Lo ius civile: glossatori e commentatori
A leggere alcuni atti giudiziari della fine dell’11° sec., si rimane colpiti dal cambio di strategia intervenuto nell'impostazione delle controversie: la conoscenza di regole giuridiche romane si rivela fondamentale nella soluzione di cause importanti, relative ai beni fondiari. Gli avvocati più abili, allegando le preziose leggi, riescono spesso a vincere la causa, utilizzando tali fonti. A testi romani si rifanno anche notai eruditi, preoccupati di giustificare l’utilità della scrittura per rendere stabili i diritti delle parti o di far risultare la legittimità del loro operato. A Pavia, in una scuola in cui si studiano con buone tecniche ermeneutiche le norme longobardo-franche per formare i giudici, il diritto romano viene usato come legge generale per colmare le lacune degli incompleti testi barbarici.
L’ausilio del diritto giustinianeo si rivela indispensabile anche nella Curia romana per riorganizzare la Chiesa nelle sue fondamenta istituzionali e per sostenerne le ragioni rispetto agli altri poteri, primo fra tutti quello imperiale. Ed è proprio dal fervore della riforma gregoriana che scaturisce la molla decisiva per la ricerca del tesoro perduto. La riscoperta dei libri delle leggi è un aspetto della più generale esigenza di appoggiarsi, nella disciplina dei fatti umani, a testi scritti di particolare autorevolezza: necessità che ora non può ritenersi soddisfatta se non attraverso il recupero delle fonti nella loro genuinità e integrità. Si concepisce un ambizioso progetto editoriale, che tende a dare al testo romano volto certo e duraturo, per via di un faticoso lavoro di costante accrescimento dei manoscritti esistenti.
La nuova cultura giuridica si incardina in una città simbolo: Bologna. Le origini della prima scuola dedicata alle leges sono avvolte nel mistero forse più affascinante della storia giuridica medievale, qua e là squarciato da lampi di testimonianze. Irnerio, un personaggio poliedrico dalle tante facce (causidico, giudice, ma anche maestro di arti liberali e, a quanto sembra, teologo), spiazza per il suo ardimento i contemporanei (tra i quali l’evanescente Pepo) non solo nella sistemazione dei testi, che al suo impulso fondamentale si deve, ma anche per aver incominciato a insegnarne il significato ad altri, sperimentando sul campo un metodo che si imporrà come un modello europeo.
La scuola è cittadina e cives sono i maestri che da tutta Europa attireranno studenti. Lo sfondo della nuova cultura sono le persone immerse nella realtà urbana e nel dinamico mondo comunale in ascesa, proiettato sulla campagna e sulle città circostanti, nella cornice istituzionale del Regnum Italiae.
Alcuni aspetti di questo antefatto meritano di essere sottolineati. Il diritto romano, che nell’alto Medioevo si era trasformato in consuetudine, si riappropria della sua natura legislativa, di cui non si era spenta la memoria. La nuova scienza è legata a doppio filo con la didattica. Essa inoltre è spontanea: non nasce da alcun comando di potere politico e non ha mire politiche di restaurazione imperiale. La riscoperta, infine, pur se compiuta con sensibilità filologica, non ha nulla di museale o di archeologico: le leggi servono a soddisfare bisogni concreti e non di mera conservazione di un patrimonio esclusivamente storico.
Nelle nuove fucine di apprendimento i professori leggono e leggeranno per molto tempo ancora sempre e soltanto i libri legales che, dopo alterne vicende, si assesteranno in cinque codici manoscritti: Digestum vetus, Infortiatum, Digestum novum, Codex (i primi 9 libri) e, sorta di scrigno aperto, Volumen (Institutiones, Tres libri Codicis, Novellae dell’Authenticum, più avanti anche testi non romani come i Libri feudorum). Di questa vasta ed eterogenea eredità, il testo più ampio e difficile di tutti era il Digestum, la cui eco raramente si era udita nell’alto Medioevo; alquanto astrusi erano poi gli ultimi tre libri del Codex, che parlavano di tributi, coloni e altri complicati istituti amministrativi.
La scuola bolognese si distende lungo l’arco di più generazioni: dopo Irnerio, i quattro dottori Bulgaro, Martino Gosia, Iacopo e Ugo. I primi due generano ulteriori scuole spesso contrapposte: ai bulgariani fa capo Rogerio, ai gosiani Piacentino. Un suo allievo, Pillio da Medicina, dominerà negli ultimi decenni del 12° sec., contendendo la scena a Giovanni Bassiano, geniale discepolo di Bulgaro, che darà vita alla linea più influente, alla quale apparterranno Ugolino e Azzone, a loro volta maestri di Accursio e di altri esponenti del gotha duecentesco, come Iacopo Baldovini, altro fecondo punto di riferimento per molti seguaci, tra cui Odofredo. La dottrina bolognese riscosse successo anche fuori d’Italia: in Inghilterra tramite Vacario e nel Midi provenzale grazie alle scuole fondate da Rogerio e Piacentino, popolate da tanti altri giuristi.
