Mafia
La parola 'mafia' compare per la prima volta, nel 1863, in una commedia popolare siciliana di grande successo, I mafiusi de la Vicaria, e già nel 1865 viene proposta in un documento ufficiale firmato dal prefetto di Palermo. Il tentativo di ritrovare nell'etimologia il segreto del concetto è stato, da allora, frequente quanto vano. 'Mafia' è termine polisemico, che si riferisce a fenomenologie differenti a seconda dei contesti, delle circostanze, delle intenzioni e dell'interesse di chi lo usa. Dalla metà dell'Ottocento sino a oggi esso ha indicato tra l'altro un costume popolare regionale siciliano (o meridionale in genere) e dunque una subcultura locale non necessariamente collegata a manifestazioni delinquenziali, oppure una modalità (violenta) di esercizio del potere, o anche un'attitudine alla corruzione politica e/o affaristica, ovvero la criminalità organizzata tout court. Nonostante o forse proprio per tale latitudine e indeterminatezza dei campi di applicazione, la parola ritorna di continuo nella polemica politica, nelle inchieste giudiziarie, nella pubblicistica, nella fiction, negli studi degli antropologi, dei sociologi, dei giuristi, degli economisti e degli storici; in Sicilia come in Italia in genere, ma anche negli Stati Uniti e - più di recente -in una grande quantità di altri paesi.
Negli Stati Uniti della fine dell'Ottocento la mafia viene percepita come una misteriosa organizzazione, fatta magari risalire a periodi antichissimi, che conserverebbe la sua testa pensante nell'isola e spargerebbe ovunque i suoi gregari; il segno di un'alien conspiracy, di un complotto straniero, assimilato o anche identificato con l'altro presunto complotto straniero, quello socialista o anarchico. Non manca il sospetto di una complicità del governo italiano, desideroso di liberarsi di delinquenti pericolosi. Una vignetta satirica di fine Ottocento raffigura ad esempio un pifferaio magico che attrae oltre l'oceano gli immondi ratti del Vecchio Mondo, compreso quello mafioso, tra l'esultanza dei regnanti europei e la disperazione dello zio Sam. Si tratta di una delle forme in cui l'America White, Anglo-Saxon, Protestant esprime la paura del diverso e l'irrigidimento etnocentrico di fronte alla seconda ondata dell'emigrazione, e in pratica di un argomento che porta a reclamare misure di legge per la limitazione dei permessi di ingresso negli Stati Uniti. Come altre etnie, gli Italiani (in particolare se meridionali) vengono accusati di riprodurre nel Nuovo Mondo il peggio della società di partenza: malattia, ignoranza, superstizione e naturalmente criminalità, tanto più temuta quanto più esotica e misteriosa, come nel caso delle sette orientali o appunto della mafia, qui chiamata anche 'mano nera'.
C'è una somiglianza tra questo primo uso americano e quello del primissimo periodo italiano, quando attorno al nodo dell'unificazione nazionale nascono il termine e il concetto di mafia. Per collocare le cose nel loro contesto dobbiamo partire dalla debolezza del partito moderato, su cui si regge il governo, nei confronti delle due correnti prevalenti nell'isola, la garibaldina e la regionalista. I funzionari della Destra storica dicono 'mafiosi' i briganti e i renitenti alla leva, i notabili a capo dei partiti municipali e i piccoli delinquenti, gli avversari dell'ordine sociale e quelli dell'ordine politico; a un fantomatico complotto tra clericali, borbonici, mazziniani e 'mafia' viene ad esempio attribuita la responsabilità della rivolta palermitana del settembre 1866. L'isolamento dei moderati, dovuto innanzitutto alla mancanza di un valido interlocutore politico, rimanda ancora, peraltro, a un traumatico incrocio culturale. Prefetti, questori, comandanti militari, delegati di pubblica sicurezza chiamati ad amministrare la Sicilia pensano di trovarsi in una specie di Affrica, barbara e primitiva nella parte inferiore come in quella superiore della gerarchia sociale, e perciò ricorrono a una pratica di governo fortemente autoritaria e basata su metodi eccezionali. Costoro trovano che su scala locale non esista per lo Stato liberale un credibile interlocutore sociale, oltre che politico - ciò che il linguaggio del tempo chiama 'la classe media', ma che meglio può dirsi un ceto superiore di ottimati e di notabili -, visto che i proprietari locali appaiono troppo rissosi, faziosi, intenti a gestire in maniera privatistica la cosa pubblica.
Si pone all'interno di questo schema, si colloca nella fase terminale di questa congiuntura politica (1876) la prima riflessione 'alta' sul nostro tema, quella di Leopoldo Franchetti. Nel suo volume della celeberrima Inchiesta in Sicilia (l'altro, com'è noto, si deve a Sidney Sonnino) Franchetti si pone come temi basilari quelli della politica e dell'amministrazione locale, il problema di una classe dirigente che è erede diretta del sistema feudale, che è abituata a considerare le istituzioni strumento di sopraffazione, che è incapace di sollevarsi sino alla concezione moderna della legge impersonale e uguale per tutti: da qui il "manutengolismo", il favoreggiamento di briganti e delinquenti, nonché l'uso di questi stessi personaggi per la custodia e la gestione delle aziende. Il comportamento mafioso delle classi dominanti, o - come si comincia a dire - la mafia 'alta', 'in guanti gialli', è dunque il presupposto per l'esistenza della mafia popolare, dei contadini o degli zolfatai, nonché per lo sviluppo di una fascia di "facinorosi della classe media" per cui la metastasi si estende a quel gruppo sociale che in altri contesti è il nerbo delle istituzioni liberali. In una tale società la forza è l'unico strumento del diritto; essa, che nel sistema feudale era riservata ai ceti dominanti, è divenuta veicolo, con il mutare dei tempi e con la stessa introduzione delle istituzioni 'liberali', dell'affermazione di altri gruppi sociali attraverso un processo di "democratizzazione della violenza". Il "comportamento mafioso" rappresenta dunque per Franchetti la "maniera di essere" della società siciliana, a tutti i livelli, in un impasto perverso nel quale gli elementi tradizionali prevalgono su quelli moderni e li deformano.
In Italia e in America, dunque, l'idea di mafia è espressione e metafora di una supposta alterità dei codici culturali tradizionali rispetto ai valori del mondo moderno. Tale schema si consolida sin dal primo apparire del concetto per poi riproporsi di continuo lungo tutto il secolo seguente; così come si ripropone lo schema che alla lor volta gli individui, i gruppi affaristico-clientelari, la comunità siciliana o quella italo-americana negli Stati Uniti, tutti coloro che sono fatti oggetto dell'accusa di mafiosità, usano a propria difesa in tribunale, o sulla stampa, o dalle tribune parlamentari. Le linee difensive sono anzi due, che però sono spesso usate contemporaneamente. Da un lato si dichiara che la mafia non esiste, se non sotto la forma della 'normale' criminalità e si afferma che l'insistenza su tale concetto nasconde un intento persecutorio e antisiciliano da parte delle autorità o dell'opinione pubblica. L'altra più sofisticata operazione è quella di rovesciare il ragionamento che fa del comportamento mafioso uno specchio della società tradizionale, dando a esso un'accezione in qualche modo positiva.
La mafiosità - prescindendo dalla sua 'degenerazione' delinquenziale - sarebbe un portato del generoso temperamento isolano e in particolare - contro le argomentazioni alla Franchetti - caratterizzerebbe i ceti popolari a esclusione totale delle responsabilità di quelli superiori.Questa è la strada prescelta dalla classe dirigente isolana per difendere la sicilianità offesa o per sottrarsi alle più concrete accuse di complicità. Il marchese di Rudinì distingue nel 1875 una o più "maffie" delinquenziali "maligne" da una "maffia benigna, [...] spirito di braveria, quel non so che di disposizione a non farsi soverchiare"; e analogamente anche Gaetano Mosca affermerà qualche anno dopo che esiste nel popolo uno "spirito di mafia" che può anche essere "simpatico", e che in ogni caso la con dizione sociale dei membri delle cosche difficilmente arriva "al livello della classe media". Sempre nel 1875 il deputato palermitano Giambattista Morana si pronuncia con più decisione - "se per mafia si intendesse la gente che non è disposta a subire i soprusi, le violenze, le offese, [...] maffiosi sono tutti in Sicilia" -, precedendo così il tono e la logica argomentativa di un discorso di Vittorio Emanuele Orlando nel 1925, nonché la celebre conclusione: "Mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo!". Specialmente nella primissima fase, quella che culmina nel 1875 con la discussione parlamentare sulle leggi eccezionali di pubblica sicurezza per la Sicilia, la reazione regionalistica è in parte giustificata dallo strumentalismo con cui la Destra utilizza l'accusa di mafiosità per aumentare la propria capacità di pressione sull'opposizione; ma la questione comporterà un'accentuazione di strumentalizzazioni e di passioni regionaliste anche quando, dopo il 1876-1877 e sino a periodi ben più recenti, la classe dirigente isolana entrerà a far parte a pieno titolo del governo della nazione (v. Lupo, 1993).
