Maffeo Pantaleoni
Maffeo Pantaleoni, il «principe» (come si è scritto) degli economisti italiani, fa parte di quel ristretto gruppo di economisti italiani che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento conseguirono risultati di così alto livello scientifico da meritare l’apprezzamento di Joseph A. Schumpeter. In ciò che segue si cercherà di mettere in luce il profilo scientifico di Pantaleoni, non solo studioso e non solo economista, ma anche scienziato della società e, in talune sue manifestazioni, intellettuale universale.
Maffeo Pantaleoni nacque a Frascati il 2 luglio 1857, da antica famiglia maceratese. Suo padre, il senatore Diomede, di professione medico chirurgo, fu amico e confidente di Massimo D’Azeglio e di Camillo Benso conte di Cavour. La madre, Jane Isabella Massy Dawson, era di nobile famiglia irlandese.
Dal 1877 al 1880 frequentò la facoltà di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma, dove si laureò il 30 giugno di quell’anno con una tesi che, con varie elaborazioni e integrazioni, sarebbe diventata nel 1882 la sua prima pubblicazione di carattere sistematico (Teoria della traslazione dei tributi).
A partire dal 1881, Pantaleoni iniziò la sua attività di insegnante che si svolse in numerose sedi universitarie, per approdare infine (a partire dall’a.a. 1901-1902) all’Università di Roma dove rimase come professore di economia politica fino alla morte avvenuta a Milano il 29 ottobre 1924.
Nel 1890, insieme ad Antonio De Viti de Marco e a Ugo Mazzola (1863-1899), acquistò da Alberto Zorli il «Giornale degli economisti», facendone la rivista teorica della nuova scuola marginalista, ma anche l’organo politico dei liberisti.
L’antisocialismo costituì una costante della sua vita politica anche se, per un certo periodo, sperimentò una convergenza con il partito guidato da Filippo Turati in nome della comune lotta contro il regime crispino accusato di vocazioni autoritarie e militariste e di collusioni con il mondo degli affari. L’elezione di Pantaleoni alla Camera dei deputati per il collegio di Macerata avvenuta nel 1900 con il sostegno di una coalizione di sinistra costituisce la testimonianza di questa alleanza tattica. Tale situazione tuttavia durò molto poco. Con l’avvento del giolittismo e di una legislazione sempre più attenta alle condizioni delle categorie sociali meno abbienti (case popolari, municipalizzazioni, cooperativismo, previdenza sociale, assistenza), Pantaleoni denunciò in La legislazione di classe e la democrazia (1902) il pericolo che «alle classi privilegiate dei militari, dei grandi proprietari fondiari, dei grandi industriali» si venisse ad aggiungere o sostituire una «aristocrazia di nuove clientele», l’instaurazione cioè di un nuovo blocco politico protezionistico facente perno, questa volta, sul consenso di «certe categorie della burocrazia e di operai, meglio organizzate di altre» (in M. Pantaleoni, Scritti varii di economia, 1910, pp. 113-32).
Si può far partire da questa denuncia l’accentuazione delle sue polemiche politiche sui più vari argomenti, dove i toni usati potevano raggiungere livelli di notevole asprezza, con l’adesione prima al nazionalismo intorno al 1910, poi all’interventismo al tempo della Prima guerra mondiale, successivamente all’impresa dannunziana di Fiume nel 1920, e infine al fascismo (Michelini 2011). Alla base vi era la sempre più radicata persuasione che individuava nel socialismo il più insidioso nemico della liberal-democrazia (in versione individualista) e del progresso. Anche la sua attività politica fu quindi tormentosa, appassionata e, per molti versi, dolorosa.
La visione di Pantaleoni del fenomeno sociale si fonda su una filosofia dell’individualismo e su un’idea forte di evoluzionismo a base selettiva, in cui si riconosce l’influenza del darwinismo sociale di Herbert Spencer (1820-1903). All’interno di questa concezione, l’ipotesi edonistica occupa un posto centrale. Attraverso atti economici conformi a tale ipotesi, gli uomini – anzi meglio, una parte qualificata di essi, in primo luogo gli imprenditori motivati dallo spirito di guadagno – sono in grado di attuare strategie e comportamenti idonei ad affrontare efficacemente i vincoli posti dalla scarsità e dall’ambiente, realizzando il progresso economico e sociale. Il capitalismo di mercato costituisce per lui il sistema istituzionale meno imperfetto per orientare verso obiettivi di crescita e di benessere il processo dell’economia. Nella pagina di apertura dei Principii di economia pura, pubblicati in prima edizione nel 1889, si legge:
La scienza economica consiste nelle leggi della ricchezza, sistematicamente dedotte dalla ipotesi che gli uomini sono mossi ad agire esclusivamente dal desiderio di conseguire la maggiore possibile soddisfazione dei loro bisogni mediante il minore possibile sacrificio individuale (Principii di economia pura, 18942, p. 9).
