Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Grazie soprattutto all’operato di Innocenzo III lo Stato della Chiesa assume i connotati territoriali e amministrativi che lo caratterizzeranno a lungo per il resto del Medioevo. Anche durante il periodo della cosiddetta “cattività avignonese”, uno dei principali interessi del papato sarà quello di consolidare la propria posizione nei domini italiani.
La morte dell’imperatore Enrico VI di Svevia (1165-1197) e l’elezione del pontefice Innocenzo III (1160-1216) nel 1198 danno l’avvio all’ultima fase della formazione dello Stato della Chiesa nel Medioevo.
Nel corso del XII secolo naufraga ogni velleità dell’imperatore di imporre il suo protettorato sui domini pontifici. Dopo alcuni vani tentativi di Alessandro III (1110-1181) e Celestino III (1106-1198) di estendere l’autorità pontificia sulla Marca d’Ancona e sul Ducato di Spoleto, Innocenzo III vi riesce, grazie ad un’azione amministrativa efficiente e ad alcuni privilegi imperiali di Enrico VI e di suo figlio Federico II (1194-1250): è l’attuazione di quella politica che la storiografia (Ficker, Maccarrone) ha definito “delle ricuperazioni”.
Il grande pontefice fa assumere allo Stato della Chiesa quella configurazione territoriale che avrebbe conservato per tutto il resto del Medioevo: l’antico ducato di Roma da Radicofani a nord fino a Ceprano a sud; la Sabina; il Ducato di Spoleto; la Marca di Ancona; l’enclave rappresentata dalla città di Benevento. Questi territori sono elencati in due importanti diplomi di Federico II di Svevia, rispettivamente del 1213 e del 1219. Innocenzo rivendica anche il possesso della Romagna, ma non riesce mai ad ottenerlo.
Fino agli inizi del Duecento le pretese pontificie riguardano l’esercizio dei diritti signorili sulle terre che costituiscono il patrimonium Sancti Petri, come attesta chiaramente il Liber Censuum, redatto alla fine del XII secolo, che contiene la raccolta ufficiale di tutti i documenti comprovanti la legittimità dei diritti fondiari vantati dalla Santa Sede nelle regioni ecclesiastiche.
È merito di papa Innocenzo III l’aver introdotto un ordinamento amministrativo, che sarà poi consolidato dai suoi successori. Esso si basa sulla divisione delle terre ecclesiastiche in immediatae subiectae, o di dominio diretto, che potremmo chiamare demaniali, e in mediatae subiectae, o di dominio indiretto, che costituiscono delle signorie territoriali autonome.
Nei confronti delle terre di dominio indiretto, il pontefice non avanza alcuna richiesta rilevante, rinuncia a sottometterle a vincoli di natura feudale ed è soddisfatto dell’accettazione da parte dei signori che le detengono del riconoscimento formale della sua autorità e del versamento di un censo annuale.
Per quanto riguarda, invece, le terre di dominio diretto, Innocenzo III cerca di riportarle sotto il suo effetivo controllo. Sparse in tutte le regioni, sono affidate a castellani e a signori che si comportano con grande libertà. Le terre, poi, che costituiscono i benefici dei vescovadi e dei grandi monasteri, spesso molto estese, grazie all’ordinamento canonico restano immuni da un controllo diretto e immediato del pontefice.
La riforma innocenziana divide le terre di dominio diretto in ampie circoscrizioni. Al vertice di ciascuna è posto un rappresentante del pontefice, con il titolo di rettore. L’ampiezza ed il numero dei rettorati varia frequentemente nel corso del secolo XIII.
I rettori pontifici sono scelti tra gli alti ecclesiastici (molti sono cardinali) e tra gli esponenti delle grandi famiglie romane. Provvedono al governo delle terre e all’esazione dei diritti signorili spettanti alla Chiesa. Amministrano anche la giustizia, in una corte itinerante, coadiuvati da giudici ed ufficiali.
A partire dalla metà del Duecento i rettori sono affiancati dai tesorieri, che, in quanto diretti rappresentanti della Camera apostolica, sottraggono ai rettori la gestione delle entrate.