Le argomentazioni dell'apologetica sicilianista possono essere facilmente trasportate da quella politica in un'altra arena, quella giudiziaria, ad opera della cultura avvocatizia peraltro spesso coincidente con quella della classe dominante. Gli avvocati difensori dei primi processi di mafia degli anni 1870-1880 vi attingono a piene mani denunciando l'illegalismo in cui sono coinvolte le istituzioni. Così, ad esempio, l'avvocato e deputato Antonio Marinuzzi riesce nel 1880 a ottenere l'assoluzione dei membri della cosca degli 'stoppagghieri' di Monreale, accusati da quella stessa autorità che negli anni precedenti li aveva usati come polizia parallela o polizia segreta per ripulire i dintorni del paese dalla delinquenza: un rimedio 'omeopatico' che aveva comportato il coinvolgimento della questura di Palermo in parecchi delitti, come nel corso della discussione parlamentare del 1875 aveva denunciato con grande clamore il deputato della Sinistra, ed ex alto magistrato nel capoluogo siciliano, Diego Tajani.
La difesa da un lato tende a coprire i pur evidenti legami tra facinorosi e classi superiori, e dall'altro si sforza di nascondere sotto il fatto folklorico la realtà dell'organizzazione criminale (su cui invece insiste l'accusa), definendola "una chimera", "una coda posticcia", "un quid misterioso". Così nel corso del processo ai fratelli Amoroso (1883) i difensori insistono sull'estrazione popolare e tradizionale degli imputati, dipinti come uomini ignoranti ma condizionati da una loro antropologia fatta di ferrei codici d'onore, di spasmodico attaccamento alle solidarietà e agli odi familiari, che conduce a esiti sanguinosi inevitabili quanto estranei (e dunque innocui) al mondo della gente 'civile'. L'avvocato di Vito Cascio-Ferro afferma (1930) che nel suo assistito la mafia rappresenta "un atteggiamento di spiccato individualismo spavaldo, spoglio di cattiveria, di bassezza e di criminalità". Il siciliano tradizionale, uomo del popolo, uomo di campagna, non sarebbe in grado di dar vita ad alcuna associazione complessa come quella presupposta dalla polizia, egli sarebbe individualista o al massimo familista; e qui è d'obbligo per la cultura avvocatizia il richiamo al "vero e insostituibile conoscitore dell'anima siciliana", Giuseppe Pitré.
In Pitré ritroviamo in effetti, al massimo grado, tutti i temi già considerati. Si tratta di uno dei padri dell'etnologia europea del XIX secolo, ma anche di un uomo impegnato nella vita politica palermitana e per questa via legato agli apparati di potere mafiosi. Indicativa la sua collaborazione con Raffaele Palizzolo, il deputato messo sotto accusa per l'assassinio di Emanuele Notarbartolo, ex direttore del Banco di Sicilia, e sottoposto a tre clamorosi processi per i quali la mafia verrà, a cavallo tra i due secoli, all'attenzione dell'opinione pubblica nazionale. Pitré definisce Palizzolo - provato protettore di briganti e mafiosi - "vero gentiluomo, [...] correttissimo e onesto amministratore", e si mobilita in veste di ideologo nel comitato 'Pro Sicilia' che descrive il deputato mafioso come la vittima di una campagna calunniosamente antisiciliana. Pitré, là dove discute del concetto di mafia, si riferisce a una forma di comportamento originariamente cavalleresco e quindi per nulla delinquenziale, a un quid che "è quasi impossibile definire", e che comunque si colloca tutto all'interno dell'universo culturale delle classi popolari, visto con paternalistica condiscendenza (o con ideologica partecipazione?) come il residuo di un mondo tradizionale, come robusta barbarie in via di scomparsa per naturale evoluzione storica, alla quale restano comunque estranei i ceti superiori. La mafia - egli scrive nel 1889 - "non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti, [...] il mafioso non è un ladro, non è un malandrino [...]; la mafia è la coscienza del proprio essere, l'esagerato concetto della propria forza individuale, [...] donde l'insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui" (v. Pitré, 1939, vol. II, p. 292). La parola 'omertà' deriverebbe dalla radice 'uomo', significherebbe essere per eccellenza uomo, che risponde da sé alle offese senza ricorrere alla giustizia statale.
Non può dunque stupire la fortuna dell'argomento antropologico alla Pitré nelle aule di giustizia, in particolare tra gli avvocati: è infatti impossibile portare in giudizio e condannare un codice culturale. Peraltro da tutti gli studiosi della mafia, sino a tempi recentissimi, le poche paginette dedicate da Pitré alla mafia, difensive, depistanti, mosse nel migliore dei casi da apologetica regionalista, sono state considerate come una neutra riflessione scientifica, citate favorevolmente e fatte proprie; e parallelamente le dichiarazioni degli imputati e dei difensori nei processi di mafia, tutte tese a costruire con il massimo dell'intenzionalità l'immagine di un'innocua cultura onorifica rusticana, sono state considerate, ad esempio da Hess, come l'oggettivo riflesso della cultura dei siciliani, la prova provata della distanza tra "socialità e morale statale" (v. Hess, 1991², p. 44). Evidentemente non ci si è resi conto del fatto che la stessa definizione di cosa sia mafia - comportamento, cultura plebea, cultura dominante, cultura regionale, delinquenza, fazione, affarismo, organizzazione piccola e informale, organizzazione grossa e formalizzata - fa parte integrante dei conflitti che formano la storia della mafia, in quanto una scelta o l'altra definisce nel senso più lato il campo dell'accusa e quello della difesa.A questa dialettica tra analisi 'scientifica' e lotta 'politica' non sfugge, naturalmente, neppure il versante americano. A smentire la teoria WASP del 'complotto straniero', sin dagli anni venti molti studiosi americani, spesso di origine italiana, hanno rilevato con approccio onestamente funzionalista il legame tra il crimine organizzato e le 'macchine politiche' delle grandi città, uno dei pochi veicoli di integrazione e promozione sociale disponibili per gli immigrati (v. Landesco, 1979²; v. White, 1943). Secondo quest'impostazione il crimine organizzato rappresenterebbe una variante del bossism clientelare, affaristico o parasindacale organizzato dai prominenti italo-americani che fungono da mediatori nei confronti della società d'arrivo. Esso dunque non avrebbe alcuna particolare caratteristica etnica, ma vedrebbe protagonisti, a seconda delle fasi del ciclo migratorio, Tedeschi, Irlandesi, Ebrei, Italiani, gli stessi che si alternano alla testa delle 'macchine politiche'. La xenofobia anglosassone presuppone che l'"innocente, indifeso pubblico americano sia vittima di malfattori stranieri che segretamente lo derubano della sua verginità morale" (v. Albini, 1971, p. 154). In questa prospettiva il dato centrale è quello della domanda di beni e servizi più o meno illegali, richiedendo i quali la società americana esprime per suo conto germi patogeni tali da valorizzare ogni tradizione criminale immigrata, ad esempio quella siciliana che qui come in patria ritrova il sistema triangolare comprendente classe politica, polizia, delinquenza.
La polemica si rivolge dunque contro il tentativo WASP di criminalizzare un'intera comunità, quella italo-americana, e nello stesso tempo - seguendo la stessa logica dell'analoga polemica siciliana - intende confutare la tesi del complotto ribadendo che la mafia è cultura e non organizzazione. Saremmo di fronte a rapporti di clientela, ovvero a disorganized crime in ogni caso privo di particolari connotazioni etniche. Estremamente dura la polemica contro il 'pentito' Joe Valachi - che nel 1963 rivela l'esistenza di un'organizzazione formalizzata e verticale detta 'Cosa nostra' - o, meglio, contro le forzature cui gli inquirenti avrebbero sottoposto le rivelazioni per riproporre ancora una volta la vecchia tesi del complotto. La supposta organizzazione non è altro - si sostiene - che l'insieme dei rapporti familiari tipici della società tradizionale, mediterranea, contadina.
