LOTARIO I, imperatore, re d'Italia
Primogenito di Ludovico il Pio, re di Aquitania, e di Ermengarda, nacque in Aquitania nel 795. Conobbe un primo impegno istituzionale nell'814, quando venne inviato dal padre a governare la Baviera nel quadro di una regalità di secondo piano (Unterkönigtum). Nell'822 fu mandato in Italia, dove assunse la reggenza della penisola.
Diverse le interpretazioni sui modi e le forme attraverso le quali L. esercitò tale potere sovrano. La penisola era stata affidata nell'812 (secondo altri già nell'810, cfr. Albertoni, p. 34) a Bernardo, figlio di Pipino, il quale un anno dopo ne divenne re. La morte di Carlomagno, all'inizio dell'814, e la successione nel titolo imperiale di Ludovico il Pio non avevano scalzato Bernardo, che proseguiva in una buona amministrazione della penisola; tuttavia il giovane re era rimasto tagliato fuori dalla nuova classe dirigente che si andava formando Oltralpe. La rottura esplicita si consumò in seguito alla Ordinatio Imperii dell'817 con la quale Ludovico il Pio divise l'amplissima compagine territoriale ereditata dal padre fra i tre figli, L., Pipino d'Aquitania e Ludovico il Germanico. Per l'Italia veniva dichiarata una "peculiare subordinazione all'autorità dell'imperatore, con espresso riferimento anche a Lotario, primogenito di Ludovico e associato all'impero": così Tabacco (p. 187), che evidenzia come a Bernardo non venisse tolto il governo del Regno "soltanto in virtù di una generica conferma dell'assetto allora esistente" (ibid.). Non si arrivò allo scontro aperto solo perché Bernardo, dopo aver tramato una rivolta, preferì consegnarsi all'imperatore; Ludovico non graziò i congiurati ma commutò la pena capitale nell'accecamento, che portò Bernardo a una rapida e atroce fine. Il suolo italico rimase così privo di un rappresentante imperiale per diversi anni, dall'817 all'822, in uno stato di grande insicurezza, precarietà e anarchia.
La promulgazione dell'Ordinatio Imperii - nella quale era affermato, fra l'altro, "Regnum vero Italiae eo modo predicto filio nostro, si Deus voluerit ut successor noster existat, per omnia subiectum sit, sicut et patri nostro fuit et nobis Deo volente praesenti tempore subiectum manet" (Capitularia regum Francorum, I, p. 273) - diede inizio a un rapporto ambiguo di L. con l'Italia e con lo stesso Impero, del quale veniva sì dichiarato consors, ma privo di un'autonoma titolarità territoriale, se non appunto quella della penisola, affidatagli con una formulazione non lineare e, nei fatti, con un'applicazione non immediata.
Quando L. giunse in Italia, provvisto della sola investitura sancita dalla Ordinatio Imperii, risiedette a Pavia e più spesso a Corteolona, dove si trovava quando Pasquale I lo invitò a scendere a Roma. Qui, il 5 apr. 823, domenica di Pasqua, "apud sanctum Petrum et regni coronam et imperatoris atque augusti nomen accepit", come riportato dagli Annales Regni Francorum (p. 161).
L. eseguì fedelmente le direttive paterne: forse non a caso, il periodo di più intensa produzione legislativa si concentra proprio nei primi anni, tra l'822 e l'825, per calare sensibilmente dopo l'832. A ciò, tuttavia, fin dall'inizio si accompagnò una saltuaria presenza nella penisola, inizialmente per ulteriori incarichi affidatigli da Ludovico, poi, con il passare degli anni, perché, "impegnato nella sua politica di rivendicazioni imperiali oltralpe, aveva finito per non attribuire al Regno altra funzione che quella di rifugio per sé e per i suoi fedeli quando gli scontri col padre e con i fratelli lo costringevano alla fuga" (Delogu, p. 138).
