Liturgia
di Jean Leclercq
Liturgia
sommario: 1. Introduzione. 2. Liturgia e scienza liturgica. 3. Liturgia e storia. 4. Liturgia e teologia. 5. Liturgia e scienze umane. 6. Liturgia e linguistica. 7. Liturgia e missionologia. 8. Liturgia ed ecumenismo. 9. Liturgia e incontro delle religioni. 10. Liturgia e politica. 11. Liturgia e arte. 12. Liturgia e musica. 13. Secolarizzazione e celebrazione. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Nella storia della liturgia cristiana il XX secolo figurerà senza dubbio, e anzi già figura, come il più importante dopo il I: allora, infatti, la liturgia cominciò a esistere; nel nostro, invece, si trasforma in modo assai più profondo di quanto non abbia mai fatto nel passato, pur conservando i suoi caratteri essenziali e costitutivi. Come indica il termine stesso (derivato da una parola greca), la liturgia è un ‛servizio' che la Chiesa rende a Dio sotto forma di culto; in un'epoca in cui la Chiesa e la società umana nella sua globalità sono soggette a mutamenti che non trovano precedenti nell'era in cui viviamo, anche se il mistero cristiano e la natura umana non hanno subito modifiche radicali, è naturale che la concezione e l'espressione di un culto, immutato nella sua essenza, assumano forme sino a quel momento sconosciute. Ne scaturisce una serie di problemi non soltanto nuovi, e numerosi, ma tra loro connessi: ormai ogni discorso sulla liturgia deve necessariamente richiamarsi a diverse discipline. Esse saranno dunque qui interrogate, una dopo l'altra, in merito ai problemi che la liturgia pone, oggi e per il futuro.
2. Liturgia e scienza liturgica
Da quando la liturgia viene studiata con metodo scientifico, cioè soprattutto a partire dal sec. XVII, essa è stata essenzialmente oggetto di ricerche storiche. Così è stato fino agli anni trenta. E indicativo che la più ampia enciclopedia allora pubblicata sull'argomento portasse il titolo Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie: il concetto di liturgia era collegato a quello di passato. M. Audrieu, uno dei più eminenti eruditi in questa materia, evitava qualsiasi considerazione di carattere dottrinale; successivamente, sotto l'influenza di autori come A. Baumstark, studioso di ‛liturgia comparata', e come R. Guardini, L. Bouyer, J. Daniélou o, fra gli anglicani, G. Dix, la scienza liturgica allargò il suo orizzonte fino a includervi tutto quello che, nella vita della Chiesa, ha rapporto con il culto: predicazione, pratica della vita cristiana, attività pastorale e, soprattutto, teologia della Chiesa stessa e dei misteri che essa celebra, in particolare l'eucaristia, gli altri sacramenti, e le feste. Tale disciplina è ormai costituita e viene largamente studiata.
Essa assolve ora una funzione nella vita della Chiesa, svolge un ruolo nell'evoluzione stessa della liturgia. E tale funzione consiste nel formulare un giudizio critico su quel che la liturgia è, in una data epoca, e sul suo divenire. L'esercizio di questa funzione critica ha preparato la riforma attuata dal Concilio Vaticano II, che ne ha riconosciuto la legittimità: i liturgisti hanno posto in evidenza ciò che vi era di inadeguato nella precedente pratica del culto, hanno indicato le vie del rinnovamento; l'autorità ha fatto ricorso alla loro competenza. Essi, di concerto sia con la gerarchia ecclesiastica sia con il popolo cristiano, devono continuare a formulare giudizi su quel che viene realizzato al fine di migliorarlo incessantemente.
Per essere in grado di assolvere il loro compito, essi debbono ricorrere in primo luogo alla teologia, che offre loro sicuri criteri di interpretazione; in secondo luogo alla storia che consente loro di collocare l'odierno indirizzo riformatore in rapporto alla tradizione; poi alla esegesi del Vecchio e del Nuovo Testamento e alla patristica, poiché il culto attinge largamente da queste ‛fonti cristiane', cioè la Bibbia e le opere dei Padri della Chiesa. Ma debbono anche richiamarsi a scienze la cui applicazione in questo campo è nuova: in particolare alla psicologia, alla sociologia e alla fenomenologia. Quest'ultima descrive l'essere dell'uomo nella sua concreta situazione storica, nel suo Dasein, come si dice in tedesco; cerca di trovargli un senso, un orientamento in base alle sue aspirazioni più profonde, a un livello in cui si colloca l'esperienza del sacro: il problema dei rapporti fra il profano e il sacro sottenderà tutto quello che d'ora in poi verrà detto a proposito della liturgia nel nostro secolo.
3. Liturgia e storia
Allo studio di ciò che la liturgia è stata nel passato si è sempre lasciato, nella riflessione avente per oggetto il culto cristiano, un posto di primaria importanza (importanza che talvolta fu anche eccessiva, nella misura in cui fu esclusiva, o quasi): la storia, in questo settore, ha fornito materia a innumerevoli studi di carattere generale e a numerosi lavori di tipo monografico. E qui necessario ricordare almeno brevemente un capitolo di questa lunga storia, perché esso chiarisce il modo in cui si pongono oggi i problemi di teologia della liturgia: è il capitolo che riguarda il sec. XX sin dai suoi inizi. Durante il Medioevo, il culto cristiano aveva assunto la forma di una ‛liturgia clericale', nel senso che solo, o quasi, un'élite culturale, composta di chierici e monaci, era in grado di comprenderne il significato ed esercitava un ruolo nella sua evoluzione. I protestanti del sec. XVI avevano criticato questo stato di cose. La riforma cattolica, alla quale rimane legato il nome di san Pio V, aveva portato soprattutto a fissare e uniformare testi e riti che subivano continue variazioni a seconda dei tempi e dei paesi, senza tuttavia contribuire in misura notevole a un effettivo inserimento della pratica liturgica nella vita quotidiana del popolo cristiano: alcune ‛devozioni' si erano quindi sviluppate al di fuori della liturgia. Nel sec. XIX dom Guéranger, abate del monastero benedettino di Solesmes, in Francia, dal 1837 al 1875, ebbe il merito di porre in evidenza con le sue opere il posto centrale che spettava al culto nella vita della Chiesa; ciò facendo egli si era prefisso di restaurare un passato, d'altronde ancora poco conosciuto, e di vedere nella liturgia di Roma l'unico modello di manifestazione della vita cultuale.
Questo religioso e altri aprirono la via all'opera di san Pio X, che, in un famoso Motu proprio del 22 novembre 1903, dichiarò che ‟la partecipazione attiva dei fedeli ai misteri cristiani" era la ‟fonte primaria e indispensabile dello spirito cristiano". Sei anni dopo, un benedettino belga, dom L. Beaudouin, dichiarava: ‟Bisognerebbe democratizzare la liturgia". Egli stesso e altri, in particolare I. Herwegen, dal 1913 abate di Maria Laach, I. Schuster, abate di San Paolo fuori le Mura, poi P. Parsh in Austria, O. Casel in Germania, realizzarono e promossero nella prima metà del sec. XX un vasto sforzo di ricerca in tre settori: quello della conoscenza storica, quello della riflessione teologica, e quello del contributo che la celebrazione del culto apporta alla funzione pastorale che la Chiesa esercita nei confronti dei fedeli. Nel 1943, su iniziativa del domenicano P. Duployé, veniva fondato in Francia un Centre de Pastorale Liturgique.
Quello che allora si chiamava ‛movimento liturgico' si andava intensificando e sviluppando in Spagna, in Italia, negli Stati Uniti, in Brasile e in molti altri paesi. Innumerevoli pubblicazioni, di carattere erudito o divulgativo, facevano conoscere i risultati di tutti questi lavori, i problemi e le soluzioni che si cercava di dare. Nel 1956 ebbe luogo ad Assisi il primo Congresso internazionale di pastorale liturgica. Già da parecchi anni la Santa Sede aveva cominciato a modificare talune pratiche desuete, rinnovando, per esempio, la veglia pasquale. Gli studi eruditi del gesuita J.A. Jungmann, del benedettino B. Capelle e di altri, hanno fornito una guida illuminante su questo tema. Un'opera pubblicata per la prima volta in francese nel 1961, e da allora continuamente ristampata e tradotta in altre lingue, ha costituito una summa di questa scienza storica della liturgia. Il titolo dell'opera è L'Église en priére. Introduction à la liturgie. E stata redatta da un gruppo di eminenti studiosi, diretti da A. G. Martimort che doveva svolgere un ruolo fondamentale nella redazione della Costituzione del Concilio Vaticano II sul rinnovamento della liturgia.
La convergenza di tutti questi sforzi portò, infatti, alla stesura di questo testo, promulgato nel 1963. Successivamente un comitato esecutivo, denominato Concilium, ricevette dalla Santa Sede l'incarico di preparare nuovi testi per tutte le manifestazioni della vita cultuale; in una decina d'anni l'opera è stata quasi interamente portata a termine. All'inizio degli anni settanta si potè cominciare ad apprezzarne gli aspetti positivi e i limiti. Il Concilio aveva riconosciuto la legittimità di riti diversi, l'esigenza di un certo decentramento, la necessità di una concezione teologica fondata sulla Scrittura e sulla tradizione. In realtà taluni lamentano che la parte affidata alle ‛sperimentazioni' non abbia avuto spazio e tempo sufficienti. Come in tutti i periodi di transizione, i ‛progressisti' si oppongono ai ‛conservatori'. Ma la ricerca prosegue, e l'opera immensa già realizzata, nonostante le notevoli difficoltà, permette di discernere in quale direzione proseguirà l'evoluzione.
4. Liturgia e teologia
Durante il sec. XX nell'elaborazione di una teologia della liturgia hanno fatto epoca tre opere che si sono sviluppate secondo una medesima direzione pur completandosi e perfezionandosi a vicenda.
La prima fu quella del benedettino tedesco O. Casel, morto nel 1948. Egli pose l'accento sul fatto che il culto è un'‛azione' che rende ‛presente' un ‛mistero': un evento che ha realizzato la salvezza viene attualizzato in un rito; il culto cristiano è partecipe della storia della salvezza nel senso che la continua e rende la salvezza stessa realmente presente là dove il culto viene celebrato. Questi concetti fondamentali furono ulteriormente sviluppati e suffragati con argomentazioni di carattere filologico e dottrinale che diedero adito a discussioni. Ma, saldamente fondati sulla tradizione patristica, a poco a poco si imposero.
