (1964) e burkini (2009), designante un abito da bagno per donne islamiche, che copre l’intero corpo.
I più diffusi elementi prefissali restano i marcatori connessi a parametri di tipo spaziale: sopra- (sopraveste, soprabito) e sotto- (sottoascella, sottocalza), che continuano gli antichi interulae, soprasberga, ecc., e implicano indicazioni sulla posizione dell’indumento rispetto al corpo o ad altri capi.
Conservano marche spaziali anche le forme del tipo corpetto, colletto, corsetto con suffissi alterativi che, in questo ambito, come in altri, non hanno valore semantico stabile. Compaiono infatti con accezione grande-piccolo (vestito → vestitino / vestitone), con riferimento alla leggerezza (rasato → rasatello, ecc.), all’ampiezza della decorazione (come in rigatino), a processi metaforici (secchiello «tipo di borsa», palloncino «tipo di gonna», tubino, ecc.).
Molto frequenti risultano, inoltre:
(a) nomi derivati in -erìa (< fr. -erie), con valore collettivo, per assortimento di prodotti dello stesso materiale (maglieria) o colore (biancheria, lingeria); nomi in -iera (< fr. -ière) per contenitori (cappelliera; napol. sciffoniera) e per indumenti che coprono una singola parte del corpo (ginocchiera, panciera, ventriera);
(b) denominali e deverbali con ➔ conversione o retroformazione e suffisso del participio passato (borchiato, bottonato, cinzato), cui si connettono molti neologismi in -tura (calandratura 1962);
(c) deverbali a suffisso zero (➔ deverbali, nomi; ➔ deaggettivali, nomi) come rammendo (anche con reimpiego di basi verbali d’uso comune: risvolto o traforo);
(d) composti: verbo + nome (prendisole, reggicalze; con marca spaziale: copricapo, coprispalle); aggettivo + nome (doppiopetto, millerighe); preposizione + nome (senza maniche); due tipi di nome + nome:
(i) calzamaglia o girocollo, con rapporto fra determinato e determinante ben definito;
(ii) abito-mantello, abito-pullover, in cui non sempre il primo elemento specifica la funzione e il secondo la forma (cfr. il citato gonna-pantalone) ed è difficile individuare la testa;
(e) ➔ parole macedonia tecniche, come cafiocco «canapa che sembra cotone» o cashgora < cashmere + angora.
Il gusto per l’esotico ha favorito da sempre la diffusione internazionale di molti toponimi indicanti una varietà di oggetti:
(a) tessuti (Battisti 1946), dall’Estremo Oriente: nanchino, pechino; dall’India: bengalina, cachemire, madopalan; dal mondo arabo: damasco, mussola (➔ arabismi); dalla Svizzera: pizzo sangallo; dalla Francia: denim e tulle, ecc.;
(b) capi di abbigliamento: sahariana, bermuda, cappelli come basco, fez, panama, ecc.;
(c) cromonimi: dal medievale veneto per «azzurro» (Levi Pisetzky 1995: 72) all’Ottocento colore del Nilo per «pallido verde-blu» (Sergio 2007: 258).
Non meno frequenti gli eponimi derivati da personaggi storici (camicia alla garibaldina), militari famosi (montgomery, raglan), inventori (jacquard, mercerizzato < Mercer), industriali (borsalino, reps), nobili (cardigan, marsina), maschere (pantalone), figure teatrali (fedora), letterarie, di fantasia e cinematografiche (berretto alla Peter Pan), protagonisti del mondo della musica (giacca Michael Jackson), stilisti (abito sorelle Fontana, ecc.). Non mancano, però, capi di abbigliamento con nomi comuni, come pellegrina. Tali nomi, che si sono aggiunti numerosi a quelli studiati da Migliorini (1927), nel linguaggio della moda accentuano la funzione dell’abito di trasformare e mascherare il corpo (Flügel 1930). Le metafore possono essere classificate in base al dominio interessato: artefatti (manica a palloncino, pigiama palazzo); commestibili (abito a uovo); piante (abito tulipano, gonna a corolla, manica a calla); fenomeni naturali (abiti a onde, ad arcobaleno, a cascate); animali (pantaloni a zampa d’elefante, tasca canguro; con allitterazione gilet giraffa, da Parigi nel 1827; Levi Pisetzky 1995: 304).
Le denominazioni metonimiche (oltre a quelle che trasferiscono il nome del tessuto al capo d’abbigliamento: canna, felpa, paglietta, ecc.) valorizzano uno specifico tratto relativo al modo con cui sono percepiti alcuni elementi. È il caso delle onomatopee: frou-frou «tipo di guarnizione» (in area meridionale anche biscotto wafer: DISC 1997) o zip; e quello dei tessuti lucidi: dall’antico lampasso «tessuto con fili argentati» (forse dal gr. lámpō «brillare») si arriva al novecentesco rayon, adottato negli anni Trenta del XX secolo per evitare l’ingannevole dicitura seta artificiale. Il termine, criticato da Meano (1936: 313-314) secondo i dettami puristici dell’Ente nazionale della moda, riscosse grande successo per la sua forza evocativa.