Per l'antropologo Francis J. Ianni i mafiosi Lupollo sono "gente modesta, taciturna, [...] uomini d'onore" degni di "simpatia e ammirazione", tra loro collegati solo da un family business nel quale le attività legali vanno sostituendo quelle illegali, che erano necessarie nel primo periodo susseguente l'immigrazione per la promozione sociale di chi proveniva da un vecchio mondo dove non c'era né legge né giustizia.Intanto, nell'Italia e nella Sicilia del secondo dopoguerra, del bandito Giuliano, della lotta per la terra e degli assassinî dei leaders del movimento contadino, il problema della mafia aveva vissuto un momento di esplosiva notorietà, per poi sfumarsi a livello di opinione pubblica e di dibattito colto. Mentre le forze conservatrici cercavano di stendere un velo più o meno pietoso, la polemica rimase negli anni successivi appannaggio e bandiera di alcuni intellettuali di sinistra (Michele Pantaleone, Danilo Dolci, Simone Gatto, Leonardo Sciascia) che stigmatizzarono in particolare le complicità della Democrazia Cristiana con la mafia, nella fattispecie intesa come parte integrante del vecchio mondo delle classi dominanti, e in particolare dei grandi proprietari che nel dopoguerra avevano combattuto il movimento contadino e la riforma agraria.
È qui, tra la fine degli anni sessanta e l'inizio degli anni settanta, che s'incrociano i due filoni d'analisi, quello americano e quello siciliano. In questo periodo alcuni scienziati sociali americani, o influenzati dal dibattito e dalla problematica americana (Boissevain, Hess, Blok, Jane e Peter Schneider), vengono in Sicilia per le loro 'ricerche sul campo', cercando una mafia che rappresenti il calco della società tradizionale con le sue gerarchie e la sua cultura, che sarebbe caratterizzata dalla diffidenza nei confronti dello Stato e dunque dall'abitudine a farsi giustizia da sé, dal senso dell'onore, dal familismo come ideologia talmente forte da sottrarre l'individuo alla percezione di una propria responsabilità di fronte a una collettività più vasta di quella primaria, dal clientelismo. Ancora una volta la mafia viene definita come comportamento e non come organizzazione, soprattutto non come organizzazione stabile e grande ma piuttosto come insieme di piccoli aggregati, del tutto sconnessi tra di loro, transeunti e legati solo dal network di relazioni personali di qualche influente notabile di campagna. Gli americani si confermeranno poi nell'idea che, anche nella patria d'origine (la Sicilia) come in quella d'adozione (l'America), si tratti solo di "un sistema di padrini e clienti che si scambiano favori, servizi e altri vantaggi" (v. Albini, 1983, p. 189).
Le microanalisi antropologiche di Blok e degli Schneider danno risultati pregevoli nello studio della storia sociale di alcuni paesi siciliani; Hess analizza per la prima volta documenti d'archivio e carte processuali, sostituendosi da sociologo a una storiografia in quegli anni assolutamente carente. Gli studi socioantropologici, anche italiani, ne escono rinnovati e il dibattito si riapre. Ma la mafia viene ridotta sotto la categoria generale del clientelismo, vista come un elemento residuale destinato a esaurirsi in breve tempo. "Prima c'era la mafia; adesso c'è la politica" è l'epitaffio che Blok (v., 1974; tr. it., p. 207) colloca sul crinale della 'grande trasformazione'. Secondo questo schema la mafia - metafora per eccellenza del Mezzogiorno tradizionale - si sarebbe dovuta estinguere con l'avviarsi dei processi di modernizzazione. Siamo invece ancora al di qua della più clamorosa ed esplosiva emergenza del fenomeno mafioso, nonché del suo allargamento geografico verso zone tradizionalmente ritenute immuni dall'infezione. Questi sviluppi rappresentano un duro scoglio per l'argomento antropologico, quale veniva proposto negli anni sessanta. Se il comportamento mafioso rappresenta una diretta conseguenza della cultura (nel senso antropologico del termine) tradizionale dei siciliani, o in generale dei meridionali, tale fenomeno dovrebbe in qualche modo essere, tradizionalmente, omogeneo nell'intero Mezzogiorno; dunque non si spiega la sua crescita a chiazze, la sua limitazione nell'ambito della stessa Sicilia alla zona occidentale a esclusione di quella orientale, né si capisce come questo portato della cultura tradizionale si sia potuto generalizzare oltre i propri ambiti d'origine - verso la Sicilia orientale, la Calabria settentrionale e altre aree del Sud a suo tempo immuni - proprio in coincidenza con la modernizzazione del paese, anche considerando la possibilità che i codici tradizionali si adattino al mutamento delle situazioni esterne (v. Catanzaro, 1988).
Ammesso che quella sopra espressa fosse una raffigurazione credibile dell'antropologia meridionale, bisognava provare a distinguere il fenomeno dal suo contesto indagando sul modo in cui la mafia si appropria dei codici culturali prevalenti, li strumentalizza, li modifica, ne fa un collante per la propria straordinaria tenuta; e si pensi al rifiuto del concetto dell'impersonalità della legge e dello Stato di diritto, al disprezzo per gli sbirri e per chi collabora con essi, tratti certo molto diffusi tra popolani, borghesi e aristocratici nella Sicilia otto-novecentesca, ma che dalla mafia vengono ripresi e riutilizzati secondo le proprie finalità. Né rappresentò una soluzione la troppo facile antitesi, proposta di lì a qualche anno, tra una mafia tradizionale, onorifica, più attenta al consenso che al profitto, struttura di autorità più che gruppo delinquenziale, e una mafia moderna, imprenditrice, interessata ai meccanismi di accumulazione capitalistica e a quei settori che tale accumulazione possono garantire, come quello degli stupefacenti (v. Arlacchi, 1983), specialmente considerando che tale contrapposizione si coniugava con l'altra, per la quale la mafia tradizionale sarebbe stata bonaria, quella moderna feroce, con il che veniva riproposta una linea classica dell'apologetica mafiosa stessa. L'avidità e la ferocia sono caratteristiche della mafia di ieri come di quella di oggi, entrambe capaci di massacrare innocenti, di colpire donne e bambini in barba ai codici onorifici. Le diverse quantità e qualità della violenza erogata si collegano piuttosto alle congiunture politiche (ad esempio ai due dopoguerra), ovvero a ogni salto generazionale che rinnova la leadership e i quadri delle cosche, con la ciclica contrapposizione tra vecchia (moderata) e nuova (violenta) mafia della quale è piena la letteratura sull'argomento, nel XIX come nel XX secolo.
Non deve a questo punto essere taciuto il contributo conoscitivo fornito da un soggetto diverso, quello politico-istituzionale, e in particolare dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, costituitasi nel 1963 di fronte alla nuova, pericolosa e in un certo senso inaspettata emergenza mafiosa, segnata dagli attentati e dai sanguinosi conflitti della cosiddetta 'prima guerra di mafia' tra le cosche palermitane. Tale 'guerra', scoppiata nel 1962, culminò appunto nel 1963 nella 'strage di Ciaculli', con l'esplosione di una Giulietta piena di tritolo nella quale persero la vita - nel tentativo di disinnescare l'ordigno - sette agenti delle forze dell'ordine. Non era la prima volta che il Parlamento era chiamato a studiare il fenomeno. Già nell'Ottocento, e precisamente nel 1875, una Commissione parlamentare d'inchiesta presieduta da Romualdo Bonfadini si era mossa in questo senso. Ma di tale notevole lavoro era arrivata al pubblico solo la relazione finale della Commissione stessa, mediocre, alquanto reticente e comunque schiacciata dal confronto con la ben più brillante e radicale inchiesta 'privata' di Franchetti; la ricca documentazione raccolta era restata inedita e sarebbe stata pubblicata a un secolo di distanza, nel 1968, utile ormai solo per gli storici.
Ben più lungo e complesso, invece, il lavoro delle varie Commissioni antimafia che il Parlamento ha senza soluzione di continuità costituito dal 1963 a tutt'oggi; enorme la mole del materiale - relazioni e soprattutto documentazione - dato alle stampe a partire dal 1972. Come può arguirsi dall'organizzazione e dalla selezione dei documenti, dai lavori intermedi ma soprattutto dalle relazioni del 1976, le Commissioni parlamentari si muovono secondo una tesi di fondo ben definita, di tipo evoluzionistico, peraltro largamente accettata al tempo, e che si può così sintetizzare: la mafia è fenomeno tradizionale e rurale, nato per la difesa del latifondo contro le rivendicazioni contadine e tale mantenutosi sino agli anni cinquanta del XX secolo quando, contestualmente alla disgregazione della grande proprietà assenteista, esso si è modernizzato mutando pelle e abitudini, e si è spostato in città (a Palermo) dove è entrato nel fruttuoso giro dell'edilizia, conservando però l'antica connessione con le forze politiche e con le classi dirigenti.Gli stessi ricchissimi materiali raccolti dalla Commissione smentiscono però, almeno in parte, tale rigido schema.