Sta di fatto che se ne ritrova l'essenza nell'opera liturgica di Pio XII, e in modo particolare nella sua enciclica Mediator Dei, pubblicata nel 1947. Questo documento costituiva la prima sintesi dottrinale presentata dal magistero romano in merito alla liturgia. Malgrado le imperfezioni, che non si è mancato di rilevare, sul piano dell'informazione e sulla riflessione che ne derivava, esso impose all'attenzione il fatto che il culto deve essere studiato da un punto di vista non giuridico o estetico, ma teologico. Esso dava questa definizione: ‟La liturgia è il culto pubblico che il nostro Redentore, capo della Chiesa, rende al Padre Celeste, e che la comunità dei fedeli rende al suo fondatore, e, per suo tramite, al Padre". La liturgia viene presentata come ‛la continuazione ininterrotta' del culto che Cristo ha reso al Padre durante la sua vita terrena: per mezzo della liturgia la Chiesa, comunità che ha per fine primo il culto, rende Cristo ‛presente' fra gli uomini nei suoi ‛misteri'. Nell'enciclica, così come nelle opere di Casel, viene posto l'accento sull'‛azione' cultuale nella quale il Corpo partecipa a questa salvezza realizzata dal Capo. Tuttavia, Pio XII insiste, in modo da molti ritenuto eccessivo, sul ruolo ‟dei sacerdoti, degli altri ministri e dei religiosi deputati a questa funzione, che esercitano il culto in nome della Chiesa". L'ulteriore progresso da realizzare era quello di mostrare che tutti i membri del popolo di Dio partecipano in egual misura, anche se in maniera diversa, alla celebrazione del mistero liturgico.
Doveva esser questo uno dei principali apporti del Concilio Vaticano II. Successivamente alla Mediator Dei, Pio XII promulgò alcuni altri documenti che diedero l'avvio alla riforma della liturgia romana in una prospettiva pastorale. Ma si dovette attendere il Concilio perché fosse intrapreso un rinnovamento coraggioso, prendendo le mosse da una teologia fondata ancora sul concetto, tradizionale ma approfondito, della ‛presenza del Cristo operante'. Fin dalle prime pagine della Costituzione Sacrosanctum Concilium (SC) l'atto di culto è presentato come il momento della ‟storia della salvezza" in cui viene attualizzata l'opera della nostra redenzione, in modo tale che attraverso essa il mistero di Cristo e la stessa autentica natura della Chiesa si esprimano nella vita e si manifestino agli altri" (SC2). La parte successiva del documento non fa altro che sviluppare questa definizione e trarne le conseguenze.
In quanto azione di Dio fra gli uomini, la liturgia è un annunzio profetico dell'amore eterno che si comunica nella salvezza; costituisce anzi il momento ultimo, definitivo e, in tal senso, escatologico, di questa storia: insegna il senso di quel che fu predisposto sotto l'Antica Alleanza e che si è compiuto nel Cristo, di quel che viene continuato nella Chiesa e si concluderà nella gloria del Regno. Essa realizza la santificazione degli uomini attraverso un insieme di segni e in virtù della proclamazione della parola di Dio. Per questo comporta essenzialmente letture tratte dalla Bibbia, il cui scopo non è solo quello di istruire i fedeli, ma di rendere presenti in mezzo a loro i misteri di cui quei testi parlano. Per lo stesso motivo l'omelia viene rivalorizzata come inerente al mistero eucaristico, come elemento necessario dell'azione liturgica, e deve consistere nel commento dei passi della Scrittura letti di volta in volta ai fedeli. In primo luogo è necessario che il testo venga compreso: la sostituzione delle lingue viventi al latino è nella logica di questa riforma, e ha suscitato una nutrita corrente di riflessioni teologiche sul ruolo della predicazione e sul modo in cui deve essere tenuta.
Dato che la redenzione è l'elemento centrale della salvezza, quindi della liturgia, al mistero pasquale viene nuovamente dato risalto, e il calendario deve essere modificato allo scopo di far meglio comprendere che tutto il ciclo della storia umana e dell'anno cristiano porta alla Pasqua e da questa è illuminato. Questo vale anche per tutti i testi che esplicitano il contenuto dei riti e dei sacramenti. E a questa manifestazione di amore proveniente da Dio deve corrispondere l'amore dell'uomo che, liberamente, accetta di credere al mistero, vi partecipa attivamente, consente che tutta la sua esistenza ne sia pervasa.
La grande innovazione della costituzione conciliare è consistita in un ritorno all'ecclesiologia della tradizione antica ponendo in luce che l'azione liturgica non è soltanto opera di sacerdoti, di ministri o di persone delegate a tale compito in nome degli altri cristiani: ‟Le celebrazioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è sacramento di unità, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei vescovi. Perciò tali azioni appartengono all'intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; tutti i membri vi sono impegnati in diverso modo, secondo le diversità del loro stato, delle loro funzioni e della loro attiva partecipazione" (SC26). In realtà il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano, ‟sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché entrambi, ognuno a suo modo, partecipano dell'unico sacerdozio di Cristo" (Costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa, n. 10). Tutta l'ecclesiologia che era implicita nella Costituzione sulla liturgia, la prima promulgata dal Concilio, venne sviluppata dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa; la riforma globale della liturgia, che fece seguito al Concilio, ne costituì la realizzazione concreta. Non si è ancora finito di trarne tutte le conseguenze di ordine pratico e dottrinale: il Vaticano II ha provocato un profondo rinnovamento della teologia della liturgia.
5. Liturgia e scienze umane
Una fra le conquiste della teologia della liturgia durante il XX secolo, conquista che fu anche sancita dal Concilio Vaticano II, è stata la rivalutazione del fatto che il popolo di Dio deve partecipare attivamente alla celebrazione del culto. Ammesso questo principio, è compito delle scienze umane studiare come potrà esser tradotto in pratica: l'autorità, che aveva il potere di ribadirne la validità, non può imporne le applicazioni concrete senza tener conto dei criteri oggettivi che possono essere forniti dalle discipline che studiano il comportamento umano. Questo in particolare è compito della psicologia che cerca di far conoscere l'uomo fin nei suoi strati psichici più profondi, e della sociologia che analizza i comportamenti collettivi: e ciò in quanto la celebrazione impegna totalmente l'individuo ed è anche un'attività di gruppo. Prima degli anni settanta, il problema dei rapporti tra psicologia e sociologia da un lato e liturgia dall'altro non era stato affrontato che raramente, anche se dal 1936 al 1938 era uscita negli Stati Uniti una rivista dal titolo ‛'Liturgy and sociology". Oggi tale problema costituisce oggetto di indagini dalle quali si possono ragionevolmente attendere molti risultati interessanti.
La principale difficoltà consiste nel fatto che la liturgia coinvolge elementi di natura diversa: si tratta di stabilire dei rapporti con Dio e al tempo stesso con gli uomini; di celebrare un mistero ricevuto per via di rivelazione e comunicazione divine, e che un'istituzione, la Chiesa, deve trasmettere fedelmente, e tale celebrazione ha luogo in una comunità di esseri umani, tra i quali crea una forma di comunione religiosa e spirituale di ordine interamente diverso da quello dei normali rapporti che gli uomini possono intrattenere tra loro. Questa realtà si compie nel tempo e nello spazio pur trascendendoli; viene ricevuta attraverso una tradizione che si sviluppa nel corso della storia e che, tuttavia, non è unicamente il prodotto di una crescita dell'umanità. Vi è continuità del contenuto essenziale, ma anche evoluzione di forme esteriori che possono giungere non soltanto a non manifestare più il mistero, ma addirittura a nasconderlo agli occhi degli uomini, anche se credenti. Quel che era destinato a tutto il popolo dei fedeli può sia degradarsi fino a divenire null'altro che una manifestazione folcloristica più vicina alla superstizione e alla magia che a un culto autentico, sia limitarsi a soddisfare le aspirazioni dottrinali e intellettuali o le forme estetiche di una sorta di aristocrazia. Spetta dunque a una corretta applicazione dei metodi psicosociali stabilire come si possa celebrare il mistero cristiano in ciascun insieme di gruppi umani, conformemente al loro tipo di cultura.
A questo riguardo, in molte parti del mondo d'oggi bisogna tener conto di parecchi elementi nuovi rispetto a tutti i secoli precedenti. La popolazione tende a concentrarsi nelle città; come assicurare contatti religiosi tra i singoli, in questa nostra vita di massa, in questa nostra società industriale? Contro la civiltà tecnocratica, generatrice di immensi complessi ove le macchine, soprattutto elettriche ed elettroniche, assolvono tante funzioni, si viene affermando una reazione che favorisce la formazione di ‛gruppi primari', cioè ristretti, che non coincidono più necessariamente con quelli che costituivano, per esempio, la famiglia, la piccola parrocchia, la corporazione locale di coloro che esercitavano la medesima professione. Si realizza un livellamento sociale, mentre al tempo stesso si introducono nuove differenze, dovute più alla specializzazione delle occupazioni che all'ineguaglianza delle condizioni. Come conciliare, nelle riunioni liturgiche che si svolgono in tali circostanze, l'anonimato di molti cristiani nei confronti della maggior parte degli altri con le comunicazioni interpersonali nelle quali si esprime la comunione in uno stesso mistero? Nuove rappresentazioni collettive della società non potranno mancare di esercitare un'influenza sulle comunità riunite in preghiera. I mezzi di comunicazione di massa possono offrire un valido contributo in questo campo. Inoltre la mentalità tecnica determina l'adozione di certi simboli, e di conseguenza la costituzione di certi riti. Il ruolo del ministro del culto ne risulta modificato.
Già le ‛messe di gruppo' o ‛messe di comunità', così come altre assemblee ristrette dello stesso tipo, segnano un progresso nella ricerca di questo accordo tra psicologia di gruppo e celebrazione di gruppo. Altri esempi sono le ‛messe dei ragazzi', le cerimonie riservate a una famiglia o a un gruppo di famiglie. Molti pensano che finora il modo in cui viene diretta e controllata l'applicazione dei principi enunciati dal Concilio Vaticano II non abbia ancora concesso alle indagini e agli esperimenti una sufficiente libertà, tale da consentire una riforma, adeguata ai bisogni del nostro tempo, e un autentico rinnovamento. Si devono intensificare gli sforzi in vista di un sano pluralismo, che non arrechi alcun pregiudizio all'unità della Chiesa, di una maggiore responsabilità lasciata alle comunità e ai loro pastori, di una maggiore armonia tra la vita reale e il culto che la santifica.
6. Liturgia e linguistica
Lo studio della funzione del linguaggio nella liturgia è un nuovo settore aperto alla ricerca dai progressi della scienza liturgica e della linguistica. Quest'ultima, essendo una disciplina di formazione indubbiamente più recente della prima, ancora non offre risultati definitivi, tanto più che i suoi cultori l'affrontano secondo metodologie diverse e talvolta tra loro divergenti. Comunque è stata a poco a poco riconosciuta la necessità che i liturgisti la conoscano e ne utilizzino i risultati, anche se provvisori, e questo incontro tra le due discipline consente di formulare più chiaramente taluni quesiti, e di tentare, per darvi una risposta, degli esperimenti orientati utilmente allo scopo. Che cosa ‛dicono' all'uomo d'oggi, cioè cosa ‛significano' realmente per lui la Bibbia e i testi tradizionali nei quali si è espressa la fede cristiana? E pertanto quale uso se ne può fare nel culto, che celebra i misteri di cui parlano queste opere, in particolare in quest'epoca di ecumenismo, in cui chiese diverse si sforzano di capirsi per trasmettere un medesimo messaggio?
