Lucifero
Sotto il nome di L. o Satana, che in lingua ebraica significa " avversario ", o " diavolo ", e in lingua greca è sinonimo di calunniatore, s'intende più frequentemente nella Bibbia un essere personale, la cui attività si esercita sia attraverso altri esseri, cioè i demoni, sia attraverso la tentazione. In esso si configura l'avversario del disegno di Dio sull'umanità, della quale è il nemico, in quanto fin dalla tentazione del serpente, che ne è figura evidente, egli esercita la sua potenza e intelligenza malefica per contrastare i piani provvidenziali.
Nel Nuovo Testamento, dopo le tentazioni narrate nei Vangeli, la resurrezione di Cristo segna, nella storia della salvezza, la disfatta di Satana, il quale, tuttavia, si presenta pur sempre, nell'esperienza di ogni creatura, come il naturale avversario dell'anima cristiana, che contro di lui deve combattere per affermare con la sua vittoria la conquista della propria personale salvezza e redenzione, che partecipa della redenzione di Cristo. Isaia (14, 12-15) celebra la caduta di L., capo dei demoni, a seguito della sua ribellione dovuta alla superbia e all'orgoglio di divenire simile a Dio. Nel Nuovo Testamento, il diavolo è ricordato da Matteo (25, 41), da Luca (10, 18) e nel libro dell'Apocalisse (12, 7-12). Nella tradizione teologica medievale ricorrono significative testimonianze intorno a L., riprese e meditate sui fondamentali motivi scritturali, e alle quali poté, direttamente o indirettamente, attingere Dante. Sono sufficienti pochi testi per costituire una valida fonte, tanto per la ripresa del concetto, quanto per quella della figurazione rappresentativa. S. Bernardo coglie le dimensioni del peccato di L. nella superbia (Sermones de temp. In Ad. Dom. I 2, Patrol. Lat. CLXXXIII 36), ne rappresenta con sintetica efficacia la caduta (in Serm. Cant. LXIX, Patrol. Lat. CLXXXIII 1113) e giunge fino a un'accorata deplorazione dello stato di miseria in cui il peccato l'ha precipitato (De Gradibus humilitatis et superbiae II, Patrol. Lat. CLXXXII 961). Parimenti Pietro Lombardo, sulla traccia di Isaia, individua nella superbia e nel desiderio di uguagliarsi a Dio il peccato di L. (Sent. II VI 1) e si sofferma, quindi, a considerare la collocazione di L. dopo la tentazione (VI 6). Anche s. Bonaventura mette in rilievo il primato di L. tra gli angeli nonché la natura e le conseguenze del suo peccato (Brev. II 7). Anche la trattazione tomistica dell'angelologia sviluppa esaurientemente i consueti motivi sulla creazione e la caduta di L. (Sum. theol. I 63), parlando della pena assegnata all'intelligenza demoniaca e dando il giusto rilievo alla posizione di eccellenza che fu di L. (I 63-64) e alla sua attività maligna, intesa a ostacolare i piani della Provvidenza divina a danno dell'anima umana.