Se oggi tanto sintesi autorevoli quanto studi puntuali (cfr. Cammarosano, p. 143; Jarnut, p. 354) non concordano con ipotesi che vorrebbero negare una titolarità regia legata all'Italia per L., come per esempio la pur acuta lettura del Bognetti (Appendice, p. 737), il problema assume una tale ampiezza e complessità storiografica da non poter essere trascurato. La questione va inserita nelle problematiche mutazioni degli ordinamenti del territorio peninsulare in atto in quei decenni, a partire dal passaggio dal dominio longobardo a quello franco che aveva visto il mantenimento della denominazione di Regnum Langobardorum, anche se già da Carlomagno si comincia ad attestare la denominazione di Regnum Italiae, con un vischioso scivolamento evidenziato dal passo della Divisio Regnorum dell'806 in cui si affermava: "Italiam vero, quae et Lagnobardia dicitur" (Capitularia regum Francorum, I, p. 127); specificamente per L., solo dall'834 il suo Regnum passa a essere definito con costanza nella documentazione di cancelleria Italiae e non più Langobardorum. In parallelo, si dovrà allora parlare di rex Langobardorum o rex Italiae? Come affermato seccamente da Arnaldi, "in sede rigorosamente diplomatistica, questo problema non sussiste: la prima delle due intitolazioni è la sola che risulti attestata nei documenti d'età carolingia" (p. 105); la mancanza di attestazioni di L. quale rex Italiae rientrerebbe così nella norma. Le questioni fin qui delineate propongono così una figura, quella di L., a cui solo una consolidata tradizione erudita, accolta da diversi repertori, ha in seguito attribuito anche il titolo di re d'Italia. L. non viene però definito neanche come rex, o rex Langobardorum, né nella Ordinatio Imperii né nel racconto degli Annales Francorum - che potrebbe distinguere tra un'acquisizione nominale del titolo di imperatore e un controllo del Regno prescindente dal titolo di re - né in sede diplomatistica, se non in documentazione non definitiva. Tutto ciò può essere specchio, in parte, della sua irrisolta posizione rispetto all'Italia - della quale la responsabilità prima risaliva alle scelte di Ludovico il Pio - ma, più in generale, rispecchia la situazione in cui si era trovato a partire dalla debole investitura della Ordinatio Imperii, in quella totale subordinazione al padre che segnò buona parte dei suoi anni, anche quando contro questo stato di cose si ribellava. Sebbene per molti anni consorte con il padre - e, negli ultimi tempi della sua vita, di nuovo con il figlio - dall'817 L. fu e tentò di essere sempre e comunque imperator ed egli stesso non tenne più di tanto all'Italia, come sottolineato da Delogu. È un fatto che L. non gestì con profitto una penisola tutt'altro che composta in solide forme istituzionali, nemmeno per mero calcolo rispetto alle sue ambizioni: tutto ciò, evidentemente, non dovette contribuire ad avvicinarlo all'Italia, né nella percezione diffusa tra i contemporanei, né nella documentazione scritta, contrariamente a quanto avvenne per il figlio Ludovico II, per il quale peraltro il titolo di imperatore diventava vuoto di reale significato. È normale, allora, che per quest'ultimo sia stato rimarcato il legame istituzionale positivo con l'Italia e che il titolo di rex Langobardorum venisse per lui utilizzato in relazione all'incoronazione del 15 giugno 844. Non a caso egli rivendicò un'investitura sull'Italia non tramite il padre ma direttamente dal nonno, come si evidenzia dall'epitaffio funebre in S. Ambrogio.
Le funzioni di L. nell'Impero, sebbene concentrate in ambito italiano, lontano dalla corte imperiale e nel fondamentale ruolo di tramite con Roma, prevedevano anche frequenti, seppure non troppo lunghe, assenze dalla penisola, in ottemperanza a quanto nella corte Oltralpe si stabiliva; per esempio, il padre lo richiamò per impiegarlo, con il fratello Pipino, il re d'Aquitania, in spedizioni nelle aree più marginali dell'Impero.
Durante una di queste brevi assenze, tra la metà dell'823 e l'inizio dell'824, quando L. si recò presso il padre, due importanti membri della Curia pontificia, il primicerio dei notai Teodoro e il nomenclatore Leone, furono accusati di complottare con i Franchi a danno della Chiesa. Si trattava di persone che avevano legami con la corte, dove - quando arrivò la notizia della loro esecuzione da parte di membri del seguito pontificio accompagnata da voci di popolo che imputavano la condanna allo stesso pontefice - si attivò un'inchiesta. Pasquale I non dette neanche il tempo di portare a termine l'indagine, negando un suo coinvolgimento nei fatti pur rimarcando che la fine dei due era stata meritata. Al momento della morte del papa, che occorse presumibilmente l'11 febbr. 824, gli animi a Roma erano ancora tanto accesi che fu impedita la tumulazione della salma in S. Pietro.