La prima distinzione che bisogna fare in questo campo è tra ‛lingua' e ‛linguaggio': ‛lingua' si riferisce all'impiego delle parole, ‛linguaggio' ha un significato assai più ampio, comprendendo, oltre alla lingua parlata, il rituale, gli atti e i simboli che esprimono l'esperienza umana nella sua globalità. L'analisi linguistica dell'una e dell'altra di queste due realtà mette in luce che sia la lingua che il linguaggio devono essere chiari e non ambigui, e al tempo stesso devono ammettere una certa elasticità che permetta loro di passare da una realtà all'altra, o di tradurre diversi aspetti apparentemente contraddittori di un medesimo dato complesso: così Dio è al tempo stesso trascendente e immanente, impassibile e amoroso, ineffabile e purtuttavia oggetto della parola umana. Ora nella liturgia, a prescindere dalla teologia o da altri settori dell'attività religiosa, il linguaggio deve essere concreto e non astratto, perché deve scaturire dall'esperienza vissuta dalle comunità, rispondere alle esigenze e possibilità dell'esperienza stessa: deve tradurre un'‛esperienza totale', non di individui ma di collettività raccolte in assemblee di preghiera. Inoltre, esso deve conservare integralmente la rivelazione trasmessa da Dio agli autori antichi, e tuttavia in modo che sia compreso dagli uomini di oggi, che vivono in culture diversificate, le quali hanno però in comune la caratteristica di essere assai lontane da quelle di un tempo. In una stessa società esso deve poter essere ‛significante' sia per i fedeli abituati alle nuove forme delle scienze, delle tecniche, dell'economia, della politica, sia per i lavoratori dediti all'agricoltura o ad altre attività, che vi sono meno preparati. Pur essendo esatto, conforme ai dati della fede, il linguaggio liturgico deve evitare di essere teorico o speculativo, come può esserlo quello degli specialisti in teologia. Al fine di esprimere la partecipazione di una comunità a un mistero, esso deve far ricorso non soltanto a un ‛vocabolario', ma anche a modi di espressione diversi dalle parole: a gesti, a segni, a canti, a simboli di vario tipo. Deve scaturire da quel che oggi si chiama una ‛situazione di scambio' e offrire ad essa il suo contributo: ora questa situazione è sempre specifica, e circoscritta a un gruppo; ma nel culto cristiano questo gruppo partecipa a un mistero universale, è in intima e reale comunione con tutti coloro che egualmente vi partecipano. Il linguaggio liturgico può essere un misto di paradosso e di poesia corrispondente alle diverse esigenze che deve conciliare. Ma non può mai fare astrazione dal discorso o dal dialogo che intercorre tra Dio e degli esseri umani e da quello che intercorre tra questi ultimi. E poiché ciascuno è ‛un essere di questo mondo', il suo modo di parlare a Dio e di Dio deve al tempo stesso rapportarsi al suo essere unico, al mondo di cui fa parte, e a Dio verso cui si impegna con tutto se stesso. I partecipanti non sono spettatori, ma attori; bisogna che vi sia tra loro un'autentica ‛comunicazione', il che presuppone un ‛condividere' la cui espressione sia accessibile a tutti coloro fra i quali esso si instaura.
Bisogna che la partecipazione di tutti a una medesima ‛esistenza totale' creata dallo Spirito di Gesù Cristo risorto traspaia dal loro ‛discorso', e di conseguenza dal loro ‛linguaggio'. Bisogna che la Rivelazione abbia un significato per ogni comunità raccolta in un dato luogo e in un dato tempo. Bisogna che ognuno sia certo di ascoltare la parola di Dio, e non una parola umana, anche se espressa in versetti biblici, e che ogni fedele sia certo di rivolgersi a Dio, non solo a se stesso o ad altri uomini. In questa conversazione tra Dio e una comunità umana, il silenzio avrà un ruolo insostituibile: sarà il momento in cui verrà espresso l'inesprimibile, diventerà una forma necessaria di lode in conformità alla formula tradizionale: Tibi silentium laus. Non consisterà solo nell'astenersi dalla parola; sarà un atteggiamento totale di presenza al mistero e di rispetto per ciò che, in esso, trascende l'uomo. Quanto al linguaggio adottato, esso dovrà essere al tempo stesso quello della vita abituale e quello del culto: dovrà ‛dire' qualcosa nella vita quotidiana, dare un significato all'esistenza ‛secolare' di tutti i giorni, introdurvi una speranza. Dovrà dunque evitare ogni forma di esoterismo, e anche qualsiasi volgarità; dovrà avere piuttosto le caratteristiche della lingua parlata che quelle della letteratura, cioè della lingua scritta.
Come si vede, la creazione di un linguaggio liturgico adatto al nostro tempo pone alla linguistica problemi nuovi per questa scienza, essa stessa ancor giovane. E necessario un periodo di ricerche, di discussioni, di sperimentazioni, dopo il quale si può prevedere che il culto sarà dotato di mezzi di espressione meno legati a una cultura intellettualistica, clericale, ereditata dal passato, e più vicini a una cultura popolare adeguata a ciascun paese, a ciascun complesso umano, nel mondo di oggi e di domani.
7. Liturgia e missionologia
Uno dei settori nei quali più sensibile è stata la trasformazione della liturgia cristiana a partire dalla metà del sec. XX è stato quello dell'esercizio del culto nei paesi detti ‛di missione', cioè nei luoghi in cui la fede è stata introdotta, quando ancora non vi era conosciuta, da missionari, inviati da Chiese già esistenti in altre parti del mondo. Vi sono state missioni di questo tipo tra i cattolici, gli ortodossi, gli anglicani, i riformati di diverse denominazioni. Quasi ovunque furono semplicemente importate le forme che il culto aveva assunto negli antichi paesi cristiani d'Europa e nelle loro propaggini occidentali, quali i paesi del Nordamerica. Queste forme erano strettamente connesse alle culture del mondo mediterraneo e delle regioni limitrofe. Come fare, ci si è finalmente chiesti, per rendere ovunque presenti il messaggio e il culto cristiani adattandoli alla particolare cultura di ciascuna parte del mondo? Si è delineato un processo evolutivo che comportò due fasi, entrambe necessarie. All'inizio si parlò di ‛adattamento' della liturgia alle diverse culture, e tale processo assunse sia il nome generico di ‛indigenizzazione' sia quelli più specifici di ‛africanizzazione', ‛malgascizzazione', ‛induizzazione', ecc. Ma un simile procedimento implicava la permanenza di forme cultuali che ci si contentava di ‛adattare' alle nuove situazioni. In un secondo tempo si è giunti a pensare che si trattava piuttosto di creare nuove forme cultuali muovendo da quelle già esistenti in ciascun tipo di civiltà, con il partire, ad esempio, dalla natura specifica della cultura africana (‛africanità'), al fine di innestarvi la celebrazione del mistero cristiano: questa realtà di carattere universale doveva assumere espressioni differenti nelle diverse culture. Tale sforzo inventivo, che continua tuttora, ha già dato dei risultati. Una data di estrema importanza, in questo processo evolutivo, è stata quella della Settimana internazionale di studi sulla liturgia e le missioni, che si è tenuta a Nimega nel 1959, e i cui atti sono stati pubblicati in un volume che ebbe una profonda eco fra i missionologi e i liturgisti. Ventotto conferenzieri cattolici, provenienti da ogni parte del mondo, affrontarono in quell'occasione tutti gli aspetti del problema ora formulato. Le conclusioni cui pervennero e le proposte ivi presentate sono state successivamente superate, specialmente per l'azione stimolante esercitata dal Concilio Vaticano II. Comunque gli orientamenti che essi avevano formulato si rivelarono determinanti. Non potendoli riportare tutti in questa sede sarà sufficiente ricordare i principali.
Taluni problemi sono di carattere generale e si pongono ovunque. Il primo consiste nel restituire all'eucaristia il posto assolutamente centrale che le compete, mentre spesso e stata attribuita a devozioni o a pratiche secondarie importanza maggiore di quanta ne meritino. Si tratta di dare alle forme della celebrazione di questo mistero, come di tutti gli atti del culto, delle radici che si accordino all'ambiente, alle tradizioni, alle consuetudini della vita sociale e politica di ogni popolo. Almeno nella stessa misura che per le iniziative di ‛sviluppo' (le quali richiedono costruzioni, opere di assistenza e altre attività umanitarie di cui ugualmente si occupano altri organismi), bisogna rendere manifesta la presenza di Gesù Cristo e l'efficacia, a volte umile e nascosta, della salvezza che egli ha portato e che il culto annuncia e realizza in modo eminente. E indubbio che all'interno di una stessa unità di fede è sempre esistita una diversità di osservanze, di riti e di linguaggi. Tuttavia bisogna riconoscere che l'uso del latino nel culto ha costituito in tutti i paesi un serio ostacolo alla comprensione della liturgia, e pertanto all'annuncio del messaggio cristiano. Questo ostacolo è ormai rimosso. In tutto questo lavoro di creazione di liturgie conformi allo spirito dei diversi popoli, la gerarchia locale deve esercitare un ruolo preminente; ma i vescovi devono essere aiutati da esperti e da rappresentanti della popolazione cristiana.
Altri problemi riguardano sia le diverse parti del mondo, sia aspetti particolari del rinnovamento. Tra i primi, ad esempio, ve ne sono alcuni che assumono speciale rilievo nell'America Latina, ove sembra davvero che non sia stata attribuita sufficiente importanza alla liturgia: è quest'ultima che deve contribuire in modo essenziale a rivitalizzare la fede. In Estremo Oriente non ci si può più accontentare di imitare quel che si faceva in Occidente; sono sufficientemente note le disgraziate conseguenze derivanti dalla soluzione data alla ‛questione dei riti' nei secc. XVII e XVIII. In realtà si vedono ora apparire quei modi di celebrare l'eucaristia che sono la ‛messa giapponese', la ‛messa indù' e altre. In Africa, lo sviluppo dei movimenti nazionalisti, favoriti dai governi, e la riscoperta dei valori tradizionali del bantuismo e delle altre tradizioni culturali e religiose delle diverse parti di questo continente, rende urgente la creazione di liturgie africane, che non soltanto utilizzino mezzi locali di espressione - strumenti musicali, gesti e danze - ma si rifacciano, in profondità, ai modi di immaginare e di pensare, a pratiche quali le onoranze rese agli antenati o i riti di iniziazione, nuziali, funebri e altri. Nelle missioni ortodosse, greche, russe, e altre, è venuto il momento di attribuire minore importanza a forme arcaiche di espressione liturgica e invece maggiore attenzione al contenuto che queste forme hanno il compito di manifestare.
