GIUGNI, Luigi
(Gino)
Nacque a Genova il 1° agosto 1927, figlio unico di Mario, commerciante, e di Pierina Piazzalunga.
Sposato con Laura Sanlorenzo nel 1956, ebbe due figli.
Sfollato a Cuneo nel 1942, portò a termine privatamente gli studi ginnasiali, per poi iscriversi al liceo. Rientrato a Genova dopo la guerra, completò in quella città gli studi universitari e conseguì la laurea in giurisprudenza nel 1949, discutendo con Giuliano Vassalli la tesi dal titolo Dal delitto di coalizione al diritto di sciopero.
Fra i primi italiani vincitori di una borsa di studio Fulbright, nel 1951 si recò negli Stati Uniti, per un soggiorno presso la facoltà di economia nell’Università del Wisconsin, dove insegnava Selig Perlman, allievo di John Commons e seguace della teoria economica istituzionalista. Quell’esperienza segnò in modo incisivo il suo percorso culturale con l’aprire i suoi interessi alla comparazione e al metodo interdisciplinare.
Affascinato dalla personalità scientifica di Perlman, tradusse il suo libro del 1928 A theory of the labor movement e lo diede alle stampe (S. Perlman, Ideologia e pratica dell’azione sindacale, Firenze 1956 [Roma 1980]), con una lunga Introduzione, in cui si scorgono gli elementi caratterizzanti del suo profilo intellettuale, in particolare l’interesse a contestualizzare le norme di diritto positivo nel mutevole equilibrio del mercato del lavoro.
Lo studio dell’opera di John Dunlop, in particolare Industrial relations systems (1958), che Giugni contribuì a diffondere in Italia, confermò una sua spiccata attenzione per le scienze economiche e sociali. Le scelte successive, orientate verso un riformismo giuridico improntato a criteri di efficienza oltre che di conoscenza, si spiegano anche alla luce di un percorso di studi non convenzionale, come quello avviato negli Stati Uniti.
Rientrato in Italia, dal 1953 al 1960 avviò una collaborazione con la Confederazione italiana sindacati lavoratori (CISL), fra gli altri con Mario Romani, un cattolico aperto al confronto con esponenti della cultura socialdemocratica. Presso il Centro studi CISL di Firenze, in via della Piazzola, divenuto quasi un luogo simbolico nella storia del sindacato italiano, fu chiamato a insegnare in corsi di formazione per dirigenti sindacali. Dal 1953 al 1955 scrisse, senza firmarsi, nel Bollettino di studi e statistiche Cisl.
L’ambiente cislino, particolarmente permeato in quegli anni dalla cultura sindacale nordamericana e, anche per questo, propenso a valorizzare la contrattazione collettiva e la sua articolazione a livello aziendale, si rivelò adatto a favorire la circolazione di scritti e di traduzioni, in particolare nella rivista Politica sindacale. In essa (1960, n. 1, pp. 9-42) Giugni pubblicò la traduzione di un saggio di Otto Kahn-Freund, allievo di Hugo Sinzheimer e già molto noto in quegli anni, sulle forme di composizione del conflitto. Emigrato dalla Germania in Gran Bretagna per sfuggire al nazismo, Kahn-Freund fu un punto di riferimento per la scienza giuridica dello scorso secolo. Giugni intrattenne con lui, nel corso degli anni, rapporti di proficua collaborazione accademica all’interno di gruppi di ricerca internazionali.
L’impianto teorico giugniano, che appare oggi di straordinaria attualità, cominciò a prendere forma attraverso queste prime esperienze di comparazione. La contrattazione collettiva, posta fin da allora al centro della sua ricostruzione teorica, fu interpretata come fenomeno autonomo rispetto all’ordinamento dello Stato, potenzialmente capace di sviluppare al suo interno forme di composizione del conflitto e di alimentare solide strutture di giurisdizione privata.
