Pirandello, Luigi
Luigi Pirandello (Girgenti [Agrigento] 1867 - Roma 1936) è uno scrittore nutrito di cultura glottologica, dialettologica e filologica (Spampinato 1996; Sgroi 2009a). Si laureò infatti a Bonn nel 1891 con una tesi sul proprio dialetto, in cui dimostrava sia la conoscenza del metodo storico-comparativo dei neogrammatici, sia una particolare sensibilità per la dimensione diastratica del dialetto (Nencioni 1983b: 176-190; Sgroi 1990b: 161-182).
La lezione di ➔ Graziadio Isaia Ascoli lo aiutò a porre il rapporto tra lingua e patrimonio dialettale e a risolvere, sia teoricamente sia nella prassi scrittoria, il nodo della ➔ questione della lingua. Fin dal 1890 Pirandello denunciò l’inesistenza della lingua italiana, salvo che negli usi letterari, di fronte alla vitalità dei dialetti. La situazione linguistica italiana gli appariva cioè in termini di diglossia (➔ bilinguismo e diglossia): l’italiano era varietà ‘alta’ riservata agli usi scritti, i dialetti varietà ‘basse’, di poco o nullo prestigio, adoperate negli usi quotidiani. Come conseguenza, la prosa italiana circolante gli appariva artificiosa: anzi un mélange di stati di lingua diversi, di varietà geografiche difformi, di livelli e registri discordanti.
Pirandello si mostrò critico verso il teatro siciliano, in particolare in un saggio del 1909: «Un teatro dialettale siciliano non esiste e, date le presenti condizioni, non si può creare» (Teatro Siciliano?, in Pirandello 19733: 1206). La differenza fra lingua e dialetto non consiste per lui in una presunta diversità di valore (l’una poetica, l’altro no), ma nella diversità di raggio d’azione, maggiore per la lingua e minore per il dialetto.
Nel periodo 1915-1920 produsse una dozzina di lavori dialettali (Pirandello 19942 e 2007). La ‘contraddizione’ consistente nell’essere a un tempo scrittore siciliano, italiano ed europeo (Sgroi 1982), era essenzialmente di ordine linguistico, dato che il dialetto rimaneva, rispetto all’italiano letterario, uno strumento di comunicazione viva, ma territorialmente circoscritto, di portata solo regionale. Tale contraddizione (uso del dialetto diatopicamente ristretto rispetto all’uso della lingua) venne risolta solo con l’abbandono, dopo il 1920, del teatro dialettale.
Questo atteggiamento si riflette anche nell’analisi storica della formazione della lingua italiana. In un articolo del 1921 (Dialettalità) l’autore non invoca più l’assenza di una lingua nazionale parlata per dar conto della mancata formazione di una lingua teatrale o di una prosa moderna; piuttosto polemizza, con ironia, contro tale tipo di analisi, invocata da Ferdinando Martini negli anni 1880-1890, per spiegare la mancanza di un teatro nazionale. Per contro, secondo Pirandello «fin da quando è nata la letteratura italiana, la generalità ha questo di particolare: la dialettalità» (in Pirandello 19733: 1210). L’analisi ritorna nei due discorsi su Verga del 1920 e del 1931.
A caratterizzare sommariamente la lingua di Pirandello (su cui cfr., per i testi teatrali, Nencioni 1983b: 210-253; Nencioni 2000: 237-247; Trifone 2000: 94-105; Serianni 2002: 282-298; Frenguelli 2007; Sgroi 2007; per la narrativa Sgroi 1990a: 13-175; Salibra 1990: 15-171; Testa 1997: 167-183; Dardano 2008: 83-122; per il passaggio dalla narrativa al teatro Altieri Biagi 1980: 162-221; Sgroi 2007; per la lingua delle poesie Serianni 2002: 254-281), si può dire che il suo modello non è il fiorentino colto parlato proposto da ➔ Alessandro Manzoni (Sgroi 2009b). È piuttosto quello delineato da Ascoli: un italiano risultato della diffusione della cultura in tutti gli strati sociali, di stampo sì toscano, ma aperto agli apporti dei dialetti delle altre regioni italiane e della tradizione letteraria.