Fra gli altri problemi particolari che si pongono in parecchie regioni del mondo, si possono citare la necessità di ideare servizi religiosi da celebrare in assenza di un sacerdote, quella di dare una solida formazione liturgica ai catecumeni e ai catechisti, quella di fare appello a diaconi permanenti, quella di effettuare una profonda revisione del rituale (e soprattutto del rituale dei sacramenti), quella d'intensificare l'iniziazione liturgica nei seminari, quella di creare dei centri di rinnovamento liturgico, di arte e di musica sacra. Tutti questi problemi sono ora in via di soluzione. Le nuove liturgie ‛indigene' stanno sorgendo o sviluppandosi, a ritmi disuguali, ma che ovunque lasciano bene sperare per l'avvenire.
8. Liturgia ed ecumenismo
Tutte le Chiese e comunità cristiane rendono un culto a Dio. Via via che esse si sforzano di riavvicinarsi le une alle altre, di superare così le divisioni di origine storica, che per lungo tempo le hanno opposte le une alle altre, con la speranza di riunirsi forse un giorno in qualche modo - ed è questo lo scopo di ciò che viene chiamato l'ecumenismo - esse sono indotte a studiare ciò che, nella liturgia propria di ciascuna, è o può divenire comune alla liturgia di molte altre o anche di tutte. E si può affermare che oggi, ovunque, o quasi, vi è, in questa direzione, un fervore di ricerca che ha già dato dei risultati. Inoltre, a seguito del rinnovamento della liturgia, soprattutto nella Chiesa romana e dopo il Vaticano II, le Chiese, a partire dalla metà del sec. XX, hanno esercitato tra loro una reciproca azione di stimolo, nel campo liturgico, sul piano degli studi scientifici e su quello delle applicazioni pratiche e pastorali. Infine, e in modo ancor più profondo, la ricerca teologica che ha per oggetto la ‛comunione', spesso indicata col termine greco κοινωνία, ha indotto a porre il problema della possibilità di una partecipazione alle stesse realtà, ai medesimi misteri, nonostante tradizioni dottrinali e cultuali diverse.
Esistono due gruppi di problemi generali. Quelli del primo gruppo si riferiscono alla reciproca accettazione dei sacramenti impartiti nelle diverse confessioni, in particolare del battesimo e del matrimonio - con le relative conseguenze di carattere dottrinale, giuridico e liturgico - e soprattutto dell'eucaristia: la questione sollevata su quest'ultimo punto è l'intercomunione. Vi si risponde sia praticandola, più o meno legittimamente, sia cercando di giungere a un accordo sui motivi che la giustificano, su quali condizioni ed entro quali limiti essa sia valida. Su questo argomento, nei soli anni 1970-1972, sono state pubblicate diverse dichiarazioni o rapporti, da parte della Commissione internazionale anglicana-cattolica romana detta ‛di Windsor', della Commissione di studi nominata dal Segretariato romano per l'unità e della Federazione luterana mondiale, del gruppo ufficioso cattolico e protestante francese detto ‛Groupe des Dombes', e da parte di teologi di diverse confessioni e cattolici romani degli Stati Uniti. Le loro conclusioni, sempre più concordi, vertono su tre punti principali: l'eucaristia come ‛commemorazione sacrificale', la ‛presenza sacramentale', chi è il ministro e chi presiede l'eucaristia.
Un secondo gruppo di problemi generali riguarda i testi da adottare nelle celebrazioni attuate nelle diverse confessioni: nell'opera dal titolo Eucharisties d'Orient et d'Occident, teologi cattolici, protestanti, ortodossi presentano un dossier che consente loro di collocare le proprie liturgie in una tradizione comune. In un fascicolo di Prières communes pour les temps liturgiques vengono presentati dei testi che i cristiani ancora separati possono usare per i tempi di preghiera o dell'ufficiatura. Il fatto stesso che a Rotterdam in Olanda esista un Centro liturgico ecumenico basta a indicare che è in atto un vasto sforzo comune.
Altri problemi si riferiscono a settori più circoscritti, relativi ai rapporti attualmente esistenti o che potrebbero instaurarsi in futuro fra alcune chiese o comunità: rapporti liturgici tra cristiani ortodossi e occidentali, come quelli che hanno studiato o studiano N. J. Afanas′ev e A. Sihmerman; ‛liturgie alla prova' nella Chiesa episcopale; smossi dei testi di lettura per le domeniche e le festività in Danimarca, Norvegia, Finlandia e Germania, e dei testi della Chiesa cattolica romana, ciclostilati in svedese nel 1970; diffusione dei volumi Eucharistie à Taizé (1971) e La louange des jours. Nouvel office de Taizé (1971), testi che, pur provenendo da un ambiente di riformati, tengono conto in larga misura dei nuovi libri liturgici romani (il secondo volume citato viene infatti spesso utilizzato dai cattolici); l'accurato esame critico cui calvinisti riformati e altri, metodisti e cristiani di denominazioni diverse sottopongono le loro forme tradizionali di culto. Tutti questi studi rivelano la medesima preoccupazione di scoprire gli elementi fondamentali del culto, dunque quegli elementi che possono e devono essere comuni a tutti i cristiani. Quest'opera non manca di incontrare, al suo svolgersi, una certa resistenza proveniente, quale che sia la chiesa o la confessione, più dalla comunità dei credenti che dall'ambiente degli studiosi. Essa dunque potrà dare i suoi frutti solo lentamente. L'importante è che sia iniziata.
9. Liturgia e incontro delle religioni
Per lungo tempo le grandi tradizioni religiose sono state l'una in contrasto con l'altra. Vi sono state indubbiamente eccezioni e periodi di tregua. Purtuttavia le controversie sono state pressoché continue, le dispute frequenti, e non sono mancate le guerre cosiddette ‛religiose' o ‛sante'. Da qualche decennio si è sviluppata una nuova tendenza, che si è sempre più affermata in particolare fra i cristiani occidentali, soprattutto cattolici. In questo settore, come in molti altri, dal Concilio Vaticano II sono venuti incitamenti a perseverare negli sforzi. È specialmente con le grandi religioni dell'Estremo Oriente, e in particolare con l'induismo, che l'‛incontro' si è espresso sul piano della liturgia, determinando forme di culto cristiano fino allora sconosciute, e creando, di conseguenza, un problema non ancora affrontato. Alcuni esempi basteranno a illustrare in che termini esso si ponga.
In occasione del Convegno dei monaci asiatici - che nel 1968 riunì a Bangkok monaci cristiani di paesi buddhisti e durante il quale il più eminente rappresentante religioso della Thailandia fu accolto dalle autorità cattoliche - ciascuno dei due periodi della giornata riservati alla preghiera comprendeva la lettura tanto di brani tratti dalla Bibbia, quanto di brani tratti dai testi sacri dell'induismo e del buddhismo. L'anno successivo, in occasione del Seminario sulla Chiesa in India, che riunì a Bangalore delegati di tutte le categorie di cattolici di tale paese, fu deciso di incoraggiare ‛in uno spirito di libertà, l'ascolto della parola di Dio così come nella Bibbia, e la meditazione devota sul retaggio religioso contenuto nei testi indiani", in vista di un approfondimento della fede e del fiorire di un pensiero teologico nato da questo sforzo di interiorizzazione e da questa esperienza spirituale. Per corrispondere a questo voto fu pubblicato nel 1970 un volume dal titolo In diverse ways. Selections from hindhu scriptures for christian prayer. Una introduzione ne indicava lo scopo: permettere che la liturgia della parola, che costituisce la prima parte della messa, inizi con letture considerate ‟testimonianze della saggezza religiosa delle nazioni". Venivano poi citati dei passi della Bibbia che davano il senso di questa ricerca di Dio da parte dell'uomo in ogni popolo. Il volume proponeva sessantacinque brani tratti da sei raccolte sacre, quali il Rigveda, le Upaniõad, il Bhagavadgità e altre. Dopo ogni testo vi erano dei riferimenti a passi dell'Antico e del Nuovo Testamento, e poi un commento indicava le connessioni fra questi due tipi di testi; rilevava i punti di convergenza e di divergenza, preparando così i cattolici dell'India a inserire nella loro preghiera queste intuizioni della divinità atte ad aprire la via alla rivelazione che la Chiesa ha ricevuto. Sarà sufficiente elencare alcuni titoli di questi sessantacinque schemi di preghiera per dare un'idea dell'insieme; La mediazione dell'Agni divino; L'amicizia con Dio; Il calice che dà la vita; Il grande sacrificio; Unità; Dalla morte all'immortalità; Vita consacrata a Dio; L'amore di Dio per gli uomini, e così via. Molti testi indù, tratti da poemi, sono in forma di inni. In taluni casi la consonanza tra le letture indù e quelle cristiane è così evidente che non è necessario alcun commento, e il tutto termina semplicemente con una preghiera al Signore Gesù. Si potrà certamente criticare questa o quella scelta, questo o quell'accostamento: si tratta soltanto di un primo tentativo. Nessuna decisione è stata ancora adottata, in merito, da parte dell'autorità ecclesiastica, e, in effetti, è preferibile che questa liturgia di tipo nuovo sia prima sperimentata. Ma fin d'ora si può prevedere che si continuerà a progredire in questa direzione.
Ora questa innovazione non manca di suscitare delle difficoltà da parte di alcuni cristiani, specialmente fra gli ortodossi. Così in occasione di un congresso su Attention à Dieu et expérience de prière, tenuto nel 1970 presso l'abbazia di Orval, in Belgio, durante il quale in un ufficio liturgico era stata inclusa una lettura tratta dal Bhagavadgêtà; da parte di fedeli ortodossi si levarono voci di protesta contro questa introduzione nella preghiera cristiana di testi che non esprimono la parola di Dio così come è contenuta nella Bibbia. E quando furono pubblicati gli atti del Congresso di Bangkok, la rivista ortodossa ‟Orthodox observer" (1971, IL, p. 83) mise in guardia dal pericolo insito nel far perdere al messaggio cristiano la sua specificità, il suo carattere unico. Bisogna esser grati a questi orientali per tale avvertimento; e tuttavia sembra che la ricerca dei cattolici esprima un movimento irreversibile; esso avrà i suoi rischi, ma condurrà certamente a un progresso, a un arricchimento della liturgia tradizionale.
