PANTALEONI, Maffeo
– Nacque il 2 luglio 1857 a Frascati, primo dei tre figli di Diomede – medico, politico e senatore del Regno – e di Jane Isabella Massy Dawson.
Aveva cinque anni quando il padre, suo primo maestro, fu costretto all’esilio nizzardo. Dal 1868 Pantaleoni fu in collegio a Saint Germain-en-Laye (nell’Ile de France) e dal 1870 a Potsdam (nel Brandeburgo), dove conseguì la maturità il 22 gennaio 1877. Tornato a Roma per gli studi di giurisprudenza, ebbe come compagno di studi Antonio De Viti De Marco. Con l’amico condivise quell’esperienza, la lettura fuori programma della Theory of political economy (London 1871) di W. Stanley Jevons, che iniziò entrambi al mestiere di economista. Relatore un giovane Antonio Salandra, si laureò il 30 giugno 1880 con la tesi Teoria della traslazione dei tributi (Roma 1882), problema fino allora considerato analiticamente non riducibile. Poco dopo si servì della formidabile cultura filologica impartitagli a Potsdam dal precettore Albert Hamann per smontare la tesi dell’eminente giurista scozzese Henry J. Sumner Maine secondo cui il diritto di età omerica si sarebbe fondato sull’arbitrio occasionale del giudice e non su un costume giudiziale (Saggio intorno ad una questione di diritto preistorico: la teoria delle θέμιστες, in Rassegna nazionale, 1881; Studi storici di economia, 1936).
Nella primavera del 1882 ottenne presso la Libera Università di Camerino (Macerata) il suo primo contratto di docenza. Rifiutando l’aiuto paterno, tenne anche lezioni di greco e latino nel locale liceo e alcuni patrocini legali, lavorando nel frattempo all’opera prima dell’illustre tradizione italiana in scienza delle finanze, il Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche (1883; Studi di finanza e statistica, 1938), saggio rivelatore della natura economica del fenomeno finanziario.
Il Contributo si basa sulla teoria del valore come utilità marginale, mera «applicazione ad una particolare scienza» della teoria logica generale esposta nelle «ricerche di Daniele Bernoulli [1738] sulla “mensura sortis” e di Pierre Simon Laplace [1848] sulla “espérance morale”» (1883; Studi di finanza e statistica, 1938, p. 6). L’analisi della portata applicativa di questa teoria, rispetto a una decisione così complessa come quella di finanza pubblica, lo portò a dare rilievo a quelle pratiche «che si raggruppano sotto il titolo di preparazione del bilancio» (p. 28) e che aiutano a evitare quelle riduzioni nella «libertà di disposizione» dovute a quegli «errori che non si possono evitare» (p. 37). Le parole di Jevons in epigrafe – «It is curious to observe how frequently men are engaged in solving mathematical problems without being aware of the fact» – rivelano la filosofia del Contributo e dell’intera vicenda teorica di Pantaleoni, incardinata sulla questione dell’incertezza (rischio non misurabile, distinto dalla mensura sortis) resa classica una generazione dopo da Frank H. Knight e J. Maynard Keynes.
Dal matrimonio nel 1882 con la romana Emma Ravogli (nata nel 1863) nacquero Diomede (1883), Adelchi (1884), Massimo (1888), Goffredo (1889) e i gemelli Alexis e Marcella (1898).
Nel dicembre 1883 ottenne un contratto di docenza alla Regia Università di Macerata, dove conobbe Alberto Zorli. Indagando i modi di ricavare diagnosi economiche da sintomi statistici, introdusse in Italia il metodo del totalizzatore (Dell’ammontare probabile della ricchezza privata in Italia, Roma 1884). Nel 1885 ebbe la sua prima cattedra, quella di economia alla Scuola superiore di commercio di Venezia diretta da Francesco Ferrara. Allorché Zorli rilevò il Giornale degli economisti, gli affidò la rubrica Rassegna finanziaria, sulla quale Pantaleoni sviluppò un’analisi comparata delle finanze di vari Paesi, propedeutica alla Teoria della pressione tributaria (Roma 1887). Tenne la rubrica fino a tutto il 1886, quando passò a dirigere la Regia Scuola di commercio di Bari, appena fondata. Nell’agosto 1888 si accordò con l’editore Barbera per la pubblicazione di un manuale di economia politica basato sul suo materiale didattico.