Il modello linguistico pirandelliano, esemplificato in L’amica delle mogli (novella: Pirandello 1990; testo teatrale: Pirandello 1927; cfr. Sgroi 2007; da questo testo sono attinti gli esempi che seguono), si configura come una lingua aperta a una varietà di influssi: la tradizione letteraria (ma non quella aulica), l’apporto vernacolare toscano e regionale siciliano (ma non di tipo popolare), l’italiano ‘medio’ o neostandard, e più in generale parlato, secondo i diversi piani di analisi linguistica (grafico, fonologico, morfologico, sintattico e lessicale), l’apporto delle lingue straniere. L’effetto per il lettore contemporaneo, a distanza di quasi un secolo, è non di rado, va detto, quello di una prosa mescidata e qua e là raccogliticcia.
Lo strato letterario può essere documentato, a livello ortografico, da forme non-univerbate (➔ univerbazione): glie lo, su le; l’uso della ‹j› (bujo, vojaltri, jersera); sul versante fonologico, da varianti quali maraviglia, imagine, gittare.
A livello morfo-sintattico sono da segnalare:
(a) il non pleonastico (vado a vedere se non si è svegliata);
(b) la cancellazione di che nelle completive (➔ completive, frasi):
(1) Pareva [che] stesse ad aspettare ... non so ... (Pirandello 1927: 690)
(c) l’➔infinito narrativo:
(2) Ah, certo, a pensare che è ancora lì ... (ivi, p. 707)
(d) l’uso di forme verbali come denunzii, sieno, dové, tôrre «togliere»; di nomi come il serpe (in senso figurato) e il Baldìa; dell’aggettivo veruno; del pronome soggetto maschile singolare questi; di avverbi e congiunzioni desueti, come dacché, finanche, vieppiù, gran fatto «granché».
(e) la saldezza del congiuntivo anche nei casi in cui nell’italiano medio sia soppiantato dall’indicativo: con le completive (3), le relative restrittive (4), i periodi ipotetici controfattuali (5):
(3) Mi sembra strano appunto che lei l’abbia fatto (ivi, p. 680)
(4) E io non so più, ora, davvero, non so più come debba fare qua … quello che debba fare (ivi, p. 731)
(5) Se me l’avesse consigliato lui, forse ci sarei rimasta (ivi, p. 710)
(f) il sistema dei pronomi personali di terza persona (➔ personali, pronomi) a due componenti: egli / ella (anaforico) e lui / lei (deittico, enfatico):
(6) le nostre mogli temono che ella [Marta] voglia bene più all’una che all’altra (ivi, p. 720)
(g) riguardo alla posizione dei pronomi personali ➔ clitici con i verbi modali (potere, dovere, volere, ecc.; ➔ modali, verbi) + infinito, il pronome tende per lo più a posporsi all’infinito:
(7) Sì, ma pensi che il male che ha potuto farle ... (ivi, p. 748).