10. Liturgia e politica
Il problema delle relazioni esistenti fra queste due realtà non riguarda solo i rapporti tra politica & preghiera, poiché quest'ultima può essere di carattere privato. A priori si può pensare che il culto e la politica, concernendo l'uno e l'altra attività della vita pubblica, si influenzeranno reciprocamente, anche e soprattutto se si tratta non della ‛politica di partito', ma della politica in una accezione più ampia, più aderente al suo contenuto semantico, cioè dello sforzo degli uomini al fine di rendere più umana la società, della lotta per una maggiore giustizia nel mondo, in breve del bene comune dell'intera famiglia umana. E un fatto che nella storia il comportamento politico dei cristiani ha spesso caratterizzato con la sua impronta l'ispirazione e l'espressione della loro azione liturgica: sarà sufficiente ricordare, per fare qualche esempio, che taluni elementi del cerimoniale della corte imperiale di Bisanzio furono inseriti nella liturgia orientale; che, nel Medioevo, in Occidente, l'unione tra l'‛Impero' e la ‛cristianità' ha talvolta ispirato testi e riti della liturgia romana; che quei pellegrinaggi di guerrieri che furono le crociate comportavano degli atti di culto, e così via. In quasi tutte le epoche vi sono stati sermoni per i periodi di guerra, funzioni liturgiche per celebrare vittorie militari e politiche, ecc. Tutto ciò era collegato a un contesto storico in cui il sacro e il profano si trovavano strettamente uniti, e talvolta confusi. Nella seconda metà del sec. XX un nuovo contesto socio-culturale determina una nuova situazione, solleva problemi e comporta esigenze altrettanto nuove: un numero sempre maggiore di uomini sente la responsabilità di promuovere la pace, la giustizia e la libertà in luogo della guerra, dello sfruttamento dei deboli da parte dei potenti, dell'oppressione, quali che siano le forme economiche, psicologiche e di altro tipo che assumono tutte queste manifestazioni di sottosviluppo: lo sviluppo si configura sempre più come una ‛liberazione'. Al tempo stesso si affacciano due tendenze complementari: l'una attribuisce un ruolo più importante ai ‛gruppi', anche ai ‛piccoli gruppi' all'interno di uno stesso paese o di un medesimo tipo di società; l'altra tende a intensificare i rapporti sovranazionali. Nelle Chiese si manifesta una crescente indipendenza nei confronti degli Stati e, di conseguenza, una maggiore libertà, una più vasta esigenza di impegno politico a servizio della giustizia e della pace, in armonia con la fede e il comportamento cristiani, e quindi con il culto. La lettera Octogesima di Paolo VI sulla giustizia e sulla pace costituisce, nella Chiesa cattolica, un esempio di questa tendenza. E in linea con tale orientamento l'elaborazione di una ‛teologia politica'.
Assistiamo, così, alla comparsa di nuove manifestazioni liturgiche: ‛messe di protesta', sermoni destinati a rendere coscienti i cristiani, cioè a educarli al senso del loro dovere politico, ufficiature e funzioni per la pace, rifiuto all'ingresso di militari armati e inquadrati nei luoghi di culto per partecipare a cerimonie, anche se di carattere ufficiale oppure patriottico, ‛partigiani' e contestatori che si rifugiano nelle chiese per pregarvi o per digiunarvi, riunioni di ‛preghiera politica', e pubblicazione di testi che possono essere utilizzati a tale scopo. Contribuisce a rendere più acuto il problema l'insoddisfazione suscitata in taluni dalla riforma scaturita dal Concilio Vaticano II, ritenuta troppo formale, troppo impersonale, troppo uniforme, non adatta a favorire sufficientemente l'inserimento nel culto delle preoccupazioni reali e quotidiane dell'umanità, e di ciascuno dei suoi membri: si vuole poter parlare a Dio, nel linguaggio di oggi, degli avvenimenti attuali, delle sofferenze e delle aspirazioni del tempo e dell'ambiente cui si appartiene, si vuole trovare nella preghiera uno stimolo per un giusto comportamento cristiano, cioè per la cosiddetta ‛ortoprassia' religiosa. Ora in tutto ciò vi è indubbiamente un pericolo: si rischia di ridurre l'analisi cristiana delle situazioni politiche a una analisi nella quale non vi è spazio per la componente religiosa, e che sarà, per esempio, di tipo marxista; ci si espone ad attribuire a un'opzione politica legittima, ma relativa, un valore assoluto, a fondarla su un'informazione insufficiente, data l'infinita complessità degli attuali problemi mondiali, a trasporre ingenuamente nel mondo contemporaneo testi della Bibbia o della tradizione che furono scritti in civiltà estremamente diverse dalla nostra, a ‛mondanizzare', a ‛secolarizzare', per così dire, la Chiesa, confondendo il profano con il religioso. Nei gruppi di preghiera il partecipante sarà portato a ricercare una compensazione affettiva o una liberazione psichica invece di una presenza a Dio e agli uomini nella fede, ad abbandonarsi a celebrazioni festose, forse anche entusiastiche, ma che non avranno alcuna conseguenza pratica, oppure ad attribuire un'importanza eccessiva a colui che dirige la riunione, in breve a lasciar prevalere il soggettivo, l'individuale, sull'oggettivo e il comunitario, a imporre alla liturgia limiti poco compatibili con il suo carattere universale, con la sua cattolicità, con la trascendenza del mistero che vi si compie.
Tuttavia, nonostante tutti questi possibili ostacoli e inconvenienti, non si può evitare il problema: bisogna cercare delle soluzioni. Esse consisteranno soprattutto nel trovare dei criteri che consentano di discernere equamente fra tutte le realtà in causa, al fine di evitare, da un lato una liturgia troppo fuori dal tempo, in un certo senso disincarnata, orientata verso un mondo irreale, senza alcuna presa sulla vita concreta, e d'altro lato le confusioni semplificatrici o i sincretismi ingenui, o una riduzione di ciò che è religioso a ciò che è esclusivamente di questo mondo, senza rapporto alcuno con Dio, tramite il Cristo, nello Spirito Santo. Pur conferendo un senso all'attività politica dei fedeli, la liturgia deve restare la celebrazione del mistero del Cristo. I settori in cui è attualmente in corso la ricerca per giungere a questa sintesi sono quelli dell'elaborazione teologica e della creazione di norme pratiche. Nel primo, si tratta di comprendere meglio ‛la funzione politica del culto' e come esso, destinato a ispirare ed esprimere il comportamento cristiano, esiga un impegno al servizio del bene dell'umanità. Bisogna comprendere e illustrare il significato di ciò che i teorici della teologia politica hanno chiamato la ‛deprivatizzazione' della vita cristiana in tutte le sue manifestazioni, ivi compresa la preghiera. Come reazione contro una tendenza individualistica che fu in auge nel sec. XIX e che presentava il cristianesimo quasi come un affare di salvezza individuale, bisogna porre in luce il senso della solidarietà universale e della responsabilità comunitaria che ha la sua origine nel sacrificio del Cristo. Bisogna afferrare l'esatta portata ‛rivoluzionaria' del mistero cristiano, l'elemento di rottura e di liberazione nei confronti del peccato che esso dà modo di introdurre nella vita degli uomini e delle società. Per raggiungere questa meta è di eguale importanza studiare ed esporre come l'amore di Dio e l'amore del prossimo non possano essere dissociati. E soprattutto è necessario mostrare l'importanza della fede cristiana in un Dio personale, che è amore e principio di carità, e nello Spirito del Cristo risuscitato, che è fonte di libertà spirituale, di coraggio nella lotta per la salvezza del mondo, di forza nell'accettazione delle conseguenze dei peccati degli uomini. Tutto questo sforzo implica una purificazione costante dell'idea che i credenti debbono avere di Dio, immanente e presente nel mondo senza identificarsi con esso, e trascendente senza essere inaccessibile. Nel settore delle realizzazioni pratiche, si è indotti a fare una distinzione tra le diverse parti della liturgia, poiché i momenti della proclamazione e dell'intercessione si prestano meglio di quelli della celebrazione sacramentale propriamente detta all'espressione dell'impegno politico. Inoltre tale espressione sarà differente a seconda del tipo di gruppo in cui si manifesta. Infine, occorre sempre più sottolineare che l'eucaristia è il momento di un'efficace riconciliazione fra cristiani i quali, secondo la propria coscienza e il grado d'informazione di cui dispongono, hanno legittimamente fatto scelte politiche divergenti; essa deve offrire loro il mezzo per superare, sul piano della fede e della carità, i conflitti che non vietano loro di avere una comune speranza; essa deve anche fornir loro l'occasione di purificarsi da ogni peccato politico, di ricercare un atteggiamento di totale disinteresse, di dedizione a tutti, di rinuncia a qualsiasi tendenza egoistica. Questo presuppone, nel sacerdote che è il ministro dell'eucaristia, una ‛neutralità' che gli permetta di esercitare questo ministero della riconciliazione.
È quindi evidente che una certa ‛politicizzazione' della liturgia nel nostro tempo, diversa da quella che si ebbe in altre epoche, apre nuovi orizzonti alla ricerca e alla pratica; offre possibilità interessanti entro confini che bisogna ben stabilire. Si impone la conoscenza del dovere politico dei cristiani, il confronto con le esigenze che ne derivano, la presa di coscienza e l'espressione di una solidarietà che si estende a tutti, di una responsabilità particolare verso coloro che sono vittime dell'ingiustizia: atteggiamenti tutti che hanno la loro collocazione nella celebrazione del mistero della salvezza, purché tale mistero rimanga il loro principio informatore e il loro fine ultimo, e non sia esclusa la parte di gratuità, di apparente inutilità, e perciò di rinuncia e di sacrificio, che è insita in ogni autentica partecipazione alla Croce e alla glorificazione del Cristo, in ogni adorazione del Padre in spirito e verità, nella carità che lo Spirito Santo effonde nel cuore degli uomini.
11. Liturgia e arte
All'inizio del XX secolo si è molto parlato e scritto in merito a quelle che sono state chiamate ‛arti liturgiche'. Si tentava allora di modernizzare l'arte cristiana tradizionale con l'impiego di nuovi materiali e di nuove tecniche, soprattutto nel campo dell'architettura: ma per quanto riguardava il ‛luogo di culto' si partiva da un concetto ereditato dal passato. Per tutto ciò che riguardava gli ornamenti, gli arredi, gli strumenti necessari al culto, si cercò di ritrovare forme arcaiche. Successivamente si è sempre più imposta la convinzione che il problema non è quello di modernizzare l'arte cristiana, ma quello di utilizzare l'arte moderna e di cristianizzarla. Si è persino giunti, negli ultimi anni, a chiedersi non più soltanto come costruire e decorare i luoghi di culto ma se sia ancora necessario averne e, in caso affermativo, come concepirli: ora, la loro funzione può essere determinata solo in relazione alla vita e alla cultura contemporanee, tenendo conto, in particolare, dei dati forniti dalla sociologia e dalla psicologia. La soluzione dipende a un tempo dall'evoluzione della Chiesa e da quella della società.