A prendere le redini della situazione fu Wala - il cugino di Carlomagno che, già affiancato a Pipino e a Bernardo nel governo italico, era stato allontanato dalla corte per poi essere richiamato come consigliere di L. - il quale riuscì a imporre un pontefice capace di garantire collaborazione per riformare i rapporti tra Chiesa e Impero. Presumibilmente romano, Eugenio II non deluse le attese franche: quando L., inviato dal padre, si attivò per individuare le responsabilità delle traversie occorse a Roma nei mesi precedenti, la collaborazione fu piena e sfociò nella promulgazione di un testo celebre, la Constitutio Romana, allo scopo di mettere fine ai disordini interni a Roma e definire i rapporti fra Papato e Impero.
Obiettivo della Constitutio (cfr. Capitularia regum Francorum, I) era dare risposte non solo ai problemi contingenti, ma anche alle remote ragioni che li avevano generati. Esse risiedevano, ancora una volta, nelle scomposte mutazioni che andavano assestandosi nella penisola in seguito all'arrivo dei Franchi e ai rapporti preferenziali che essi avevano stabilito con il potere papale, suscitando incomprensioni e insoddisfazioni sia sul territorio peninsulare - tra i molti esponenti della vecchia nobiltà longobarda intrecciati, specie al Sud, con la permanenza dell'elemento bizantino - sia, in ambito romano, con quel populus, la nobiltà laica, che vedeva naturale una propria ingerenza nell'elezione del vescovo cittadino. Questi era divenuto sulla carta il detentore di una sovranità territoriale amplissima dopo la donazione che Ludovico il Pio aveva compiuto in suo favore nell'817. In cambio, ogni nuovo papa doveva sì inviare una legazione in Francia perché si mantenesse solido il vincolo di amicizia con l'imperatore, ma è evidente che tale rapporto poneva il vescovo di Roma in una posizione di grande prestigio, ben oltre i confini cittadini. Gli interessi, dunque, locali e sovralocali si intrecciavano e si alimentavano reciprocamente: in quel contesto fu redatta la Constitutio che riuscì, però, solo in parte a soddisfare gli obiettivi. Per quanto concerne, infatti, le problematiche contingenti, la storiografia rimane concorde nel ritenere che la Constitutio riuscì a ricomporre gli equilibri nella città. Si prevedevano la riparazione dei danni occorsi di recente e un riordino del diritto che partiva dall'obbedienza dovuta al papa e ai suoi duchi e giudici; tutti potevano scegliere, secondo l'uso franco, la legge in base alla quale volevano essere giudicati. Non solo: due messi permanenti, uno nominato dal papa, l'altro dall'imperatore, avrebbero garantito l'equità dei giudizi e riferito al papa eventuali lamentele contro i funzionari; si veniva così a stabilire un controllo dei vertici sull'amministrazione della giustizia. In riferimento all'elezione del papa, si prevedeva il ripristino dei diritti dei laici, estromessi nel 769 dall'elezione. Veniva altresì stabilito che il popolo romano giurasse fedeltà agli imperatori e che lo stesso pontefice riconoscesse a sua volta l'autorità imperiale prima di essere consacrato alla presenza di un messo dell'imperatore e del popolo, impegnandosi a mantenere l'ordine stabilito. Si concretava, di fatto, uno stretto legame tra i sovrani franchi e il Papato anche se non si giungeva a una vera e propria conferma dell'elezione papale da parte dell'imperatore, come invece era previsto nel diritto bizantino. Eugenio II prestò giuramento nei termini previsti dalla Constitutio ma di esso non è pervenuto il testo, che sarebbe dovuto rimanere alla base dei successivi: per ciò diviene lecito supporre che la Constitutio non fu applicata nel pieno rispetto di quanto da essa previsto, almeno quanto all'elezione del pontefice e, dunque, ai rapporti tra Roma e Aquisgrana.