In poco tempo videro la luce i Principii di economia pura (Firenze 1889): la teoria era ‘pura’ entro l’ipotesi di assenza di incertezza. E, all’interno di tale perimetro, mostrò come le diverse scuole di pensiero economico poggiassero su quelle stesse basi assiomatiche che, per primo (Caruso, 2012), condensò nella dizione homo oeconomicus. I Principii gli valsero la stima di Léon Walras al quale, d’accordo con De Viti De Marco e Ugo Mazzola, offrì la direzione onoraria della rivista internazionale che avevano in progetto di fondare. L’indisponibilità di Walras li spinse ad acquistare da Zorli il 75% del Giornale degli economisti. Vilfredo Pareto divenne un loro stabile collaboratore e Pantaleoni si congedò per cinque anni dalla didattica.
L’impegno profuso nel Giornale va capito come reazione alla svolta politica determinata dalla Sinistra storica. Nel 1887 il nuovo primo ministro Francesco Crispi si trovò a dover gestire il rinnovo della tariffa doganale con la Francia, principale partner commerciale e finanziario dell’Italia. Avendo il suo predecessore, Agostino Depretis, appena rinnovato la Triplice alleanza, Crispi si scontrò con la tattica dilatoria dei francesi che sfidò con una svolta protezionista basata su un rafforzamento dei rapporti con la Germania.
La pubblicistica anticrispina del Giornale gli costò, nell’aprile 1892, la direzione della scuola di Bari. Pantaleoni tentò di resistere ma, non trovando né un legale disposto a tutelarlo né un ateneo disposto ad accoglierlo e scartata l’ipotesi di candidarsi a deputato di Macerata alle elezioni di novembre, accettò la nomina a direttore della società Cirio offertagli da Giacinto Frascara, direttore della Società generale di credito mobiliare che alla Cirio aveva concesso un prestito condizionato alla facoltà di tale nomina. Poco dopo la morte di Giuseppe Giacomo Alvisi (novembre 1892), libero da ogni vincolo morale, Pantaleoni consegnò al neodeputato Napoleone Colajanni copia della relazione Alvisi-Biagini: fu così che il 20 dicembre 1892 furono resi noti i risultati della commissione parlamentare d’inchiesta sugli istituti di emissione, facendo esplodere quello ‘scandalo della Banca Romana’ che investì l’Italia crispina e il primo governo Giolitti.
Quanto alla ricerca teorica, dopo aver considerato i limiti diagnostici dei metodi statistici (Osservazioni sulla semiologia economica, in Revue d’economie politique, 1892; Studi di finanza e statistica, 1938), tentò di stabilire il rischio non misurabile all’interno della teoria economica: nei Cenni sul concetto di massimi edonistici individuali e collettivi (con A. Bertolini, in Giornale degli economisti, s. 2, III (1892), pp. 285-323; Erotemi di economia, 1925), spostò l’attenzione dai primi ai secondi, relativi o a una collettività di individui o a un individuo lungo una collettività di periodi, e in tal senso regolati dall’edonismo di specie, non più da quello individuale. Giunse a esiti analoghi a quelli smithiani della Theory of moral sentiments: entro l’edonismo di specie l’individuo avrebbe considerato se stesso come una terza persona. Come in Adam Smith la questione aveva una matrice giuridico-politica, essendo i mezzi della teoria pura insufficienti alla produzione di «norme felicitanti» (Erotemi di economia, II, 1925, p. 7).
Nel 1893 la circolazione fiduciaria fuori controllo non era l’unico problema dell’Italia bancaria, orfana della sua principale banca d’investimento, la già ricordata Società generale di credito mobiliare di Frascara. «Non sarebbe stata possibile una grande impresa in Italia senza il concorso del Mobiliare e molto meno che capitale estero intervenisse in Italia, senza essersi assicurata la cooperazione del Mobiliare» (La caduta della Società generale di credito mobiliare italiano, 1895, poi in Studi storici di economia, 1936, p. 219). Il ritiro dei capitali d’oltralpe in ritorsione alle scelte di Depretis e Crispi costrinse il Mobiliare ad accettare provviste a breve termine e con ciò ad accumulare quel consistente rischio di liquidità che, non appena si materializzò, portò a «la sparizione della banca italiana in Italia» (p. 403). Quel vuoto fu presto coperto da un consorzio di sole banche straniere, a prevalenza tedesca, che fondò la Banca commerciale italiana. La nomina di Pantaleoni nel 1894 a commissario liquidatore del Mobiliare lo mise in condizione di comprendere a pieno la portata storica di questa vicenda che costituì il tema del suo capolavoro, La caduta della Società generale di credito mobiliare italiano (1895), e della sua storia politica.