Per quel che concerne la Chiesa, essa è indubbiamente sulla via del rinnovamento. Sempre più si insiste sul fatto che ovunque essa esiste, la Chiesa è una comunità, e non una somma di individui che ricercano Dio indipendentemente gli uni dagli altri: ora questa comunità, generatrice di unione fra i cristiani, assume un nuovo orientamento missionario, è animata da un'ansia di universalità e di ecumenismo. La Chiesa cattolica acquisisce, per cosi dire, nuove frontiere o, più esattamente, non ha più frontiere. Rifiuta ormai di presentarsi, ovunque e in tutti i settori, nella forma della cristianità latina occidentale: la scomparsa del latino come lingua liturgica imposta ovunque è il simbolo della disoccidentalizzazione della Chiesa. Ne consegue che le forme artistiche del culto sono sempre più differenziate, senza alcun pregiudizio per l'unità di fede e di sacramenti che esiste fra tutti i cattolici e che si auspica possa instaurarsi fra tutti i cristiani. Di fatto la cristianizzazione delle zone non occidentali del mondo ha coinciso con la loro colonizzazione: bisogna quindi procedere ora a una decolonizzazione della liturgia e delle arti dalle quali essa attinge le proprie forme di espressione. Primo presupposto di questa impresa è la libertà, di cui il cardinale Montini, prima di diventare papa Paolo VI, parlava in questi termini ad alcuni artisti milanesi: ‟Noi non pretendiamo da voi una determinata tradizione, né uno stile piuttosto che un altro: non siete tenuti a osservare proporzioni definite o talune forme convenzionali. [...] Ispiratevi a una cultura e a una spiritualità autenticamente cristiane, e poi fate quel che volete".
Come conseguenza delle ‛nuove frontiere' che si sostituiscono alle antiche dentro e fuori del cristianesimo, vi sono ora, più che nel passato, luoghi di culto utilizzati da chiese e confessioni cristiane diverse; il libro delle ‛ore liturgiche' della comunità protestante di Taizé, che comprende elementi attinti da tradizioni diverse, è in uso presso tutte le confessioni. In Estremo Oriente si è proposta la creazione, accanto alle chiese parrocchiali, di luoghi in cui tutti i credenti possano incontrarsi, praticare la loro religione, assistere insieme a cerimonie paraliturgiche; la tendenza è di assimilare non solo elementi tratti da religioni non cristiane, ma anche taluni elementi suggeriti dalle culture popolari, al fine di rivitalizzare, grazie al vigore e alla spontaneità propri dei popoli giovani, i riti cristallizzati dell'Occidente.
In conseguenza dell'evoluzione della cultura, si cerca di vivere, di pregare, di celebrare Dio in armonia col tempo in cui si vive: se ne accettano l'evoluzione, i mutamenti. A un pensiero statico si sostituisce un pensiero dinamico, vivificato dall'impulso sia di pensatori quali P. Teilhard de Chardin, R. Guardini, G. Marcel e altri rappresentanti dell'esistenzialismo cristiano, sia di tradizioni come quella della ‛corrente vitale' dei Bantu, e dell'idea di un'energia che non cessa di svilupparsi e di espandersi. Nasce anche una nuova estetica, che fa ricorso, per esempio, alle risorse della ‛musica elettronica', ‛concreta', ‛sperimentale', o alla musica pop. Emerge una nuova sensibilità spaziale, che non si limita alla sola costruzione e agli oggetti che la occupano, e per la quale lo spazio non è un vuoto, un'assenza di elementi costruiti, ma il simbolo di una presenza evocata utilizzando la concavità. Sono in corso indagini filosofiche al fine di stabilire le leggi che regolano il movimento e rendono possibile quel tipo di realizzazioni che si sogliono definire ‛architettura dinamica e ‛struttura atettonica'. Nuove possibilità di ogni genere consentono di ridurre sempre più le limitazioni imposte dalla tecnica.
Un'altra manifestazione dell'evoluzione culturale si riscontra nella crescente interdipendenza delle strutture sociali e religiose. Già in passato a ogni tipo di concezione e di struttura della società, e della Chiesa in quella stessa società, corrispose un particolare tipo di edificio sacro: nella Chiesa primitiva, la piccola comunità di ‛fratelli' si radunava in un luogo abituale - appartamento o cappella di cimitero -; in seguito, in quella sorta di chiese di Stato che furono quelle proprie della civiltà cristiana, in cui il popolo intero era considerato cristiano, ci si ispirò alle basiliche profane che fornirono il modello per le chiese cristiane del Medioevo e delle epoche successive. Oggi la società industriale è caratterizzata, in molte parti del mondo, dall'urbanizzazione, dall'abbandono delle campagne, dal livellamento delle categorie sociali, dalla differenziazione fra luogo di lavoro e di abitazione, dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, e da altri fenomeni dello stesso genere. La parrocchia e la sua chiesa non svolgono più, come un tempo, la funzione di luogo d'incontro: la grande parrocchia è più un agglomerato che una comunità, ma le forme attuali delle comunità cristiane tendono a diversificarsi. In questa nuova situazione religiosa, che è stata caratterizzata dalla formula ‛grandi masse e piccolo gregge', ove i cristiani sono una minoranza, talora definita come una ‛diaspora', si passa dalla ‛Chiesa popolo' alla ‛Chiesa comunità'. Bisogna costruire comunità che rispondano a queste nuove esigenze, ed edifici che contribuiscano a questa costruzione. A volte hanno più il carattere di ‛case comunali' e meno quello di ‛templi' o di ‛case di Dio'. Se ne stabilisce la sede e la forma in vista di questa funzione di servizio. E purtuttavia bisogna soddisfare le esigenze di tutti, particolarmente in un'epoca di transizione: tener conto al tempo stesso della massa e della comunità, rispettare la tradizione e contemporaneamente dare spazio alla creatività e all'innovazione. Non ci si richiama più ai modelli ereditati dal passato, ma alle esigenze del presente e a quelle dell'avvenire, nella misura in cui questo è prevedibile e può costituire oggetto di pianificazione.
L'accento si sposta da una società sacrale a una società secolare, da una Chiesa maggioritaria a una Chiesa minoritaria, da un cristianesimo fondato sulla scelta familiare a un cristianesimo derivante da una scelta personale, da una istituzione principalmente concepita come gerarchica a quel ‛popolo di Dio' di cui ha parlato il Vaticano II, dalla Chiesa centrale e centralizzata a comunità decentrate e periferiche, dall'istituzione cristiana all'impegno personale di ognuno, dalla Chiesa che difende i propri interessi alla ‛diaconia' secolare, cioè a servizio del mondo, dalla missione al dialogo, dalla controversia all'incontro e alla testimonianza. Tutto questo incide nel settore dell'arte cristiana: alle grandi parrocchie si aggiungono le comunità di quartiere; alla parrocchia territoriale si aggiungono le comunità funzionali (determinate dall'abitazione in complessi immobiliari, dalla professione, o dall'azione cattolica); allo schema diocesi-parrocchia si aggiungono le unità pastorali primarie, al servizio sacralizzato di Dio la spartizione fraterna della parola e del pane eucaristico, alle categorie fondate sulle differenze naturali fra le persone (uomini, donne, ragazzi, ragazze, ecc.) il riconoscimento della famiglia come tale; nell'annuncio della parola il dialogo si aggiunge al monologo; alla guida patriarcale del parroco si aggiunge l'esperienza della comunità fraterna. Attraverso tutte queste trasformazioni, bisogna trovare il modo di continuare, ma seguendo forme diverse da quelle di un tempo, a condividere il dono che Dio ha fatto al mondo della presenza di Gesù Cristo a opera del suo Spirito.
Nelle città, uno dei punti sui quali deve vertere la pianificazione riguarda l'inserimento funzionale degli edifici cristiani nella società, in coordinazione con le altre unità funzionali di ogni città e di ogni parte della città. Il cristianesimo deve essere presente senza necessariamente ricorrere a un'esteriorità pubblica rilevante: ciò che importa non è più un edificio che domini la comunità, ma che le serva e le consenta di svilupparsi, di evolvere, di adeguarsi. Bisogna accettare il concetto che i luoghi di culto abbiano un carattere mutevole e provvisorio. Bisogna tenere conto non più del numero dei cristiani ma di coloro che vanno in chiesa, cioè delle statistiche relative ai fedeli praticanti e non agli appartenenti alla religione cristiana. Bisogna anche prendere in considerazione la mobilità dei fedeli che si spostano per il fine settimana, i cosiddetti ‛pendolari domenicali'. Infine non si deve perdere di vista l'evangelizzazione: la chiesa deve essere non solo il posto ove si radunano i cristiani, ma anche un luogo di apertura e di contatto con i non cristiani. Tutti questi presupposti non vietano l'esistenza di un'arte sacra e di un'architettura sacra: pensare di costruire edifici solo utilitari non sarebbe certo una soluzione migliore di quella di un ritorno alla sacralità antica. Il problema è di inventare degli edifici che favoriscano architettonicamente la vita delle comunità e la partecipazione all'eucaristia nella semplicità e nella gioia. La celebrazione dell'eucaristia diventa meno ‛cerimoniale'. Si tende verso una maggiore semplicità. Quella forma di povertà che consiste nell' economia dei mezzi impiegati diviene un dovere morale. Non si cerca più di imporsi, ma solo di invitare. L'esigenza di verità consiste nel rendere manifesta la vera situazione della Chiesa fra gli uomini: non si deve mentire con un apparente trionfalismo.
Per meglio servire si costruiscono chiese che possano assolvere più compiti: culto, insegnamento religioso, incontri, servizi sociali e d'altro genere; a queste diverse finalità un congruo numero di locali di limitate proporzioni risponde meglio di una vasta sala. E tali locali devono potersi adattare a diversi tipi di celebrazione che comportano tutti una partecipazione attiva: messe di gruppo, di giovani, riunioni di culto ecumenico, talora con meditazione in occasione della proiezione di film o di diapositive, con accompagnamento di organo o di altri strumenti, con predicazione o ‛omelia dialogata'. Queste chiese, il cui scopo non è più la liturgia ma la vita della comunità nella sua poliedricità e con tutta la disponibilità che essa esige, sono talvolta chiese ‛variabili', ‛multiple', ‛smontabili'. L'attuale così viva presa di coscienza di tutte queste esigenze incide sulla pianificazione, sulla concezione e sulla costruzione delle nuove chiese, sulla scelta del materiale da utilizzare, sulla eliminazione degli edifici inutili, sull'eventuale loro sostituzione. Si cerca di non partire da una ‛immagine' preesistente o da uno schema prestabilito di ciò che deve essere la Chiesa, poiché possono essere di ostacolo alla funzione che la Chiesa deve assolvere oggi. Non si devono fare ‛chiese moderne' che siano nuove manifestazioni di una pratica e di un pensiero autoritari, che facciano pensare al potere, alla corte, alla solennità, alla grandezza. Si tenta di rispondere ai veri bisogni di una Chiesa umile e capace di servire il mondo, utilizzando le tecniche moderne - ivi inclusi i mezzi audiovisivi -, che faccia uso di risorse economiche limitate e razionalmente impiegate, grazie alle quali, in particolare, il personale ecclesiastico venga equamente retribuito. Così l'architettura e le altre arti liturgiche esprimono una visione del mondo e sono poste al servizio della Chiesa e della liturgia in via di rinnovamento, della comunità divenuta più viva.