Ad esempio la documentazione raccolta sul famoso capomafia di Mussomeli, Giuseppe Genco Russo, comprova paradossalmente quanto sia complessa, e in un certo senso 'moderna', la mafia del latifondo identificabile in questo personaggio o nel suo omologo di Villalba, Calogero Vizzini. Qui non siamo più davanti ai grandi affittuari ottocenteschi che gestivano enormi aziende agropastorali, regolando l'abigeato e il banditismo (nonché lo stesso mercato degli affitti) grazie alla loro autorità sugli stessi banditi da cui traevano campieri e sovrastanti. La mafia dei Vizzini e dei Genco Russo nasce in relazione al fenomeno tipicamente novecentesco della disgregazione dei grandi patrimoni latifondistici, nel primo e nel secondo dopoguerra, della mobilitazione delle masse contadine per la spartizione di questi patrimoni, delle forme parapolitiche e parasindacali che tale mobilitazione assume. Vizzini e Genco Russo costituiscono il loro potere controllando le cooperative per l'affitto e la suddivisione dei latifondi, garantendo il monopolio di queste attività nei confronti dei concorrenti potenziali o attuali, speculando sui flussi finanziari così attivati o semplicemente favorendo amici e adepti nella redistribuzione dei lotti. Da qui il legame con la Democrazia Cristiana della riforma fondiaria e degli enti redistributori, le larghe clientele create nei paesi natii. Si potrebbe in un certo senso dire che si tratta di una mafia 'democratica', che cavalca i movimenti di massa e sarebbe anzi inconcepibile senza di essi; qualcosa che si era già visto ai tempi dei Fasci siciliani nel 1893, come attesta la figura di Cascio-Ferro, dirigente del fascio di Bisacquino prima di diventare celebrato capomafia (v. Lupo, 1993, pp. 115-122). I presunti guardiani del feudo rappresentano in realtà i becchini del sistema latifondistico.Inoltre appare impossibile ridurre ad unum la realtà delle mafie tradizionali nella Sicilia centro-occidentale.
La mafia del latifondo rappresenta solo una delle componenti del fenomeno: quella novecentesca come quella ottocentesca dei grandi gabellotti, che comunque era tutt'altro che separata dalla città, in particolare da quella Palermo nella quale si accentrava il mercato degli affitti, a tal punto che accadeva sovente fossero palermitani gli uomini 'forti' poi inviati dai grandi proprietari a mantenere il loro ordine nelle desolate terre dell'interno. Bisogna poi aggiungere alla mafia del latifondo quella 'delle zolfare' e quella 'dei giardini', cioè degli agrumeti e delle aree suburbane, intensivamente coltivate, che circondano Palermo; qui anzi si verificano nel corso dell'Ottocento i casi più clamorosi, i delitti e i processi più noti, relativi agli 'stoppagghieri' di Monreale, ai fratelli Amoroso di Palermo, all'assassinio Notarbartolo. La mafia dei giardini egemonizza la custodia dei terreni, il controllo dei flussi mercantili leciti e illeciti (abigeato e contrabbando) nelle borgate palermitane, cioè nell'area di agricoltura ricca che circonda la città e che rappresenta anche il canale di collegamento tra essa e la grande campagna latifondistica circostante (v. Lupo, 1990). Dunque le organizzazioni mafiose si configurano ab antiquo come strettamente legate alla città, ai suoi apparati di potere, al complesso della sua storia.Sono proprio le vecchie cosche della mafia dei giardini a profittare delle nuove occasioni offerte dall'espansione edilizia cittadina a partire dagli anni cinquanta, la quale si realizza sui terreni e nelle zone suburbane da esse tradizionalmente controllate. Qui incontriamo le continuità storiche più sorprendenti, guardianie e gabelle che costituiscono una sorta di usucapione mafiosa, tale da garantire ai rampolli degli antichi usufruttuari (tuttora attivi nelle cosche) di partecipare in una qualche forma al boom edilizio.
Per il Gotha della mafia palermitana le attività di intermediazione commerciale e finanziaria, di traffico di tabacchi e stupefacenti, le interrelazioni con la sfera pubblica attraverso la gestione di appalti e il controllo delle opere pie configurano da sempre un interesse per i settori moderni e redditizi, che dal punto di vista 'culturale' predispone favorevolmente molte delle famiglie tradizionali alle nuove occasioni di profitto offerte dalla congiuntura a cavallo tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta. Anche gli 'imprenditori' della mafia hanno alle spalle questo retroterra di relazioni e d'ambiente: un uomo 'nuovo' come Francesco Vassallo nasce nella borgata palermitana di Tommaso Natale ed è strettamente imparentato con un'antica famiglia mafiosa del luogo, che gli dà la spinta per salire al rango di protagonista nell'edilizia grazie ai rapporti con le grandi cosche e con la Palermo che conta nella politica e negli affari. Ben più rilevante il caso dei due rami della famiglia Greco, originari rispettivamente delle borgate palermitane di Croceverde Giardini e di Ciaculli, cui appartengono alcuni dei personaggi centrali negli organigrammi della mafia palermitana, come risulta proprio dalla documentazione raccolta dalla Commissione (ma si sarebbe potuto risalire almeno alla fine dell'Ottocento, sempre ritrovando membri della famiglia Greco ai vertici dell'organizzazione mafiosa palermitana). Ciò ancora una volta smentisce la vulgata evoluzionistica fatta propria dalle relazioni, esprimendo il carattere storicamente decisivo della componente cittadina, e palermitana in specie.
Ma c'è un altro aspetto che ogni descrizione di una mafia integralmente rurale ignora. Tutti i momenti essenziali della storia della mafia si giocano tra le due sponde, la siciliana e la statunitense. Negli anni a cavallo tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo erano arrivati negli Stati Uniti ottocentomila siciliani. L'emigrazione clandestina era un'importante attività di mafiosi siculo-americani come Salvatore Maranzano; ancor prima, per indagare su di essa, il detective Joe Petrosino era andato in Sicilia e vi aveva trovato la morte per mano di Cascio-Ferro, anch'egli dedito a favorire il movimento di uomini e di merci sulle rotte Sicilia-America. Peraltro il legame transoceanico era presente ancor prima della grande emigrazione, attraverso una fitta rete di traffici tra i quali spicca quello degli agrumi, senza il quale non sarebbe esistita la mafia dei giardini, cioè il cuore stesso della mafia palermitana. Proprio nascosti nelle casse di agrumi, oppio e morfina viaggiano da Palermo a New York negli anni venti, in quantità tali da provocare per rappresaglia una serie di restrizioni commerciali da parte americana. La rete di emigrazione e di affari, leciti e illeciti, non si interrompe mai, nonostante la contrazione degli anni trenta, periodo nel quale Lucky Luciano importa già morfina dall'Europa servendosi di personaggi che fanno la spola tra le due sponde. Sarà lui stesso, da Napoli, a riaprire il traffico degli stupefacenti nel secondo dopoguerra, dopo la sua espulsione dagli Stati Uniti, prima sfruttando il 'filone aurifero' rappresentato dalle industrie farmaceutiche del Nord d'Italia, poi stringendo rapporti con i raffinatori marsigliesi. In tempi assai più recenti, negli anni sessanta, nuove mafie siculo-americane si svilupperanno attorno al narcotraffico cresciuto ora a giganteschi livelli; altri mafiosi si muoveranno da una sponda all'altra dell'oceano.
Gli anni cinquanta non segnano dunque una mutazione genetica nel fenomeno, ma un importante punto di svolta, da leggersi soprattutto in relazione al consolidarsi di gruppi politico-affaristici all'ombra del Comune di Palermo e della Regione siciliana; così ad esempio si creano le fortune dei famosi esattori regionali, i cugini Salvo, originariamente legati a un gruppo mafioso di Salemi (paese del Trapanese) e poi al centro di una serie di complesse reti di relazioni con i più pericolosi gruppi palermitani. Sempre gravitanti su Palermo sono anche i corleonesi di Luciano Liggio, su cui anche si soffermava con dovizia di particolari la documentazione raccolta dalla Commissione parlamentare, smentendo anche qui una vulgata, quella dell'incomunicabilità tra bassa e alta mafia, visto che la scalata di un killer fortunato dall'interno delle cosche e degli organigrammi mafiosi sino ai vertici di un impero finanziario è indicativa dell'importanza dei fattori di mobilità ascendente.Alla fine degli anni sessanta quasi tutti gli intervistati dalla Commissione affermano che il fenomeno mafioso è in via di regressione; tra i pochi dissidenti, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Tale ottimismo è in sostanza fatto proprio dai commissari, in quanto esso riflette la tesi secondo la quale alla lunga la modernizzazione non può non avere la meglio su un fenomeno arcaico, per quanto duttile esso possa mostrarsi. Da qui il grande interesse della Commissione per il passato, soprattutto nelle relazioni del 1976. Tale passato può anche essere molto lontano (l'eversione della feudalità del 1812, gli avvenimenti risorgimentali), mentre sugli ottant'anni tra il 1860 e il 1945 vien detto ben poco, e soprattutto non si fa nessuno sforzo per raccogliere una documentazione, ad esempio degli anni venti e trenta, che avrebbe potuto gettar luce su alcune delle più interessanti biografie criminali. Ma è evidente che la criminalità in quanto tale poco interessa alla Commissione, la quale piuttosto guarda al fenomeno mafia come al mero riflesso di una storia generale, almeno per come questa storia può essere letta dalla generazione che si era formata nel dopoguerra: la Sicilia sarebbe tutta iscrivibile nel modello di una società latifondistica, oppressa dai baroni e dallo Stato unitario, nella quale il movimento contadino postbellico, combattuto da mafia, separatisti e conservatori di ogni genere, sarebbe stato il protagonista di un mutamento epocale.