L’atto economico individuale ha quindi una valenza squisitamente soggettiva e ha radice psicologica.
Per quanto riguarda il metodo di analisi, i suoi studi di economia presentano una ricchezza di posizioni tale da non poterlo considerare appartenente in senso stretto a nessuno dei due indirizzi che allora costituivano gli approcci predominanti all’interno del nascente paradigma marginalista: né quello dell’equilibrio generale di Vilfredo Pareto, con il quale peraltro intrattenne per tutta la vita un sodalizio di amicizia e di comuni battaglie politiche e culturali (Pareto 1960), né quello degli equilibri parziali di Alfred Marshall (1842-1924).
Al primo approccio egli riconobbe il merito di caratterizzarsi per un più elevato grado di completezza e di coerenza logica, ma l’acquisì prevalentemente quale avvertenza generale di metodo. Il suo temperamento di studioso, più che ad analizzare le azioni economiche in un contesto di interdipendenze al fine di verificarne gli sbocchi in termini di variabilità dei prezzi (teoria dell’equilibrio generale), lo portava ad approfondire il fenomeno del valore quale legame esistente tra le motivazioni psicologiche dei soggetti e le varie configurazioni economiche che da esse possono scaturire (Dardi 2014, in corso di stampa). Dallo schema dell’equilibrio generale lo allontanava poi un grado di conoscenza dello strumento matematico forse non del tutto adeguato e, soprattutto, la convinzione che l’elevato livello di astrazione che lo caratterizza fosse di ostacolo al conseguimento di risultati immediatamente applicabili ai problemi della vita reale.
In fatto di metodologia della ricerca economica, il massimo della sua originalità emerge nelle sue analisi dinamiche, spesso condotte in simbiosi con considerazioni di natura extra-economica. A tale proposito, e ancora una volta, la sua propensione di metodo registra una maggiore distanza da Pareto piuttosto che da Marshall. Tanto in Pantaleoni come nell’economista britannico troviamo infatti l’aspirazione a istituire un collegamento tra proposizioni teoriche e giudizi di valore in grado di orientare a fini applicativi quelle medesime proposizioni. Ma va anche rilevato che il sistema di pensiero generale che alimentava i due studiosi era in parte diverso. Questa strategia di «astrazioni concrete» portava Marshall ad allentare l’ipotesi edonistica e quella di perfetta razionalità, per dare spazio alla considerazione di quegli elementi culturali e morali che egli riteneva caratterizzassero la modernità e i codici operativi di un’incipiente economia mista e riformatrice (Nishizawa 2012). In Pantaleoni, invece, questa attitudine verso l’economia sociologica era principalmente rivolta a ribadire la piena rilevanza euristica di quelle ipotesi, cioè a sostenere un concetto forte di atto economico, tanto più efficace quanto meno temperato o snaturato da altri generi di pulsioni umane: affettive, solidaristiche, parassitarie e così via. In sostanza, riteneva che grazie alla coerente traduzione empirica dell’ipotesi edonista nelle varie manifestazione della vita privata e (in parte) anche di quella pubblica, potessero più velocemente prendere campo elementi di autopromozione sociale e di crescita di responsabilità individuale, in una società che egli giudicava altrimenti poco incline ad accettare la disciplina e la funzione positiva del libero mercato e della competizione imprenditoriale.