Nei decenni successivi la portata effettiva della Constitutio dovette essere esigua - come si vedrà, lo stesso L. non esitò a disattenderla quando le contingenze lo resero utile - a giudicare dall'irrilevanza, nelle fonti, di tracce di una sua applicazione, sebbene L. e la sua corte avessero saputo bene interpretare gli indirizzi politici di Ludovico il Pio, desideroso di valorizzare la dimensione sacrale del potere imperiale.
L. doveva intanto cercare di mettere mano ad altri gravosi problemi che pesavano sul Regnum, alle tensioni tra i vecchi sostenitori di Bernardo e la compagine filoludoviciana, ai dissesti economici e sociali. Cercò di dare una prima risposta con l'Assemblea generale tenutasi a Corteolona nel maggio dell'825; furono istituite sedi per impartire l'insegnamento scolastico in nove città, dove si sarebbero dovuti concentrare gli scolari di almeno un'altra trentina di centri. Se gli esiti di tale decisione non sono puntualmente noti, altre deliberazioni mostrano la situazione di profonda crisi istituzionale, economica, morale e culturale della penisola e, comunque, non dovettero portare immediati benefici se pochi anni dopo, nell'832, un nuovo capitolare dovette occuparsi, tra l'altro, dello stato di oppressione di uomini liberi in stato di povertà, di vilipendio, cospirazioni e inosservanze ai danni delle istituzioni, di reati vari.
Si tratta della raccolta nota come Capitulare Papiense, promulgata nel febbraio da Pavia, dove L. aveva convocato una Dieta per procedere a una revisione completa dei capitolari emanati dal padre e dal nonno Carlomagno, al fine di individuare quelli validi nei territori della penisola. Su di essa si basò, molto probabilmente, il Capitulare Italicum, redatto tra la fine del secolo IX e la metà del X.
L'instabilità prendeva il sopravvento non solo nel Regno, ma in tutto il territorio peninsulare, estendendosi anche alla Chiesa di Roma e alle aree a essa legate. Se le condizioni interne all'Italia non erano dunque delle migliori, nella più ampia dimensione dell'Impero, a partire dagli equilibri nella famiglia regnante, non mancavano di portare a L. nuove preoccupazioni.
Dopo una fase di profonda crisi personale, in seguito ai fatti dell'818, quando anche la moglie Ermengarda morì, Ludovico sposò Giuditta, discendente da due eminenti famiglie di Baviera e Sassonia. Un'unione inaspettata, secondo alcuni stimolata da dignitari di corte timorosi di un'abdicazione del sovrano, che però finì con il portare un ulteriore elemento di crisi nel già precario equilibrio postcarolingio. Nell'823, infatti, nacque un figlio di Ludovico e Giuditta, il cui nome, Carlo, detto in seguito il Calvo, lasciava ben comprendere che un'ulteriore revisione dell'ordine stabilito solo pochi anni prima, nell'817, avrebbe presto avuto luogo. Nell'agosto dell'829 una nuova Dieta convocata a Worms da Ludovico il Pio variava fortemente gli equilibri stabiliti con la Ordinatio Imperii danneggiando, in particolare, l'eredità di L. a vantaggio di Carlo il Calvo, al quale venivano assegnati la Svevia, l'Alsazia, il distretto di Coira e parte della Borgogna. La scelta di Ludovico colpì in particolare il primogenito, più potente ma non abbastanza da riuscire a tenergli testa. In pochissimi mesi, però, L. capovolse il quadro e strinse un'alleanza con i due fratelli per giungere a uno scontro esplicito con il padre. Con la nuova assemblea di Compiègne, del maggio 830, furono ripristinate le condizioni dell'817, e la moglie di Ludovico, accusata di intrighi e adulterio, fu costretta a entrare in convento.
I fratelli di L. tornarono presto a fare fronte comune con il padre, costringendo L. alla fuga; in occasione di una riunione a Nimega, alla fine dell'830, Ludovico annullò così quanto stabilito a Compiègne. L'831 fu forse l'anno più buio della vita di L.: in una nuova divisione dell'Impero venivano individuate tre aree, similmente a quanto già avvenuto in precedenza ma, al posto di L., nella tripartizione subentrò Carlo. Ludovico il Pio si riappropriava dell'autorità imperiale e nessun accenno all'Italia né a L. compariva più, mentre i maggiori personaggi dell'aristocrazia italica aderirono all'imperatore.
