Magna curia
Alle origini della "magna curia regis Siciliae". Il gran conte di Sicilia Ruggero I d'Altavilla organizzò il governo centrale della sua signoria territoriale senza un preciso programma, ma attraverso la sperimentazione quotidiana. Egli utilizzò i cavalieri normanni (milites) che lo avevano seguito nell'impresa della conquista, il personale di origine greca che era stato impiegato nell'amministrazione della Calabria dal governo imperiale di Costantinopoli, i burocrati musulmani della Sicilia. Il governo centrale della contea siciliana era nelle mani dell'entourage del conte, cioè dei suoi familiari, dei baroni e degli ecclesiastici. I funzionari, invece, provenivano in massima parte dai quadri amministrativi delle province e delle città bizantine.
Nel 1101 morì in Mileto il gran conte Ruggero, lasciando la reggenza della contea alla moglie Adelaide del Vasto. Fu in questo periodo che il centro della signoria si spostò da Mileto in Calabria, a Messina o a S. Marco in Sicilia. E fu appunto in questi anni che tra i funzionari del governo centrale della signoria, in prevalenza greci, incominciarono a inserirsi alcuni funzionari arabi della Sicilia, come, ad esempio, il governatore di Palermo, l'amiratus.
Nel 1112 Ruggero (II), uscito dalla minore età, ereditò la signoria paterna e ne trasferì la capitale in Palermo, dove prese stabile dimora anche il suo entourage, cioè il governo centrale della contea. La sua struttura rimase sostanzialmente simile a quella che aveva avuto durante gli anni della reggenza, perché il conte continuò a servirsi dei funzionari greci, mentre l'ufficio di amiratus andò acquistando sempre maggiore rilievo, e gli amirati divennero i suoi ministri più importanti.
A partire dal 1127 la contea siciliana subì un improvviso quanto inatteso ampliamento. Tutte le signorie territoriali che erano state costituite a seguito della conquista e dell'insediamento normanno nell'Italia meridionale entrarono in possesso o furono conquistate da Ruggero d'Altavilla: costui, nel 1140, si trovò ad essere il sovrano incontrastato di un nuovo Regno, che nasceva dalla unificazione di una pluralità di realtà territoriali e istituzionali, ognuna delle quali aveva raggiunto nel corso di più di un secolo una propria identità storico-culturale.
Per poter governare su di una realtà tanto complessa, il nuovo re modificò la struttura amministrativa, centrale e periferica, di cui si era servito fino ad allora nella contea siciliana. Introdusse i camerari e i giustizieri nelle varie realtà territoriali del Regno, senza tuttavia sopprimere i vecchi camerari e giustizieri centrali. Trasformò il governo centrale, come attesta l'apparizione della parola araba ad-dīwān al-ma῾mūr, il cui equivalente latino era curia regis (l'espressione bilad ad-dīwān al-ma῾mūr corrispondeva al latino demanium curie nostre). La curia nostra non era un nuovo ufficio, ma il governo centrale riformato secondo il modello arabo. La nuova espressione, curia regis, che è documentata per la prima volta nel 1145, esprimeva un concetto nuovo, quello cioè di ufficio reale 'riformato', indicava il palazzo reale, il corpo 'riformato' dei funzionari del re che aveva sede nel palazzo reale di Palermo.
Lo ad-dīwān al-ma῾mūr, la curia regis, era costituito da un ristretto gruppo di magnates e di ufficiali. Le fonti degli anni Quaranta e dei primissimi anni Cinquanta suggeriscono questa composizione: i figli del re, titolari delle signorie in cui re Ruggero aveva progettato di dividere il Regno dopo aver raggiunto l'accordo con il papa, e cioè il duca Ruggero di Puglia, il principe Anfuso di Capua, il principe Guglielmo di Taranto; inoltre l'ammiraglio Michele, sostituito poi da Giorgio; Ruggiero figlio di "Bonus", un ϰϱιτή τῶν ϰϱιτῶν, ora iustificator curialis; il cancelliere Roberto, che data i diplomi regi fino alla sua morte nel 1151; il magister Tommaso, fino al 1143 attivo al posto del cancelliere; lo scriniarius Maione, che dopo il 1143 datò i diplomi in assenza del cancelliere; il logotheta Nicola; il protonotarius Filippo; il magister Aschettino, arcidiacono di Catania.