Negli anni Cinquanta entrò in contatto con il cenacolo di intellettuali raccolti intorno al gruppo editoriale il Mulino, che nel 1951 lanciò l’omonima rivista, dapprima con cadenza quindicinale, poi mensile. Nel 1954 fu uno degli estensori della Relazione introduttiva al Primo convegno amici e collaboratori del Mulino (pubblicata in ed. anastatica fuori commercio nel 2004, in occasione del cinquantenario della società editrice). In quel documento programmatico si coglie un’ibridazione fra cultura cattolica, liberale e socialista, tesa al superamento di posizioni individualiste e di pregiudizi radicati in molti ambienti della cultura italiana. Il Giugni politico era alla ricerca di una sua strada, convinto, come altri intellettuali della sua generazione, dell’urgenza di modificare profondamente il paese, senza disperdere il ricco patrimonio di esperienze consolidatesi dopo il fascismo e di valorizzare un sincretismo di culture.
Fu proprio la rivista il Mulino ad accogliere un suo breve scritto di taglio storico in cui si rileggevano le esperienze sindacali corporative per marcare il segno del cambiamento nel periodo post-corporativo (Esperienze corporative e post-corporative nei rapporti collettivi di lavoro in Italia, 1956, nn.1-2, pp. 3-17; poi in Lavoro, legge, contratti, Bologna 1989, pp. 27-43).
Già orientato verso un metodo antiformalista, Giugni ebbe modo di sperimentare dall’interno una cultura d’impresa non tradizionale, prima con la collaborazione con Enrico Mattei nell’ufficio studi dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI), poi con Giuseppe Glisenti all’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI). Con quest’ultimo lo scambio intellettuale era stato avviato in precedenza, in occasione di alcuni articoli apparsi in Cronache sociali, la rivista dossettiana in cui, oltre a esponenti della sinistra democristiana, scriveva, tra gli altri, Benedetto De Cesaris, figura di cerniera tra impresa e sindacato e primo direttore del Centro studi della CISL di Firenze.
La scelta riformista e socialista di Giugni fin da quegli anni affondò le radici in una straordinaria e inusitata conoscenza delle politiche sindacali e imprenditoriali più propense al cambiamento. Dall’osservatorio privilegiato dell’Ufficio problemi del lavoro dell’IRI seguì, infatti, lo sganciamento delle imprese a partecipazione statale dalla Confederazione generale dell’industria italiana e la successiva nascita dell’Intersind. L’esperimento di riforma della contrattazione collettiva, avviato nel 1962 con il protocollo Intersind-ASAP (Associazione sindacale aziende petrolchimiche), accolse in modo positivo gli influssi di una cultura condivisa nella gestione delle relazioni sindacali, di cui Giugni fu ispiratore convinto.
Queste vicende collocano Giugni in un quadro di riferimenti intellettuali molto variegato, che caratterizzò, sia pure in modo diverso per ciascuno di loro, i percorsi formativi di molti studiosi, attivi a vario titolo nella fucina delle imprese a partecipazione statale. In quella che è stata descritta come «un’isola felice, chiamata a svolgere un ruolo che classe politica e sistema amministrativo non riuscivano neppure a intendere» (S. Cassese, in Amato et al., 2012, p. 186) si formò una parte della classe dirigente del paese, propensa a riformare dall’interno i sistemi sociali e le istituzioni. Quell’esperienza andò in gran parte perduta, per dare spazio a figure più caratterizzate politicamente e proprio per questo meno autonome nella prospettazione di grandi scenari di riforma. È importante, tuttavia, ricordare che quella sinergia tra forze produttive ed esponenti di una cultura riformista ancora in formazione fu dettata da un piano più ampio di rinascita dell’economia del dopoguerra, strategicamente orientato a ridurre le importazioni attraverso la valorizzazione di attività produttive che solo le imprese pubbliche si dimostrarono in grado di garantire (M. De Cecco, ibid., pp. 210-215). In quel progetto anche le relazioni sindacali e i temi dell’organizzazione del lavoro, interpretati dinamicamente, giocarono la loro parte non secondaria, anche se tali potenzialità non furono colte appieno dalle imprese private.
Il nesso originale fra dimensione accademica e politica divenne per Giugni sempre più marcato nel corso del tempo. Conseguita la libera docenza in diritto del lavoro nel 1958, vinse il concorso a cattedra nel 1962.