L’uso della punteggiatura è spesso quasi all’opposto rispetto a quello odierno. La ➔ virgola è infatti adoperata prima delle completive (8) e prima delle relative restrittive (9), oppure (modernamente) separa il soggetto (specie se lungo: virgola tematica e non sintattica: 10) e l’oggetto dal predicato (11):
(8) E lei non capisce, che ciò che ne penso adesso, invece, viene ad essere peggio, tanto peggio per me? (ivi, p. 731)
(9) dico però che se qualcuno c’è, che l’abbia detto o pensato, è bene che se lo levi dalla testa (ivi, p. 695)
(10) Tutto l’atto – brevissimo – di poche parole e di molte pause lentissime, consisterà di ciò che potrà indovinarsi della morte di Elena nell’altra camera (ivi, p. 741, didascalia)
(11) udì nettamente attraverso la parete, la voce di Pia (Pirandello 1990: 906)
Ancora più marcato è l’uso del ➔ punto e virgola, che isola il soggetto, seguito da più dipendenti, rispetto al predicato (12) o una dipendente con se (13):
(12) Paolo, tolto da più d’un mese ai suoi libri, costretto a dare importanza a tante cose, alle quali gli pareva non avrebbe potuto mai darne; s’era già stancato, e guardava sulla via, pensando (ivi, p. 897)
(13) Glielo educherà poi lei, il gusto; se sarà suscettibile d’educazione (Pirandello 1927: 685)
Anche il punto fermo (o il ➔ punto esclamativo) può precedere una causale aperta da perché col valore di «infatti»:
(14) Ma il tormento per me è che io lo possa pensare! E senza potermene nemmeno adontare! Perché non avrebbero nessuna colpa, loro, nessuna! nessun rimorso di coscienza! (ivi, p. 715)
Né mancano esempi di punto enfatico, che focalizza sintagmi preposizionali / avverbiali, trasformati così in frasi nominali:
(15) Bisogna apparecchiare subito la tavola. Per due. Ecco qua le chiavi delle vetrine e della credenza (ivi, p. 768)
Pirandello adotta «il carattere spaziato per la messa in rilievo» e fa un uso quasi ossessivo «della lineetta [...] per collegare segmenti di una unità sintattica distribuiti in battute diverse» (Nencioni 1983a: 211).
Pirandello opta per voci letterarie, desuete, oppure, dinanzi alla scelta tra voci di base e sinonimi comuni di tipo colto, preferisce questi ultimi. In altri casi sceglie voci formali rispetto a sinonimi correnti, senza escludere il ricorso al lessico settoriale.
Quanto alle voci obsolete, si vedano adontarsi, alieno «estraneo», cura «preoccupazione»; losco «storto» (occhi loschi), ovato «a uovo» (occhi ovati), pìcchio «il bussare», sogguardare «socchiudere gli occhi», tranquillarsi, accensione (del volto), baja «sciocchezza», dicacità, infoscarsi, irrefragabile, scherzevole.
Al vocabolario di base lo scrittore preferisce spesso voci comuni formali o colte: affannoso, cagionare, cavare, discorrere, fomentare, picchiare «bussare», reggere, requie, rincasare, riprensione.
Ricorrono non poche voci di registro formale: accostarsi, appressarsi, apprestarsi, discernere, nequizia, ricevitore (invece di cornetta). A volte la voce comune familiare coesiste col sinonimo tecnico in uno stesso contesto, come nel caso di puntura (familiare) accanto a iniezione (settoriale) nella stessa pagina.
Quanto allo strato toscano, molto frequente è, sul versante della fonologia, il troncamento nei sintagmi formati dalle sillabe -re, -le, -no + consonante, che danno luogo a -r, -l, -n + consonante. Ciò dà alla frase un particolare ritmo da italiano centrosettentrionale (non posso voler niente). Presente la vocale prostetica (in iscena), frequenti le elisioni (com’ha fatto).
A livello di morfosintassi, sono frequenti i dimostrativi codesto, costà, costì, il clitico personale si «noi» (16) o l’articolo davanti al nome proprio femminile (la Tittì):
(16) come s’era rimasti jersera (ivi, p. 682)
L’accordo del participio passato dei verbi pronominali (➔ pronominali, verbi) è con l’oggetto:
(17) Guarda piuttosto come ti sei sciupati gli occhi (ivi, p. 691).
Tra le scelte lessicali, notevoli capo, uscio, babbo «padre», piccino (nome), pinzo «punzecchiamento», seggiola.