La morte dei figli del re, l'associazione al trono dell'unico superstite Guglielmo, le morti del grande ammiraglio Giorgio, del cancelliere Roberto, del protonotario Filippo di Madia, la stessa morte del re, e la difficile successione del nuovo sovrano, portarono nel 1154 Maione da Bari ad assumere la carica di amiratus amiratorum. Di origine latina, era stato sotto re Ruggero un fedele funzionario civile, mai incaricato di attività militari, che aveva ricoperto le cariche di notarius, scriniarius, vicecancellarius e forse cancellarius. La sua conoscenza dei meccanismi di funzionamento del governo centrale lo portò a monopolizzarlo. Significativamente Evelyn Jamison sottolinea come egli "fu praticamente il governatore del Regno, poiché il re Guglielmo si occupò solo episodicamente degli affari pubblici" (Jamison, 1913, p. 260). Maione fu ucciso il 10 novembre 1160, e la sua scomparsa segnò un profondo e radicale mutamento nella struttura del governo centrale, pari all'introduzione dello stesso ad-dīwān al-ma῾mūr.
Re Guglielmo costituì un consiglio supremo del re, formato da tre elementi, che chiamò, adoperando una terminologia da tempo in uso, familiares domini regis. Ne facevano parte Enrico Aristippo, arcidiacono di Catania, Silvestro, cugino del re, signore di Ragusa e conte di Marsico Nuovo in Basilicata, e l'inglese Riccardo Palmer, vescovo di Siracusa. Si trattava di un organo del tutto nuovo, al vertice del governo centrale, che avrebbe avuto un'importanza fondamentale fino a Guglielmo III. Dopo la morte di Maione da Bari, quando la carica di cancelliere non fu più rinnovata fino al 1190 (ad eccezione del breve periodo di Stefano "du Perche", 1167-1168), i diplomi reali furono datati dai familiares.
Al di sotto del consiglio supremo dei familiares, la nuova curia regis 'riformata' perdette la sua primitiva natura di organo costituito dai componenti dell'entourage regio e fu organizzata in modo gerarchico da funzionari specializzati, benché non fosse ancora istituzionalizzata e fissa nella sua composizione, ma legata alla composizione della corte regia.
La documentazione superstite mostra che la curia regis 'riformata' era così costituita: il magister camerarius palatii, che aveva alle sue dipendenze gli altri camerari (il primo gran camerario fu un musulmano, Qā'id Iohar l'Eunuco); tre magistri iustitiarii ("Judex Tarentinus", "Raynaldus de Tusa", "Avenellus de Petralia"), che costituivano la magna curia regis, la gran corte reale, μεγαλη ϰόϱτη.
Morto nel 1166 re Guglielmo, durante gli anni di reggenza della regina Margherita la composizione del consiglio dei familiares regis cambiò più volte, nel numero e nella qualità dei suoi componenti, fino a quando nel 1169 Gualtiero, tutore di re Guglielmo II, eletto arcivescovo di Palermo, pose fine alle lotte politiche. Egli ripristinò il triumvirato dei familiares, "riservando il più alto potere per sé stesso" (Ugo Falcando, 1897, p. 164). Nel 1184, dopo l'istituzione dell'arcivescovado di Monreale, il numero dei familiares fu portato a quattro. Formalmente riconosciuti come componenti del supremo organo del governo centrale, essi concentrarono nelle proprie mani tutto il potere amministrativo, gli affari di stato e il governo reale: erano gli ἄϱχοντεϚ τῆϚ ϰϱαταιᾶϚ ϰόϱτηϚ del re.
