LOCRI EPIZEFIRÎ (Λοκροὶ οἱ 'Επιζεϕύριοι; lat. Locri; gli abitanti Locrenses)
Colonia greca della Magna Grecia (v.), fondata, intorno alla metà del sec. VII a. C. (data tradizionale, in Eusebio, il 673 a. C.) da coloni provenienti dalla Locride Opunzia, per la maggior parte, ma anche dalla Locride Ozolia e anche, probabilmente, dalla Focide: né è escluso che anche elementi corinzî e ionici si trovassero nella originaria popolazione di Locri. La mescolanza di elementi di diverse città e stirpi è del resto fenomeno comune a tutte le colonie greche; che però tale mescolanza fosse insolitamente accentuata in questa città, parrebbe doversi derivare dal fatto che Locri si diede, prima d'ogni altra città greca, un diritto scritto, necessario soprattutto là dove non potevano conservare il loro valore i diritti tradizionali e orali delle diverse stirpi. Ecista sarebbe stato Evante.
I coloni si stanziarono presso il promontorio Zefirio (a nord del Capo Spartivento); dopo qualche anno si trasferirono però una ventina di chilometri più a nord, sul colle Epopis, ma si designarono tuttavia col nome di Λοκροὶ οἱ 'Επιζεϕύριοι, per distinguerli dai Locresi della madrepatria. Le rovine della città si vedono oggi in prossimità del villaggio di Gerace Marina, a circa quattro chilometri a sud-ovest della stazione Gerace (sulla linea Taranto-Reggio): sono state studiate più volte da archeologi italiani e stranieri, ma specialmente, in questi ultimi anni, da P. Orsi.
La costa del Bruzio, sulla quale erano venuti a stanziarsi i fondatori di Locri, era ormai la sola rimasta disponibile nell'Italia meridionale; la ragione di ciò va ricercata, molto probabilmente, oltre che nella posizione geografica di detta costa, nella natura degli abitanti: un popolo essenzialmente guerriero - come insegnano anche i risultati degli scavi - e, secondo i dati delle fonti, di stirpe sicula. Da queste popolazioni indigene, con le quali è da presumere che i nuovi venuti abbiano dovuto accettare la convivenza nel territorio occupato per fondarvi la città, potrebbero i Locresi avere derivato certi istituti, estranei certamente alla loro civiltà e che si riscontrano ancora in piena eta storica in quella colonia, quali il matriarcato e la prostituzione sacra: istituti che, in tal caso, i Siculi stessi avrebbero ricevuto dalla popolazione prearia di quell'estremo lembo d'Italia.
All'azione esercitata dagl'indigeni sui coloni di Locri saranno da ascriversi anche le notevoli differenze che si riscontrano tra la religione della colonia e quella della madrepatria; e cioè il posto eminente dato al culto dei morti e la venerazione di Persefone, adorata però, almeno in origine, non precisamente nella figura della Kore greca (la figlia di Demetra), ma con tratti nuovi, desunti evidentemente da quelli di una divinità indigena: e del resto, la ubicazione del tempio di Persefone fuori delle mura della città ce lo fa identificare con un preesistente santuario indigeno.
Il primo avvenimento della storia di Locri può considerarsi la legislazione di Zaleuco (v.), il più antico codice scritto d'Europa, adottato anche da altre città della Magna Grecia (Sibari, Turi).
Benché minacciati a nord dall'ognora crescente potenza di Crotone, a sud da quella della calcidese Reggio, i Locresi poterono spingersi attraverso le montagne del Bruzio e fondare, verso la fine del sec. VI, sull'opposta sponda della penisola, i loro stabilimenti di Medma e d'Ipponio e, più a sud, Matauro, appartenente forse prima ai Calcidesi. Il contrasto con Crotone condusse, poco dopo il 530 a. C., a guerra aperta fra le due città: guerra che si chiuse con quella famosa battaglia della Sagra, nella quale i Locresi, aiutati, come pare, da Reggio, riportarono piena vittoria.
I primi decenni del sec. V segnarono il massimo fiorire della prosperità locrese, favorita anche dall'amicizia di Sparta e di Taranto. Gli abitanti della colonia si dedicarono specialmente alla coltura degli alberi e all'allevamento dei cavalli; si acquistarono fama nella musica e nel canto. Il guastarsi dei suoi rapporti con Reggio e il rapido risollevarsi di Crotone, anche per l'azione spiegatavi dal filosofo Pitagora, impedirono a Locri di dare alla sua potenza basi durevoli. Dopo avere subito l'egemonia di Crotone e un tentativo di conquista da parte di Anassila di Reggio, riuscì, negli ultimi decennî del secolo V, a rientrare in possesso del territorio suo e delle sue colonie, aggiungendovi anche quello di Temesa: ma il dominio su queste città non fu saldo e duraturo. Durante la spedizione ateniese in Sicilia, Locri, ormai inconciliabile nemica di Reggio, fu fedele alleata dei Siracusani; e, seguendo sempre tale politica ostile a Reggio, stette dalla parte di Dionisio di Siracusa nella lotta che questi condusse contro Reggio: prostrata Reggio e vinta la Lega italiota, Locri fu largamente compensata da Dionisio che le assegnò i territorî di Scillezio, Caulonia, Medma e Ipponio. Nel 356, Dionisio II, espulso da Siracusa, si rifugiò a Locri, dove instaurò un governo tirannico che lo fece venire in odio alla città e determinò la sua cacciata. Locri ebbe allora per la prima volta un governo democratico: ma la pressione dei Bruzî, di giorno in giorno crescente, fu causa della progressiva decadenza della città.