Questi dati rimandano a un’altra caratteristica importante della scienza medievale fin dai suoi esordi: la collettività o coralità degli apporti, che spinge ciascun giurista a intessere un dialogo continuo con tutti gli appartenenti alla comunità scientifica, travalicando frontiere geografiche, con la disponibilità di ciascuno a misurarsi con le tesi altrui, prima di aggiungere, se del caso, la propria.
Per conservare la memoria di quanto detto a lezione si redigono annotazioni sul codice che si adopera. Questo, al centro, presenta il testo giustinianeo, scritto su due colonne. Chi legge aggancia le sue osservazioni (orali) alle parole (scritte). Lo stesso maestro, o chi ascolta o legge a sua volta, annota una parte di quanto detto ai margini o nell’interlinea del testo: sono le glosse, il principale strumento di lavoro dei glossatori, forma espositiva per eccellenza del loro pensiero. Esse all’inizio sono sparse, ma in seguito vengono aggregate in reticoli o ancor meglio ordinate in apparati, con lo stesso numero, ordine e contenuto nei vari testimoni.
Il genere, che denota una maggiore emancipazione rispetto ai primi modi dell’esegesi, è tipico del Duecento, ma non è privo di notevoli esempi precedenti. Le glosse forniscono solo squarci delle lezioni: la scrittura, del resto, è solo un pallido riflesso di una cultura che, nelle sue scaturigini, rimane legata all’oralità. Aperture più ampie sono quelle che risultano da lecturae appuntate da studenti (reportatae) o curate dai professori stessi (redactae): ne rimangono, purtroppo, poche. Accanto a tali prodotti abbiamo le summae, che offrono una trattazione sintetica dello ius civile, assumendo come base uno dei libri legali, considerato titolo per titolo, secondo una sistemazione dei concetti raffinata, poiché i giuristi si affidano a tecniche logiche e retoriche, che fanno perno sulla sostanza degli istituti. È un genere che fiorisce anzitutto in Francia in vari centri, tra cui Montpellier: per il Codex, si devono menzionare almeno la Summa Trecensis e quelle di Rogerio e Piacentino, autore anche delle Summae alle Institutiones e ai Tres libri. Il genere attecchirà anche a Bologna, con le splendide Summae azzoniane al Codex e alle Institutiones, di tutte le più consultate, e l’ardua impresa di una Summa Pandectarum, mentre Accursio metterà mano a una Summa all’Authenticum.
Il risultato delle operazioni compiute a scuola poteva anche essere documentato in forma diversa dalla glossa, dando così vita a generi letterari separati: raccolte di brocardi (coppie di principi generali contrapposti, enunciati o ricavabili dalle fonti), distinzioni e questioni, legitimae e disputate (di cui diremo più avanti), dissensiones dominorum, cioè elenchi di opinioni divergenti sul senso delle fonti romane (famosissime quelle di Bulgaro e Martino).
Fu la cultura teologica e canonistica, sul principio, a dettare le regole e a fornire un modello a quella giuridica, imperniandola su libri intangibili, autentici, completi. La nuova scienza si afferma come una cultura del libro onnicomprensivo cui tutto deve essere ricondotto («canone della testualità», come è stato efficacemente battezzato) e di una sapienza che non è più generica e superficiale conoscenza del dettato delle leggi romane, le quali, come quelle di ogni altro libro autorevole, sono pensate inoltre come un’opera perfetta e coerente, espressione di verità assoluta e in quanto tale priva di contraddizioni: il «prato di Giustiniano non contiene fiori spinosi», secondo una bella e ricorrente metafora.
Fu proprio questo presupposto, un dato di fede o di coscienza, a dotare di singolare acume i legisti e a trasformare in pregio quello che, a prima vista, poteva apparire come una limitante imperfezione del loro oggetto di studio. Le leggi, inoltre, vengono intese come espressione di equità e non di mera volontà. Si ritiene infatti che l’artefice del diritto civile, l’imperatore, abbia positivizzato istanze di equità divina (o equità rude, perché priva di forma), attraverso una serie di passaggi ulteriori individuati, con mirabile scrupolo, dai primi glossatori. L’equità in quanto oggetto di volizione è detta giustizia e dalla giustizia discende la norma giuridica, aequitas constituta o in iuris laqueis innodata, secondo la felice immagine rogeriana.
Equità e verità danno alla nuova cultura giuridica medievale un solido fondamento e ne rivelano i debiti contratti con altre culture. Ma il giurista medievale, se pure mutua dal teologo, come anche dal logico e dal filosofo, se ne distingue per la sua autonomia, che alla lunga si rivelerà una rampa d’accesso a uno status sociale alto.
Il fatto che le ritrovate leggi romane fossero considerate deposito di verità, razionalità ed equità, e pertanto degne della massima venerazione, non significa che il ruolo dell’interprete si riducesse alla passiva e deferente riproduzione del loro dettato. Il restauro dei testi di Giustiniano fu soltanto la premessa di un lavoro intellettuale ben più arduo e gravoso: pensare (e interpretare) i testi giustinianei come un corpus simmetrico e unitario.