Al di sotto dei familiares operavano gli uffici del governo centrale. La magna curia regis, l'ufficio che ci interessa per studiarne la ricezione e lo sviluppo al tempo di Federico II, appariva, accanto alla dohana, quello meglio organizzato. Ne conosciamo la composizione, i compiti e il funzionamento grazie alla ricerca che Evelyn Jamison dedicò allo "Judex Tarentinus", che fu uno dei magistri iustitiarii della magna curia regis dal 1156 al 1172.
Per comprendere la costituzione della magna curia regis intesa come il supremo organo giudiziario nella tarda monarchia normanna, la corte di definitiva pronuncia, bisogna partire dalla consapevolezza che essa altro non era che la curia regis. Questa, con la necessaria presenza di almeno uno dei tre magistri iustitiarii, che costituivano il collegio permanente di giudici professionali in seno alla stessa curia, si riuniva in sessione plenaria, oppure in sessione ordinaria, in rapporto alla natura della causa e alle persone coinvolte, ed emetteva una sentenza in via definitiva. In sessione plenaria aveva un'assai estesa competenza e costituiva davvero il supremo organo giudiziario. Si riuniva sotto la presidenza del re in persona (oppure di un suo delegato, ad esempio uno dei familiares), e aveva cognizione nei casi de defectu iustitie, oppure dei grandi crimini contro lo stato: in quest'ultima occasione la magna curia era composta da personaggi di grado pari all'accusato, era una sorta di corte dei pari. In sessione ordinaria la magna curia era diretta da uno o più maestri giustizieri, era composta da ufficiali regi, signori feudali e altre persone scelte in rapporto all'oggetto della causa. Si occupava di questioni civili tra privati che avevano fatto ricorso ad essa, oppure quando era implicato un funzionario regio; poteva anche udire le accuse relative a gravi crimini di cui fossero accusati ufficiali o cittadini di status pari al locale giustiziere.
Il numero dei suoi componenti era, dunque, mutevole: tuttavia, qualunque fosse la composizione della corte o la natura della causa, la presenza dei maestri giustizieri o di qualcuno di essi era assolutamente necessaria. Inoltre, la sessione ordinaria limitava le sue competenze alla Sicilia, perché per le stesse materie avevano competenza sul continente i connestabili e maestri giustizieri di Puglia e Terra di Lavoro, o di Calabria, Val di Crati e Val di Sinni.
La magna curia aveva una giurisdizione tanto penale quanto civile. Era corte di prima istanza per tutti i gravi delitti commessi dai grandi del Regno, o contro il re; per le offese ai curiali; per le controversie civili e penali che vedevano coinvolto un ufficiale del re. Era, invece, corte di ultima istanza in materia civile per udire e decidere definitivamente in cause de defectu iustitie.
Perché una causa potesse essere introdotta presso la magna curia era necessario che l'accusatio nei processi penali, o la querimonia nei processi civili, fosse presentata teoricamente dinanzi al re in persona, e di fatto ai suoi familiares. A costoro spettò di regolare la costituzione della corte, dopo un'inchiesta preliminare sulla validità della natura giuridica dell'accusa o della doglianza, e sullo status dei litiganti.
Il luogo in cui si riuniva la magna curia era la residenza del re: ciò avveniva nell'ipotesi che il sovrano volesse essere presente quando nella sua corte si rendeva giustizia. Di fatto, né Guglielmo I, né Guglielmo II furono mai presenti a una sessione ordinaria della magna curia.
In una fase iniziale le cause di natura ecclesiastica venivano affidate, per intervento del re, ad alti ecclesiastici, che entravano così a far parte, in qualità di giudici delegati, della magna regalis curia: il collegio, tuttavia, diventava perfetto solo grazie alla presenza essenziale e necessaria di uno o più magistri iustitiarii. In un secondo tempo si venne a determinare una più netta distinzione tra corte secolare e corte ecclesiastica.
La "Magna Curia" nelle Costituzioni di Melfi. L'edizione critica del testo greco delle Costituzioni di Melfi, dovuta a Thea von der Lieck-Buyken, permette di dimostrare che nell'originario corpus legislativo emanato a Melfi nel 1231 il magister iustitiarius era soltanto un componente della curia regis, che è qualificata sempre nel testo greco curia nostra, ἡμετέϱα ϰόϱτη.