Nel 282 a. C. ricevette un presidio romano; due anni dopo si diede a Pirro, il quale però la punì, di lì a poco, della sua defezione, saccheggiando il tesoro del tempio di Persefone. Durante la seconda guerra punica, si arrese ad Annibale, ma fu riconquistata da Scipione nel 205 a. C. Durante l'impero, si ridusse a un piccolo borgo sulla marina; nel sec. VII fu distrutta dai Saraceni e i pochi abitanti superstiti si rifugiarono a Gerace Superiore.
Bibl.: H. De Luynes, Ruine di Locri, voltate in italiano da A. Capialbi, Napoli 1849; P. Scaglione, Storia di Locri e Gerace, Napoli 1856; P. Orsi, Locri Epizephyrii, in Bollettino d'arte, III (1909), pp. 406 segg., 463 segg.; id., Appunti di protostoria e storia locrese, in Saggi di storia ant. e d'arch. in onore di G. Beloch, Roma 1910, p. 155 segg.; W. A. Oldfather, Lokrika; sagengeschichtliche Untersuchungen, in Philologus, LXVII (1908), pp. 411-72; id., art. Locri, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIII, coll. 1298-1363; G. Giannelli, Culti e miti della Magna Grecia, Firenze 1924, pp. 218 segg., 328 segg.; id., La Magna Grecia da Pitagora a Pirro, Milano 1928; E. Ciaceri, Storia della Magna Grecia, I, 2ª ed., Città di Castello 1928, p. 185 segg.; L. V. Bertarelli, Guida d'Italia del Touring Club Italiano, III: Italia meridionale, Milano 1928, p. 549 segg.
Terrecotte locresi.
Nelle colonie greche dell'Italia meridionale la coroplastica fu un'arte fiorente, cui diede impulso, più che altro, la popolar) tà di certi culti e il poco costo delle numerose positive che era possibile trarre da una stessa matrice. Fra i principali centri di produzione fu Locri Epizefirî. La congerie di terrecotte figurate, ivi scoperte, acquisterà rilievo e importanza dalla pubblicazione che P. Orsi sta ultimando sugli scavi di Locri. Ma il fior fiore sono i pinakes, tavolette fittili votive con rappresentazioni a rilievo, di cui si conosceva, oltre a qualche esemplare, la collezione Candida in Gerace, oggi al museo di Taranto. Le campagne dell'Orsi (1908-1909) ne rintracciarono un grande deposito, ora al museo di Siracusa, che fu trovato, fuori della cinta della città, fra il muro d'argine e il muro di briglia costruiti dagli antichi lungo il torrente fra i colli Mannella e Abbadessa. La favissa era pertinente al sacrario che, dalla parte della Mannella, sorgeva lì presso, in onore di Persefone; gli ex-voto, tutti accumulatisi fra la metà del secolo VII e quella del V a. C., vennero alla fine raccolti, ridotti in pezzi e gettati nell'intercapedine fra i due muri. Le tavolette locresi sono di argilla locale, e hanno forma rettangolare: il rapporto fra lunghezza e larghezza varia: in generale le misure vanno da cm. 10 a cm. 30; lo spessore varia fra i 5 e gli 8 mm. Munite di listelli di cornice, esse erano ottenute a stampo; venivano quindi solo leggermente ritoccate, e poi ravvivate da policromia. Come denunciano i fori in alto, si appendevano, in offerta alla divinità, dentro l'area del recinto sacro, forse agli alberi. Quanto ai soggetti, ci si può per ora attenere ai 42 tipi distinti dall'Orsi, così raggruppati: I, offerte alla divinità, questa presente; II, offerte varie, assente la divinità; III, corteo e danza di offerenti; IV, scene di toletta, V, ratto di fanciulla; VI, cista mistica col bambino; VII, raccolta di frutti; VIII, tipi varî.
L'interesse delle tavolette locresi, che si debbono porre intorno al decennio tra il 480 e il 470 av. C., non è solo nel soggetto mitico e rituale, che gravita intorno al culto di Persefone, Ade, Echelos, e forse Afrodite, ma anche nella singolarità ed eccellenza del lavoro. Questo, oltre a rappresentare un prodotto d'arte greca originale, costituisce un indirizzo artistico, che, pure partendo dallo stile ionico, e tendendo al dorico, dimostra, per quel tanto di acquisito e di assimilato che vi si assoda e quel tanto di fresco e d'ispirato che vi si libra, di essere animato da un nuovo intendimento di bellezza. E questa non è concepita come riflesso d'una grande arte, ma è liberamente creata, con vera coerenza tecnica, rappresentativa ed estetica, nella bottega d'un artista di genio, il quale non soggiace alla corrente artistica imperante, ma vi partecipa attivamente, portandovi l'afflato della propria personalità in contatto con i fattori religiosi, forse orfici e pitagorici, che dominavano localmente.
Bibl.: Q. Quagliati, in Ausonia, III (1908), pp. 136-234; A. Della Seta, Italia antica, 2ª ed., Bergamo 1928, pp. 163-64, con bibl.