La componente regionale e dialettale è misuratissima, essendo L’amica delle mogli un testo non ambientato in Sicilia. Si possono rilevare a livello morfosintattico alcuni esempi di ➔ passato remoto invece del passato prossimo:
(18) Anna: ... Lui [il marito Venzi] accorse [= è accorso] subito, appena chiamato; io ero già a letto, sono corsa a chiamar loro! (ivi, p. 753)
Il pronome clitico precede il costrutto verbo modale + infinito:
(19) Se lo vuol sapere (ivi, p. 682)
Sul piano lessicale si segnala l’uso di addio «arrivederci», il giovine «l’impiegato, dipendente» (< sicil. ggiuvini), giovine di negozio.
L’italiano parlato dei testi teatrali non è ovviamente un «parlato-parlato», ma un «parlato-scritto» o un «parlato-recitato» (Nencioni 1983a: 126-179; ➔ teatro e lingua), in cui spiccano, per es., le interiezioni (➔ interiezione), importanti anche per la caratterizzazione della lingua pirandelliana (cfr. Nencioni 1983b: 210-253), e le modalità del «discorso franto» (Frenguelli 2007), per es. ideofoni (20) ed esclamazioni (21):
(20) Chiama una delle cameriere. Ehi! Antonia! Oh, insomma (ivi, p. 683)
(21) Dio mio; Oh dio, Oh Dio; Vedi, vedi; Guarda
Nel parlato rientrano i tratti dell’italiano medio (o neo-standard; Sgroi 2007): frasi dislocate a destra (22) e a sinistra (23), dislocazione a sinistra delle completive oggettive (24), frasi scisse (25), qualche ➔ tema sospeso (26) (➔ dislocazioni; ➔ scisse, frasi):
(22) Non gli piace più niente di me, a lui (ivi, p. 692)
(23) Me [= a me], intanto, perché sono come sono – nessuno prima mi volle (ivi, p. 730)
(24) che gusti possa avere questa mogliettina di Viani, io ancora non lo so (ivi, p. 684)
(25) Ma è lei, allora, non sono io, che cangia tutto in male! Dunque è stata proprio lei a volerne uscire? (ivi, p. 710)
(26) Al levarsi della tela, la scena dovrebbe dapprima apparir vuota, e poi, fatti gli occhi alla fitta penombra, [in essa dovrebbe] scorgervisi appena Francesco Venzi, in piedi, a spiare, dall’apertura della tenda, nell’altra camera (ivi, p. 741, didascalia)
Sono frequenti le forme di ➔ dativo etico (27), l’indicativo invece del congiuntivo (solo nelle interrogative indirette: 28), il che nel senso temporale di «in cui» (29):
(27) Venzi: Le abbiamo portato le nostre mogli, felici di com’ella ce le ha accolte […]. Com’essere gelosa di lei che è l’amica, l’amica vera delle nostre mogli; che ce le aggiusta, ce le guida, ce le ammaestra, ce le riduce buone e mansuete accanto? (ivi, pp. 719-720)
(28) Io non so com’ha fatto (ivi, p. 707)
(29) E questo lamento [...] sia ripetuto [...] fino al momento che non cesserà con la morte (ivi, p. 742, didascalia)
Pochi i casi di gli nel senso di «a loro» (per il resto a gli «a lui» si oppone le «a lei»); il connettivo per cui vale «ragion per cui»:
(30) Daula: Rimpiangono adesso ...
Guido: D’aver preso moglie, già! ma gli ho risposto bene, mi pare. Sfido! sono andati a prendersi certe mummie! (ivi, p. 699)
(31) Marta: Si può sapere intanto che cosa è avvenuto tra lei e sua moglie, per cui crede che Anna non debba venire? (ivi, p. 685)
Si trovano anche il costrutto ci ho (32) e il soggetto postverbale (33):
(32) Io non ci ho nessuna confidenza (ivi, p. 706)
(33) Ha detto che verrà, il medico? (ivi, p. 723)
Esile, infine, lo strato dei prestiti, messi in corsivo, nel testo teatrale. Va ricordato come caso rilevante l’ebraismo fin nel titolo di una sua novella, Un “goj” (1918), centrata sul problema dell’identità (Sgroi 1992, 1995).
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