L. s'identifica in D. con il demonio e il Satana della tradizione scritturale nonché con il Dite di quella letteraria classica. Entrambe le componenti tradizionali sono risentite dal poeta con particolare rilievo nel contesto della situazione di cultura a lui contemporanea e della sua ricca e intensa problematica umana, intesa nell'ordine intellettuale e morale al tempo stesso. Se relativamente marginali si possono considerare i riferimenti contenuti nelle opere minori, alcuni dei quali addirittura poco significativi (Ve I II 6, IV 2, Mn III III 8, Ep XIII 76) ovvero piuttosto generici nella ripresa di epiteti consueti (Ep VII 3 implacabilis hostis, e 4 ‛ saevus tyrannus '), più ricca e ripetutamente ritornante è nella Commedia la presenza della figura e del personaggio di Lucifero. Esso viene identificato specificamente in Belzebù (If XXXIV 127; vedi voce) e in Dite (If XI 64-65 ov'è 'l punto / de l'universo in su che Dite siede; XII 38-39 colui che la gran preda / levò a Dite del cerchio superno; XXXIV 20-21 " Ecco Dite ", dicendo, " ed ecco il loco / ove convien che di fortezza t'armi "). In particolare D., con significativi ritorni tematici nelle tre cantiche, individua l'eccelso stato originario di L. quale angelo in condizioni di primato sugli altri, e quindi la sua mirabile perfezione (XXXIV 18 la creatura ch'ebbe il bel sembiante) e rievoca tanto nell'atto figurativo, quanto nella memoria concettuale il mito della caduta nell'imprudente e intempestivo peccato di superbia (Pd XXIX 49-51), in ciò assecondando la tradizione scritturale, con la conseguente determinazione della rovina e della giustizia divina. Così L. è assunto come primo e tipico esempio di superbia nel Purgatorio (XII 25-27 Vedea colui che fu nobil creato / più ch'altra creatura, giù dal cielo / folgoreggiando scender, da l'un lato). Ivi il contrasto, palesemente rilevato, tra la bellezza primitiva e la conseguenza mortificante della colpa raccoglie la nuova considerazione del poeta sulla contrapposizione, ovviamente in chiave di simbolo o di tipologia morale, tra bello e brutto, nobile e deforme, in un significato che è da intendersi sotto il profilo intellettuale e spirituale. Pare a D. che la colpa di L., oltre la matrice originaria della superbia, possa configurarsi anche come negligenza della luce rivelatrice e penetrante della grazia, cioè come una ribellione dell'intelligenza angelica all'intelligenza somma e infinita di Dio (Pd XIX 46-48 E ciò fa certo che 'l primo superbo, / che fu la somma d'ogne creatura, / per non aspettar lume, cadde acerbo). Ne deriva, nella collocazione concettualmente illuminante e significativa al fondo dell'abisso infernale, l'inerme degradazione di L. peccatore punito dalla giustizia divina per quella superbia che, sprofondandolo nelle viscere della terra, fa ricadere su di lui l'enormità dei pesi dell'universo (Pd XXIX 55-57 Principio del cader fu il maladetto / superbir di colui che tu vedesti / da tutti i pesi del mondo costretto). L'invidia congiunta alla superbia, conformemente alla dottrina teologica, è ancora ribadita quale caratteristica connotazione negativa di L. (cfr. IX 127-129 La tua città, che di colui è pianta / che pria volse le spalle al suo fattore / e di cui è la 'nvidia tanto pianta). Così pure sono nuovamente sottolineati, con un rilievo che acquista particolare incidenza, anche psicologica, nell'esperienza itinerante del poeta pellegrino (e quindi nella sua personale presa di coscienza dell'abissale distanza tra la gloria paradisiaca e il fondo della dannazione infernale) il valore e il peso della caduta. Una caduta che ha fatto dell'angelo bellissimo, divenuto ribelle, il simbolo e l'incarnazione dello stato di abiezione del peccato nel luogo che chiaramente rappresenta la privazione e la negazione della grazia divina (XXVII 26-27 onde 'l perverso / che cadde di qua sù, là giù si placa).
Rilievo del tutto particolare e caratterizzante sortisce quindi, allorquando D. e Virgilio giungono al fondo di Cocito (If XXXI 143 'l fondo che divora / Lucifero con Giuda), la rappresentazione di L. quale personaggio che incarna la forza del male e perciò si contrappone a Dio. Per tale contrapposizione, secondo la logica della struttura epica del poema, L. viene collocato a questo punto, cioè alla massima distanza dall'eterno creatore, dal bene, del quale il male costituisce la più irriducibile antitesi.
Il ritratto di L., preceduto dall'illustrazione delle figure dei giganti, si presenta all'inizio dell'ultimo canto dell'Inferno con un verso che è la parodia di un inno di Venanzio Fortunato. Esso contiene un'evidente carica di comicità grottesca e caricaturale, che in sintesi quasi individua, nell'atto che sembra celebrarne la potenza dal centro del suo potere, la meschinità e l'impotenza del re infernale (If XXXIV 1 Vexilla regis prodeunt inferni). All'invito del maestro, che è poi un nuovo avvertimento a tendere l'intelligenza verso un'ulteriore sublimazione dell'esperienza conoscitiva, succede immediato lo slancio del discepolo. L'immagine cui D. ricorre per esprimere ciò che gli appare dinanzi (un mulino con le pale mosse dal vento), adombra l'idea di una massa enorme (un tal dificio), donde proviene la forza del vento. Giunti più vicini al mostro, sommo esempio della degradazione morale prodotta dal peccato (la creatura ch'ebbe il bel sembiante, If XXXIV 18), Virgilio lo presenta all'attonita vista del discepolo, con un appello al suo coraggio e alla sua forza d'animo (XXXIV 19-21 d'innanzi mi si tolse e fé restarmi, / " Ecco Dite ", dicendo, " ed ecco il loco / ove convien che di fortezza t'armi ".).