Un metodo fondato sulla glossa è stimolato innanzitutto da problemi testuali: varianti del testo, chiarimenti semantici, logici o grammaticali. Ma, fra tutti, il punto che attrae particolarmente l’attenzione dei maestri è quello dei nessi tra le varie leges, che comporta una rete impressionante di riferimenti a passi paralleli o contrari, situati in altri luoghi dei libri. Come i teologi-canonisti, che negli ultimi decenni dell’11° sec. avevano scoperto la forza costruttiva della ragione, la possibilità di combinare auctoritas e ratio, così anche per i legisti la solutio contrariorum diventa il principio centrale euristico di tutto un edificio dottrinale, il motore di una potentissima macchina intellettuale, volta a eliminare, con il ragionamento, le apparenti discordanze interne.
È proprio questo tipo di approccio critico ai testi a distinguere il giurista dell’età nuova dagli esperti di diritto del sec. 11°: non basta richiamare le leggi, come si faceva nell’età preirneriana, con il poco materiale a disposizione, ma occorre anche saperle interpretare, raccordandole a sistema.
La chiave sta in questo circuito dinamico proteso a trasformare la sapientia in scientia. Il canone della testualità si arricchisce così con l’ulteriore profilo della contestualità, che vuol dire collegare ogni singola legge alle altre come parte di un tutto.
I glossatori diventano espertissimi nella concordanza dei passi discordanti e, per realizzarla, come gli intellettuali di altri saperi, si affidano per lo più alla tecnica della distinzione, che presuppone la fiducia nel fatto che i testi siano «diversi, sed non adversi», assimilando una convinzione che dalla patristica rimonta fino al pensiero ebraico.
La questione che più occupa le loro menti, detta legitima poiché vertente sul contrasto tra leges, si scioglie per lo più assegnando a esse diverse fattispecie di riferimento; in subordine, applicando la dialettica tra regola ed eccezione oppure, ma con vigile circospezione, facendo prevalere lo ius novum sullo ius vetus.
La distinzione, strumento principe della dialettica (la divisione dei generi nelle specie è l’asse portante della logica vetus) viene impiegata anche a ulteriori fini: per operare interpretazioni restrittive delle parole, per elaborare definizioni di un concetto, per fornire notizie sistematiche sulla disciplina di un problema, per classificare.
La discordanza è dunque fonte di dubbio: ma sono necessarie due precisazioni. Non si dubita tanto sulla verità dei principi racchiusi nelle norme, quanto sul loro contenuto: i glossatori avrebbero sicuramente potuto sottoscrivere il severo ammonimento di Abelardo, secondo cui la verità si apprende dubitando, ma non può essere messa in discussione. Il dubbio, inoltre, è fonte di creatività. I glossatori sono fatalmente ispirati dal testo, ma possono superarlo: la lectura, a questo riguardo, ha veramente ricoperto un ruolo formidabile di sprone per la configurazione di principi giuridici originali. La riflessione a colpi di distinzioni ha permesso di introdurre innumerevoli concetti del tutto originali ed estranei rispetto alle fonti romane. Si pensi, tanto per fare qualche esempio concreto, alla distinzione tra dominio utile e dominio diretto e a tanti altri binomi come substantia e natura contractus, patto nudo e vestito, presunzione iuris e iuris et de iure, potestà assoluta e ordinaria, attraverso i quali i glossatori fecero affermare alle fonti romane cose che esse in realtà non dicevano. Con queste distinzioni, fra l’altro, i glossatori finirono per ritagliarsi degli spazi di manovra che, a rigore, le fonti romane non avevano loro esplicitamente concesso. Così, per es., quando si arrivò a sostenere che l’interpretazione delle leggi poteva essere sia generale e necessaria, sia probabile, in modo da limitare l’apparente portata globale della massima secondo cui al solo creatore delle leggi spettava il potere di interpretarle, da riferirsi solo alla prima specie di attività ermeneutica e non alla seconda, realizzabile dai giuristi e non meno legittima di quella imperiale.
Ma anche quando non si trattava di sciogliere contrasti, l’attenzione dei maestri per i verba legis non andava disgiunta da una simultanea considerazione per il fondamento di una norma (sensus, mens, intellectus, ratio legis). Anche nelle prime generazioni di glossatori fa la sua comparsa sulla scena questo aspetto dell’attività ermeneutica, che può condurre ad attribuire alle parole delle leggi un significato più ristretto, più esteso o del tutto diverso da quello letterale, e anche a estendere la loro portata a casi non espressi. Si sa che questa operazione, consistente nello scrutare più a fondo l’elemento razionale delle leggi sotto l’involucro della loro veste formale, fu perseguita con maggiore slancio soprattutto dopo che Giovanni Bassiano e Azzone ravvisarono nella causa (o ratio) l’elemento essenziale della norma giuridica, dotandola di una forza precettiva idonea a farle regolare casi simili.