In questa differente declinazione dell’homo economicus da parte di Marshall e di Pantaleoni è da ravvisare il segno dei rispettivi orientamenti politici, più caratterizzato in senso liberista nel caso dell’economista italiano. Ma non solo questo, dato che nelle loro personali rappresentazioni del rapporto economia-società si rifletteva anche la diversità dei contesti sociali da cui i due economisti osservavano la vicenda umana. Ci riferiamo, nel caso di Marshall, alla Gran Bretagna di fine Ottocento, un ‘osservatorio’ già situato agli avamposti di quelle che di lì a poco sarebbero state le società del benessere. E, nel caso di Pantaleoni, a una ‘Italietta’ che, nello stesso periodo, si trovava invece in ben altra situazione.
La consapevolezza della sostanziale arretratezza della società italiana, da una parte, innalzò il suo spirito critico incentivando la ricerca di nuove conoscenze e di nuovi progetti con finalità di sviluppo (Bini 1995); dall’altra, però, lo fece talvolta propendere verso atteggiamenti paternalistici, nella convinzione che solo una tutela dall’alto avrebbe potuto accelerare il passaggio degli italiani dalla condizione di sudditi a quella di cittadini. Cosicché, mentre dal primo punto di vista – quello della implementazione delle categorie teoriche e delle loro applicazioni – egli svolse un ruolo indubbiamente positivo, non risultò esente da cadute di atteggiamento politico nell’assecondare il secondo, come nel caso della sua adesione al fascismo.
L’opera grazie alla quale Pantaleoni acquisì una reputazione internazionale di economista sono i Principii di economia pura. Scaturita da un’esigenza didattica, essa impresse una svolta teorica, metodologica e analitica rispetto agli studi economici precedentemente praticati in Italia, e ciò nel senso del pieno adeguamento scientifico che con questo lavoro egli realizzò rispetto ai padri del marginalismo William S. Jevons (1835-1882), Carl Menger (1840-1921) e Léon Walras (1834-1910) e ai loro fondamentali testi risalenti ai primi anni Settanta dell’Ottocento (Barucci 1980; Gallegati 1984). I commenti più diffusi espressi all’indomani della pubblicazione di questo libro ne misero in evidenza la sistematicità, l’acume analitico, la lucidità espositiva e, in generale, l’impegno innovativo (Magnani 2003).
Delle tre parti che compongono il libro, giudizi come quelli appena sintetizzati si addicevano in particolare alle prime due, rispettivamente intitolate Teoria dell’utilità e Teoria del valore. Invece, riguardo alla terza parte – Applicazione della teoria generale del valore a determinate categorie di beni – alcuni studiosi misero (correttamente) in luce il fatto che ancora Pantaleoni non era del tutto riuscito a emanciparsi dall’eredità teorica del classicismo, come la definizione di capitale lì fornita (espressa in termini di anticipazioni alla produzione e alla sussistenza dei lavoratori) e l’adozione di una teoria del fondo salari mettevano in evidenza (Bini 2007). In particolare, egli cominciò a impiegare la teoria della produttività marginale quale uno dei cardini, insieme a quello dell’utilità marginale, della teoria neoclassica del valore, solo dopo il 1896, verosimilmente a seguito dei chiarimenti fornitigli da un articolo pubblicato in quello stesso anno da Enrico Barone (cfr. E. Barone, Studi sulla distribuzione, «Giornale degli economisti», 1896, 12, pp. 107-55, 235-52). In questo processo di adeguamento, tuttavia, più che una specifica difficoltà analitica, occorre vedere il continuo accavallarsi di nuovi interessi scientifici nell’orizzonte delle sue priorità di ricerca, al punto che il progetto di produrre un nuovo e più aggiornato manuale di economia, da lui annunciato a più riprese nel corso della sua vita, non fu mai realizzato.
In effetti, il suo impegno fu sempre più assorbito dal tentativo di costituire il discorso economico nei termini di un livello integrato di conoscenze: non solo necessarie a stabilire relazioni logiche tra fenomeni, ma utili anche alla comprensione delle condizioni che determinano – così si espresse – la «sopravvivenza e lo sviluppo della specie umana» (In occasione della morte di Pareto, 1924, poi in Id., Scritti di finanza e di statistica, 1938, p. 331) oppure «l’ascensione e la discesa, spesso assai rapida, nel progresso economico di una società» (Lezioni di economia politica, 1913, p. LIV).