La susseguente descrizione di L. prende l'avvio da questo stato iniziale di turbato stupore in Dante. Poi, pur senza diventare forse (com'è sembrato a più di un critico) particolarmente viva e incisiva, essa sembra placare la tensione con il tono del discorso epico, riassumendo i connotati prevalentemente figurativi dell'evidenza fisica e visiva e quelli più propriamente concettuali e morali. La prima impressione di D. di fronte al simbolo del male coglie, nella difficoltà di esprimerle, le incommensurabili proporzioni del mostro, il suo delinearsi all'attonita vista dell'uomo vivo quale una massa cui non si riesce a trovare elemento alcuno di comparazione. Il rilievo statuario, accennato all'inizio, si perde nell'effetto visivo e cede il posto all'affanno psicologico di riuscire a dar l'idea di una dimensione che sia razionalmente percepibile (XXXIV 28-33 Lo 'mperador del doloroso regno / da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia; / e più con un gigante io mi convegno, / che i giganti non fan con le sue braccia: / vedi oggimai quant'esser dee quel tutto / ch'a così fatta parte si confaccia).
Subito dopo il poeta pone i termini di un'equazione morale, col riportare l'orrore dell'immagine fisica alla precisa individuazione etica delle conseguenze del peccato. Così l'idea della bellezza passata e della bruttura presente ed eterna di L. acquista nuovo rilievo ed evidenza, in quanto richiama il motivo o il momento della sua ribellione alla volontà divina. Per effetto di tale coordinamento interiore tra l'immagine statuaria e il terribile vuoto spirituale - espresso nella contrapposizione recisa e perentoria tra il bene e il male - riaffiora ovviamente il principio teologico per cui ogni bruttura spirituale è ricondotta a L. in quanto tentatore dell'uomo (XXXIV 34-36 S'el fu sì bel com'elli è ora brutto, / e contra 'l suo fattore alzò le ciglia, / ben dee da lui procedere ogne lutto).
Il ritratto di L. diviene ora più attento e vivo, si arricchisce di molti particolari e di numerosi richiami e riferimenti simbolici. D. è stupito per la testa a tre facce di L. (XXXIV 37-38 Oh quanto parve a me gran maraviglia / quand'io vidi tre facce a la sua testa!) e di ciascuna nota la caratteristica cromatica (sulla quale, come si vedrà, si è soffermata l'attenzione degli studiosi), ma non trascura di rilevarne l'intimo nesso che le unisce quali univoche e insieme varie figurazioni del male (XXXIV 39-45). Si aggiungano inoltre le ali, due per ciascuna faccia; esse indubbiamente costituiscono assai più di un elemento esornativo, in quanto nella loro immensità sono gli strumenti che generano il turbine ventoso che fa gelare Cocito (XXXIV 46-52).
L'aspetto del mostro si presenta avvilito e terribile al tempo stesso per effetto del pianto che sgorga dai sei occhi e delle lagrime che frammiste a bava scendono giù dai tre menti (XXXIV 53-54 Con sei occhi piangëa, e per tre menti / gocciava 'l pianto e sanguinosa bava). Dalle bocche L. dilania tre peccatori (Giuda, Bruto, Cassio), maciullandoli e straziandoli inesorabilmente ed eternamente, senza tregua e senza pietà, con un'esecuzione fredda e impersonale addirittura meccanica, misurata secondo una giustizia infinita ed eterna di cui L. è l'inconsapevole strumento.