I presupposti e le aspirazioni di carattere generale che sono stati delineati implicano conseguenze pratiche in tutti i settori dell'arte liturgica. In architettura si insiste sempre più su una certa ‛qualità' dello spazio: viene posta molta cura nel determinare quali saranno gli spazi preparatori, come sagrato e atri, che separano il luogo sacro dall'ambiente profano della strada; in quali posti dell'area centrale riservata alla comunità si collocheranno il pulpito, la croce, il seggio del celebrante, le sedie per le persone anziane, l'altare e la zona che lo circonda, con la parte riservata ai musicisti e ai loro strumenti, e, eventualmente, uno spazio per la danza. Devono essere previsti altri posti per il colloquio intimo con Dio: meditazione, adorazione, confessione, devozioni, via crucis; e altri ancora per i sacramenti e i riti: battistero e cappella funeraria. Bisogna che la luce e le ombre, i colori, la decorazione delle pareti, l'illuminazione, tutto contribuisca affinché il luogo di culto sia al tempo stesso funzionale, adatto al clima, e simbolico in misura tale che i fedeli possano comprenderne il significato. I simboli devono essere tratti sia dalla tradizione, sia dalle scienze che attualmente studiano gli archetipi validi per gli uomini di tutti i tempi e per gli uomini di oggi. Certi oggetti o segni hanno un valore simbolico particolare: strumenti di lavoro nelle zone industriali, tamburo del re o del capo in alcune tribù dell'Africa, porta e portale, ragno o serpente in altre. Tutto questo varia secondo le civiltà. Un vescovo d'Asia auspica che nelle chiese cristiane, come nelle pagode buddhiste, vi siano iscrizioni in grossi caratteri cinesi, lanterne e tappeti multicolori, petardi scoppiettanti nei momenti più solenni, melodie ispirate alle forme musicali dei monasteri buddhisti, orchestre cinesi.
Ci si rivolge alla pittura non per copiare la natura ma per evocare ciò che è misterioso: le arti cosiddette ‛primitive' hanno già arricchito l'opera di pittori profani come Gauguin, Cézanne, Picasso e altri; esse possono dare qualcosa anche all'arte sacra. La scultura viene utilizzata per la croce, la statuaria e gli arredi; presso molte popolazioni dell'Africa e dell'Oceania, il motivo d'ispirazione per le statue può derivare da rappresentazioni di feticci, di totem, di simboli della vita e della fecondità. Tessuti locali vengono impiegati come elementi decorativi e come ornamenti. La veste liturgica viene armonizzata con lo spazio del santuario per quanto attiene alla scelta della forma e del colore, con la tradizione e la cultura di ogni paese, con il clima, con il simbolismo esistente in ogni tipo di civiltà quale mezzo per evocare il sacro o per contraddistinguere una funzione. I colori sono quelli ai quali ciascun popolo conferisce un proprio valore: il colore del lutto, per esempio, per taluni è il bianco, per altri il nero.
Lo stesso vale per il cerimoniale, per il modo di giungere le mani in certi momenti, di aprirle o di levarle in alto, di incrociarle sul petto, di augurare la pace con un bacio o in altra maniera, di stare eretti o seduti in diverse posizioni, o in ginocchio, di scegliere i doni offerti per il culto, di porgerli, di rappresentare simbolicamente il sacrificio ricordando lo ‛scambio del sangue', come presso i Malgasci, o altre usanze proprie di altre tradizioni, di battere le mani, di danzare, di formare cortei, processioni e altre manifestazioni festive, di usare maschere simboliche, ornamenti che raffigurano i profeti, gli apostoli e i santi come ‛cantenati' che vengono venerati. In alcuni luoghi ci si copre il capo prima di entrare nel santuario; in altri si entra scalzi. Nel canto e nella musica, a seconda delle culture, ci si avvale del valore magico del recitativo, delle ripetizioni, delle variazioni improvvisate su un tema dato, il tutto accompagnato dagli strumenti tipici di ciascun paese.
L'elenco degli esempi potrebbe continuare; esso non fa che indicare un vasto campo di ricerche attualmente in corso. Partendo dalle stesse situazioni pastorali, dai dati della sociologia religiosa, e non da teorie aprioristiche, estetiche o storiche, la vita - cioè lo Spirito di Dio che anima il suo popolo in intima unione con la gerarchia della Chiesa - è lasciata arbitra di creare le nuove forme che l'espressione del culto oggi esige. Non si cerca di fare dell'‛arte per l'arte', o di coltivare ‛il lusso per Dio', ma si vuoi celebrare il mistero pasquale in modo adeguato ai bisogni, alle aspirazioni, alle possibilità dell'uomo d'oggi. Le realizzazioni già conseguite provano che è possibile, in questa prospettiva, creare del bello, in santuari che non siano più necessariamente monumentali, ma ove tutto contribuisca a suscitare e ad esprimere l'entusiasmo dei cristiani in presenza del loro Dio.
12. Liturgia e musica
Tra tutte le arti la musica è quella che, in rapporto alla liturgia, solleva il maggior numero di problemi. A questo proposito molte concezioni che passavano per tradizionali oggi vengono sottoposte a riesame, e a ragione poiché esse hanno origini abbastanza recenti; si è potuto dimostrano a proposito di ciò che veniva chiamato ‛musica religiosa' o ‛musica sacra', considerate come un'eredità pervenutaci dal passato della Chiesa, in quanto canto fissato dai libri liturgici approvati, comprendente un certo numero di ‛repertori' privilegiati, come un mezzo atto a favorire l'esperienza religiosa, come materia che è stata oggetto di dottrina, come strumenti utili all'azione pastorale e funzioni inerenti alla liturgia. Oggi si cerca soprattutto di afferrare il significato di ogni manifestazione sonora nel culto cristiano, e si parla, più semplicemente, di ‛musica nella liturgia': essa è un insieme di suoni, ‛prodotti a volte avvalendosi di nuove possibilità tecniche. Da quali dati la musica riceve il suo significato? Quali forme estetiche sta assumendo? Questi interrogativi costituiscono l'oggetto delle indagini e delle considerazioni di musicologi come J. Gélineau - che verso la metà del nostro secolo fu, in questo ramo, un pioniere in Francia, presto seguito da L. Deiss -, H. Hucke in Germania, E. Costa e G. Stefani in Italia, e molti altri. I loro studi hanno preparato ciò che il Concilio Vaticano II ha espresso sulla musica, nella Costituzione del 1963 sul rinnovamento della liturgia; e continuano a servire da guida per l'applicazione pratica.
Il Concilio ha introdotto un criterio che è rivoluzionario se lo si raffronta al recente passato: san Pio X, il primo papa che abbia fatto figurare nella legislazione ecclesiastica l'espressione ‛musica sacra', nel Motu proprio del 1903 la caratterizzò come il tipo di musica che più si avvicinava alla ‛melodia gregoriana'. Il Vaticano II si è espresso ben diversamente: ‟La musica sacra sarà tanto più santa quanto più sarà collegata strettamente con l'azione liturgica". Sicché si parla ora anche della ‛funzione ministeriale' della musica destinata a conferire efficacia ai testi, a suscitare la partecipazione dei fedeli, a dar corpo ed espressione alla comunità spirituale che essi costituiscono. È da questo punto di vista che bisogna considerare tutti gli altri problemi teorici e pratici, di cui è possibile indicare qui solo i principali: rapporto tra stile liturgico e stile profano; equilibrio tra il ruolo del coro, quello dei musicisti e quello dell'assemblea dei fedeli; tra ciò che si conserva del passato - canto gregoriano, polifonia classica e neoclassica - e il nuovo repertorio che bisogna creare in lingua viva; alternanza dei diversi tipi di ascolto musicale, di suoni (articolati o meno), di parole e di silenzi; adattamento dei diversi tipi di audizione alle differenti situazioni rituali; nuovi mezzi creativi, che si avvalgono non solo della chitarra e di altri strumenti che fanno perdere all'organo il monopolio quasi assoluto, d'altronde piuttosto recente, di cui sembrava godere, ma anche di mezzi elettro-acustici da cui derivano le musiche ‛elettronica', ‛sperimentale', ‛concreta'; ritmi nuovi - come quelli del jazz, delle musiche chiamate pop, beat, rock - che rispondono al bisogno di molti giovani di comunicare in un linguaggio che è loro congeniale e che è l'espressione di una nuova cultura musicale, popolare ed erudita al tempo stesso, che ha formato in loro un certo gusto, una mentalità, un bisogno di ascoltare, di cantare, persino di gridare tutti insieme: vi è qui un fenomeno sociologico. Il transistor e i mass media hanno avuto in questa trasformazione un ruolo di cui bisogna tener conto.
È questo un campo di ricerche e di sperimentazioni assai vasto, che deriva dall'indagine psicosociologica delle comunicazioni, ed ove è tendenza generale annettere maggiore importanza alla spontaneità che alla ritualizzazione. In questa direzione continuano a lavorare sia le chiese scaturite dalla Riforma che il cattolicesimo romano. Anche i monasteri, che erano rimasti ancorati alle forme avute in retaggio dal passato, a poco a poco accettano di partecipare al rinnovamento. In un nuovo equilibrio tra rumore e interiorità, la parola, il canto, il silenzio, diversificati anch'essi, devono contribuire a simbolizzare la reciproca presenza dell'uomo e di Dio, l'impegno personale che questo incontro esige, la comunione che ne risulta tra tutti coloro che partecipano all'atto liturgico.
13. Secolarizzazione e celebrazione
Negli anni successivi al Concilio Vaticano II due tendenze si sono nettamente imposte più di quanto avessero mai fatto in passato, e continuano a contraddistinguere l'evoluzione dei problemi liturgici durante il decennio che ha avuto inizio nel 1970. Sono tendenze connesse, anche se in apparenza contraddittorie. Ma la prima, quella che insiste sulla necessità di secolarizzare le forme della preghiera, ha provocato un rinnovamento della seconda, che invece tende verso un ritorno alla celebrazione festiva.
Uno dei compiti del processo attualmente in corso, che va sotto il nome di secolarizzazione, consiste nel discernere, nel culto ereditato dal passato, da un lato ciò che costituisce il suo contenuto essenziale - il mistero che vi si compie - e dall'altro lato le forme che tale realtà ha assunto nel corso di epoche successive della storia: alcune di tali forme erano espressione di culture di altri tempi e in parte di ciò che in esse vi era di profano, quindi, in tal senso, di secolare; in seguito tali forme erano state sacralizzate. Così quel che oggi viene chiamato ‛desacralizzazione' equivale, in diversi casi, a qualcosa che si potrebbe definire ‛desecolarizzazione'. È anche una ‛deritualizzazione' nella misura in cui si era giunti ad attribuire maggiore importanza ai riti - fossero anche quelli dei sacramenti - che non all'autenticità della vita che essi erano destinati a comunicare: da questo punto di vista l'odierna evoluzione della liturgia fa parte della ricerca, attualmente in corso, di un nuovo equilibrio fra sacramentalizzazione ed evangelizzazione: donde lo sforzo di semplificazione, diretta a una maggiore autenticità, che ha avuto già luogo.