Cosicché, nonostante Pantaleoni abbia acquisito la fama di studioso di economia pura, egli in realtà fu un economista politico, come è testimoniato dalla gran parte degli studi compiuti dopo la pubblicazione dei Principii, seguendo un percorso che potremo così sintetizzare: 1) nel libro del 1889 egli presenta il fenomeno economico con metodo statico e all’interno di una data cornice istituzionale. Le sue ricerche successive, invece, introducono la dinamica economica e discutono casi emblematici di mutamento istituzionale; 2) laddove i Principii espongono una teoria economica che è congruente con l’analisi dell’equilibrio, negli studi successivi è piuttosto il disequilibrio ad attrarre la sua attenzione, essendo questo maggiormente conforme a individuare le cause e le possibili traiettorie dell’evoluzione sociale (Bini 1997).
In sintesi, la gran parte della produzione successiva ai Principii si caratterizza per il tentativo di abbracciare un più ampio orizzonte scientifico, cercando di elaborare nel contempo, oltre a una determinata rappresentazione dell’economia, anche una teoria della società.
Se i Principii di economia pura offrono al pubblico italiano la prima esposizione sistematica e didattica del marginalismo, il primo specifico approfondimento teorico di questo indirizzo attuato in Italia lo si deve ugualmente a Pantaleoni, ed è contenuto in un suo saggio del 1883 intitolato Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche in cui elabora una teoria della finanza pubblica del tutto nuova.
Fino a quel momento si disponeva di concezioni parziali del fenomeno finanziario. Vi era la versione classica derivante dallo stesso Adam Smith (1723-1790) che aveva posto l’attenzione sul lato della spesa pubblica individuando i servizi fondamentali che lo Stato avrebbe dovuto garantire alla collettività (difesa, ordine pubblico, amministrazione della giustizia, alcune grandi opere o attività di interesse generale). Nel corso dell’Ottocento erano indubbiamente emersi altri approcci, seguendo i quali tuttavia le spese e le entrate pubbliche continuavano a rispondere a logiche diverse: politiche e istituzionali le prime; economiche e/o funzionali le seconde.
Ebbene, con il Contributo di Pantaleoni si realizza una discontinuità rispetto a questa situazione di frammentazione dottrinaria. Innanzitutto, egli individua un oggetto specifico d’indagine, consistente nei metodi e nei criteri impiegati dal decisore pubblico (Parlamento, governo) nella formazione del bilancio annuale dello Stato. Assume inoltre che il decisore sia un «consesso di mandatari» in grado di realizzare tendenzialmente un rapporto di rappresentanza pura dei cittadini governati. Dopodiché, estende al decisore pubblico la stessa logica di massimizzazione vincolata che l’impianto teorico marginalistico applica al comportamento economico dei singoli consumatori. Dato quanto sopra, e in analogia con la teoria dello scambio di Jevons, per Pantaleoni, in fase di formazione del bilancio dello Stato, le entrate pubbliche sono distribuite tra i vari capitoli di spesa in modo tale da realizzare l’uguaglianza delle utilità marginali degli ammontari monetari impiegati in ciascuno di essi. Il medesimo criterio di ottimalità viene da lui attribuito al Parlamento nel decidere il grado di pressione tributaria, al fine di realizzare l’eguaglianza tra il livello dell’utilità marginale derivante dal totale delle spese pubbliche e quello della disutilità marginale delle imposte complessivamente fatte pagare alla collettività. In sintesi, il calcolo marginalista, oltre a caratterizzare le economie individuali e di mercato, diventava rilevante anche per determinare e comprendere le scelte pubbliche.
L’idea che «l’intelligenza media» del Parlamento (pur concepito come soggetto terzo benevolente) fosse in grado di interpretare correttamente l’ordine delle preferenze dei cittadini, presentava tuttavia un punto debole. Senza ulteriori specificazioni, rimaneva infatti irrisolto il problema di come aggregare le utilità individuali al fine di pervenire a una funzione di utilità collettiva. Pantaleoni è consapevole di questo problema quando osserva che il Parlamento non è in grado, almeno in prima istanza, di esprimere una simile funzione. Si trattava però di una lacuna che poteva essere, almeno come tendenza, sanata. La seconda parte del Contributo è appunto rivolta a spiegare come.