Gli anni dell’insegnamento presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari (1960-74) furono caratterizzati da un’intensa attività di ricerca. Introduzione allo studio della autonomia collettiva (Milano 1960 [1977]; trad. spagnola a cura di J.L. Monereo Pérez - J.A. Fernández Avilés, Granada 2004) fu l’opera che più di ogni altra smosse le acque, altrimenti assai ferme, della ricerca sul metodo nel diritto del lavoro italiano. Dapprima accolta con diffidenza negli ambienti accademici più tradizionali, fu apprezzata in seguito per l’intreccio fra teoria della pluralità degli ordinamenti e rappresentazione del concreto evolversi dei rapporti collettivi, osservato dall’autore nella sua frequentazione del mondo sindacale e imprenditoriale. Con quel libro «la scienza italiana di diritto del lavoro volta decisamente pagina» (P. Grossi, in Aaron et al., 2007, p. 260).
La mancata attuazione degli artt. 39 e 40 della Costituzione (libertà sindacale e diritto di sciopero), piuttosto che infliggere una ferita nel sistema dei rapporti sindacali, sprigionò orientamenti interpretativi volti a rafforzare l’autonoma determinazione delle parti sociali. La teoria dell’ordinamento intersindacale, elaborata da Giugni nel libro del 1960, conferì rilevanza scientifica allo studio di sottosistemi sociali – fra tutti la contrattazione collettiva – capaci di esprimere una propria spontanea normatività.
La rivolta antiformalista fu foriera di effetti su molti fronti, non ultimo quello dell’insegnamento universitario, che si aprì alla sperimentazione. Nell’Università di Bari, dove Giugni diresse per molti anni una Scuola di perfezionamento in diritto del lavoro e previdenza sociale, furono offerti corsi in materie affini al diritto del lavoro, affidati a esperti non accademici, provenienti dal mondo delle imprese e del sindacato. Prese corpo, con quell’esperimento, il manifesto pubblicato anni addietro da Giugni e Federico Mancini, entrambi reduci da avvincenti esperienze di studio in università statunitensi (Per una cultura sindacale in Italia, in il Mulino, 1954, n. 1, pp. 28-45). L’idea, ancora oggi molto puntuale e in gran parte ancora inattuata, era quella di avvicinare il sapere universitario al mondo del lavoro, affiancando al linguaggio giuridico quello delle scienze organizzative aziendali e manageriali, senza trascurare il gergo della contrattazione collettiva.
A Bari, nei primissimi anni di insegnamento, furono poste le basi, dapprima in lezioni ciclostilate, poi in appunti sempre più organici, di un fortunato testo di Diritto sindacale, ancora oggi in stampa presso l’editore Cacucci, con aggiornamenti curati da allievi della scuola barese.
Successivamente, in Mansioni e qualifica nel rapporto di lavoro (Napoli 1963), Giugni congiunse mirabilmente l’interpretazione del dato normativo con la sperimentazione della job evaluation, anche questa avviata in alcune imprese dell’IRI. Nel sistema complesso di classificazione del lavoro che tale metodo – anch’esso di importazione statunitense – proponeva, il giurista positivo si cimentò con l’analisi dettagliata dei contenuti delle mansioni, descritti nei contratti collettivi, per limitare i poteri organizzativi del datore di lavoro e consentire allo stesso tempo un’adeguata misurazione delle capacità professionali del lavoratore. Anche la job evaluation rappresentò un terreno di confine fra cultura sindacale e sperimentazione manageriale nel laboratorio dell’industria pubblica.
A partire dalla fine degli anni Sessanta, in una linea di continuità con l’impostazione teorica originaria, Giugni coordinò una ricerca finanziata dal Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro, in cui furono attivi gli allievi della scuola barese. Anche in questa produzione scientifica si confermò un metodo di ricerca non dommatico, che servì a consolidare in Giugni la conoscenza di una realtà in movimento, da tenere costantemente in primo piano nell’interpretazione del diritto positivo (Sciarra 2012, pp. 697).
Lasciata Bari nel 1975, insegnò a Roma all’Università La Sapienza e alla Libera università internazionale degli studi sociali (LUISS), oltre a visitare numerose università straniere. Fu insignito, tra l’altro, di due lauree honoris causa nelle Università di Nanterre e di Siviglia.
Fu presidente dell’Associazione italiana di studi delle relazioni industriali dal 1968 al 1973 e dell’Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale dal 1976 al 1988.