Successivamente, su invito del maestro, D. si avvinghia al collo di Virgilio che si appiglia al peloso collo di L., rovesciandosi su di esso, sì che il discepolo, non senza stupore, vede il mostro con le gambe rivolte verso l'alto (Io levai li occhi e credetti vedere / Lucifero com'io l'avea lasciato, / e vidili le gambe in sù tenere, vv. 88-90).
In questo contesto temporale e psicologico cade l'annotazione precisa e specifica della collocazione di L., essere immondo e perverso, sprofondato al centro della terra, verso il quale convergono tutti i corpi gravi (XXXIV 106-108). È qui ribadito il concetto dell'assoluta ed eterna immobilità di L. al fondo dell'abisso infernale (XXXIV 119-120 questi, che ne fé scala col pelo, / fitto è ancora sì come prim'era) con la storia, se così si può dire, della sua caduta, che provocò il ritrarsi inorridito della terra dal contatto con l'angelo decaduto e punito (donde l'emersione dei continenti nell'emisfero boreale). L'interpretazione suggestiva di un fatto geografico alla luce dell'ordine morale si può dire che chiuda, a guisa di sintetica riaffermazione di principi, l'itinerario sperimentale di D. pellegrino attraverso il regno dell'eterna morte (XXXIV 121-126).
L'Inferno, secondo i Vangeli (Matt. 25, 41), fu da Dio preparato per L. e gli altri angeli cattivi, per la cui opera il male (quale conseguenza, appunto, della superbia di L.) è entrato nel mondo. A lui si deve anche la cupidigia scatenata in mezzo all'umana società per invidia della sorte beata di eterna felicità assegnata da Dio agli uomini. Tra i primi commentatori della Commedia Guido da Pisa così presenta L.: " Dicitur teologice Lucifer in sua prima creatione quasi lucem ferens; poetice vero dicitur Ditis, quia secundum Paganos erat maior daemon Inferni, scilicet Pluto: Auctor autem istud nomen imponit civitati igneae quia continet regna sua. Quando tentat de superbia dicitur Dyabolus, idest deorsum ruens, idest ruere faciens; quando de invidia, dicitur Satan idest adversarius plasmationi; quando de ira dicitur Exterminator; quando de accidia dicitur Daemonium, idest sufficiens iniquitas, quando de avaritia dicitur Leviathan idest additamentum; quando de gula dicitur Vehemoth idest animal; quando vero de luxuria dicitur Asmodeus idest facturae iudicium ". Va riconosciuta, peraltro, come osserva il Fallani, la difficoltà avvertita nella tradizione culturale medievale di collocare esattamente la figura di L. secondo precise caratteristiche materiali, per cui il mondo dell'orrido e del demoniaco finisce col cadere nel grottesco arbitrario.
Nell'Inferno dantesco, dunque, la centrale ubicazione di L. lo colloca nella posizione drammaticamente più significativa, cioè al centro della terra nel punto più lontano da Dio e dalla gloria dei cieli (If XXXIV 11).
Con tipico procedimento medievale D. ha operato una contaminatio tra l'elemento biblico e quello classico virgiliano, contemperando le misure figurative e stilistiche di entrambe le fonti. Per effetto di tale procedimento non soltanto viene ribadita la solitudine di L., stretto e schiacciato al centro della terra, nella posizione di grande nemico vinto da Dio, ma è anche individuata, con lo stupore e il terrore di D. pellegrino dinanzi alla figura del mostro (If XXXIV 25 Io non mori' e non rimasi vivo), più che l'immensità delle forme, pur rilevata in rapporto alle dimensioni dei giganti, la bruttezza di L. che è in negazione e in contrapposizione diretta alla sua bellezza prima della ribellione a Dio e accentua abbastanza chiaramente un preciso significato simbolico. La maledetta superbia fa di L. l'antidio e la contrapposizione trinitaria tra il mostro dalle tre facce e una sola testa e la divinità, al di là dei termini di più specifica individuazione con conseguenti possibili venature tematiche anche politiche oltre che religiose e morali, sottolinea chiaramente l'altrettanto abietta forma di peccato, e quindi l'ira nella faccia rossa, quella davanti, l'invidia sterile e impotente in quella alla spalla destra tra bianca e gialla e l'ingratitudine in quella sinistra. Si noti anche che, a differenza degli altri demoni, L. non è rappresentato con corna e coda, ma con le ali che sono proprie dei Serafini. Queste ali, tuttavia, si differenziano da quelle in quanto, anziché essere iridescenti e pennute, sono fosche e cupe come quelle di un pipistrello, due in rispondenza a ciascuna faccia. Anche questo elemento figurativo, col richiamo alle ali angeliche, introduce, oltre il motivo del ricordo, un accento di amaro scherno. L., tutto raggelato in Cocito, che piange e fa strazio con le tre bocche, e il cui pianto e bava sanguinosa alimentano lo stagno, rappresenta lo sfogo impotente di un'ira che comporta il riconoscimento palese della sconfitta subita. L'interpretazione simbolica non ha mancato di sottolineare i diversi aspetti rilevanti in tal senso, sottoponendo non di rado il testo a un esame analitico piuttosto minuzioso. Francesco da Buti individuò nella testa di L. la superbia e l'invidia e nelle facce del mostro l'ira, l'avarizia e l'accidia, inquadrando tutto il rilievo del personaggio nella prospettiva teologica.