Partendo da un primo tentativo di allocazione delle entrate pubbliche quasi sicuramente inadeguato, il Parlamento – egli sostiene – è in grado di adottare un metodo di lavoro e regole interne riguardo alla struttura delle entrate e delle uscite che istituzionalizzi un percorso di tentativi ed errori di natura sperimentale e gradualistica. Ciò può concretizzarsi, per es., nell’introdurre, da un esercizio finanziario all’altro, variazioni delle singole poste di bilancio al fine di rispecchiare critiche, idee e programmi nel frattempo maturati da parte dei cittadini, senza che ciò comporti il rimettere in discussione la struttura d’insieme del bilancio. A questo processo di periodiche variazioni al margine e di modesta entità quantitativa, egli attribuisce il significato di un valore aggiunto cognitivo, connotando la sua ricostruzione come uno schema di razionalità pratica basato su un amalgama di elementi di puro calcolo economico, di approcci sperimentali, di valutazioni empiriche e di aspetti procedurali e amministrativi. E tutto ciò al fine di ridurre al minimo il gap conoscitivo che è endemico alla formazione del bilancio pubblico.
In sintesi, egli adottò un metodo misto di analisi della finanza pubblica: a) istituzionale, per ciò che attiene la sostanza attribuita alle procedure da rispettare nel corso della sua formazione; b) macroeconomico, per la garanzia di stabilità che il bilancio pubblico oppone agli shock esterni; c) microeconomico, infine, per l’ancoraggio che tale analisi consente tendenzialmente di attuare alle funzioni individuali di utilità. Gli estimatori quanto i critici dello schema pantaleoniano hanno solitamente concentrato il loro giudizio solo sul terzo aspetto citato, che precorre chiaramente l’indirizzo della public choice (Kraan 1996), lasciando invece in ombra quegli elementi della sua costruzione che, per es., hanno anticipato il punto di vista della Organizational process theory (Wildavsky, Caiden 20045).
A partire dalla pubblicazione del Contributo, una nuova sensibilità scientifica venne formandosi su questa materia. De Viti de Marco e Mazzola scrissero opere fondamentali nell’alveo del filone neoclassico di finanza pubblica appena costituito dal nostro economista (A. De Viti de Marco, Il carattere teorico dell’economia finanziaria, 1888; U. Mazzola, Il fondamento scientifico dell’economia dello Stato, 1888). I riconoscimenti non mancarono neppure nei decenni successivi con una continuità notevole, da parte per es. di Luigi Einaudi (1939), Richard A. Musgrave e Alan T. Peacock (Classics in the theory of public finance, 1994), James M. Buchanan (1960), fino a potersi considerare momento germinale di quegli sviluppi che faranno capo alla regola di Paul A. Samuelson (1915-2009) che definisce l’equilibrio di efficienza globale (Petretto 1979).
Insieme agli apprezzamenti non sono mancati punti di vista del tutto diversi: da quelli espressi da autori che all’approccio economico di finanza pubblica ne preferirono uno sociologico o politico (Boccaccia, De Bonis 2003), a quelli di coloro che hanno visto nella costruzione pantaleoniana una pseudo razionalizzazione atta a dissimulare, sotto la veste ufficiale dei sistemi democratici, modalità e strumenti di una finanza di classe (Teorie della finanza pubblica, 1975, pp. 9-46).
Quella sopra sintetizzata non è tuttavia l’unica rappresentazione del fenomeno finanziario elaborata dal nostro autore. La percezione che Pantaleoni possiede del rapporto fiscale si arricchì infatti nel corso del tempo. E ciò avvenne sostanzialmente per la considerazione che egli svolse in merito a due nuovi motivi di fondo. Il primo attiene a una diversa rappresentazione del decisore pubblico, non più raffigurato come un potere benevolente del tutto compreso nella funzione di interpretare le preferenze individuali, bensì come una classe dominante che non rispetta il mandato di rappresentanza affidatogli dai cittadini e, pur dissimulando la sua vera propensione parassitaria o perfino predatoria attraverso tecniche falsificanti di comunicazione, impiega parte delle entrate pubbliche per finanziare la perpetuazione del proprio potere o per attuare trasferimenti di risorse a lobby e clientele. In tutti questi casi, l’imposta non può essere considerata come un prezzo alla stregua di quelli che si formano sul mercato, ma come una taglia senza controprestazione (M. Pantaleoni, Considerazioni sulle proprietà di un sistema di prezzi politici, 1911).