Il 31 ottobre 1895 vinse il concorso per la cattedra di economia politica a Napoli, rimasta vacante per oltre un anno a causa di una protesta, da lui stesso organizzata, contro i tentativi di eludere la procedura concorsuale e assegnarla per nomina a Francesco Saverio Nitti. I crispini lo attirarono in accuse imprudenti contro Crispi e Umberto I per l’occultamento dei documenti della resa di Makallé (Il Secolo, 28 marzo 1896). Emanuele Gianturco, suo collega a Napoli e ministro della Pubblica Istruzione, poté così deferirlo al Consiglio superiore dell’Istruzione pubblica per violazione dell’art. 106 della legge Casati (avere, con l’insegnamento o con gli scritti, impugnate le verità sulle quali riposa l’ordine religioso e morale).
La moglie, non più in grado di sostenere tensioni così forti, fu accolta da Pareto in Svizzera dove già erano in collegio i figli Diomede e Adelchi. Pantaleoni rimase a Roma, aiutato dalla madre, con i piccoli Goffredo e Massimo. Deciso a resistere, rifiutò un’importante offerta da Chicago e tentò qualche fortuna imprenditoriale. Alla fine del 1896 Pareto gli procurò un’offerta dall’Università di Ginevra; benché la soddisfazione delle sue pretese economiche avesse costretto l’ateneo a una modifica della legge, Pantaleoni non chiuse l’accordo. Tentò infatti di trasformare la sua partenza in una questione politica, forte dell’essere diventato l’idolo della protesta studentesca poi repressa con la chiusura degli atenei di Roma e Napoli.
Con i suoi insistenti richiami alla prudenza, Pareto lo convinse a partire per Ginevra nell’ottobre 1897. Tormentato dalla nostalgia, incitò i moti popolari e aiutò gli esuli socialisti, convinto che solo un popolo capace di alzare la testa potesse contenere l’autorità pubblica nella sfera delle funzioni necessarie, quelle fuori della portata della responsabilità individuale. Sarà il ricordo della violenta repressione della ‘protesta del pane’ di Milano (maggio 1898), culminata con la medaglia di Umberto I al generale Fiorenzo Bava Beccaris, a fargli rifiutare l’invito a una commemorazione del re, definendo «avvertimento» il gesto del regicida Gaetano Bresci (Pareto, 1960, II, p. 331).
Dieci anni di lotta anticrispina gli valsero il sostegno di radicali, socialisti e repubblicani maceratesi alle elezioni suppletive del marzo 1900. La sua elezione fu strumentalmente contestata dal governo, ma si confermò alle elezioni generali di giugno con oltre il 90% delle preferenze.
Considerando la società individualista come più produttiva di innovazioni, e dunque meglio attrezzata a promuovere quella crescita sufficiente a garantirsi i mezzi per proteggersi da «le tenebre che ricoprono l’avvenire» (Erotemi di economia, I, 1925, p. 264), prevedeva per il socialismo un’evoluzione liberista. Per dirla con Keynes, non vedeva alcuna urgenza nell’antisocialismo per via delle «dark forces of time and ignorance which envelop our future».
Da a-socialista sedette tra le fila radicali. Convinto che la democrazia non dovesse essere «una aristocrazia di nuove clientele», sostenne posizioni liberaldemocratiche e federaliste, liberiste e anticorporative, antimilitariste e anticlassiste. Nel gennaio 1901, dopo oltre un anno di attesa della ratifica governativa, fu nominato professore ordinario a Pavia succedendo a Mazzola, prematuramente scomparso. Le sue intuizioni dinamiche erano basate sul presupposto che fossero di tipo economico solo i rapporti sociali caratterizzati da rapporti di forza incerti (An attempt to analyse the concepts of ‘strong and weak’ in their economic connection, in Economic journal, 1899). Su queste basi introdusse il corso pavese puntualizzando che, nell’analisi dei processi, la determinazione di una posizione iniziale richiedesse un riferimento sia all’informazione disponibile sia ai costi del passaggio da questa a date posizioni finali (Caratteri delle posizioni iniziali e influenza che esercitano sulle terminali, in Giornale degli economisti, 1901).