Qui i commissari socialisti e comunisti riescono a dare il tono alla discussione, scarsamente contrastati dai democristiani. Il caso Giuliano, le protezioni godute dal bandito negli apparati istituzionali, il suo rapporto con le forze conservatrici, monarchiche e separatiste, la strage di Portella della Ginestra rappresentano d'altronde gli snodi misteriosi e della nuova mafia e - soprattutto - della nuova politica, con i quali la Commissione non poteva non misurarsi, ritenendo che la prima potesse essere letta e compresa alla luce della seconda. In questo senso non è sostanzialmente esatto dire che l'ultima relazione della Commissione antimafia del 1993 su Mafia e politica sia stata la prima ad affrontare questo tema. Tutte le relazioni delle varie Commissioni si incentrano su tale aspetto, a tal punto che in esse - come in tanta pubblicistica soprattutto giornalistica, antica o recente - la mafia appare difficilmente distinguibile dalla politica, e in molti casi viene descritta come un mero riflesso di essa, così come nella letteratura socioantropologica essa appare un mero riflesso della cultura e della società.
A questo punto bisogna soffermarsi sull'incontro della mafia con una politica più grande di quella italiana, nella fase terminale della seconda guerra mondiale, che vede la costituzione di due imperi destinati a fronteggiarsi in un interminabile dopoguerra. La stessa citata relazione su Mafia e politica riprende, seppur con prudenza, una tesi presente nella memorialistica, nella fiction, nella pubblicistica giornalistica (meno in quella storiografica), secondo la quale gli Americani avrebbero stipulato un pactum sceleris con la mafia, la quale avrebbe offerto un aiuto nella gestione delle operazioni militari in Sicilia purché le fosse restituito il potere che era stato demolito negli anni venti dal regime fascista per mezzo del prefetto Cesare Mori. In assenza di uno spoglio sistematico della documentazione americana, ma dopo gli studi di Rosario Mangiameli e Francesco Renda sull'occupazione alleata della Sicilia, sembra si debbano apportare a tale tesi alcune sostanziali correzioni.
È documentato dalla Commissione parlamentare americana presieduta da E. Kefauver che nel 1942 la US Navy affidò a Lucky Luciano e ai suoi accoliti la difesa dei docks newyorkesi da presunti sabotatori tedeschi. Luciano nega di aver svolto un ruolo nell'invasione della Sicilia; la Commissione Kefauver registra invece la sua offerta di recarsi nell'isola per prendere contatti in vista dell'invasione, progetto comunque non andato in porto visto che la scarcerazione del gangster si verificherà solo nel 1946. Non possiamo dunque escludere che nel 1942 Luciano abbia millantato un credito inesistente oppure messo a disposizione dei servizi segreti americani informazioni e contatti siciliani. Due aspetti vanno dunque distinti: quello - provato - dell'accordo su New York e quello - possibile - di una collaborazione sulle questioni siciliane.Ammettere questa seconda eventualità non significa però che siano legittime tutte le conseguenze che ne sono state tratte, in particolare in relazione a una fantomatica collaborazione della mafia alle operazioni militari. La limitazione geografica della fenomenologia mafiosa (a questa data) alla parte occidentale della Sicilia esclude peraltro, di per se stessa, la possibilità, spesso spacciata per certezza, che i sindaci di nomina alleata nel periodo seguente lo sbarco siano stati tutti, o quasi tutti, mafiosi. Qualche sondaggio - in mancanza di uno studio sistematico sulle persone nominate - conduce piuttosto a ritenere che gli Alleati si siano affidati per questi compiti al notabilato prefascista, sulla base di informazioni generiche e spesso vecchie di dieci-vent'anni, arrivando così in alcuni casi agli uomini 'di rispetto' i quali, con maggior credibilità rispetto ai notabili, e soprattutto ai latifondisti, si protestavano vittime del fascismo. Nella provincia di Caltanissetta le indicazioni degli ambienti vescovili furono molto ascoltate, e probabilmente a esse è dovuta la scelta di privilegiare alcuni gabellotti mafiosi, notabili ex popolari (cioè aderenti al partito cattolico del primo dopoguerra) come Calogero Volpe e Calogero Vizzini.
A proposito del secondo abbiamo l'unica testimonianza di una convergenza nel nome di Lucky Luciano, rappresentata dal racconto di Michele Pantaleone sull'incontro tra le truppe americane e Vizzini per il coordinamento delle operazioni militari; cosa peraltro smentita da altre testimonianze. L'insistenza su tale episodio, poi ripreso innumerevoli volte dalla pubblicistica senza grande capacità critica, tende a identificare la parte contraente siciliana del pactum sceleris nella persona di Vizzini e a dipingere Villalba - paese di Vizzini e dello stesso Pantaleone - nell'improbabile ruolo di centro motore dell'intera struttura mafiosa siciliana. Al proposito è paradossale che si insista ancora su questa situazione periferica a preferenza di Palermo, o di quella capitale della mafia siculo-americana che è Castellammare del Golfo, il paese di Joe Bonanno e di tanti altri capimafia statunitensi, o di uno stabile centro d'irradiazione come Corleone, dove tra gli ultimi anni del fascismo e l'occupazione alleata cresce l'astro di Michele Navarra. Vizzini non era, come Pantaleone sostiene, il capo della mafia siciliana: egli, affermano i 'pentiti' che recentemente hanno consentito di fare qualche luce, non ha mai ricoperto un ruolo importante nell'organigramma mafioso.
Anzi è ragionevole dubitare che nel 1943, dopo l'operazione Mori, esista la mafia siciliana, un'entità clandestina talmente compatta, dalle strutture e dalle gerarchie così ben definite, da fungere da partner degli Americani. Tale è la mafia che gli Alleati cercano dopo la fine dei combattimenti, senza avere le idee molto chiare su dove e come trovarla, per utilizzarla - al pari della Chiesa o dell'aristocrazia - come elemento regolativo della società locale in una fase di grande disordine come quella postbellica, e in particolare per garantire gli approvvigionamenti alimentari minacciati dal mercato nero e dall'evasione degli ammassi granari. Questa è una delle opzioni che il più interessante documento americano sull'argomento, il rapporto del 29 ottobre 1943 firmato dal capitano W.E. Scotten, propone al governo alleato; l'alternativa potrebbe essere quella di uno scontro frontale, alla Mori, dispendioso da realizzarsi a guerra ancora in corso. Peraltro per andare a un accordo ci vorrebbe una mafia centralizzata, capace di controllare il pullulare degli intrallazzisti e dei banditi. Gli informatori di Scotten descrivono invece l'organizzazione mafiosa come "più orizzontale [...] che verticale", in particolare nel 1943, quando perdurano gli effetti dell'operazione Mori ed essa appare "in una certa misura disaggregata e ridotta a una dimensione locale" (v. Scotten, 1980, p. 626).
Joseph Russo, capo dei servizi segreti americani in Sicilia, testimonia però che i mafiosi "in poco tempo ricostruirono la [loro] solidarietà". Francesco Spanò, ex luogotenente di Mori poi divenuto capo del servizio interprovinciale di pubblica sicurezza, propone il settembre del 1945 come data della riorganizzazione dell'"antica società di mafia nella quale erano rappresentate tutte le cosche della Sicilia" (v. Spanò, 1978, p. 89). Il momento indicato è quello della riunione in cui i maggiorenti del Movimento per l'Indipendenza Siciliana (MIS) decidono di utilizzare le bande brigantesche che battono la campagna per rinsanguare il loro braccio armato, l'EVIS; il luogo è una delle proprietà di Lucio Tasca Bordonaro, sindaco di Palermo di nomina alleata, latifondista, già esponente di rilievo di un partito agrario del primo dopoguerra, cui aveva aderito anche Vizzini, e ora leader della destra separatista. Moltissimi mafiosi transitano nelle file del MIS: Vizzini, Navarra, Genco Russo; Paolino Bontade e Gaetano Filippone; Pippo Calò e il giovane Tommaso Buscetta. Stando al pentito Calderone era mafioso anche Concetto Gallo, possidente catanese e comandante dell'EVIS. Peraltro già Scotten, a due mesi dallo sbarco, aveva notato come "il movimento separatista, per come oggi si presenta, viene principalmente appoggiato da due gruppi interdipendenti e vicendevolmente interessati, i proprietari fondiari e la mafia".