Il secondo motivo teorico della sua revisione va in tutt’altra direzione, ed è costituito dal riconoscere che l’imposta può assumere anche un ruolo produttivistico. Questo accade tutte le volte che le forme pubbliche di produzione – in virtù di economie di scala derivanti dalle loro più grandi dimensioni – riescono a realizzare livelli di efficienza più elevati di quanto conseguibile dalle imprese private (M. Pantaleoni, Di alcuni fenomeni di dinamica economica, 1909). In questa dinamica egli ravvisa peraltro una tendenza di lungo periodo all’ampliamento dei bilanci dello Stato, dei Comuni o di specifiche imprese pubbliche.
La possibile compresenza di motivi negativi (parassitari-predatori) e positivi (produttivistici, oppure riconducibili alle preferenze individuali) nella formazione delle scelte pubbliche può renderne ambiguo il significato. A maggior ragione, Pantaleoni rivendicò la necessità di un’analisi economica che ne sapesse discernere le ragioni di fondo. Per es., una proposta di nazionalizzazione delle ferrovie avrebbe meritato un giudizio diverso a seconda del livello di accumulazione del capitale e di ampliamento del mercato conseguito in un determinato Paese in un certo periodo di tempo.
In sintesi, Pantaleoni offre al lettore disposto a effettuare una lettura integrata di alcuni suoi scritti pubblicati nei primi anni del Novecento una più articolata rappresentazione della finanza pubblica (Bini 2008).
Riassumendo: nel Contributo del 1883 prevale un approccio positivo e neutrale della finanza pubblica. Invece, negli scritti successivi, oltre a riconoscere la possibilità che in essa si rifletta una tendenza verso assetti produttivi di maggiore efficienza, vi associa anche la propensione del decisore pubblico a fare della finanza pubblica il proprio strumento di potere. Inoltre, nel Contributo del 1883 il fenomeno finanziario rispetta e convalida la sovranità del consumatore; nelle successive formulazioni emerge invece la possibilità di una trama conflittuale tra autorità pubbliche e cittadini, sulla base di una pressione tributaria più elevata di quella che questi ultimi considerano ottimale, al punto da incentivare strategie di difesa basate sull’elusione e sull’evasione.
Come notazione conclusiva, occorre rilevare che, pur nella varietà di queste rappresentazioni, è individuabile una linea di continuità tra di esse, tutte espresse attraverso l’impiego del principio marginalista, e ugualmente tali da far emergere un’analisi economica del processo politico delle scelte pubbliche ancora utili per interpretare la complessità del fenomeno finanziario.
Secondo Pantaleoni l’imprenditore è colui che esprime al massimo grado elementi edonistici di comportamento e una visione del proprio futuro fatta di esperienze creative, atti vitalistici, obiettivi ambiziosi. Tra i fattori della produzione, l’imprenditorialità assume una valenza speciale: è una vocazione prima che una funzione. Oltre a ottimizzare le risorse a sua disposizione, l’imprenditore di Pantaleoni presenta altre due essenziali prerogative. La prima consiste nell’attuare progetti innovativi che innalzano il vantaggio competitivo dell’impresa. La seconda deriva invece dalla sua capacità di cogliere le opportunità di guadagno che il sistema di prezzi, che non è mai in equilibrio, continuamente offre ai soggetti economici. Cosicché, se da una parte l’imprenditorialità è concepita (in virtù dei cambiamenti che incessantemente determina nella configurazione delle relazioni di mercato) come una funzione dinamica squilibrante, dall’altra produce (a seguito di attività di arbitraggio speculativo) una tendenza endogena all’equilibrio. Nell’uno come nell’altro caso, l’imprenditore realizza profitti netti positivi, non «rubati ad altri, ma tolti alla natura di cui la resistenza resta vinta» (M. Pantaleoni, Il secolo ventesimo secondo un individualista [1900], 1963, p. 262).
L’atto imprenditoriale è anche tale da caratterizzare il mercato in modo del tutto diverso da quello atomistico di perfetta concorrenza. Questo è elaborato su ipotesi pensate al fine di individuare le proprietà formali dell’equilibrio. Nel corso dei suoi studi, Pantaleoni si allontana da questo modello per accogliere un concetto di concorrenzialità che si caratterizza principalmente per la sua capacità di incentivare decisioni di natura imprenditoriale, costituendosi, dinamicamente, come una variabile endogena di queste stesse decisioni. Per esemplificare, possono convivere con questo concetto le coalizioni tra imprese o le posizioni dominanti (M. Pantaleoni, Alcune osservazioni sui sindacati e sulle leghe [1909], 1964, p. 261), tutte le volte che, in corrispondenza di determinate condizioni della tecnica o di un certo grado di sviluppo dell’economia, queste tipologie consentono di conseguire livelli di maggiore efficienza.