Comunque si voglia condurre la linea d'interpretazione, resta il fatto che essa è sempre inevitabilmente orientata verso il simbolo in relazione alla natura del peccato di L. e delle conseguenze morali che ne derivarono. In questo senso nelle facce di Dite si è vista la rappresentazione della corruzione dell'intelletto (faccia nera), della volontà (vermiglia), della superbia, invidia e ira (tra bianca e gialla). Riportata al piano trinitario la rappresentazione può individuare nella faccia di color vermiglio la contrapposizione allo Spirito Santo, nella destra (tra bianca e gialla) quella al Padre, e nella sinistra (nera) al Figlio. Nella prima faccia il Pietrobono coglie il significato dell'invidia diabolica, nella seconda quello dell'ira e nella terza quello della corruzione dell'intelletto da cui trae origine la superbia. Per il Pézard, ad esempio, attraverso le tre facce D. ha voluto senza dubbio rappresentare tre aspetti del diavolo in antagonismo specifico con le tre virtù della Trinità: Potenza, Sapienza e Amore, che in If III 5-6 designano Dio, mentre le tre facce di L. significano impotenza, ignoranza e odio, cioè le grandi e fondamentali componenti tematiche della prima cantica. Perciò opportunamente nota il Vallone che " le tre facce rappresentano, in valori negativi, i gradi opposti dell'estrema visione, per quella legge secondo la quale, per Dante e per il Medioevo, ad un vizio corrisponde una virtù (o viceversa), ad una colpa una determinata pena ". La parodia della divinità è, del resto, confermata dal fatto che le tre teste di L. sono unite alla sommità, quasi a esprimere l'unità nella trinità. Dalle tre bocche del mostro, da lui straziati, pendono tre traditori che rappresentano, evidentemente anche qui in una chiara accezione simbolica, i segni più gravi e più forti della colpa che grida vendetta al cospetto di Dio e dell'umanità. Giuda è il traditore di Cristo, e quindi, come si è detto, della Chiesa. Nella sua figura s'incentra, storicamente, un momento di fondamentale importanza per l'umanità, cioè il momento del riscatto dal peccato originale (cioè la redenzione) considerato attraverso il peccatore più abietto e più vile. Bruto e Cassio, i traditori di Cesare, sono rei di colpa nei confronti di quell'ordine di pace che l'unità imperiale romana attuò per preparare la pienezza dei tempi per l'avvento di Cristo. Se Giuda ha violato la pietà, Bruto e Cassio sono gravemente colpevoli verso la giustizia, l'uno e gli altri sempre in dipendenza dal peccato di superbia, di cui per primo si è macchiato Lucifero.