Si confermò nella politica di Ludovico il Pio una strategia volta a tenere L., come gli altri figli, legato a lui e all'Impero ma in posizioni comunque subalterne e marginali, mentre egli risiedeva stabilmente nella ristretta area centrale del dominio, tra il Reno e la Senna. L'inserimento in tale politica del quarto figlio, avuto con Giuditta, non rese più agevole la gestione del potere.
I primi tre figli di Ludovico fecero in seguito convergere i loro interessi: dapprima una ribellione di Ludovico il Germanico fu repressa dal padre a caro prezzo, lasciando il figlio desideroso di rifarsi, poi fu Pipino a vedersi danneggiato a vantaggio di Carlo, cui veniva assegnata l'Aquitania. L. intervenne nella complicata congiuntura, tornando in Francia accompagnato dal nuovo pontefice, Gregorio IV. Questi auspicava l'unità dell'Impero e trovò a corte il sostegno di una fazione favorevole all'intervento papale. In quel momento del resto, lo stesso L. accettò l'idea di Gregorio IV della superiorità del governo spirituale del papa su quello dell'imperatore, calpestando di fatto gli accordi dell'824 da lui stesso condotti. Si giunse così a un'ulteriore umiliazione per Ludovico il Pio il quale, abbandonato dal suo esercito, dovette arrendersi ai figli, riconoscere la successione di L. all'Impero e le vecchie ripartizioni territoriali tra i tre, escludendo Carlo, che finì in custodia di L. con la madre Giuditta. Nell'ottobre 833 a Compiègne Ludovico fu costretto a rinunciare alla dignità imperiale e affidato in custodia a Lotario.
Passarono solo pochi mesi e un nuovo capovolgimento di fronti riportò L. in solitudine contro il padre, liberato con il sostegno di Ludovico il Germanico e Pipino: nuovamente accerchiato politicamente e militarmente, dovette nuovamente accontentarsi della sola Italia e chiedere il perdono del padre, il quale volle di nuovo tornare a favorire Carlo il Calvo, ricostituendo per lui un Regno e producendo nuovo scontento in Ludovico il Germanico.
A peggiorare ulteriormente la posizione di L., nell'837, un'epidemia decimò i suoi fedeli nobili transalpini che lo avevano seguito in Italia. Da quell'anno si notano, nei diplomi di L. a vescovi e abati, clausole di privilegio nelle procedure giudiziarie: a essi viene riconosciuta la potestà di procedere in prima persona all'inquisizione per l'accertamento dei possessi e l'assegnazione di speciali missi a sostegno degli avvocati ecclesiastici.
La morte di Pipino, nel dicembre dell'838, favorì l'ennesimo cambiamento negli equilibri familiari. A Worms, nel giugno dell'839, si addivenne a una nuova divisione dell'Impero: Carlo ebbe i territori a Occidente, Ludovico il Germanico la Baviera e L. il titolo imperiale e il lungo corridoio che andava dalla penisola italiana al mare del Nord. Era ora l'omonimo figlio del defunto Pipino a rivendicare territorio e autorità, protesta che cadeva pochi mesi prima della morte di Ludovico il Pio, il 20 giugno dell'840. L., in quel frangente, cercò di riportare tutto il potere a sé, non solo rivendicando il titolo imperiale ma pretendendo di ristabilire un'effettiva unità dell'Impero sotto la sua egida, non riconoscendo così gli impegni assunti con Carlo l'anno prima. Quest'ultimo si alleò allora con Ludovico il Germanico contro L. che, per parte sua, poteva fare affidamento solo sul debole appoggio del nipote Pipino e sull'avvio di un impegno attivo del figlio Ludovico (II) in Italia.
Sebbene immerso nelle liti familiari, L. riuscì a occuparsi di una fondamentale questione relativa al suolo italico e alla presenza franca in esso: nell'840 stipulò un patto con Venezia di non semplice interpretazione.