Le terre immediatae subiectae, sottoposte all’autorità dei rettori, comprendono anche i Comuni demaniali. Innocenzo III adopera, per la loro amministrazione, il modello degli ordinamenti municipali del Regno di Sicilia in età normanna. Contrariamente a quanto è avvenuto per il passato, egli abbandona la formula diarchica, che comporta la compresenza, al vertice dell’amministrazione comunale, di un funzionario pontificio e di un rappresentante del Comune. Pone al vertice dell’università un magistrato di nomina pontificia. Di fatto, però, raramente provvede a nominarlo, e si ritiene soddisfatto, così come i suoi immediati successori (Onorio III, Gregorio IX, Innocenzo IV), del riconoscimento formale di tale diritto.
Innocenzo III completa il quadro dell’ordinamento temporale con l’istituzione provinciale dei parlamenti. Riuniti con una certa regolarità nel corso del Duecento, sono costituiti dai signori territoriali, da dignitari ecclesiastici e dai rappresentanti delle città demaniali presenti in ciascun rettorato. I loro compiti sono quelli di tutelare le consuetudini locali, di risolvere le vertenze in atto, di migliorare la legislazione corrente attraverso la promulgazione di nuove costituzioni (ordinamenta), di giudicare in ordine alla legittimità dei sussidi straordinari richiesti dal rettore per la difesa del territorio (tallia militum).
Questa struttura organizzativa va a sovrapporsi alla moltitudine degli ordinamenti locali vigenti nelle varie regioni, e comporta il definitivo riconoscimento della superiorità temporale del pontefice. Essa favorisce, oltre che una migliore gestione del potere, una più puntuale ed attenta riscossione delle entrate ordinarie, consistenti nelle rendite demaniali e nelle entrate della giustizia. A queste si aggiungano, poi, i censi che sono versati alla camera apostolica dalle signorie delle terrae mediatae subiectae.
La storiografia (Waley, Colliva) ha sostenuto che questo sistema, che indubbiamente mostra per tutto il Duecento aspetti di grande debolezza, sia caratterizzato non tanto da una vocazione unitaria, quanto, piuttosto, da una articolazione provinciale, sia, cioè, un “ordinamento regionale”. Il fatto è che il pontefice, privo di una effettiva signoria territoriale su cui contare, è costretto a tenere conto degli ordinamenti locali, a cercare di esercitare innanzitutto i diritti demaniali, ad essere presente soprattutto nel governo delle terre immediatae subiectae. Sulle signorie autonome egli non interviene, si limita a riconoscerle e a legittimarle, conferendo ai signori il vicariato apostolico, sull’esempio di quanto va facendo l’imperatore Federico II di Svevia. In questo modo, pur accentuandone la separazione di fatto, il pontefice si assicura la loro fedeltà formale ed il riconoscimento della sua alta potestà, secondo un modello che sarà ampiamente utilizzato.
Nel 1309 il pontefice francese Clemente V (1264-1314) decide di trasferire la sede del papato da Roma ad Avignone, in Provenza, dove essa rimane fino al 1377.
La tesi di chi ha sostenuto che i papi di Avignone abbiano trascurato in questo periodo (definito, con un chiaro riferimento biblico, “la cattività avignonese”) l’amministrazione dei domini italiani è oggi superata. Si è, infatti, concordi nel ritenere che i possessi italiani siano tra le principali preoccupazioni dei pontefici avignonesi. Costoro spendono la maggior parte delle proprie entrate per mantenere le loro posizioni in Italia e, nonostante le molte battute d’arresto, assicurano complessivamente un costante progresso all’organizzazione della struttura amministrativa dello Stato della Chiesa, che nella prima metà del Trecento vede il declino dei liberi Comuni e l’ascesa delle nuove istituzioni signorili.
I Comuni dello Stato pontificio perdono rapidamente importanza. Uno dei più importanti, quello di Roma, è privato del suo autogoverno, ed è riportato sotto l’autorità di Benedetto XII (1285-1342). La sua successiva ribellione, guidata da Cola di Rienzo (1313-1354) nel 1347, ha vita breve e non rimuove affatto la signoria papale.