Questo risultato pone un duplice ordine di problemi: le modalità dell'acquisizione della normanna magna curia regis da parte dell'amministrazione sveva; la nascita della magna curia del maestro giustiziere durante il regno di Federico.
Nel testo latino tradito del Liber Augustalis l'espressione magna curia è presente nelle seguenti costituzioni: I, 16; I, 38.2; I, 39.1; I, 40.2; I, 43; I, 47; I, 53.4; I, 54; I, 62.2; I, 74; I, 93.1; I, 96; II, 1; II, 5; II, 22; II, 48; III, 34; III, 35; III, 36; III, 49.
Nell'originario corpus di Melfi erano presenti, tra quelle elencate, le seguenti costituzioni, perché soltanto di esse fu fatta ed è stata conservata la traduzione greca: I, 16 (= testo greco I, XIX); I, 40.2 (= I, LVII); I, 47 (= I, LVIII); I, 96 (= I, LXX); II, 1 (= II, I); II, 5 (= II, V); II, 22 (= II, XXII); II, 48 (= II, XLVI); III, 34 (= III, XIII); III, 36 (= III, XV); III, 49 (= III, XXVIII).
Nel testo tradito latino di queste undici costituzioni, contenute nell'originario corpus di Melfi, è presente l'espressione magna curia, che nella traduzione greca è resa ἡμετέϱα ϰόϱτη, ad eccezione di due casi (I, 47 = I, LVIII e III, 36 = III, XV).
Non ci troviamo di fronte a un errore del traduttore greco, dovuto a ignoranza o ad approssimazione. Al traduttore greco era sconosciuta la magna curia intesa come l'ufficio del maestro giustiziere quale fu introdotto dal legislatore svevo, dopo alcuni anni, forse nel 1240. Egli conosceva la magna curia regis come espressione equivalente a curia regis: sapeva che quest'ultima, secondo la prassi consolidata al tempo di re Guglielmo II, diventava magna curia regis ogni qualvolta, presente almeno uno dei tre maestri giustizieri, si riuniva per giudicare. La novità, sancita nel 1231, consisteva nel fatto che la magna curia si poteva ora riunire alla presenza del magister iustitiarius, un funzionario esperto di diritto, che era subentrato nella direzione del supremo organo giudiziario del Regno, al posto dei tre magistri iustitiarii di età normanna, molto probabilmente nel dicembre 1220.
Esaminiamo i passi delle costituzioni in questione, per dimostrare come in essi ci si riferisca soltanto alla magna curia regis, e mai alla magna curia del magister iustitiarius, come pur è stato sostenuto da Paolo Colliva (1964), autore di una pregevole monografia sulla magnacuria al tempo di Federico II.
I, 47 (= I, LVIII), Ut universis et singulis Regni nostri. La Const. I, 47 si occupa dei giudizi riguardanti "comites et barones et similes, qui vel in magna curia nostra vel alibi debebunt de cetero interesse". Il legi-slatore svevo, seguendo una precedente normativa normanna e imperiale (Dilcher, 1975, p. 201), riserva i giudizi dei nobili a una corte di pari: "eorum iudicia sibi invicem reservamus". Il traduttore greco ha conservato l'espressione magna curia nostra, che era presente nel suo originale latino, e l'ha tradotta τῆ ἡμετέϱα μεγάλη ϰόϱτη.
Non vi è dubbio che in questo caso non si faccia riferimento alla magna curia del maestro giustiziere, bensì alla magna curia presieduta dal re in persona, composta dai conti, baroni e milites, che era chiamata, già in epoca normanna, a giudicare i propri 'pari'.