Dopo che i tentativi di annessione dei suoi predecessori erano falliti, era necessario regolare i rapporti tra il Regnum - o meglio tra le popolazioni confinanti - e la città lagunare: con il patto L. assunse una sorta di autorità superiore tra le due parti. Un importante completamento di tale atto fu il preceptum emanato da L. nel settembre dell'841, che, rifacendosi a un precedente accordo franco-bizantino stipulato da Carlomagno, riconobbe un'autonomia del Ducato nel diritto al pieno godimento dei beni laici ed ecclesiastici.
L'accordo con Venezia seguì di qualche mese il cruentissimo scontro tra L., Ludovico il Germanico e Carlo, consumatosi in campo aperto il 25 giugno 841 a Fontenoy, che avrebbe segnato la fine dell'unione dell'Impero e la nascita delle autonomie nazionali.
Già i contemporanei avvertirono la drammaticità di quel momento, rimarcata pochi mesi dopo, il 14 febbr. 842, quando gli uomini di Carlo e quelli di Ludovico, giurando alleanza a Strasburgo - i primi in una lingua romanza protofrancese, i secondi in un tedesco arcaico - di fatto ammisero la divisione tra le rispettive terre.
L. si ritirò in Italia, dove si rese conto dell'impossibilità di resistere nelle proprie ambizioni. Si giunse così alla fatidica giornata di Verdun, nell'agosto 842, con Carlo che si vide assegnare i territori franchi a Ovest della Mosa e Ludovico quelli a Est del Reno e a Nord delle Alpi. A L. toccò la fascia intermedia tra i due complessi territoriali, parte della quale sarebbe stata l'origine di quelle contese protrattesi per secoli tra le due nazioni eredi dei domini di Carlo e Ludovico, la Francia e la Germania.
Gli accordi di Verdun confermarono il tramonto dell'unitarietà dell'Impero, sebbene L. coltivasse la speranza che il titolo di cui continuava a fregiarsi potesse andare oltre un mero significato esteriore. Per questo continuò a interessarsi solo marginalmente dell'Italia, che appare nei suoi disegni un'appendice dei suoi territori centroeuropei, finché non vi mandò Ludovico (II) come reggente.
Sulla base di un placito redatto nell'847 non lontano da Bobbio, Zielinski ha mostrato che L., contrariamente all'opinione comune, tornò in Italia settentrionale almeno una volta - dopo aver lasciato la penisola nell'840 - per incontrare a Pavia suo figlio, in seguito al sacco saraceno di Roma dell'estate 846, e per preparare la campagna in Italia meridionale sotto la guida di Ludovico. Al di là di tale episodio, non risultano successive attestazioni di una presenza di L. nella penisola.
Morta, il 20 marzo 851, la moglie Ermengarda, che aveva sposato nell'821, e passati alcuni altri anni di coreggenza con il figlio, L., ormai anziano e ammalato, dopo aver perseguito per tutta la vita l'unità dell'Impero, optò per una divisione delle sue terre tra i tre figli: Ludovico si vedeva assegnare l'Italia ma rivendicò altre terre perché per questa vantava un'assegnazione diretta da Ludovico il Pio; a Lotario II venivano affidati i territori tra il Reno e la Mosa, mentre a Carlo andava la Provenza. Altri conflitti sarebbero sorti tra i discendenti di Carlomagno in seguito a tali scelte, mentre L., dopo aver rinunciato anche al trono, nel settembre dell'855 si ritirò a Prüm, dove morì il 29 dello stesso mese; Rabano Mauro scrisse un epitaffio per lui (cfr. Poetae Latini aevi Carolini).
Il figlio Ludovico si dovette misurare nei rapporti con Roma e con il Papato, nelle questioni aperte sull'Italia meridionale, nei rapporti con Longobardi e Bizantini, nelle incursioni dei Saraceni. Nell'ambito peninsulare riuscì a condurre un'azione più convincente di quella paterna, sebbene l'insuccesso delle sue rivendicazioni per la sovranità almeno su parte della Lotaringia e per il riconoscimento di un'autorità sugli altri territori in mano a zii e fratelli, mostrasse lo stato di irreversibile dissoluzione dell'Impero carolingio.
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