Una forte propensione verso l’adozione del metodo comparato nel diritto del lavoro, affiancata da un’assidua frequentazione di ambienti internazionali, consentì a Giugni di essere conosciuto oltre i confini dell’Italia, soprattutto nella cerchia di raffinati studiosi che ruotò intorno a Kahn-Freund, fin dall’inizio degli anni Sessanta. A Kahn-Freund era stato presentato nel 1958 da Tullio Ascarelli, studioso che influenzò più di altri la sua produzione scientifica (La memoria di un riformista, Bologna 2007, pp. 67-69).
La storia del diritto deve a Paolo Grossi (in Aaron et al., 2007, pp. 260-263; in Amato et al., 2012, p. 181) la puntualizzazione più feconda sul significato di questa eredità accademica, che assume oggi un rilievo molto preciso. Oltre al dato ricostruttivo, basato sull’analisi delle opere di Giugni, la scoperta dello storico è utile per evidenziare l’importanza assunta da figure di giuristi esuli – come Ascarelli e Kahn-Freund – nel favorire la circolazione della comparazione giuridica, divenuta, nella loro personale vicenda di perseguitati da ideologie razziste, un mezzo di emancipazione oltre che di ricerca. Per Giugni e per altri giuristi che collaborarono con Kahn-Freund – fra tutti l’inglese Kenneth William Wedderburn, divenuto poi Lord Wedderburn of Charlton, e lo svedese Folke Schmidt – la comparazione divenne strumento euristico, con una rilevante ricaduta sulle politiche legislative dei rispettivi paesi (Lavoro, diritto del, in Encicl. del Novecento, III, Roma 1979, pp. 945-958).
Giugni allacciò stretti contatti anche con giuristi spagnoli, ospitati a Bari per soggiorni di studio e a Bologna, presso il Real Colegio de España. Attraverso la sua solida amicizia con Miguel Rodríguez-Piñero y Bravo-Ferrer, figura di spicco del diritto del lavoro iberico, influenzò non soltanto la dottrina post-franchista, ma anche il legislatore (Rodríguez-Piñero y Bravo-Ferrer, in Amato et al., 2012, pp. 204-209).
Nel 1970, con Stefano Rodotà, Giuliano Amato, Sabino Cassese, Federico Mancini, Giovanni Tarello, fu tra i fondatori della rivista Politica del diritto, che bene espresse le esigenze di rinnovamento in molte discipline giuridiche, senza trascurare di indicare le vie delle riforme possibili (Amato, in Amato et al., 2012, pp. 175-177). Pur nella diversità delle posizioni, quel gruppo di giuristi fu in grado di imprimere con un progetto organico una svolta nella dottrina italiana. Non è un caso che molti di essi, come e più di Giugni, siano stati, in varie occasioni, attivi sulla scena politica.
Nel 1979 fondò il Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, una rivista ‘giugniana’, per l’apertura interdisciplinare e comparata, aperta al confronto con altre scuole e, fra le prime in Italia, assistita da procedure anonime di peer review, tuttora pubblicata dall’editore Franco Angeli con la direzione di Franco Liso e di chi firma questo testo.
Fu membro del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) dal 1974 al 1983, in qualità di esperto e si impegnò, tra l’altro, nel dibattito sulla ‘giungla retributiva’.
In Minima personalia (in Belfagor, 1987, pp. 213-219), un suo breve scritto autobiografico, si definì, forse troppo enfaticamente, «un politico prestato al diritto» (p. 214). La sua militanza nell’area socialista fu sempre segnata da accenti critici, tanto da fargli rimpiangere l’assenza in Italia di un partito laburista, che meglio avrebbe rappresentato i suoi orientamenti e le sue aspirazioni. Per questa insofferenza verso gli apparati tradizionali dei partiti, il suo impegno si manifestò prevalentemente sul piano delle politiche legislative. Tale scelta gli consentì di legare il suo nome ai passaggi più incisivi nell’evoluzione del diritto del lavoro italiano.