Alcuni giuristi, del resto, avvertono l’audacia inventiva di certe costruzioni. C’è, per es., un episodio eloquente che vede protagonista Piacentino, il quale, nella Summa Codicis, dopo aver riferito l’opinione secondo cui la testimonianza di una sola persona, pur essendo priva di valore probatorio, poteva avere almeno l’efficacia di una presunzione, prorompe in una delle sue invettive, lamentando la totale mancanza di base testuale di questa idea: «nusquam legi quod unus testis admitti debeat, vel ad praesumptionem» (cit. in A. Gouron, Juristes et droits savants: Bologne et la France médiévale, 2000, p. 88).
Tuttavia, il fatto che i glossatori si dedichino anima e corpo a conciliare o a comprendere le leggi romane non è segnale di una scarsa percezione della realtà sociale, di una inesistente scissione tra l’intellettuale, «testa senza mondo», e la società. I legisti, infatti, se pure rivelano ciascuno secondo la propria personalità la compresenza di diverse tendenze, non escluse quelle metafisiche e logiche, a una più attenta considerazione si dimostrano uomini bene immersi nei problemi della loro epoca, intenti a studiare fin nelle pieghe più minute i testi romani per cercare in essi delle risposte vitali ai problemi del loro tempo, che sono poi, principalmente, quelli di una società urbana e comunale in forte fermento. La stessa idea capitale di concepire le figurae romane come eterne, dogmi astratti utili a inquadrare i fenomeni (rapporti agrari, contratti, testamento, dote, donazione nuziale, tutela, per non parlare del processo e delle azioni) denota un intento di studio dal sapore concreto. Ciò non esclude che vi siano stati modi diversi di atteggiarsi, rispetto alle fonti e alla prassi. La cultura elaborata sui libri legales ha avuto i suoi percorsi e ha avanzato la pretesa di ordinare la realtà ora contro le consuetudini, ora in accordo e a giustificazione di assetti già esistenti. Sono considerazioni da rinviare a un esame specifico del pensiero dei giuristi (e del suo effettivo impatto). Quel che preme di sottolineare è che la loro fu una cultura laica, ben attenta al mondo circostante.
Impegnati nell’arduo compito di enucleare dalle leggi romane dei principi coerenti, i glossatori non pensano, in un primo momento, che a coordinare in sistema le autorevolissime leggi romane, rimanendo all’interno dell’hortus conclusus di Giustiniano.
Essi non si muovono tuttavia all’interno di un orizzonte normativo monolitico. Una prima occasione di dinamismo è offerta dall’esigenza di risolvere i contrasti tra diritto civile, diritto naturale e diritto delle genti, come imponevano precisi spunti delle fonti romane. Ciò diede luogo a disegni armonizzanti, in cui far convivere l’apporto di ciascun ordinamento, segnale ulteriore di complessità di una cultura non prigioniera di un testo considerato come mero atto di volontà. Lo ius civile era una sfera normativa che costituiva parte integrante di un sistema articolato di diritti. Fu lo strumento equitativo della giusta causa quello che, alla lunga, permise ai giuristi di giustificare la deroga ai diritti superiori da parte del diritto civile.
Meno sentita fu, all’inizio, l’esigenza di comporre l’eventuale contrasto tra diritto civile e altri diritti del pluralistico Medioevo. Il problema scottante del rapporto tra consuetudini e leges, tuttavia, venne ben presto risolto nelle scuole di Bulgaro e Bassiano, poste dinanzi a uno dei soliti enigmi di Giustiniano, riconoscendo la liceità della deroga delle leges in sede locale, per es. nelle singole città: un passo gigantesco, come è stato definito, nella direzione della valorizzazione dei diritti locali.
Gli attriti tra diritto civile e diritto divino, viceversa, non ispirarono risposte altrettanto decise: la deroga al primo da parte del secondo, che implicava di riconoscere la superiorità della lex divina sulla lex romana, fu più dura da ammettere. La stessa divergenza di vedute tra Bulgaro e Martino, più rigoroso e fedele alle fonti l’uno, più disposto l’altro ad andare in cerca di ragioni equitative (scritte) da estendere e a far valere istanze etiche, in questo campo non si può sempre riscontrare. Ancor meno breccia suscitarono nelle coscienze dei glossatori le norme canoniche, così da giustificare per mezzo di esse la deroga alle leggi romane. L’atteggiamento di orgogliosa distinzione di campi, del resto, si perpetua fino ai grandi giuristi del Duecento, come Odofredo, che spesso proclama ai suoi studenti che i legisti («nos legistae») usano mantenere fede ai precetti romani anche di fronte a contrarie decretali pontificie. I civilisti, infine, anche al di là di questo problema dei contrasti, non sembrano molto interessati a unire diritto romano e diritto canonico nella soluzione dei vari problemi come invece, almeno a partire da Uguccione da Pisa, faranno con crescente abilità, i canonisti. Una maggiore attitudine nel servirsi anche di norme dell’altro foro, tuttavia, si è potuta notare in alcuni dei nostri professori, specie nella loro attività pratica.