Parole straniere e forme esotiche, conservate nella struttura originaria per enfatizzare l’idea di ricercatezza e rarità dei manufatti, costituiscono una parte rilevante del lessico della moda. Il primato spetta al francese, anche nell’Ottocento e nel Novecento (Rüfer 1981; ➔ francesismi). Lo testimonia la locuzione haute couture che, con alta moda, mannequin e modella, défilé e sfilata, è entrata nell’uso dal secolo scorso. Il trattamento del francesismo è stato vario e continua ad essere alterno nelle forme di assimilazione grafica e fonetica (per es., cretonne / creton, gilet / gilè, tutu / tutù) e morfologica (per es., griffato).
Per quanto il francese sia sempre diffuso nelle riviste di maggior prestigio, nella pubblicistica dedicata a un pubblico più giovane il processo di anglicizzazione si sta manifestando con incidenza sempre maggiore. Molti ➔ anglicismi, infatti, presenti nel lessico di base, non hanno una corrispondente forma italiana e sono in effetti favoriti dallo status di internazionalismi: baby doll, body, patchwork, pullover, slip, T-shirt. Di solito, l’aspetto grafico rimane invariato e il genere viene stabilito con riferimento a quello della parola italiana approssimativamente o idealmente corrispondente (per es., la clutch, ovvero la borsetta senza manici). Anche l’adattamento di termini provenienti da altre lingue segue principi analogici, per es. nell’attribuzione del genere con i morfemi flessivi della nostra lingua: il kimono, ma una pashmina «tipo di sciarpa» (1997, dal panjabi pashmina «lana»). L’italiano non compare solo come recipient language, ma anche come donor language (DIFIT 2008), data la diffusione di ➔ italianismi vestimentari oltre confine (da dolce vita a ballerina a capri pants).
Nell’ambito della morfologia si manifesta un alto livello di libertà. Esso si riscontra nel metaplasma di genere delle forme con suffissi alterativi, che raramente va dal maschile al femminile (mantello → mantellina); più spesso, dal femminile al maschile (borsa → borsello; giacca → giaccone / giacchetto / giacchettino). Si riscontra anche nei nomi che De Mauro (2005: 100) chiama aggettivogeni, come abbigliamento donna, abbigliamento bambino.
Il fenomeno degli aggettivogeni è coerente con la prevalente tendenza del linguaggio della moda ad adottare nella sintassi clausole giustapposte per accumulazione e strutture elencative e nominali. Il tratto è proprio delle didascalie nei servizi fotografici, ma si è diffuso anche in articoli e cartelle stampa. Nelle polirematiche (➔ polirematiche, parole), infine, oltre che l’➔ apposizione spesso anche mistilingue (linee slim, fantasie tartan), rimangono frequentissime e continuano a generare neologismi la costruzione nome + aggettivo (lana pura, linea impero), quella nome + da + nome (abito da sera, pantaloni da odalisca) e quella francesizzante con la prep. a (giacca a vento; oltre quelle metaforiche citate come lavare a secco, gonna a tre teli).
La moda attinge alla lingua comune per ridare significati alle forme dell’uso quotidiano e impiegarle come tecnicismi: armatura indica, per es., la disposizione con cui i fili dell’ordito s’intrecciano con quelli della trama. Anche con altri settori specialistici si hanno vari esempi di osmosi: da quello militare: sfilata; da quello gastronomico: cappello pan di zucchero; da quello enologico: vintage; da quello sportivo: golf e polo.
In direzione opposta, il vocabolario della filatura ha dato un contributo rilevante e pervasivo a ogni ambito del sapere: si pensi a tessuto, che (come il fr. tissu, l’ingl. tissue, lo spagn. tejido, il ted. Gewebe, ecc.) indica dall’Ottocento ogni «struttura vegetale o animale composta da cellule» (tessuto epiteliale, tessutoterapia) o ai trasferimenti di cui non abbiamo più memoria (come, per es., lenza, che anticamente era la tela di lino).
Sono molte anche le voci del linguaggio della moda che, per la natura prototipica del vestirsi, vengono a formare costruzioni idiomatiche, come ➔ modi di dire e ➔ proverbi. Si hanno costruzioni con verbo transitivo a un argomento (prendere il velo); con verbo transitivo a due argomenti (dare i calzoni alla moglie); con verbo intransitivo (nascere con la camicia); costruzioni nominali come tanto di cappello o filo del discorso. Molte espressioni cadono rapidamente in disuso: avere appena smesso i pantaloni corti, per es., non significa più nulla, perché i pantaloni lunghi non indicano più il passaggio dall’infanzia all’adolescenza, come è stato fino agli anni Sessanta del secolo scorso.
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