Per la prima e l'ultima volta nella sua storia la mafia, anziché inserirsi strumentalmente in un apparato di potere, sembra contribuire in prima persona a un'ipotesi politica, seppure partendo dalla tradizionale subalternità alla grande proprietà fondiaria e alla classe politica liberale emersa dal fascismo, ma non necessariamente riciclabile in un'Italia nuova; della quale rappresentante autorevole è lo stesso leader del MIS, Andrea Finocchiaro Aprile, esponente di punta del nittismo isolano nel 1919-1924, e figlio del Camillo ministro giolittiano. Difficile dire quanto conti il sicilianismo, già nel passato sbandierato dai mafiosi e dai loro avvocati; certo, se costoro avessero avuto e tuttora avessero un'ideologia politica, sarebbe questa.Il rapporto con il separatismo sarà essenziale per la Democrazia Cristiana, cui approderanno i gruppi notabiliari dopo aver abbandonato il MIS, tra la fine degli anni quaranta e la metà degli anni cinquanta; a partire da quest'operazione si creerà e poi si consoliderà il rapporto tra mafia e partito di maggioranza.
C'è però un altro aspetto della questione. Si può, come si è visto, ritenere che un network regionale o subregionale di relazioni inframafiose abbia trovato nell'immediato secondo dopoguerra l'occasione di annodarsi o riannodarsi attorno al MIS, attraverso una sovrapposizione tra politica e mafia che è oggi impossibile sciogliere analiticamente, ma che ci introduce a un'idea di organizzazione mafiosa legata alla congiuntura storico-politica, basata su elementi di consapevolezza, estesa su una dimensione regionale o subregionale, ben diversa insomma da quella descritta negli studi socioantropologici di inizio anni settanta. D'altronde già i maxiprocessi degli anni venti, immediatamente susseguenti all'operazione Mori, avevano ipotizzato - e in parte dimostrato - l'esistenza di organizzazioni 'interprovinciali' di mafia per il controllo dell'abigeato e del mercato degli affitti. In tali processi, come nelle sue più generali scelte politiche, il regime sceglie la rendita fondiaria contro il professionismo politico dei notabili e l'intermediazione (non diciamo l'imprenditoria, che sarebbe concetto improprio) dei gabellotti: sono questi ultimi a essere colpiti, spediti in galera o al confino, insieme ai quadri delle organizzazioni mafiose.Non si può dire che ciò abbia implicato la fine della mafia militante, pronta a riesplodere già negli anni trenta con manifestazioni anche clamorose.
È però vero che le reti organizzative 'interprovinciali' intessutesi nel primo dopoguerra si spezzano, mentre la stessa repressione ha come effetto quello di riattivare i canali dell'emigrazione verso gli Stati Uniti, dove si rifugiano - stando a fonti americane (v. President's Commission on Organized Crime, 1986, p. 52) - ben 500 mafiosi che vanno ad acquisirvi in breve tempo un ruolo importante. Non è forse un caso se proprio nel periodo immediatamente seguente, attorno alla grande chance del proibizionismo e alla 'guerra castellammarese' (1928-1931), comincia a emergere una più solida struttura organizzativa mafiosa nel Nuovo Mondo. Il ciclone Mori colpisce l'organizzazione nell'isola e in un certo senso ne favorisce la formazione in America, sicché al momento della guerra il gap apparirà evidentissimo. Non si tratta peraltro di un trapianto - la cospirazione straniera - quanto di una continua interazione.Dall'America sembra derivare ad esempio il (molto evocativo) termine 'famiglia' che designa l'unità elementare dell'organizzazione, nella Sicilia ottocentesca detta 'cosca', 'nassa', 'partito', 'società', 'fratellanza'; anche se nei fatti l'aggregato mafioso non mostra un'esclusiva connotazione familiare né nel caso americano né in quello siciliano.
Veniamo anche a conoscere un nome, mai venuto prima alla ribalta in Sicilia, usato negli Stati Uniti per designare l'organizzazione: 'Cosa nostra'. Sembra che la mafia siculo(italo)-americana intenda accentuare, o meglio inventare, una tradizione pseudonobile e pseudopatriottica, una cosa 'nostra' limpida e chiara che l'immigrato possa contrapporre alle incomprensibili cose 'loro'. Joe Bonanno la chiama semplicemente 'la tradizione', laddove non possiamo essere sicuri che in America si riproduca in toto qualcosa di già interamente formato nella società di partenza. Si potrebbe addirittura rovesciare lo schema secondo il quale la Sicilia tradizionale esporta mafia, chiedendosi quanto di tradizionalista si generi nel Nuovo Mondo e, da lì, venga magari riesportato. Ha comunque forti riferimenti in un modello siciliano l'organizzazione, fortemente regolamentata nella gerarchia e nel funzionamento, tratteggiata da Valachi - se naturalmente respingiamo le fuorvianti descrizioni, da Pitré a Hess, di una mafia priva di regolamenti e statuti. A tale organizzazione si accede con un rito iniziatico che nella descrizione di Valachi coincide esattamente con quello riportato dai rapporti ottocenteschi e dalle pubblicazioni di poliziotti come Alongi e Cutrera, dagli scritti di magistrati come Lestingi, dalle confessioni di Buscetta e degli altri pentiti della prima e della seconda metà del Novecento, nonché dalle recenti intercettazioni dell'FBI; e che dunque appare sorprendentemente uguale a se stesso nell'Ottocento e nel Novecento, in Sicilia e in America.
La descrizione più antica, quella di un documento della questura di Palermo del febbraio 1876, vale sostanzialmente per tutte le altre: il padrino procura all'aspirante una puntura nel dito indice, macchia con il sangue fuoriuscito un'immagine sacra che poi viene bruciata a simboleggiare l'annichilimento dell'eventuale traditore (v. Lupo, 1993, p. 109).Dal punto di vista culturale il rituale intende proprio ribadire che la società di mafia non è la società tout court, il che rovescia l'assunto di tanti studiosi di scuola socioantropologica. Il concetto di onore mutuato dal linguaggio aristocratico esprime l'orgoglio di appartenenza a un'élite seppur criminale, rimarcando la distanza dalla gente ordinaria: un uomo è onorato proprio in quanto tanti altri non lo sono. Viene così amplificato l'effetto di identificazione in un sistema di norme che esprime "il linguaggio interno all'organizzazione e non quello della legittimazione esterna" (v. Marmo, 1990, p. 724), anche se è preferibile che tale linguaggio richiami almeno formalmente quello comune. All'interpretazione di Pitré della parola 'omertà' - l'homo sicilianus tace - va preferita un'altra etimologia già indicata dalla letteratura ottocentesca, che ipotizza una corruzione della parola 'umiltà', intesa come subordinazione dell'affiliato ai voleri dell'organizzazione.
Questo termine - tipico della tradizione massonica e carbonara - rimanda a un'altra grande congiuntura storico-politica, quella risorgimentale, che coincide con l'origine del fenomeno mafioso: nelle società segrete di quel periodo, che vedevano l'incontro tra opposizione politica e delinquenza comune, nei patti 'giurati' che istituzionalizzavano il rapporto gerarchico tra le classi dominanti, il ceto medio degli artigiani e degli agricoltori, e la 'plebaglia' (v. Recupero, 1987, pp. 28-49), è possibile intravvedere il modello originario dell'associazione mafiosa, destinato ad automatizzarsi dopo l'esaurimento della fase rivoluzionaria. I luoghi di detenzione, carcere e confino, sono infine luoghi di riconoscimento vicendevole dei vari gruppi delinquenziali e, in età borbonica, della delinquenza e dell'opposizione politica: non a caso due testi essenziali per l'apparire del concetto e del fenomeno di mafia, I mafiusi de la Vicaria e la confessione di don Peppino 'il lombardo' (il primo dei grandi briganti mafiosi), descrivono due grandi figure del nostro Risorgimento - Francesco Crispi e Silvio Spaventa - che entrano in rapporto pedagogico con i criminali loro compagni di reclusione.Buona parte dei personaggi indicati come mafiosi nel periodo postunitario hanno un passato di uomini della rivoluzione o dell'ordine, generalmente al servizio della classe dirigente siciliana che promuove essa stessa una rivoluzione mobilitando a tal fine le masse ma rimanendo ben attenta al mantenimento dell'ordine sociale nella fase esplosiva susseguente all'abolizione del feudalesimo (1812).