III, 36 (= III, XV), Mancipia fugitiva, quae constitutio regia, e III, 34 (= III, XIII), Servos et ancillas omnes fugitivos. Nel 1231 con la Const. III, 36 si regolamentò il problema dei servi fuggitivi e il rinvenimento di cose o denaro altrui. Il legislatore svevo utilizzò due precedenti costituzioni di re Guglielmo (I, secondo Andrea d'Isernia, Consuet. feud., costituzione Quae sint regalia, in Constitutiones regni utriusque Siciliae Glossis ordinariis, a cura di G. Sarayna, Lugduni 1568, p. 308), 'mitigandole' (per adoperare l'espressione di Andrea d'Isernia, cf. Capasso, 1871). Esse sono nel testo latino tradito rispettivamente la III, 34, Servos et ancillas omnes fugitivos e la III, 35, Pecuniam si quis invenerit (nel testo greco corrispondono a III, XIII e III, XIV).
In III, 34 re Guglielmo I, facendo riferimento all'obbligo dei baiuli di inviare i servi fuggitivi magne curie nostre (in III, 35 l'espressione è assente), non indica l'ufficio del maestro giustiziere, ma soltanto la magna curia regis.
Il legislatore svevo che recepì il testo tradito di III, 34 in III, 36, con l'espressione "mancipia fugitiva que constitutio regia per baiulos ad magnam curiam debere transmitti constituit" non si riferì, dunque, certamente all'ufficio del maestro giustiziere.
I, 16 (= I, XIX), Iuris gentium induxit auctoritas. La Const. I, 16 riguarda l'imposizione della defensa. In essa si fa riferimento alla magna nostra curia in un contesto che mostra in maniera inequivocabile come il legislatore svevo tenesse presente la specifica procedura, adottata nell'ultima età normanna e sotto il regno di Enrico VI e di Costanza d'Altavilla, di commettere ai maestri giustizieri e connestabili delle province (è attestato per l'Apulia e la Terra di Lavoro, la Calabria e le Valli) la decisione finale per accuse trattate prima dalla magna curia regis. La I, 16 specifica uno di questi casi di rinvio ai giustizieri provinciali senza limitazioni territoriali: "Statuimus etiam, ut de defensis huius-modi super mobilibus factis a vassallis contra dominos civiliter tantum et non criminaliter agi possit, et si de hiis ad magnam curiam nostram proclamatio deferatur, cause ad regionum iustitiarios remittantur". Non vi è, dunque, nessun riferimento alla magna curia intesa come l'ufficio del maestro giustiziere.
II, 1 (= II, I), Grandis necessitas et utilitas evidens, e II, 5 (= II, V), Cordi nobis est per universas partes. La Const. II, 1 ‒ richiamata in II, 5 ‒ riguarda la pena per contumacia nei processi penali. In essa si fa riferimento due volte alla magna curia nostra.
Il traduttore greco di II, 1 tradusse magnam curiam nostram con διά τῆϚ ἡμετέϱαϚ ϰόϱτηϚ in II, I. Tradusse, inoltre, magistro iustitiario magne curie nostre di II, 5 con τῶ μαϊστοϱι διϰαιῶτη τῆϚ ἡμετέϱαϚ ϰόϱτηϚ in II, V.
Non abbiamo elementi per poter ipotizzare che il testo latino utilizzato dal traduttore greco presentasse curia nostra e curie nostre. Questa ipotesi potrebbe essere presa in considerazione se il traduttore avesse sempre tradotto magna curia con ἡμετέϱα ϰόϱτη. Ma abbiamo già visto che in I, 47 e in III, 36 egli traduce magna curia con ἡμετέϱα μεγάλη ϰόϱτη, intendendo certamente la magna curia regis. Non vi sono dubbi, pertanto, che anche in questo caso in cui il maestro giustiziere è detto nel testo latino tradito magne curie nostre, quest'ultima si riferisca alla curia regis. Ma per togliere ogni dubbio sul fatto che per il traduttore greco μεγάλη ϰόϱτη era l'equivalente della magna curia regia, e per poter in questo modo definitivamente dimostrare che egli ignorava la magna curia magistri iustitiarii, sembra determinante un caso in cui egli adopera l'espressione πϱὸϚ τήν μεγάλην ϰόϱτην per indicare il particolare privilegio dei curiali di poter citare alla corte del re i propri avversari in processi civili e criminali. In I, 40.2 l'espressione latina "qui etiam prerogativa speciali letantur, ut illic adversarios suos in civilibus et criminalibus causis valeant evocare" è resa dal traduttore greco: ϰαὶ οἴτινεϚ ἰδιϰῷ πϱονομίῳ τέϱπονται, ὡϚ δύνασθαι τούϚ οἰϰείουϚ ἀντιδίϰουϚ ἐν ταῖϚ ἐγχληματιϰαῖϚ ϰαὶ ϰεφαλιϰαῖϚ [ϰαὶ] χϱηματιϰαῖϚ ὑποθέσεσι πϱὸϚ τήν μεγάλην ϰόϱτην ἑφέλϰειν. L'espressione πϱὸϚ τήν μεγάλην ϰόϱτην ἑφέλϰειν corrisponde a valeant evocare.