Nel 1968 il «giurista prestato alla politica», come egli stesso ebbe a dire, ribaltando la sua definizione (ibid., p. 216), fece il suo ingresso, in qualità di consulente giuridico presso l’Ufficio legislativo, nelle stanze del ministero del Lavoro, allora guidato dal socialista Giacomo Brodolini, nel governo presieduto da Mariano Rumor. L’intesa fra i due – già sperimentata in una comune frequentazione dell’‘ufficio di massa’ (ufficio del lavoro) presso il PSI, partito a cui Giugni si era iscritto nel 1945 e in cui era rientrato nel 1960, nonché dalla sua partecipazione a una commissione di esperti per la redazione della legge sui licenziamenti individuali, approvata nel 1966 – fu immediata e di grande respiro.
Il progetto ambizioso da portare a compimento prima di ogni altro fu una legge a tutela della libertà e dignità dei lavoratori nei luoghi di lavoro, che prevedesse norme di sostegno dell’attività sindacale. Rendere i diritti sindacali azionabili nei luoghi di lavoro, per completare il dettato costituzionale sancito nel primo comma dell’art. 39, rappresentò, per una parte della dottrina del tempo, uno spartiacque fra vecchio e nuovo. Anche le organizzazioni sindacali e imprenditoriali furono, in una prima fase, lacerate al loro interno. Schierato al fianco del ministro, Giugni scelse un ruolo di mediazione fra posizioni divergenti, forte, anche in questo caso, della conoscenza di altri ordinamenti, che trasfuse in modo non convenzionale nella stesura della legge.
In un saggio accademico, sull’onda di un dibattito dai toni molto accesi, scrisse che il giurista positivo è colui che «negli ordinamenti moderni propone modelli di soluzione, non risolve i problemi; progetta, non decide; opera, normalmente, esercitando influenza verso le fonti legittimate a porre le norme» (Lavoro, legge, contratti, cit., p. 191). Il giurista affascinato dalla politica, pur senza restarne sopraffatto, scrisse quelle parole come risposta a chi aveva intravisto negli orientamenti della dottrina giuslavorista un eccesso di ideologia (G. Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale, Milano 1967).
Con questo passaggio Giugni rivendicò autonomia e libertà di critica nel giustificare scientificamente – dunque non ideologicamente – il superamento di norme obsolete. Forte della sua esperienza, maturata, come si è detto, negli anni Cinquanta a contatto con il sindacato e con una parte del mondo imprenditoriale, interpretò da giurista-politico l’evoluzione del diritto del lavoro dall’interno dei sistemi sociali entro cui quell’evoluzione prendeva forma. Fu un cambiamento di non poco conto, a fronte di un ceto di accademici prevalentemente attivi nelle professioni legali e, nel campo del diritto del lavoro, divisi da scelte spesso inconciliabili di vicinanza al sindacato o al padronato. In questa linea di confine si può cogliere il richiamo di Giugni a una sorta di obiettività del giurista, attivo dentro le istituzioni piuttosto che dentro la professione forense.
Dopo la morte di Brodolini, avvenuta prima che lo Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) vedesse la luce, Giugni proseguì l’esperienza ministeriale con Carlo Donat Cattin, anch’egli interessato, pur nel diverso orientamento politico, a tessere la tela di un riformismo legislativo pragmatico e ben meditato. La riforma del processo del lavoro, cui Giugni lavorò con Mauro Cappelletti, segnò un’ulteriore tappa di un cammino esemplare.
Negli anni Ottanta il profilo politico di Giugni si manifestò con maggiore nettezza. Nel 1982, durante il governo presieduto da Giovanni Spadolini, fu incaricato di redigere con altri esperti, un testo per la riforma del trattamento di fine rapporto, poi recepito in un disegno di legge. Sul piano delle politiche legislative divenne sempre più frequente l’emersione di tecniche regolative ispirate alla flessibilizzazione del mercato del lavoro e alla modulazione delle tutele. Giugni inquadrò il diritto del lavoro ‘alluvionale’ nell’ambito delle teorie comunicative e della ricerca di governabilità, a fronte di una sempre più estesa complessità sociale (Lavoro, legge, contratti, cit., pp. 293-335). Il politico operò coerentemente la scelta della concertazione sociale, al fine di collocare le riforme necessarie all’interno di patti triangolari. Chiamato, con altri, dal ministro del lavoro Vincenzo Scotti a collaborare come esperto, si adoperò per la stesura del Protocollo Scotti e dell’accordo del 22 gennaio 1983, convinto che dovesse essere sfatato il mito del salario come variabile indipendente e che dovessero essere introdotti meccanismi di rientro dall’inflazione (La lunga marcia della concertazione, Bologna 2003, pp. 42-44). Quell’abile tessitura di un consenso molto sofferto nelle organizzazioni sindacali e imprenditoriali accrebbe la sua visibilità come promotore della concertazione e attrasse su di lui la reazione violenta e cieca dei terroristi. Il 3 maggio 1983 fu oggetto di un attentato, rivendicato dalla Brigate Rosse, che scosse profondamente il paese e le istituzioni. Con i terroristi, a distanza di qualche anno, Giugni volle aprire un dialogo, incontrando alcuni di loro nel carcere romano di Rebibbia.