La centralità di Palermo nella storia della mafia ha d'altronde il suo corrispettivo nella centralità della stessa capitale dell'isola nel processo rivoluzionario. Può essere indicativo dei due livelli su cui va inquadrato il problema il rapporto di stretta collaborazione intercorrente tra Nicolò Turrisi Colonna - grande proprietario di non antichissimo status e agronomo insigne, uomo della sinistra moderata, sindaco di Palermo, senatore, indicato negli ambienti parlamentari come capo della mafia - e Antonino Giammona, poverissimo sino al 1848, poi divenuto agiato proprietario di agrumeti e fabbricati nella borgata palermitana dell'Uditore, capitano della guardia nazionale nel 1860, indicato dalla questura come 'grande vecchio' della mafia sino alla fine dell'Ottocento. A questa data assume la guida dell'organizzazione il figlio di Giammona, Giuseppe, non senza un violento scontro con le cosche rivali su cui ci informa con grande ampiezza il questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi.
Quella descritta da Sangiorgi è una struttura cittadina di coordinamento nella quale siedono i rappresentanti delle varie cosche, che esercita una certa autorità anche sulla provincia (v. Lupo, 1993, pp. 80-89). Non è quindi esatta la considerazione di Bonanno e di Buscetta, secondo i quali non esisteva nella tradizione siciliana anteriore alla seconda guerra mondiale qualcosa di simile alla 'commissione' di Cosa nostra costituita a New York per coordinare l'attività delle varie 'famiglie' al termine della guerra castellammarese. Però è significativo che da parte di una tradizione proveniente dall'interno della mafia stessa la repressione del periodo fascista sia considerata momento di rottura e che il modello americano sia assunto come fattore cruciale per la ripresa successiva della componente isolana. Ciò potrebbe essere indicato anche dalla recezione siciliana del nome di Cosa nostra. Si è già detto, per il resto, del ruolo svolto dall'esperienza del MIS nel riallacciare le relazioni tra mafiosi. Si realizza così nel dopoguerra una riorganizzazione mafiosa nelle tradizionali roccheforti del Palermitano e del Trapanese, attorno alla famiglia Greco, a Navarra e al suo allievo-avversario Luciano Liggio, a Vincenzo Rimi, a Paolino Bontade, ai fratelli La Barbera. Tutti questi personaggi saranno alla testa di Cosa nostra siciliana nel periodo successivo; essi si guadagnano i galloni sul campo sanguinoso della competizione intramafiosa, usando o eliminando banditi, collaborando con la polizia e le forze politiche, arricchendosi nella compravendita di terreni, nelle speculazioni edilizie, nei traffici di tabacco e di droga, nel racket.
Le inchieste del pool dei magistrati palermitani, portate avanti col determinante contributo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e culminate nella sentenza del maxiprocesso (1987), descrivono una vicenda che ha come suoi momenti fondamentali l'unificazione sotto il controllo di una commissione centralizzata, prima palermitana e poi regionale, del potere già esercitato dalle singole cosche, lo sviluppo di un gigantesco narcotraffico lungo la rotta Sicilia-America, l'emergere di una leadership sull'asse che lega i corleonesi alla famiglia Greco, la sanguinosissima seconda guerra di mafia, la stagione dei grandi delitti con i quali il terrore mafioso colpisce il mondo dell'establishment. L'esistenza di Cosa nostra siciliana viene alfine clamorosamente comprovata.Le cosche svolgono un ruolo di controllo territoriale. In questo senso l'attività mafiosa per eccellenza oscilla sempre tra la protezione (v. Gambetta, 1992) e il racket, la mafia resta basilarmente - come in origine - un'associazione di custodi e di estortori. L'organizzazione serve a regolamentare l'offerta, a lenire la concorrenza, senza peraltro poter evitare che il conflitto esploda sanguinoso per definire gli ambiti di competenza e le gerarchie tra le varie cosche, all'interno delle singole cosche, ovvero tra queste e la commissione.
L'organizzazione sotterranea è peraltro solo uno dei livelli della fenomenologia mafiosa. Essa va sempre a connettersi con il sovramondo degli affari e della politica, cui fornisce servizi più o meno volontariamente richiesti. La relazione o anche il rapporto di forza tra queste due sfere non è definibile una volta per tutte, ma varia a seconda delle circostanze. In alcune grandi congiunture storiche la mafia è forgiata dalla politica: ad esempio nel periodo risorgimentale e nel secondo dopoguerra. In un mondo rigidamente ordinato per censo o per auctoritas, com'è la Sicilia dell'Ottocento postunitario, la mafia rappresenta prevalentemente una struttura di servizio per poteri a essa superiori; così come negli Stati Uniti, almeno finché la comunità italo-americana rimane al livello inferiore della piramide etnica. I mafiosi potranno definire la loro concorrenza per l'offerta della protezione con l'accordo o con lo scontro sanguinoso. La pena di morte sarà riservata ad essi e agli indipendenti che tentano di sfidarne il potere; così la sanzione massima viene essenzialmente comminata all'interno del sottomondo, nella contrattazione tra pari. Il più delle volte i possidenti ne saranno immuni, e, volenti o nolenti, acquisteranno la protezione quando essa sarà già monopolisticamente strutturata sul versante dell'offerta. Anche nella Sicilia ottocentesca, comunque, ci sono soggetti più deboli nei cui confronti l'associazione si configura come un vero racket, che vengono indotti a piegarsi da intimidazioni e in particolare da danneggiamenti alle aziende.
C'è una differenza tra le aree latifondistiche - in cui un singolo proprietario impiega parecchi custodi - e le aree intensivamente coltivate - in cui un singolo custode 'difende' parecchie aziende. La logica del racket si adatta alla seconda situazione. La mafia è anche un importante veicolo di promozione sociale. L'esercizio dell''industria agraria' nel latifondo ottocentesco è un caso tipico: in certe zone può aspirare alla gabella solo chi è in grado di evitare furti, danneggiamenti, rapimenti, grazie alla forza propria o del proprio sistema di relazioni; questo mercato, ponendo un filtro d'ingresso a chi sia estraneo a tale sistema, finisce per sviluppare situazioni di monopolio o di minuta regolamentazione oligopolistica. Nel mercato degli agrumi palermitano otto-novecentesco, molte delle funzioni di intermediazione commerciale vengono assunte dai guardiani dei giardini o della preziosa acqua per irrigazione. Allo stesso modo, nell'odierno mercato dell'edilizia, nelle aree 'infette' può ottenere la subconcessione di certi lavori solo chi sia in grado di sfuggire ad attentati di vario genere. Così si crea un'area affaristica comprendente gli stessi uomini delle cosche e imprenditori più o meno collusi, formalmente affiliati o non all'organizzazione, arrivati più o meno volontariamente a far parte di questo mondo ma che comunque traggono un vantaggio da esso. Secondo Gambetta la 'mafia' interviene nelle transazioni commerciali legali o illegali (ad esempio nel commercio della droga) come semplice garante della transazione stessa; ma è evidente che tra mafiosi e attività economiche c'è una più intima relazione, derivante dall'organica tendenza alla conversione dei guardiani in affaristi. Per il caso newyorkese è stato proposto un modello duplice, basato sulla distinzione tra i concetti di power syndicate e di enterprise syndicate, l'uno tendente essenzialmente "all'estorsione, non all'impresa", l'altro "operante nell'arena delle imprese illecite" (v. Block, 1980, p. 129).
Nel caso palermitano può essere a maggior ragione effettuata una distinzione tra la struttura territoriale delle cosche - con le rigide affiliazioni, la formidabile continuità nel tempo, la forza militare e quindi la capacità di esercitare, partendo dal meccanismo della guardiania, una funzione vicaria della sicurezza pubblica - e il network affaristico, necessariamente comprendente affiliati e non affiliati, che già nell'Ottocento si intesseva intorno all'abigeato e al contrabbando, e che nel Novecento investe il commercio dei tabacchi e degli stupefacenti. Anche la frizione tra questi due livelli può determinare un conflitto. La cosiddetta seconda guerra di mafia può essere intesa come un tentativo di portare sotto il controllo della commissione la gigantesca rete del narcotraffico degli anni settanta, in precedenza gestita dai singoli mafiosi (v. Lupo, 1993, pp. 213-216).Al tentativo della commissione di esercitare il proprio controllo su un altro network, quello politico, va addebitata anche la scelta che porta Cosa nostra, sul terminare degli anni settanta, a mutuare i metodi del terrorismo rivolgendo le armi contro politici, poliziotti, imprenditori, magistrati, suoi avversari o anche suoi alleati. Si tratta di un grande mutamento rispetto alla competizione tra eguali che caratterizzava la mafia storica. È una svolta nella vicenda del potere mafioso, che aspira a venire alla superficie almeno nella stessa misura in cui, nell'Italia di questo periodo, il potere politico ed economico amplifica enormemente la sua dimensione sotterranea (v. Tranfaglia, 1991). Dalla violenza dei conflitti innescati da questo tipo di scelta deriva il fenomeno del cosiddetto 'pentitismo', cioè la collaborazione aperta con le autorità di membri anche autorevoli dell'organizzazione.