Tuttavia l'eliminazione di elementi artificiosi ha determinato la necessità di rivitalizzare il culto, restaurando in particolare il senso della celebrazione e della festa, ma in un modo che sia in armonia con la psicologia e con la cultura odierne. Il credente vuol pregare, non solo con lo sguardo rivolto al passato, ma anche aperto sul presente e proteso verso l'avvenire: questo implica un duplice sforzo di riflessione e di innovazione. La cosiddetta ‛teologia della morte di Dio' ha provocato una crisi della preghiera, che si sta superando cercando di comprendere meglio perché e come pregano gli uomini del nostro tempo, e questo partendo non da una teoria ma da un'analisi teologica dei dati di fatto. Inoltre le nuove correnti di pensiero cristiano, che dalla ‛morte di Dio' sono passate alla ‛speranza' attraverso la ‛rivoluzione' e la ‛violenza', come è avvenuto anche per taluni eccessi della semplificazione e della deritualizzazione, hanno indotto a comprendere meglio che coloro che hanno una ragione e un mezzo per superare l'angoscia, l'assurdità apparente della condizione umana e la desolazione, potevano e dovevano esprimerlo dedicandosi ad attività disinteressate, di tipo ludico. Si sono avute manifestazioni di questo tipo - a volte connesse con il movimento hippy - nella società occidentale e, in particolare, nelle chiese cristiane.
In questo settore vi è un libro simbolico, la cui pubblicazione ha fatto epoca: The feast of fools. Quest'opera di H. Cox, pubblicata negli Stati Uniti nel 1969, è stata subito tradotta in diverse lingue. L'autore vi studia le componenti della ‛festa' e della fantasia, le loro connessioni da un lato con la ‛morte di Dio', dall'altro con la religione: il mito, il rito, la teologia, la mistica; termina con un capitolo sul Cristo considerato come clown o ‛arlecchino'. I temi che l'autore sviluppa non sono affatto nuovi, ma rispondono a un bisogno rivelato da una recente produzione letteraria sui medesimi argomenti, in particolare sulla necessità che venga riservato un certo spazio all'improvvisazione creativa nella celebrazione anche attraverso un ritorno alla danza liturgica; anche quest'ultima è oggetto di pubblicazioni di carattere dottrinale e pratico, e ha già ritrovato nel culto un ruolo che aveva perduto. Ma al di là di queste forme esteriori, è un comportamento spirituale che viene ricollocato nella sua giusta luce, quella festa interiore che costituisce l'essenza della celebrazione, che anima tutto l'ambiente che la circonda, anch'esso determinato dalla festa, che compenetra interamente l'ambito spazio-temporale, che unifica tutti i gesti del culto, e che si esprime serenamente nella ufficiatura di ogni giorno: giacché se l'esaltazione non può essere continua, può esserlo l'esultanza nello Spirito Santo.
In conclusione, in virtù di un ritorno spontaneo a quanto di meglio vi era nella tradizione, ci si sta avviando verso un ‛culto totale', che impegna tutta la personalità dell'uomo in una risposta gioiosa in seno a comunità istituite, nella Chiesa, attraverso lo Spirito Santo, alla rivelazione e alla comunicazione che Dio ha fatto di sé in Gesù Cristo.
bibliografia
AA.VV., All India seminar ‛Church in India today' (Bangalore 1969), Delhi 1969.
AA.VV., Attention à Dieu et expérience de prière. Colloque monastique, 14-19 septembre 1970, Abbaye d'Orval 1970.
AA.VV., In diverse ways. Selection from Hindhu scriptures for christian prayer, Poona 1970.
AA.VV., La musique dans la liturgie, in ‟La Maison-Dieu", 1972, n. speciale.
Aufden Maur, H., Das Verhältnis einer zukünftigen Liturgiewissenschaft zur Religionswissenschaft, in ‟Archiv für Liturgiewissenschaft", 1968, II, pp. 327-343.
Bori, P. C., Κοινωνια. L'idea della comunione nell'ecclesiologia recente e nel Nuovo Testamento, Brescia 1972.
Bosc, J., Martelet, G., L'Eucharistie. Signe d'unité? Signe de division?, in ‟Pages documentaires", (supplemento a ‟L'unité chrétienne"), 1968, 9 bis, pp. 1-32.
Bouyer, L., Architecture et liturgie, Paris 1967.
Brunner, P., Worship in the name of Jesus, Saint-Louis 1968.
Burckhardt, L., Förderer, W., Bauen ein Prozess, Teufen 1968.
Cecchetti, I., ‛Tibi silentium laus', in Miscellanea liturgica in honorem L. Cuniberti Mohlberg, vol. II, Roma 1949, pp. 521-570.
Coless, C. M., Recent liturgical study, in ‟The American benedictine review", 1972, XXII, pp. 409-418.
Comité National d'Art Sacré du Centre de Pastorale Liturgique, L'Église, maison du peuple de Dieu. Liturgie et architecture, Paris 1972.
Cox, H., The feast of fools, Cambridge, Mass., 1969.
Cyr, L., Le ministère du musicien d'Église, in ‟Concilium", 1972, LXXII, pp. 87-100.
Dahinden, J., Bauen für die Kirche in der Welt, Würzburg 1966.
Danneels, G., Christianisme, foi ou religion, in Faut-il encore une liturgie? Liturgie, religion et foi (a cura di T. Maertens), Paris 1969, pp. 157-170.
Davies, J. G., The secular use of church buildings, London 1968.
Deiss, L., Concile et chant nouveau, Paris 1968.
Duployé, P., Les origines du Centre de Pastorale Liturgique, 1943-1949, Mulhouse 1968.
Durham, J., Direct silence, London 1964.
Fisk Taylor, M., A time to dance. Symbolic movement in worship, Philadelphia 1967.
Förderer, W. M., Kirchenbau von heute für morgen?, Zürich 1964.
Frjins, F., De mens witte sich al in rituelen voordat hij kon spreken, in Christelijk bestaan in een seculaire cultuur, Roermond 1969, pp. 283-320.
Garfield, D. L., Towards a living liturgy: the liturgy of the Lord's Supper examined in essays, New York 1969.
Geffré, C. J., Désacralisation et sanctification, in ‟Concilium", 1966, XIX, pp. 93-108.
Haussling, A., Die kritische Funktion der Liturgiewissenschaft, in Liturgie und Gesellschaft (a cura di H. B. Meyer), Innsbruck-Wien-München 1970, pp. 103-130.
Herneger, R., Religion, Frömmigkeit, Kult, Weilheim 1961.
Hofiger, J. (a cura di), Liturgy and missions. The Nijmegen papers, Collegeville, Minn., 1962.
Hurley, M., Ecumenical studies. Baptism and marriage, Dublin 1918.
Jahrbuch für Liturgiewissenschaft, 15 voll., Maria Laach 1921-1935 (dal 1950 ‟Archiv für Liturgiewissenschaft").
Jasper, R. C. D., The renewal of worship, Paris 1956.
Jungmann, A., Missarum sollemnia, Wien 19625 (tr. it.: Missarum sollemnia. Liturgia, storia e teologia della Messa romana, 2 voll., Torino 1953-1954).
Krister, D. A., Dance and theater in christian worship, in ‟Worship", 1971, XLV, pp. 588-598.
La prière sécularisée, in ‟Concilium", 1969, IL, pp. 138-146.
Leclercq, J., Compte-rendu de: a new charter for monasticism, in ‟Bulletin de l'aide à l'implantation monastique", 1972, XIII, pp. 94-96.
Leclercq, H., Gabrol, H., Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie, 30 voll., Paris 1907-1953.
Lercaro, G., Aubert, D., Espace sacré et architecture moderne, Paris 1971. ‟Liturgy and sociology" (a cura di T. e D. Coddington), anni 1936-1938.
Manaranche, A., Communion eucharistique et vie politique, in ‟Cahiers de l'actualité religieuse et sociale", 1971, XIV, pp. 243-250.
Marshall, R. P., Taylor, M. J., Liturgy and christian unity, Englewoods Cliffs, N. J., 1965.
Marsili, S., Teologia liturgica. I. Liturgia generale, Roma 1970.
Mayer, A. L., Altchristliche Liturgie und Germanentum, in ‟Jahrbuch für Liturgiewissenschaft", 1925, V, pp. 80-96.
Meyer, H. B., Liturgie und Gesellschaft, Innsbruck-Wien-München 1970, pp. 9-36.
Meyer, H. B., Politik im Gottesdienst?, Innsbruck-Wien-München 1971.
Moeller, C., L'homme moderne devant le salut, Paris 1965.
Moffitt, J. (a cura di), A new charter for monasticism, Notre-Dame Indiana, 1970.
Morel, J., Zur Soziologie des Gottesdienstes, in Liturgie und Gesellschaft (a cura di H. B. Meyer), Innsbruck-Wien-München 1970, pp. 37-54.
Neunheuser, B., Der Beitrag der Liturgiewissenschaft zur Erneuerung der Theologie, in ‟Gregorianum", 1969, L, pp. 589-615.
Paquier, R., Traité de liturgie, Neuchâtel-Paris 1954.
Prédication du message chrétien, in ‟Concilium", 1968, XXXIII.
Prières communes pour les temps liturgiques, in ‟Pages documentaires", 1966, III.
Rich, A., La fonction politique du culte, in ‟Revue de théologie et de philosophie", 1971, XX, pp. 65-79.
Rombold, G., Kirchen für die Zukunft bauen, Freiburg im Breisgau 1969.
Rousseau, O., Histoire du mouvement liturgique, Paris 1945.
Sbandi, P., Gruppenpsychologie und liturgische Feiern im kleinen Kreis, in Liturgie und Gesellschaft (a cura di H. B. Meyer), Innsbruck-Wien-München 1970, pp. 55-74.
Schall, J. V., Play on! From games to celebration, New York 1972.
Schmemann, A., Introduction to liturgical theology, London 1966.
Schmidt, H., Die Konstitution über die heilige Liturgie. Text, Vorgeschichte, Kommentar, Freiburg-Basel-Wien 1965 (tr. it.: La costituzione della S. Liturgia, Roma 1966).
Schmidt, H., Binden Onderweg, Harlem 1971.
Schmidt, H., Language and its function in christian worship, in ‟Studia liturgica. An international ecumenical quarterly for liturgical research and renewal", 1971-1972, VIII, pp. 1-25.
Schnell, H., Kirchenbau im Wandel. Was ist eine Kirche?, in ‟Das Münster", 1972, XXV, pp. 1-21.
Schroeder, F. W., Worship in the reformed tradition, Philadelphia-Boston 1966.
Turley, D. C. Jr., Cotherapy in mass, in ‟Religion and health", 1970, IX, pp. 276-284.
Vagaggini, C., Il senso teologico della liturgia, Roma 19654.