Sul finire del sec. 12°, comunque, avviene un fenomeno importante: s'intensifica l’interesse di alcuni glossatori particolarmente perspicaci (come Giovanni Bassiano, Pillio, Roffredo) anche per i fatti della vita quotidiana non considerati dalle leggi romane. In termini tecnici, accanto al dilemma nascente dalla presenza nella compilazione giustinianea di due o più leggi contenenti discipline divergenti dello stesso fatto, un’altra specie di dubbio comincia ad affacciarsi con insistenza. Quando, per es., ci si chiede quanti testimoni occorrano per la validità di un testamento o quale valore debba ricevere la testimonianza di un reo confesso a carico del suo complice, il quesito nasce dal fatto che la risposta è già contenuta nelle leggi romane, ma è contraddittoria e si tratta di discutere sul significato da attribuire alle stesse. Quando invece ci si domanda come debba essere interpretato il legato di un marito che nomina la moglie domina et ususfructuaria, usando due termini giuridici apparentemente contraddittori (dominium e ususfructus), la risposta non può essere reperita in alcuna norma giustinianea direttamente contemplante il caso. Questa seconda specie di quaestio iuris è detta ex facto emergens. Il giurista medievale, in tali circostanze, non rinuncia a dare il suo contributo, ma senza enunciare autoritativamente una soluzione isolata. Egli disputa, adottando, ancora una volta, un abito problematico: confronta cioè due soluzioni opposte, elaborando per ciascuna una serie di argomenti, e quindi sceglie quella più persuasiva, secondo le regole del liberaliter disputare. Compiendo quest'attività, tuttavia, egli passa dalla conoscenza all’uso del diritto romano, perché una quaestio ex facto non si può risolvere senza possedere una piena scientia delle leggi.
La quaestio ex facto è dunque il simbolo dell’apertura dei giuristi medievali a fatti e problemi ulteriori rispetto a quelli presi in considerazione dalle leggi romane, sulle quali, giova ribadire, i glossatori già esercitavano il loro intelletto per cavarne regole applicabili alla prassi del loro tempo. In queste ipotesi, in modo ancor più appariscente, era il doctor a dover creare la soluzione del caso che il diritto romano non apprestava direttamente. Il modo principale era quello di inferirla, mediante apposite argomentazioni, dalle leggi romane esistenti, anche se relative ad altre fattispecie, costruendo quello che in gergo tecnico si chiama sillogismo dialettico. I maestri sono abituati a dire che la soluzione dev'essere provata, ma non di dimostrazione scientifica si tratta, bensì di una conclusione meramente probabile, soggetta a prova contraria, resa oggettiva dalla natura dialettica del ragionamento applicato ai testi del diritto romano: evidentemente, il diritto per antonomasia. Si coglie nel contempo, in questo cruciale passaggio, uno snodo culturale: il giurista, per disputare, deve affinare le sue cognizioni. Accanto alla logica vetus, che aveva ispirato le distinzioni, si rende necessario sfruttare meglio la logica nova aristotelica. Si comprende pertanto l’interesse per le varie specie di argomenti utilizzabili: quei modi arguendi, luoghi logici, di cui esistevano provvidi cataloghi antichi e recenti.
Il diritto romano è chiamato in causa due volte, in questa operazione: perché chi imposta la quaestio ex facto deve conoscere bene il maggior numero di leggi romane dalle quali argomentare e perché i possibili argomenti sono tanti e per poter essere utilizzati debbono essere legittimati da un avallo preciso delle fonti romane. E per questo esercizio, che porta l’aria del processo nelle aule universitarie, si trova uno spazio più adeguato di svolgimento fuori dalle ore riservate alla lezione, in incontri che appassionano gli studenti e continuano nel secolo seguente e nel Trecento, emblema di una prassi che è stata definita colta, e investe anche i consilia, cioè i pareri richiesti al doctor, aventi in comune la stessa struttura dialettica (serie di argomenti pro e contra, chiusi da una solutio, anche in forma di distinctio) e che perciò si prestano a proficui scambi con l’attività didattica.
Fuori Bologna, inoltre, si affermano anche culture alternative: una scienza di giudici dotti e una scienza di professori rivolta in maniera più netta anche ai pratici, capace di proporre mutamenti di metodi didattici (lo straordinario esperimento brocardico di Pillio da Medicina a Modena, con il Libellus disputatorius), di elaborare summae per il processo o di sfruttare più largamente i Tres libri o i Libri feudorum.
Verso la metà del Duecento accade che alcuni apparati assurgano a un’auctoritas che nessun testo dottrinale aveva fino a quel tempo conquistato, diventando corredo stabile e irrinunciabile della lezione e del testo normativo: sono quelli di Accursio a tutte le parti del Corpus iuris civilis, che perciò saranno detti ordinari. Essi sono stati concepiti dal loro autore dopo un meditato studio degli eccellenti apparati di Ugolino e Azzone, che continueranno a essere utilizzati ancora di preferenza in molti centri scolastici. Ma non sono meno importanti, anche ai fini di costituire un modello alternativo, le lecturae di Odofredo, che presentano una scansione interna ritmata su una sequenza ordinata di operazioni, che sviluppano in parte tendenze sorte già in altre scuole, a cominciare dall’attenzione più scoperta per le quaestiones ex facto e per la riduzione della teorica in pratica. Sorprendiamo allora l’arguto giurista bolognese intento a «colligere argumentum ad quaestionem de qua sepe laici dubitant», a lanciare avvertimenti agli studenti sulla frequenza con cui un problema giuridico si prospetta tutti i giorni («et advertatis quia istud est subtile et utile scire: nam iste quaestiones omni die accidunt apud nos»), a ricordare statuti (e a glossarne). Benché pure Azzone e Accursio non manchino talora di affondare le mani nel terreno dei fatti, notando le cose che si devono notare «propter hodiernam consuetudinem».