Del resto, il segno altissimo del tradimento trova in questa figurazione la sua espressione più forte, quella anche che tocca più da vicino, e quindi direttamente sensibilizza, l'interesse e la problematica di Dante. Si tratta, infatti, di un peccato che offende, nella Chiesa e nell'Impero, gli ordinamenti e le istituzioni che secondo D. sono nel disegno provvidenziale di Dio (quello appunto che il demonio tenta di contrastare attraverso l'azione delittuosa delle creature mortali e che si propongono di rimediare all'infermità della natura umana conseguente al peccato originale). Questo peccato costituisce appunto, nella collocazione al fondo dell'abisso infernale, la manifestazione dell'estrema negatività, il simbolo della decadenza più grave della natura umana e, nella presa di coscienza di D. pellegrino, il segno di un suo forte ed esplicito giudizio morale di deplorazione e condanna. Tutto il male che è nel mondo, nella vita pubblica e privata, operante nelle forme più diverse, si riassume qui, perché trova in L. il suo principio originario e la causa motrice, in Giuda, Bruto e Cassio i protagonisti emblematicamente e figurativamente più significativi. Come L. ha tradito Dio suo creatore, del quale era la creatura più bella, così ogni altro peccatore rappresenta un traditore della grazia, negatore della luce dell'intelligenza e della conoscenza, in quanto violatore di quella legge d'amore che sollecita la conoscenza di Dio; perciò è infiammato da sentimenti di odio, travolto nella nullità della bruttezza morale e condannato alla morte eterna.
Nella dinamica del peccato dell'angelo caduto, la storia spirituale di L. diviene prototipo di bene e di male, di creatura eletta e chiamata al bene e, per sua volontà perversa, precipitata nell'abisso del male; ciò avviene con tanta presenza e incisività negativa, da diventare, inevitabilmente, quasi l'espressione e l'incarnazione più autentiche e assolute di quel male. Immutabile nel tempo dal momento della caduta e della conseguente condanna, anche fisicamente fisso in un'immobilità silenziosa eppure attiva, non fosse altro emblematicamente, su tutti i dannati d'Inferno L., pur nel grottesco della sua parvenza materiale passiva, quasi insensibile e inerte, goffa e inespressiva a confronto con altri anche demoniaci personaggi della prima cantica, è il segno perenne, eterno della depravazione e della miseria cui può giungere, ove ceda alla tentazione del male (figurativamente presente nel serpente che indusse Adamo ed Eva al peccato originale: cfr. Pg VIII 98 ss., XXXIII 32), la creatura umana, dimentica dell'amore divino che la chiama e l'attrae a sé. Anche la meccanicità dei gesti, l'insensibilità attuale e il torpore intellettuale accentuano la negatività assillante e drammaticamente tesa del personaggio di Lucifero. Chi ha voluto vedere nell'Inferno la figurazione del disordine e quindi dell'antiroma e nel Paradiso quella dell'ordine, e quindi di Roma, componendo insieme, nel concetto di D., le istanze di ordine religioso o teologico con quelle (non meno vive e sempre fortemente calate in una componente psicologica esistenziale) di ordine pratico e civile, non può non trovare in L., nel dificio che sembra contenerne e limitarne le dimensioni fisiche, l'incarnazione simbolica dell'antichiesa, cioè della negazione di quella società di credenti che opera e vive in terra un'esperienza itinerante concreta e fattiva.
Si aggiunga a completare la figurazione il simbolo del vento - componente, questa, tipica dell'Inferno - mosso dalle ali di L. che gettano le anime alla perdizione; esso può venir considerato, secondo il Singleton, " la negazione ironica di quella spirazione d'amore che muove il sole e le altre stelle, e il cui caldo apre la rosa dei beati nel cielo della pura luce ". È anche da dire, per meglio chiarire il senso del testo dantesco, che l'annotazione relativa alla repentina caduta di L. (per non aspettar lume cadde acerbo) suole interpretarsi nel senso che il poeta, seguendo l'interpretazione teologica, credette che agli angeli fosse assegnato un periodo di prova, uno status viae prima di ottenere la beatitudine eterna, o prima di conseguire la grazia illuminante come dono gratuito per meritare la beatitudine, e che L. non volle attenervisi, ribellandosi impazientemente, come scrive Benvenuto: " intempestive, ante totalem perfectionem sui ". La catastrofe prodotta da L. esprime, nello sconvolgimento terrestre che produce, il totale capovolgimento di valori che in lui si determina con la distruzione dell'amore. Precipitando dall'Empireo, egli si è creato nel fondo della terra il luogo dell'eterna dannazione, ove ha sepolto le sue membra, e ha dato luogo a un cataclisma cosmico che ha turbato per un momento l'ordine universale. Con l'orrore cosmico che spinge istintivamente la terra a ritrarsi emergendo dalle acque per evitare il contatto con l'angelo caduto, il male nasce di fronte a Dio e si cala nella realtà temporale della storia umana. L. precipitò nell'emisfero australe.