I titolari delle Signorie sono, al contrario, di più difficile controllo. Fin dalle loro prime apparizioni, essi minacciano il potere pontificio e, in alcuni casi, conducono al caos politico. Ne sono un esempio i ribelli signori della Romagna e della Marca di Ancona.
Ma l’età delle Signorie comporta per lo Stato pontificio anche fruttuose ed a volte imprevedibili possibilità di consolidamento.
Quando una città passa dal dominio di un signore al governo diretto della Chiesa, si consolida la prassi di non riconoscere alla Universitas i diritti di cui ha goduto per il passato. L’amministrazione pontificia prende in tutto e per tutto il posto del vecchio signore e revoca, come è consuetudine dei signori, la costituzione del Comune. Viene, inoltre, nominato un nuovo tipo di vicario o rettore pontificio delle città, con il compito di amministrare il potere nei modi e nelle forme proprie della signoria.
Per la Curia romana il principale problema politico-diplomatico di questi anni è quello di ottenere una trattativa soddisfacente con quei signori o tiranni che non riesce a scacciare dalle loro posizioni. Il sistema che è adottato consiste nel concedere una città, governata da un tiranno, allo stesso tiranno, nominato nell’occasione “vicario apostolico”, in cambio di un considerevole census annuale. Si tratta di una soluzione di ripiego che consente al papato di confermare la sua autorità e di trarre al tempo stesso il maggiore utile possibile. Infatti, i signori adempiono a poche delle obbligazioni assunte al momento della loro nomina a vicari apostolici, e la loro stessa esistenza è nociva per il buon governo. Però, poiché la Chiesa non è in grado di contrastare sul piano militare i tiranni, deve necessariamente accettare questa soluzione di compromesso, che è estesa dal cardinale legato Egidio d’Albornoz (legato dal 1353 al 1357 e dal 1358 al 1363) dalla Romagna all’intero territorio dello Stato pontificio.
Tutta la struttura dell’amministrazione pontificia continua ad espandersi ed a diventare più efficace; la maggior parte della complessa organizzazione della curia rectoris è già attiva al tempo dell’Albornoz. Il numero dei Comuni che eleggono il proprio podestà diminuisce rapidamente. All’Albornoz si deve la codificazione delle molte costituzioni emanate dai precedenti rettori e papi, le cosiddette Constitutiones Aegidianae: tale codificazione diviene il punto di partenza del diritto pubblico dello Stato della Chiesa.
Nonostante questi grandi progressi nel governo, il problema del disordine nello Stato della Chiesa resta più o meno immutato. Il particolarismo locale è la regola. Il governo centrale deve di necessità scendere a patti con esso, non possedendo né la forza armata né le entrate necessarie.
Anche se i liberi Comuni sono in declino, essi continuano fieramente ad imporre la propria influenza e il proprio governo sul distretto circostante (comitatus), cosicché ogni città diventa più difficile da gestire. Il ritorno del papato in Italia, sotto Urbano V (1310-1370) e Gregorio XI (1330 ca.-1378), non migliora la situazione. Al contrario esso è segnato nel 1376 da una diffusa e grave ribellione.
Nel 1378, con la restaurazione dei papi italiani, ai problemi del particolarismo si aggiunge il rinnovato problema del nepotismo papale, che riporta un altro e non meno pericoloso complesso di interessi locali ad interagire nell’azione politica pontificia.
È vero che il problema del particolarismo e del disordine locale è un male endemico dello Stato medioevale. Tuttavia, la peculiare struttura di uno Stato governato da ecclesiastici, che spesso restano in carica solo per un breve periodo, rende il governo dello Stato pontificio abbastanza più debole di quello degli altri Stati. Il loro dominio temporale non ha la continuità di cui godono gli Stati laici. Gli interessi locali, d’altra parte, sono ben radicati e possono essere affrontati adeguatamente solo quando i papi abbiano le mani libere e siano esenti dagli attacchi contro la loro giurisdizione spirituale. Il Grande Scisma, che segue la doppia elezione del 1378, pur apportando un danno notevole al governo dello Stato della Chiesa, non ne può arrestare la tendenza, ormai irreversibile, della subordinazione del territorio al potere centrale, secondo il modello basato sulla gerarchia degli officiales e il potere assoluto del pontefice.