Sul fronte della politica di partito, la presenza di Giugni nel PSI fu critica, nel merito come nel metodo, della politica seguita dal segretario Bettino Craxi, anche prima della conferenza programmatica di Rimini del 1982. Tuttavia, forse per una mai totale assimilazione con gli apparati, non intervenne con una netta presa di posizione, se non molto più tardi. Affascinato da un’idea di efficienza riformista che, distante dall’ideologia marxista, finalmente desse corpo alle idee illuminate degli intellettuali riuniti intorno a Norberto Bobbio nell’Associazione per il progetto socialista – come ammise autocriticamente – non si rese conto «della deriva a cui andava incontro il PSI» (La memoria di un riformista, cit., p. 106).
All’apparente ingenuità dello studioso fece tuttavia riscontro un’instancabile voglia di fare, fondata tra l’altro sulla straordinaria sinergia di competenze creatasi, fin dall’inizio degli anni Settanta, fra giuristi, economisti e scienziati sociali di ispirazione socialista. La circolazione di idee in riviste pluraliste come Mondoperaio, di cui Giugni fu assiduo collaboratore specialmente durante la direzione di Federico Coen, non bastò a contrastare una cultura di partito sempre più appiattita sulla gestione della leadership, piuttosto che sull’attuazione di un programma condiviso.
All’inizio degli anni Novanta, con l’esplosione della crisi nel PSI, la lealtà verso gli ideali socialisti spinse Giugni a sostenere l’urgenza di profondi cambiamenti e perfino ad accettare, nel febbraio 1993, la presidenza del partito, negli anni che ne precedettero la scomparsa dalla scena.
Nel 1983, dopo l’attentato terrorista, era stato eletto senatore nel collegio di San Donà di Piave e Portogruaro. Per tre legislature, fino al 1994, fu presidente della Commissione lavoro.
Nonostante la costante combinazione di teoria e pratica del diritto del lavoro lasciasse presagire in più occasioni che Giugni fosse chiamato a ricoprire la carica di ministro del Lavoro, questa occasione si presentò relativamente tardi, nel governo ‘tecnico’ presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Il precedente governo guidato da Amato si era dimesso nell’aprile 1993, nel pieno di una grave crisi di credibilità del sistema politico, non senza aver prima ottenuto l’eliminazione della ‘scala mobile’ con l’accordo raggiunto nel luglio 1992. Furono così costruite solide basi per un accordo più ampio, definito dai più di rilievo costituzionale, dettato dall’urgenza di promuovere l’adesione dell’Italia all’Unione monetaria con il pieno coinvolgimento delle parti sociali. Toccò a Giugni, ministro del Lavoro, tessere la tela che il 23 luglio 1993 portò alla firma del «Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione, sugli assetti contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema produttivo».
Non vi è dubbio che questo documento abbia, nella biografia di Giugni politico, un valore simbolico. Nella crisi della politica – e in particolare del partito cui aderiva – lo scatto del giurista si avvertì, ancora una volta, in una capacità di riversare energie propositive sulle riforme da realizzare. L’esigenza di una razionalizzazione nel sistema della contrattazione collettiva, auspicata da Giugni fin dall’inizio degli anni Sessanta in una fase espansiva e accrescitiva dei trattamenti economici e normativi, si ripresentò un trentennio più tardi come una tappa necessitata, in una fase di crisi e di moderazione salariale.