Si spezza così il fronte dell'omertà che era stato dipinto come ferreo non solo per quanto attiene alla mafia propriamente detta, ma nell'intera società siciliana. Tale generale collusione non era in verità riscontrabile nemmeno nel passato, anzi prese di posizione avverse alla mafia si manifestano in diverse congiunture: negli anni settanta dell'Ottocento, nel periodo a cavallo tra i due secoli, nel primo dopoguerra e per tutti gli anni venti. In tutte queste emergenze, a Palermo come altrove, l'esistenza della mafia implica l'esistenza dell'antimafia. Nel caso Palizzolo-Notarbartolo, da una parte sta "L'Ora", dalla parte opposta sta "Il Giornale di Sicilia". La falsa impressione che la lotta alla mafia cominci negli anni settanta di questo secolo deriva dal confronto con una fase quasi immediatamente precedente, quella degli anni cinquanta, che è forse l'unica nell'arco più che centenario della sua storia in cui la mafia abbia fatto i suoi affari indisturbata e nella quale sia stata sancita dai poteri dello Stato la sua inesistenza.Ma l'omertà, intesa come ripulsa del contatto con le autorità, non è così totale neppure a livello di mafia propriamente detta. In qualsiasi sentenza ottocentesca o novecentesca si ritrovano informazioni derivanti da rapporti di polizia, che ogni poliziotto nel corso di innumerevoli dibattimenti attribuisce a 'fonti attendibili' di cui si rifiuterà di rivelare la natura. Chi consulta oggi questi rapporti resta colpito dal fatto che essi disvelano minuziosamente transazioni interne all'organizzazione. Nel Rapporto Sangiorgi si può leggere, ad esempio, di una certa trattativa tra fazioni mafiose e del suo risultato, della costituzione di un organismo dirigente e delle sue deliberazioni, delle posizioni all'interno di esso dei vari esponenti, delle responsabilità di ciascun crimine. Difficile credere che tali informazioni siano frutto di invenzione, né si può pensare che esse derivino dalla 'voce pubblica', che identifica il mafioso come tale attribuendogli alcuni reati ma non conosce le segrete cose dell'organizzazione. Le 'fonti degne di fede' non possono che essere interne alla mafia. Peraltro, senza simili squarci, non si potrebbe seguire che l'enterprise syndicate, la rete degli affari mafiosi: è il metodo d'indagine del primo Falcone. Ma il livello dell'organizzazione territoriale resta sotterraneo ed è irriducibile all'altro. La relazione tra i membri della mafia, ad esempio il rapporto tra sicario e mandante, deriva da una rete di affiliazione autonoma e precedente rispetto alla gestione di ogni singolo affare. La gran parte delle questioni che riguardano tale livello sotterraneo non può essere conosciuta che attraverso una rottura interna.
Lo schema originario è quello dei primi processi ottocenteschi, contro gli 'stoppagghieri' o la cosca Amoroso, nei quali è evidente il contatto tra fazioni mafiose e istituzioni, nei quali bisogna perseguire qualcuno e salvare qualcun altro. Sin dalle origini non esiste mafia senza una delega dell'ordine pubblico da parte delle autorità di polizia, ovvero senza che i gruppi mafiosi assumano una funzione di pseudo-polizia. Naturalmente chi offre protezione è il medesimo che crea le minacce. Sono le due facce del fenomeno. Ma è nella sua funzione d'ordine che la mafia ama presentarsi all'esterno, perché essa può essere ben accetta all'opinione pubblica, a quella dei ceti superiori come a quella dei quartieri popolari. Con questa faccia la mafia si presenta anche alle istituzioni come struttura di servizio per il controllo della criminalità e, in zone altamente infette, per il controllo delle stesse opposte fazioni mafiose.Oggi i magistrati non sono più disponibili a condannare qualcuno perché la 'voce pubblica', interpretata dalla polizia, lo definisce mafioso. Come successivamente hanno evidenziato i giudici del pool, le molte assoluzioni nei processi degli anni sessanta derivano anche da questo mutato atteggiamento, che fa parte di una più generale crescita della civiltà giuridica.
C'è poi un problema politico. La prima Repubblica non è lo Stato liberale: non solo manca degli strumenti ma anche della volontà di ordinare a un questore di schiacciare la mafia. È una forma di governo 'debole', la cui azione deriva dalla media di forze (gruppi di opinione e di pressione, lobbies, partiti, fazioni) diverse, e che dunque non svolta decisamente né a destra né a sinistra rimanendo sempre, più o meno, al centro. Lo Stato liberale aveva le sue 'riserve' - Malusardi (1877), Sangiorgi (1898), Mori (e siamo al fascismo) -, funzionari già esperti del problema cui affidarsi quando si trattava di dare un giro di vite. Anche a Dalla Chiesa venne attribuita una simile funzione, ma nella situazione di fine anni settanta il meccanismo si inverte, la 'riserva' diviene simbolo, il simbolo si trasforma in bersaglio. Il terrorismo entra a far parte degli strumenti che la mafia utilizza per contrattare con le istituzioni, ovvero con i singoli esponenti delle istituzioni. Cosa nostra assume sempre più un proprio autonomo protagonismo.Questo mutamento non implica un esaurirsi dei meccanismi tradizionali, anzi ne comporta una clamorosa enfatizzazione.
La lotta ricade sulle spalle della magistratura, o meglio di quei gruppi di magistrati che la stessa forza della sfida porta a contrapporsi al potere mafioso; la lotta all'interno della mafia, accentuata dalle più appetibili poste e dalla conseguente ferocia della competizione intestina, finisce per trovare una sua sponda istituzionale appunto nella magistratura piuttosto che nella polizia. Qui bisogna evitare i fraintendimenti. La contrattazione tra pezzi di mafia e pezzi di istituzioni esce dal chiuso dei commissariati e dall'ambiguità delle informazioni riservate, per entrare nelle aule giudiziarie, per porsi sotto l'usbergo delle regole del processo penale. Il pentitismo, da molti considerato come un momento (necessario?) di caduta della civiltà giuridica, va invece inquadrato in un processo di crescita attraverso il quale viene reso pubblico e legale un meccanismo confidenziale, discrezionale, di cui si era sempre fatto uso e che rendeva possibile ogni abuso. Giova però non dar credito all'interpretazione dei pentiti medesimi, sempre pronti a descrivere se stessi come esponenti di una qualche mafia tradizionale, onorifica e moderata nell'uso della violenza, contrapposta a una mafia nuova, feroce e refrattaria a qualsiasi regola, ormai indegna della tradizione ed estranea a essa; laddove nei fatti la mafia si è sempre dimostrata feroce, soprattutto nelle congiunture storiche (ad esempio i due dopoguerra) che stimolavano una più dura contrapposizione tra gruppi e fazioni.
Non è difficile spiegare perché l'ideologia del pentitismo sia stata e rimanga questa. La mafia si è resa ben accetta all'autorità (politica e sociale) in quanto struttura di servizio del potere ufficiale finché Cosa nostra non ha voluto essere concorrenziale con tale potere. I perdenti della competizione inframafiosa vanno a trattare con le istituzioni presentando la faccia che sanno essere tradizionalmente gradita: quella degli uomini d'ordine, sempre tesi a moderare una violenza eslege e incontrollata. Peraltro non necessariamente si tratta solo di una rappresentazione destinata a catturare la benevolenza degli inquirenti. Certo, le regole moderatrici dei comportamenti violenti tra i membri di Cosa nostra, cui ossessivamente si riferiscono i pentiti, non sembrano aver mai vincolato davvero nessuno; però questo non significa che i mafiosi non le considerino un punto di riferimento, almeno sinché a essi conviene. La polemica sul mancato rispetto delle norme, dunque, è sempre il tema più o meno strumentale dei conflitti giocati anche all'interno del sottomondo. Soprattutto, una parte accusa l'altra di cedere a una violenza incontrollata, di uccidere per sanguinari impulsi e non per una fredda determinazione dell'interesse dell'organizzazione. Il bellum omnium contra omnes, che dimostrerebbe la vanità della soluzione mafiosa, è l'incubo che accomuna vincenti e perdenti.La mafia è stata per moltissimi anni una struttura di servizio, aperta attraverso numerosissimi canali al mondo del potere ufficiale, e nel contempo compattata al suo interno da ideologie, regole, rituali, vincoli di affiliazione. Però la condizione della sua compattezza è sempre stata il successo. Gli avvenimenti degli ultimi dodici anni, dall'istruttoria del maxiprocesso a oggi, hanno forse dato un segnale in senso opposto.
(V. anche Clientela; Criminalità organizzata; Droga: traffico; Economia sommersa; Meridionale, questione).
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