In sostanza, egli ammette la possibile funzionalità di un certo grado di potere monopolistico da parte delle imprese, a condizione però che sia sempre fatta salva la totale libertà di entrata e uscita dal mercato. La concorrenza potenziale deve cioè rimanere al più alto livello possibile. Assicurato questo presupposto, una normativa tendente a riprodurre il modello atomistico della concorrenza perfetta non è ben vista dal nostro autore.
Egli è peraltro consapevole che dalle stesse relazioni di mercato possono scaturire elementi di instabilità dovuti a comportamenti imprenditoriali errati. A suo parere, la soluzione a questa problematica non è la regolamentazione, né l’intervento dello Stato, e ancor meno il socialismo. Confida invece in un processo di correzioni virtuose che egli prefigura svolgersi spontaneamente a condizione che la figura dell’imprenditore goda, se non del pieno consenso sociale, almeno del riconoscimento istituzionale. In sintesi, ritiene che proprio grazie all’azione imprenditoriale, e ai processi di emulazione che essa suscita, si sarebbe realizzato l’ampliamento delle relazioni interpersonali caratterizzate da rapporti economico-contrattuali, erodendo al tempo stesso l’area dei rapporti di natura politica (o basati sulla forza) e/o di quelli affettivi o altruistici. Come sbocco di questa tendenza, immaginabile come un percorso di educazione collettiva alla economicità, tanto l’efficienza dei mercati e delle imprese, quanto la reputazione e lo spirito dell’imprenditorialità ne sarebbero usciti rafforzati, e con essi la realizzazione di un sistema economico in grado di approssimarsi sempre più al sistema teoricamente ottimale dei mercati completi. In tale scenario, la rilevanza critica degli stessi elementi di instabilità che emergono all’interno del processo degli scambi – come quando si formano «immobilizzazioni» (M. Pantaleoni, La caduta della Società generale di credito mobiliare italiano, 1895) – si attenua, giacché esisterà sempre un mercato su cui gli assets in eccesso potranno essere contrattati, acquisendo un grado di liquidità superiore a quanto altrimenti possibile. In sintesi, egli attribuisce all’imprenditorialità la capacità di autosostenersi nel processo di progressivo riconoscimento sociale delle sue funzioni e in virtù del parallelo ampliamento dei mercati che questo processo realizza (Bini 2002).
È questo un disegno che, da una parte, testimonia ancora una volta la sua propensione a integrare l’economia con l’analisi sociale delle relazioni interpersonali (è il segno distintivo del suo progetto di economia sociologica). Ma che rischia, dall’altra, di risultare tautologico, laddove – invece che nella forma scientifica di un determinato insieme di condizioni ipotetiche – venga assunto (come Pantaleoni tende talvolta a fare) come mera proiezione ideologica del suo giudizio di indiscussa superiorità dei rapporti contrattuali rispetto alle altre manifestazioni dell’attività umana. Valga in proposito il diverso grado di conferma che hanno registrato alcune componenti di questo suo disegno-profezia nell’attuale epoca dell’economia globale: al forte ampliamento dell’imprenditorialità, che è coerente con la sua visione in proposito, non sempre e non in tutti i luoghi ha corrisposto la parallela diminuzione dei rischi sistemici connessi alla diffusione del capitalismo imprenditoriale.
D’altra parte, il fatto che lo spirito imprenditoriale tenda a permeare l’ambiente economico nel senso favorevole alla sua stessa riproduzione allargata, oltre a mutare in senso positivo la frontiera dell’efficienza produttiva, implica il continuo spostamento del confronto sociale in merito alla domanda e all’offerta di beni pubblici, con il rischio possibile della marginalizzazione della politica o, quanto meno, della distorsione dei processi che la caratterizzano di volta in volta a causa del peso crescente della mentalità mercatistica. In sintesi, l’innesto sociologico che Pantaleoni compie della figura dell’imprenditore nel sistema di mercato appare del tutto funzionale a delimitare fortemente l’area di possibili riforme economiche e sociali progettate dalla politica.