Nell’aprile 1901 la facoltà giuridica romana, con Salandra e De Viti De Marco, lo chiamò a succedere ad Angelo Messedaglia sulla più prestigiosa cattedra italiana di economia. Nel maggio 1902 perse, per una malattia, il fratello Raoul e, per il dolore, la madre. La sua opposizione a ogni forma di «legislazione di classe» gli valse un isolamento politico di cui ben presto risentì le conseguenze.
L’obiettivo di liberare l’Italia dall’egemonia bancaria tedesca lo portò ad assumere con Giovanni Poli, ex presidente della Cirio anch’egli deputato, compiti di vigilanza su un progetto franco-italiano volto a fondare una banca mista. Le occulte irregolarità della cordata piemontese scaraventarono Pantaleoni al centro di uno scandalo bancario, agostano in tutti i sensi (Lo scandalo bancario di Torino, I-II, Torino 1902-1903). Sebbene dalle inchieste politiche e giudiziarie uscì estraneo persino come testimone, la violenza della stampa giolittiana lese per sempre l’equilibrio del suo rapporto con la politica e quello psicologico della moglie. Pressato da difficoltà familiari, nel giugno 1904 si dimise da deputato per concentrarsi su lavoro e famiglia.
Quanto alla ricerca, approfondì quella sugli strumenti dell’analisi dinamica. La disavventura torinese ispirò il saggio Attribuzioni di valori in assenza di formazione dei prezzi di mercato (in Erotemi di economia, II, 1925) nel quale, rovesciando il tema del Contributo del 1883, mise in rilievo la natura finanziaria del fenomeno economico e aprì la strada italiana agli studi di economia aziendale.
Al congresso della Sips (Società Italiana Progresso Scientifico) del 1907, trattando della separazione tra teoria dell’equilibrio e problema pratico-politico (Una visione cinematografica del progresso della scienza economica, 1870-1907, in Erotemi di economia, I, 1925), propose una concezione (hayekiana prima di Friedrich A. von Hayek) della concorrenza come innovazione nel comportamento di mercato. Poiché ogni innovazione suscita, rispetto alla routine, un aumento temporaneo delle spese correnti, trattò più volte il tema del riparto tra spese specifiche e generali. Al congresso Sips del dicembre 1909 lesse una memoria (Di alcuni fenomeni di dinamica economica, ibid., II, 1925) cui l’American economic association dedicò una sessione del proprio congresso annuale: dopo aver rilevato il carattere statico dell’analisi delle condizioni di equilibrio, propose di distinguere due generi di analisi dinamica, uno relativo ai processi di stabilizzazione a un equilibrio (caso limite dei passaggi a costo zero), l’altro a una sequenza di passaggi dall’una all’altra posizione di non-equilibrio (caso generale dei passaggi costosi).
Nel corso del 1911-12 (Legislazione del credito e delle operazioni di borsa, Roma 1912, pp. 196-198) chiarì come il commercio di titoli con strategie di breve termine costituisse fattore d’instabilità dei mercati finanziari.
«In tutti i suoi lavori Pantaleoni riassume un’epoca e ne inizia un’altra: è il maestro che associa idee disparate, che suscita dubbi, che scopre nuovi orizzonti […] L’opera sua è animata da una passione così profonda di uomo, di cittadino, di maestro, da assicurargli l’ammirazione delle generazioni che verranno anche là dove potranno avvertire la natura inconsistente o caduca di certe sue invettive politiche, specie di quelle posteriori al 1914, a cui si contrappone il valore duraturo dei suoi magistrali contributi scientifici» (Fubini, cit. in Zanni, 1978, p. 9).