Con Azzone e Accursio la scienza giuridica autocelebra i suoi fasti: il legista afferma orgogliosamente la sua appartenenza a una cultura laica e universale autonoma da contaminazioni, una filosofia civile che pone i suoi adepti in prima linea tra i ceti emergenti. Molte opinioni di glossatori si sono addirittura trasformate in consuetudine approbata. Il più esimio notaio del Duecento, Rolandino Passeggieri, definisce Bologna «iuris philosophorum nidus» e attribuisce all’arte notarile un volto ancipite, teorico e pratico, nutrito di rationes e non solo di operationes. È la cultura giuridica a illuminare l’intellectus con la cognizione della verità. Anche il suo allievo Pietro d’Anzola incita gli operatori del foro a farsi «amatores scientiae»: nessuno può dirsi «perfectus causidicus» senza la theorica. La cultura dei pratici riconosce dunque il suo debito nei confronti della dottrina.
Una volta affermatasi e cristallizzatasi, inoltre, la Glossa accursiana sarà oggetto di sempre più analitica esplorazione da parte dei giuristi posteriori, che passeranno al microscopio le singole glosse, eventualmente coordinandole se contrarie tra loro: il contrappunto con Accursio è ineliminabile e dà luogo a una vasta produzione di additiones alla Glossa ordinaria. Esse rappresentano, insieme all’ingente arsenale di quaestiones, disputate e magistrali, il fatto più significativo del ricchissimo periodo dei giuristi italiani postaccursiani, moderni e moderniores, costellanti il panorama dottrinale della seconda metà del sec. 13°, che suona ormai obsoleto definire un periodo in attesa di Bartolo, visti i tanti contributi dottrinali, affidati per lo più a opere fluide. Un’età nuova, insomma, si è aperta ancor prima che i grandi esponenti del commento trecentesco prendano la parola in opere giustamente rinomate, che però non appaiono più come cattedrali nel deserto, ma vanno collegate, salva la loro specifica individualità, ai rinnovamenti metodologici avviati nel tardo Duecento da altri professori di cui si è conservata una traccia più tenue. Un filo di Arianna può essere costituito dai due mirabili libri magni di questioni disputate (chigiano e orsiniano) e dalla consultazione dei commentari di quel grande ricognitore di dottrine che fu il magnus practicus trecentesco Alberico da Rosciate.
È il momento anche dei maestri ultramontani della scuola di Orléans, da Jacques de Revigny a Pierre de Belleperche, legati a doppio filo ai metodi dei glossatori bolognesi, ma anche apportatori di nuovo: nell’uso spregiudicato della dialettica, nel rapporto con la Glossa, nel ricorso più esaustivo alla logica nova aristotelica (in una direzione, tuttavia, che non sbarra la strada alle tecniche dialettiche), nella messa in discussione di risultati acquisiti, nell’invenzione di teorie originali.
In effetti, anche in Italia i maggiori giuristi denotano grande indipendenza di giudizio. Sono maestri del calibro di Guido da Suzzara, Iacopo d’Arena, Dino del Mugello, che si mettono in luce anche nella soluzione di questioni pratiche sollevate dalle norme statutarie, ora sempre più diffuse. I Libri feudorum eccitano le cure di Andrea d’Isernia e Iacopo Belvisi. La cultura giuridica si irradia ormai da tempo in centri universitari diversi da Bologna, come Padova, Perugia, Napoli. La gestione del diritto comune assicura al doctor un potere enorme e gli schiude moltissime opportunità. Il suo ruolo è ormai essenziale per far funzionare i meccanismi della società comunale, come la giustizia e la legislazione. L’egemonia del giurista si fonda sulla sua capacità di porre al centro del discorso lo ius commune, come ora si qualifica il diritto edificato sui testi romani.
Vi sono, nel primo Trecento, giuristi come Iacopo Belvisi e Iacopo Butrigario sr., Riccardo da Saliceto e Giovanni Calderini, che amano sperimentare nel campo delle quaestiones, affilando le armi della logica (che ora è anche quella Modernorum). Né sono da dimenticare Riccardo Malombra e Oldrado da Ponte. I giuristi moderni «subtilius investigant», come è destino dell’umana condizione accrescere le sue conoscenze con il continuo esercizio dell’intelletto.