In termini dottrinari, è poi chiaro che questa visione non collima con il corpo ortodosso della teoria economica: né quella classica (che agli effetti della crescita enfatizzava il ruolo del capitale piuttosto che quello dell’imprenditore), né quella neoclassica, tutta centrata sull’analisi dell’equilibrio, piuttosto che del disequilibrio. Né vi si può adattare il suo concetto di profitto che, invece che essere trattato quale variabile di breve periodo, o perfino come anomalia teorica, risulta essere l’elemento tramite il quale l’individualismo imprenditoriale innerva permanentemente la logica e l’essenza del mercato e della crescita.
Le trasformazioni economiche degli ultimi due decenni hanno comportato una riconsiderazione della funzione dell’imprenditore, in termini di capacità innovativa, di rapido adattamento a circostanze mutevoli, di propensione al rischio e alla scoperta. Con quanto detto sopra, abbiamo cercato di mettere in luce come Pantaleoni possa considerarsi uno dei primi e perspicaci studiosi di questo tipo di imprenditore, considerato protagonista per eccellenza del progresso non solo economico, ma, a parer suo, anche sociale e civile.
A fronte della propensione pantaleoniana per la ricerca interdisciplinare e per l’economia sociologica, gli studi di economia del 20° sec. hanno mostrato l’opposta tendenza verso lo specialismo e la separazione sempre più marcata rispetto agli altri lessici disciplinari. Questa posizione di eccentricità epistemologica ha sostanzialmente contribuito a isolarlo rispetto ai maggiori filoni di pensiero economico del Novecento.
Nella letteratura economica internazionale di buona parte del secolo prevale una sorta di conventio ad escludendum del pensiero economico del liberista Pantaleoni. Di lui si è celebrato a più riprese il forte temperamento scientifico. Ma, finite le celebrazioni, rimaneva la constatazione che il mainstream stava altrove.
A partire dagli ultimi decenni del 20° sec., si è sviluppata tuttavia una nuova attenzione per il rapporto tra economia e istituzioni e tra economia e sociologia, nonché per il tema dell’imprenditorialità, per quello dell’organizzazione dei mercati e delle imprese, per l’analisi dell’evoluzione dei sistemi economici: tutti temi che Pantaleoni affrontò «con perfetta naturalezza» (De Cecco 1995). Specie a partire dagli eventi che dal 1989 in poi hanno determinato l’erosione dell’idea socialista o, per meglio dire, la fine dei sistemi di socialismo reale, il pensiero di Pantaleoni si è perfino ammantato di senso profetico. La sua biografia scientifica sta così suscitando un rinnovato interesse e una nuova sensibilità storiografica.
Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche, «La rassegna italiana», 15 ottobre 1883, pp. 25-60; poi in Id., Scritti varii di economia, Palermo-Milano 1904, pp. 49-110, e in Teorie della finanza pubblica, a cura di F. Volpi, Milano 1975, pp. 46-78 (parti selezionate di questo saggio sono state presentate in inglese in Classics in the theory of public finance, 1958, ed. R.A. Musgrave, A.T. Peacock, London 1994, pp. 16-27).
Principii di economia pura, Firenze 1889, 18942.
La caduta della Società generale di credito mobiliare italiano, «Giornale degli economisti», 1895, aprile, pp. 357-429, maggio, pp. 517-89, novembre, pp. 437-503; poi in Id., Scritti varii di economia, serie III, Roma 1910, pp. 323-615.
La legislazione di classe e la democrazia (1902), in Id., Scritti varii di economia, serie III, Roma 1910, pp. 113-32.
Di alcuni fenomeni di dinamica economica, «Giornale degli economisti», 1909, 39, pp. 211-54; poi in Id., Erotemi di economia, 2° vol., Padova 1964, pp. 75-125.
Considerazioni sulle proprietà di un sistema di prezzi politici, «Giornale degli economisti», 1911, 42, pp. 9-29; poi in Id., La fine provvisoria di un’epopea, Roma-Bari 1919, pp. 1-53.
Lezioni di economia politica, a cura di N. Trevisonno, Roma 1913.
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