Con lo scoppio della Grande Guerra l’opinione pubblica si polarizzò tra neutralismo socialista e interventismo nazionalista. Pantaleoni organizzò una strategia di propaganda interventista che si riverberò ben oltre il dibattito contemporaneo. Rassegnato all’idea che le categorie politiche fossero meri miti funzionali alla gestione mentale di un complesso di elementi concreti (Idea nazionale, 5 novembre 1914), e abbastanza disilluso da non vagheggiare una tale funzionalità per il mito liberista, introdusse nel dibattito politico italiano l’accusa di disfattismo, ispirandosi alle invettive di Urbain Gohier contro il leader socialista Jean Jaurès. Oltre che come occasione di recupero del «deficit morale» alimentato da agitazioni e statolatria impartita al Paese da giolittiani e socialisti (Giornale d’Italia, 21 aprile 1914), interpretò la guerra come lotta di indipendenza dalla Germania che, per tramite di giolittiani e socialisti, avrebbe tenuto in pugno banca, stampa e parlamento (Idea nazionale, 15 maggio 1915). Quanto più il protrarsi della guerra alimentava i timori di una sconfitta (e dunque di un’affermazione socialista in Italia), con tanta più veemenza accusava i socialisti di disfattismo.
Altrettanto notevole fu una teoria generale delle crisi (Annali di economia, 1925), centrata sul tema della radicale incertezza della prognosi economica e premessa a una relazione giudiziaria del 1912.
L’interesse per le indeterminatezze dell’analisi dinamica gli fece declinare le insistenti richieste di un nuovo manuale didattico.
Con la morte della moglie, nel 1910, erano maturati i tempi per un ritorno sulla scena politica. Nel 1912 tenne la Cronaca del Giornale degli economisti. Incitò alla vittoria della guerra italo-turca, «necessaria» sia per argomentate ragioni di politica internazionale, sia per tacite ragioni nazionali se non anche personali: così come i timori dell’Italia bancaria di una crisi innescata da un insuccesso bellico spinsero la Corona e la stampa ad alimentare la retorica nazionalista, così quelli di Pantaleoni per le allora buone sorti di una sua impresa di laterizi possono conciliare i toni xenofobi delle sue cronache (in particolare quella del gennaio 1912) con la sua caustica quanto lapidaria valutazione dei nazionalisti (in Salucci, 1913, p. 181).
Dal 1920, dopo una breve e sterile collaborazione con Gabriele D’Annunzio a Fiume (dove diresse le finanze della Reggenza italiana del Carnaro), interpretò la ‘vittoria mutilata’ come esito di una congiura ebraica volta al dominio delle nazioni con le armi della propaganda bolscevica e della finanza internazionale. Suo principale alleato nella reazione ai ‘socialisti del Kaiser’ fu Giovanni Preziosi.
Alla base dei suoi interventi (raccolti in Note in margine della guerra, 1917; Tra le incognite…, 1917; Politica…, 1918; La fine provvisoria…, 1919; Bolscevismo italiano, 1922) la convinzione che la rivoluzione russa e la conferenza di Parigi avessero messo l’ordine economico mondiale su un crinale favorevole ai socialisti: la sostituzione di un regime interno e internazionale di prezzi economici con uno di prezzi politici avrebbe eroso le premesse economiche della civiltà ottocentesca, riportando l’orologio del progresso sociale all’ora medievale. L’unico mito in grado di sostenere una reazione liberista e conservatrice dei valori risorgimentali gli apparve quello nazionalista, poi assorbito in quello fascista.
Il 1° marzo 1923 fu nominato senatore da Vittorio Emanuele III. Ricoprì diversi incarichi e con Alberto De’ Stefani, ministro delle Finanze e suo ex allievo, cercò di portare il governo Mussolini su posizioni liberiste. Al Senato si fece assistere, senza mai rivelargli le condizioni dell’angina pectoris che lo tormentava, dal teatino Umberto Ricci, professore a Macerata e suo successore alla cattedra romana.
Ricci fu uno dei tre lincei che nel 1933 si dimise dall’Accademia per non accettare il giuramento imposto dal fascismo; De Viti, l’amico di sempre, fu tra i sette che si rifiutarono a testa alta.
Pantaleoni difese il governo anche dopo l’omicidio Matteotti (1924). Quando lo vide raccogliere le redini della protezione bancaria capì però che i suoi sforzi si sarebbero rivelati vani. Non per questo smise di riproporre il grande tema della sua vita politica: come l’ignoranza della tecnica bancaria generasse conflitti d’interesse che minano la stabilità del sistema finanziario. L’ultima volta fu quando, invitato al Congresso internazionale delle Casse di risparmio, partì per Milano nonostante la salute precaria. «Vi pronunziò [in francese] un discorso mirabile, durato 50 minuti. Man mano che parlava, la sua voce si affievoliva: appena ebbe terminato il discorso, cadde a terra» (Ricci, 1939, p. 20).