Sul problema dell'emersione dalle acque si hanno in If XXXIV (cfr. anche Pd XXIX 49-51) e nella Quaestio due spiegazioni, poetica la prima, scientifica là seconda. Tra di esse non vi è antitesi, ma diversità di tono, a parte il fatto che nella decina d'anni tra la composizione dell'Inferno e della dissertazione scientifica D. potrebbe anche avere mutato parere. La terra, emersa inizialmente nell'emisfero australe, sconvolto dalla caduta di L., sarebbe passata all'emisfero boreale, mentre parte di essa avrebbe costituito la montagna del Paradiso terrestre, lasciando il posto per la voragine infernale. Sulla questione, comunque, D. è prudente nel trattato e non rinnega l'interpretazione poetica precedente.
La rappresentazione dantesca di L. sottolinea con poetica efficacia, con teologica pertinenza e con fantastica e simbolica intensità la situazione drammatica del ribelle sconfitto dalla sapienza e dalla giustizia di Dio. " Solo, nel centro dell'universo, egli esce gigante da mezzo il petto fuor della sua prigione di ghiaccio: non incatenato come il Lucifero della Visione di Tundalo, non oscenamente accosciato come quello giottesco. Il suo ‛ svolazzare ' d'ali, il suo eterno maciullare quei tre illustri dannati, non sono atti di bassa volgarità quali l'affacendarsi a ghermire anime di qua e di là e ad aspirarle o disperderle in aria, come il Lucifero della Visione, o il divorarle e smaltirle come quello della Cappella Scrovegni. Dante anche quando parla la lingua della sua età, lascia intendere, all'accento, ch'egli ha ben familiare la lingua dei classici " (Rossi).
Bibl. - L. Pietrobono, Il poema sacro, II, Bologna 1915; B. Croce, La poesia della Commedia, Bari 1921; G. DI Pino, La figurazione della luce nella D.C., Firenze 1952; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952; U. Leo, Luzifer und Christus, in Benedetto Croce, a c. di F. Flora, Milano 1953; M. Apollonio, D. - Storia della Commedia, ibid. 1954²; L. Fontana, La pena del demonio nel poema di D., in " Dialoghi " II (1954) 1-2; L. Pietrobono, Dal centro al cerchio, Torino 1956²; F. Mazzoni, La " Quaestio de aqua et terra ", in " Studi d. " XXXIV (1957); B. Nardi, L'ultimo canto dell'Inferno, in " Convivium " XXV (1957) 2; G. Fallani, Poesia e teologia nella D.C., I, Milano 1959; B. Nardi, La caduta di L. e l'autenticità della " Quaestio de aqua et terra ", Torino 1959; G. Rabuse, D. Bilder und Vergleiche, in " Orbis litterarum " XV (1960); B. Nardi, Dal " Convivio " alla " Commedia ", Roma 1960; V. Rossi, Il canto XXXIV dell'Inferno, in Lett. dant.; J. Freccero, Satan'Fall and the " Quaestio de Aqua et terra ", in " Italica " XXXVIII 2 (1961); Ch.S. Singleton, Studi su Dante. I, Introduzione alla D.C., Napoli 1961; A. Pézard Le dernier chant de l'Enfer, in " Bull. Société d'Études Dant. du C.U.M. " XI (1962) 47-66; U. Bosco, D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966; F. Mazzoni, Contributi di filologia dantesca, Firenze 1966; B. Nardi, Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966; G. Petrocchi, Il canto XXXIV dell'Inferno, Firenze 1967; G. Padoan, Introduzione a D. Alighieri, De situ et forma aquae et terrae, ibid. 1968; R. Palgen, La " Visione di Tundalo " nella " Commedia " di D., in " Convivium " XXXVII (1969); A. Vallone, Il canto XXXIV dell'Inferno, in Nuove lett. III 189-208; V.G. Vetrugno, La genealogia e lo sviluppo del L. dantesco, in " L'Alighieri " XI (1970) 16-42.