II, 48 (= II, XLVI), Appellationum tempora per quas. La Const. II, 48 è relativa ai termini per l'appello. Essa prevede che, in caso di ritardo forzato, sia sufficiente presentare "appellationes ipsas magistro iustitiario seu iudicibus magne curie nostre".
Il traduttore greco tradusse anche in questo caso magne curie nostre con τῆϚ ἡμετέϱαϚ ϰόϱτηϚ, perché, secondo la logica che siamo andati ricostruendo, non conosceva la magna curia magistri iustitiarii, che non era stata ancora istituita nel 1231. La recente edizione critica del testo greco delle Assise di Melfi aggiunge, tra parentesi quadre, un [μεγάληϚ], prima di ϰόϱτηϚ, offrendo, ai fini della nostra ricostruzione, una conferma che il traduttore greco intendeva ancora una volta la curia regis e non quella del maestro giustiziere.
I, 40.2 (= I, LVII), Magne Curie nostre Magistrum Iustitiarium. La più complessa e al tempo stesso la più importante tra le Costituzioni di Melfi che recano un riferimento alla magna curia è la I, 40.2. Ad essa deve essere aggiunta anche la I, 41, perché nel testo greco costituiscono una sola unità. Eccone l'inizio del testo latino: "Magne curie nostre magistrum iustitiarium velut iustitie speculum in cognitionum nostrarum iudiciis collocatum non magis magisterii nomine iustitiariis ceteris prefici volumus quam exemplo, ut in ipso ceteri gradus inferiores aspiciant, quod in se ipsos observent" (I, 40.2). "Honorem debitum atque precipuum nostre curie reservantes edidimus, ut, si quando magister iustitiarius civitatem quamlibet vel locum intraverit, quousque in eodem loco magister iustitiarius ipse una cum iudicibus nostris curiam nostram tenuerit, iustitiarius regionis, qui illic inventus fuerit, silere debebit utpote minori lumine per luminare maius superveniens obscurato" (I, 41).
La Const. I, 40.2 è la sola costituzione dell'originario corpus di Melfi che regola l'attività del maestro giustiziere. Egli ha competenza esclusiva in materia feudale, soltanto per i feudi "in capite de domino Rege" che sono iscritti "in quaternionibus duanae baronum" (τοῖϚ τετϱαδῖοιϚ τῶν βαϱούνων).
In conclusione, gli iudices, che componevano la Magna Curia nella primitiva redazione delle Costituzioni di Melfi, non costituivano un corpo di esperti che operava in modo autonomo, ma conservavano lo stesso ruolo che avevano avuto in età normanna. La magna curia regis, infatti, a cui fanno riferimento le costituzioni emanate nel 1231, non è da identificare in nessun caso, anche quando l'espressione è accompagnata a quella di Magister[stri] Iustitiarius[ii], con la gran corte del maestro giustiziere, l'ufficio, cioè, che fu istituito e regolato in modo stabile da Federico II, forse nel 1240. A Melfi la magna curia era intesa come l'equivalente della normanna magna curia regis, curia nostra, ἡμετέϱα ϰόϱτη: lo attestano sicuramente il traduttore greco delle assise, e tutte le ricorrenze dell'espressione magna curia presenti sia nel testo latino che in quello greco. La novità relativa alla Magna Curia, sancita nel 1231, consistette soltanto nel fatto che essa si potesse riunire alla presenza del magister iustitiarius, un nuovo funzionario esperto di diritto, subentrato nella direzione del supremo organo giudiziario del Regno al posto dei tre magistri iustitiarii di età normanna, molto probabilmente a partire dal dicembre 1220.