Fu così che, il 29 ottobre 1924 a Milano, «Italy lost the prince of her economists» (Sraffa, 1924, p. 648).
«Alla pari del padre […] fu uomo di studio e d’azione nel senso più comprensivo ed elevato dell’espressione. Coltissimo e geniale, sfugge, per la molteplicità degli interessi spirituali, per la vivacità dei contrasti intimi, per l’originalità possente, ad ogni tentativo accademico di incasellamento, da cui egli, per primo, rifugge costantemente con orrore. La sua vita è divisa tra le cure domestiche, la vita degli affari, l’attività politica e la meditazione: le svariate occupazioni gli lasciano poco tempo per l’attività scientifica, qual è comunemente concepita; eppure egli si rivela non solo scienziato, ma scienziato di tempra superiore. Maestro dei maestri, guida la propria generazione, [Vilfredo] Pareto e [Enrico] Barone compresi, negli studi economici e sociali» (Fubini, cit. in Zanni, 1978, p. 5).
Sarebbe stata questa l’introduzione alla voce dell’Enciclopedia Italiana dedicata al ‘principe degli economisti italiani’ se, nel 1934, De’ Stefani e Giovanni Preziosi non avessero imposto a Gustavo Del Vecchio, direttore della sezione economia e statistica, la rinuncia al testo di Renzo Fubini in cui erano messi in cattiva luce l’impegno di Pantaleoni a favore del fascismo e più in generale la sua attività politica dopo la Grande Guerra.
Opere. Si segnalano: Scritti varii di economia, I, Palermo 1904, II, Palermo 1909, III, Roma 1910; Note in margine della guerra, Bari 1917; Tra le incognite. Problemi suggeriti dalla guerra, Bari 1917; Politica. Criteri ed eventi, Bari 1918; La fine provvisoria di un’epopea, Bari 1919; Bolscevismo italiano, Bari 1922; Temi, tesi e problemi di economia politica teorica e applicata, Bari 1923 (con R. Broglio D’Ajano); Erotemi di economia, I-II, Bari 1925; La crisi del 1905-1907, in Annali di economia, I (1925), 2, pp. 301-542; Studi storici di economia, Bologna 1936; Studi di finanza e statistica, Bologna 1938.
Fonti e Bibl.: Le importanti lettere a Vilfredo Pareto sono andate distrutte a causa di una troppo ligia esecuzione delle volontà del destinatario. I materiali di interesse archivistico sono sparsi in diverse sedi. La collezione più importante è costituita dalla sua biblioteca personale conservata presso la Biblioteca comunale Mozzi Borgetti di Macerata. Riccardo Pantaleoni è il prezioso custode della memoria familiare.
A. Salucci, Il Nazionalismo giudicato da letterati, artisti, scienziati, uomini politici e giornalisti italiani, Genova 1913, p. 181; P. Sraffa, M. P., in The economic journal, XXXIV (1924), 136, pp. 648-653; A. De Viti De Marco, M. P., in Giornale degli economisti e Rivista di statistica, LXVI (1925), 4, pp. 165-177; U. Ricci, Tre economisti italiani, Bari 1939; V. Pareto, Lettere a M. P., a cura di G. De Rosa, I-III, Roma 1960; A. Zanni, La doppia versione della voce Pantaleoni nella Enciclopedia Italiana, in Storia del pensiero economico, VII (1978), 6, pp. 3-10; M.M. Augello - L. Michelini, M. P. (1857-1924). Biografia scientifica, storiografia e bibliografia, in Il pensiero economico italiano, V (1997), 1, pp. 119-206; M. P. At the origin of the Italian school of economics and finance, a cura di M. Baldassarri, London 1997; N. Bellanca - N. Giocoli, M. P. Il principe degli economisti italiani, Firenze 1998; L. Michelini, Alle origini dell’antisemitismo nazional-fascista: M. P. e “La Vita italiana” di Giovanni Preziosi, 1915-1924, Milano 2011; S. Caruso, Homo oeconomicus, Firenze 2012.