Tre personalità si stagliano tuttavia sopra le altre per il loro ruolo determinante. Il primo è Cino da Pistoia, autore di una celebre Lectura Codicis (ma anche di due lecturae sopra il Digestum vetus), nelle quali il suo pensiero si alimenta alla fonte, oltre che della Glossa (omaggio al maestro Dino), delle teorie dei giuristi transalpini, che filtrano nella sua opera sempre con discernimento e spirito equitativo. Con Cino contrae un grosso debito Bartolo, il quale a sua volta influirà sul discepolo Baldo degli Ubaldi, complice lo stimolante ambiente perugino.
Nelle lecturae e nei commentari di questi padri, il discorso si incanala entro linee guida in cui ogni legge, scomposta e ricomposta nelle sue parti, è spesso solo il punto di partenza per un discorso più ampio, che abbraccia intere materie.
Vi è una doppia attrazione per le ricercatissime rationes. Da ogni legge vengono ora estratte più regole, esplicitate immediatamente dal giurista, prima di procedere alla loro giustificazione razionale e al loro vaglio dialettico attraverso le persistenti oppositiones, che si risolvono in modo sempre più complicato, con nuove distinzioni e sottodistinzioni che danno il segno della sfrenata libertà dell’interprete. Rationes sono gli argumenta dialettici che i giuristi continuano ad accumulare per determinare le quaestiones ex facto. Il metodo dialettico, dunque, lungi dallo scomparire, si conserva, anche se è affiancato da altri modi di sillogizzare. A corona del complesso di regole ed eccezioni in cui sono tradotte le fonti romane, piegate a significati che, in confronto all’età dei glossatori, ingenerano un senso di vertigine, si moltiplicano inoltre le definizioni, limate fino a renderle inattaccabili. Nel contempo, il giurista trecentesco, ispirato anche dagli Analitici posteriori aristotelici, accentua il fondamento ontologico della propria scienza, che è simultaneamente metafisica e pratica, speculativa e orientata all’agire: la prima dimensione non esclude l’altra, l’occhio del giurista continua a volgersi all’essenza e alla sostanza degli istituti. È ancora una volta il senso di una tradizione, che dai glossatori si estende ai commentatori. I quali, dal canto loro, professano la natura trascendente, oltre l’apprensione dei sensi, degli iura e dei verba magistralia, delle creazioni dottrinali come il concetto di persona ficta: «sicut ponimus nos iuristae», sottolinea Bartolo. Certamente, il contesto esterno preme sempre di più (nei tribunali il rito inquisitorio cammina parallelo all’accusatorio, contratti e testamenti sollevano complicate questioni di qualificazione, i diritti territoriali si sviluppano, il diritto della Chiesa domina le coscienze), facendo da cassa di risonanza alla sottigliezza dei giuristi.
L’ordine e la struttura logica del pensiero ispirano ardite costruzioni sistematiche che trovano la loro più rigorosa esemplificazione nell’opera di Bartolo, impressionante per la capacità di discutere e organizzare, affrontando in maniera più completa e matura (plenissime), o addirittura ex novo, intere materie del diritto, innalzando vere e proprie cattedrali di pensiero, le cui colonne sono costituite da solidi blocchi di quaestiones. Sintesi con le quali dovranno misurarsi tutti i giuristi successivi, in un confronto imprescindibile. Il ruolo creativo del giurista ha raggiunto il suo apice.
La distinzione tra il livello superiore dello ius commune e quello subordinato e condizionato degli iura propria dà un tono inconfondibile alla cultura giuridica dei commentatori, che tirano magistralmente le fila di un discorso avviato da brillanti attori del periodo precedente. Nella loro opera, il diritto comune si impone ormai come strumento d’interpretazione e integrazione degli iura propria, a prescindere dalla sua applicazione come diritto positivo. La considerazione della ratio diviene tuttavia centrale anche nell’esame degli altri diritti, come quello statutario, determinando infinite disquisizioni, testimoniate anche dall’esperienza consiliare. Non viene inoltre meno la considerazione per gli iura superiori, a salvaguardia di una sfera protetta di regole, entro certi limiti non derogabili dall’attività normativa del populus o del princeps.
Con il tempo, i rapporti tra ius civile e ius canonicum si fanno strettissimi: i due universi normativi si incontrano e si integrano, pur nella diversità delle prospettive. L’attenzione per la ratio naturalis e l'aequitas canonica è, per es., un tratto saliente dell’opera di Baldo, giurista filosofo che è veramente, sotto questo profilo, uomo di due mondi, la cui profonda religiosità genera una sensibilità estrema per i contrasti tra le due leggi, che trovano una spiegazione coerente solo nel sistema dell’utrumque ius.
La società che fa da sfondo alle teorie dei commentatori nel Trecento è mutata: ora i giuristi italiani operano nella crisi delle libertà comunali e questo motivo incide fortemente non solo sulle interpretazioni (pensiamo, ad es., all’attacco subito dalla celebre teoria della iurisdictio bartoliana nel campo della potestà normativa statutaria delle città), ma anche su talune scelte metodologiche, come quella che induce Bartolo a comporre tractatus dedicati a quel piccolo microcosmo, che pure è sentito parte di un impero universale.