Magister iustitiarius e magistri iustitiarii nelle Assise di Capua e di Melfi. Dimostrato che la Magna Curia, a cui fa riferimento l'originario corpus legislativo emanato a Melfi, è nient'altro che la normanna magna curia regis, dimostreremo ora che: a) il testo tradito delle Assise di Capua del 1220 attesta la sopravvivenza della Magna Curia di età normanna, con i suoi maestri giustizieri; b) nelle originarie disposizioni di Melfi non sono presenti né i maestri giustizieri (magistri iustitiarii) della Magna Curia (curia regis) di età normanna, né i posteriori gran capitani e gran giustizieri (capitanei et magistri iustitiarii). Tutte le ricorrenze dei magistri iustitiarii sono dovute: 1) ad una errata tradizione del testo latino, perché il testo greco fa soltanto riferimento al magister iustitiarius, μαϊστωϱ διϰαιώτηϚ; 2) il legislatore indica con l'espressione magister[i] iustitiarius[ii] sive [vel, et] iustitiarius[ii] i giustizieri provinciali.
Assise di Capua. Una serie di evidenze documentarie attesta la sopravvivenza dei magistri iustitiarii magne curie regis fino al 1220. Tommaso da Gaeta, Andrea da Bari, Guglielmo di Partinico, Nicola di Bisceglie, Umfredo di Monteforte, Guglielmo "de Paleria" (?), Stefano di Partinico, Matteo di Partitico (?), Guglielmo Malconvenant sono alcuni dei personaggi che ricoprono questa carica.
Nel dicembre del 1220 Federico promulga a Capua fondamentali disposizioni per avviare la riorganizzazione amministrativa del Regno, sconvolto per la sua lunga assenza: ve ne sono tre che riguardano i maestri giustizieri. Nel testo delle Assise di Capua, che ci è stato conservato da Riccardo di San Germano, si fa esplicito riferimento ai maestri giustizieri nelle assise V, VI, VII, che sono poi riprese nel corpus di Melfi.
Di notevole interesse è l'assisa VI, che contiene le disposizioni per il giuramento dei magistri iustitiarii: tali disposizioni, in una sorprendente linea di continuità, furono ripetute a Melfi. Essa prevede: "Item ordinamus ut Magistri iustitiarii et iustitiarii, qui a nobis fuerint ordinati, iurent ad sancta Dei evangelia ut unicuique conquerenti iustitiam faciant sine fraude et quam citius poterunt sine fraude conquerentes expediant".
Questa disposizione è accolta a Melfi nella Const. I, 46, Sacramento prestando a magistro iustitiario: "Inter cetera capitula, que sacramento prestando a magistro iustitiario seu iustitiariis, cum administrationem suscipiunt, continentur, hoc specialiter et expressim volumus contineri, ut Deum et iustitiam habendo pre oculis unicuique conquerenti iustitiam faciant sine fraude et, quam citius poterunt, conquerentem expedire curabunt".
Importante è anche l'assisa V che recita: "Precipimus etiam ut nullus furem aut latronem recipiat: immo a quocumque in maleficio fuerit deprehensus, magistris iustitiariis vel iustitiariis contrate presentetur, ut de eo iustitia fiat". Questa disposizione è ripresa, sia pure notevolmente modificata, nel corpo legislativo di Melfi nella Const. I, 66.1, che è relativa alla cattura di un ladro da parte di un baiulo e all'obbligo per questo di consegnarlo ai giustizieri provinciali (non più ai maestri giustizieri) insieme alla refurtiva: "Baiulus si furem ceperit, ipsum abire aliquatenus non dimittat. Sed si quidem fur fuerit extraneus, ipsum cum toto suo et re furtiva iustitiario regionis assignet. Si autem civis fuerit aut villicus, fur cum eo, quod furatus est, iustitiario similiter assignetur, res autem mobiles ipsius furis, quascumque habuerit, per baiulos eiusdem loci fisci iuribus vendicentur".