L’esperienza di Giugni ministro del Lavoro deve essere anche ricordata per l’incontro del 1994 a Detroit, in una riunione del G7, con il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e con il suo segretario del Lavoro Robert B. Reich, professore di economia ed esperto di pubblica amministrazione nell’Università di Berkeley, editorialista conosciuto da un pubblico vasto, non solo di estrazione accademica. L’afflato tra i due studiosi prestati alla politica fu totale, pur nella diversità delle idee discusse in quel consesso, dedicato alla ricerca di misure per creare occupazione nella fase interlocutoria della «ripresa senza lavoro» (Fondata sul lavoro?, Roma 1994, pp. 127-142).
Questa nuova espressione del riformismo giugniano, che si avventurò anche su terreni a lui in verità non troppo congeniali, come le politiche sociali europee, fu tanto appassionata quanto priva di esiti sul piano pratico. La piaga della disoccupazione non fu rimarginata e i nuovi scenari di crescita disegnati da Reich non si rivelarono praticabili. Tuttavia, un laboratorio di volenterosi fu rimesso in piedi, per lo meno per completare l’esperienza ministeriale e partecipare a un altro vertice del G7, che si tenne a Napoli nel luglio 1994, ma fu presieduto da Silvio Berlusconi.
Con la conclusione del governo Ciampi, nel maggio 1994, progressivamente, ma non completamente, Giugni uscì dalla scena politica. Fu eletto alla Camera dei deputati nella XII legislatura (1994-96), fu attivo contro i molteplici quesiti referendari nella campagna indetta dai radicali e fu presente nel dibattito che condusse alla creazione dell’Ulivo. Dal 1996 al 2002 guidò come presidente la Commissione di garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, istituita con la legge 12 giugno 1990 n. 146. Alla ricerca di una casa politica in cui rifugiarsi, aderì al partito dei Democratici di sinistra (DS) nel 2000, per poi ritentare una militanza socialista in quello dei Socialisti democratici italiani (SDI).
L’aggravarsi dei problemi di salute non gli impedì di curare alcuni scritti autobiografici e di proseguire sporadicamente, con il suo stile asciutto ed essenziale, l’attività di editorialista, prevalentemente per il giornale la Repubblica.
Morì a Roma il 5 ottobre 2009.
Oltre a quelle citate: Il sindacato fra contratti e riforme 1969-1973, Bari 1973; Socialismo: l’eredità difficile, Bologna 1996. Fra i testi autobiografici: Intervista a Gino G., in Rivista italiana di diritto del lavoro, a cura di P. Ichino, I (1992), pp. 411-455 (ora in Il diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, a cura di P. Ichino, Milano 2008, pp. 431-473); La memoria di un riformista, a cura di A. Ricciardi, Bologna 2007, presenta un ricco apparato di note redatte dal curatore e riferimenti all’archivio personale di Giugni.
L’archivio di Giugni è conservato a Roma dalla Fondazione Pietro Nenni. Una prima raccolta delle carte si deve a M. Felicioli e A. Ricciardi. Il riordino e l’inventario del fondo sono stati curati da C.P. Di Martino e O. Nicodemo, nell’ambito del progetto ‘Senato on line’, che prevede l’archiviazione e la digitalizzazione di documenti appartenuti a importanti personalità politiche, senatori della Repubblica.
S. Sciarra, L’influenza del sindacalismo ‘americano’ sulla Cisl, in Analisi della Cisl, a cura di G. Baglioni, Roma 1980, pp. 283-307; A. Accornero et al., Da Detroit a Napoli. Innovative ideas that work, Roma 1994; B. Aaron et al., Scritti su Gino G., in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2007, n. 114, pp. 247-420; G. Baglioni, La lunga marcia della Cisl. 1950-2010, Bologna 2011, pp. 86-90; G. Amato et al., In ricordo di Gino G., in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 2012, pp. 175-231; F. Ricciardi, Il rinnovamento delle relazioni industriali e la nascita dell’Intersind: un esperimento di regolazione sociale (1954-1969), in Il miracolo economico e il ruolo dell’IRI (1949-1972), a cura di F. Amatori, Roma-Bari 2013, pp. 260-312; S. Sciarra, Gino G., in P. Cappellini et al., La cultura giuridica, Roma 2012, pp. 695-698.