Nel corso del Trecento e nel Quattrocento è tutto un peregrinare tra sedi universitarie e una circolazione di idee tra docenti (e pratici). Ne ricorderemo solo alcuni altri, come Ranieri Arsendi e Luca da Penne, o Bartolomeo da Saliceto, autore di un acutissimo commentario al Codex. Il genere, comunque, non è ancora al tramonto e lascia tracce cospicue, nei volumi di Paolo di Castro, Angelo degli Ubaldi, Raffaele Fulgosio, Raffaele Raimondi, Bartolomeo Cipolla, Giovanni Nicoletti da Imola, Francesca Accolti, Mariano Sozzini il Vecchio con il figlio Bartolomeo, Alessandro Tartagni, senza trascurare il fiorente mercato dei consilia. Con Giason del Maino siamo nell’epoca di massimo trionfo della communis opinio, cioè di quell’espediente che servì ai giuristi per razionalizzare e dare maggiore certezza al diritto, privilegiando nel foro, nel mare di opinioni dottrinali, quelle più accreditate.
Alla fine di un percorso, la civilistica tira dunque le somme e presenta mirabili quadri riassuntivi di quanto accumulatosi nel tempo, in pagine che dissezionano, sfrondano, ma poi ricompattano, il robusto tronco dell’albero della scienza, senza rinunciare a revisioni critiche. Il mos italicus si consolida, nel momento in cui altri metodi sono alle porte.
Le principali opere dei glossatori, edite e manoscritte, si possono rinvenire in G. Chiodi, L’interpretazione del testamento nel pensiero dei glossatori, Milano 1997. Da qui (e da G. Chiodi, Rolandino e il testamento, in Rolandino e l’ars notaria da Bologna all’Europa, a cura di G. Tamba, Milano 2002, pp. 461-582) sono stati attinti i brani citati nel testo.
Si vedano inoltre:
H. Lange, Römisches Recht im Mittelalter, 1° vol., Die Glossatoren, München 1997.
H. Lange, M. Kriechbaum, Römisches Recht im Mittelalter, 2° vol., Die Kommentatoren, München 2007.
M. Bellomo, Quaestiones in iure civili disputatae. Didattica e prassi colta nel sistema del diritto comune fra Duecento e Trecento, Roma 2008.
M. Bellomo, Inediti della giurisprudenza medievale, Frankfurt a.M. 2011.
Per orientarsi nelle edizioni a stampa dei commentatori è ottima guida:
D.J. Osler, Bibliographia iuridica, 6 voll., Frankfurt a.M. 2000-2009.
F. Calasso, Medio Evo del diritto, Milano 1954.
M. Bellomo, Società e istituzioni in Italia dal Medioevo agli inizi dell’età moderna, Catania 1976, Roma 1991, 19999.
M. Bellomo, L’Europa del diritto comune, Lausanne 1988, Roma 1998.
E. Cortese, Il diritto nella storia medievale, 2° vol., Il basso Medioevo, Roma 1995, 19994.
P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari 1995, 2006, 20116.
A. Padoa Schioppa, Il diritto nella storia d’Europa, 1° vol., Il medioevo, Padova 1995 (rist. accresciuta 2005).
M. Bellomo, Medioevo edito e inedito, 3 voll., Roma 1997-1998.
E. Cortese, Scritti, a cura di I. Birocchi, U. Petronio, 2 voll., Spoleto 1999.
M. Ascheri, I diritti del Medioevo italiano. Secoli XI-XV, Roma 2000.
M. Bellomo, I fatti e il diritto. Tra le certezze e i dubbi dei giuristi medievali (secoli XIII-XIV), Roma 2000.
A. Padoa Schioppa, Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna 2003.
P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari 2007, 20117.
A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, Bologna 2007.
M. Ascheri, Giuristi e istituzioni dal medioevo all’età moderna (secoli XI-XVIII), Stockstadt a.M. 2009.
Su alcuni aspetti metodologici:
E. Conte, Diritto comune. Storia e storiografia di un sistema dinamico, Bologna 2009.
M. Bellomo, Il doppio Medioevo, Roma 2011.
Sul ruolo della logica e della filosofia:
A. Padovani, Modernità degli antichi. Breviario di argomentazione forense, Bologna 2006.
A. Padovani, The metaphysical thought of late medieval jurisprudence, in A treatise of legal philosophy and general jurisprudence, 7° vol., The jurists’ philosophy of law from Rome to the seventeenth century, ed. P.G. Stein, A. Padovani, Dordrecht 2007.
Studi di storia del diritto medioevale e moderno, a cura di F. Liotta, Bologna 2007 (in partic. A. Errera, Alle origini della scuola del commento: le 'additiones' all’apparato accursiano, e Tra 'analogia legis' e 'analogia iuris': Bologna contro Orléans, pp. 41-137 e 139-89).
A. Padoa Schioppa, France et Italie dans l’histoire du droit: greffes et osmoses (Lectio doctoralis, Montpellier, 6 octobre 2011), «Italian review of legal history», 1, in corso di stampa.
A. Padovani, ‘Tenebo hunc ordinem’. Metodo e struttura della lezione nei giuristi medievali (secoli XII-XIV), «Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis», 2011, 79, pp. 353-89.