In conclusione, quando nelle Assise di Capua del dicembre 1220 sono ricordati i magistri iustitiarii et iustitiarii e non l'ufficio uninominale del magister iustitiarius (che molto probabilmente fu istituito nell'occasione, o subito dopo), lo si fa pensando in una linea di continuità con la magna curia normanna; limitativo è a dire il vero il ritenere che la doppia formula magistri iustitiarii et iustitiarii non escluda l'idea di un coordinamento provinciale.
Le Assise di Melfi. Nell'originario corpus di Melfi non sono attestati i magistri iustitiarii, ma soltanto il magister iustitiarius. All'indomani (o in occasione) delle Assise di Capua (dicembre 1220) il supremo organo giudiziario del Regno fu modificato: i tre maestri giustizieri normanni furono sostituiti con un solo grande giustiziere. Il magister iustitiarius continuò a essere un componente della curia regis, ma il dettato legislativo ci consente di intravedere come si andassero stabilendo e precisando alcuni casi di sua esclusiva competenza. Abbiamo già esaminato i tre compiti delegati al solo magister iustitiarius con la I, 40.2 (= I, LVII). L'embrionale nascita di un ufficio del magister iustitiarius, composto da un indefinito gruppo di collaboratori, e altri compiti di competenza di questo ufficiale ‒ alcuni di sua esclusiva competenza ‒ emergeranno ora dall'esame del testo legislativo di Melfi.
Questa disamina varrà anche a dimostrare come a Melfi tutte le ricorrenze dei magistri iustitiarii siano dovute a una errata tradizione del testo latino. Il testo greco fa riferimento al solo magister iustitiarius, μαϊδτωϱ διϰαιώτηϚ, mentre il legislatore indica con magister[i] iustitiarius[ii] sive [vel, et] iustitiarius[i] i giustizieri provinciali.
Ecco dunque le costituzioni latine (tra parentesi le rispettive traduzioni greche) dell'originario corpo di Melfi, nelle quali si fa riferimento al magister iustitiarius: I, 8 (I, V); I, 18 (I, XXI); I, 40.2 (I, LVII); I, 41 (I, LVII); I, 46 (I, LVI); I, 84 (I, LXIX); I, 96 (I, LXX); II, 1 (II, I); II, 3 (II, III); II, 4 (II, IV); II, 5 (II, V); II, 22 (II, XXII); II, 43 (II, XLIII); II, 48 (II, XLVI); III, 5.1 (II, LVI). Queste invece le costituzioni in cui si fa riferimento ai magistri iustitiarii: I, 10 (I, XII); I, 15 (I, XVIII); I, 17 (I, XX); I, 18 (I, XXI); I, 46 (I, LVI); I, 49 (I, LIX); I, 50 (I, LX-LXI); I, 79 (I, LXII); I, 81 (I, LXIV); II, 4 (II, IV).
È opportuno limitarsi all'esame di qualche esempio.
I, 8, Pacis cultum qui a iustitia. La I, 8 riguarda la cura e il mantenimento della pace nel Regno. Ogni regnicolo deve perseguire il suo caso giuridico nel procedimento ordinario dei tribunali, davanti al maestro giustiziere, ai giustizieri delle province, ai camerari dei luoghi, ai baiuli, ai signori, secondo la personale competenza dell'indagine giudiziaria. Ecco il testo che ci interessa: il maestro giustiziere è posto al vertice dell'indagine giudiziaria, ma non compare come titolare di un ufficio, distinto dalla curia regis, dotato di esclusive competenze.
II, 1, Grandis necessitas et utilitas evidens. Il maestro giustiziere e i giustizieri per ordine del re devono bandire i colpevoli in contumacia. Alla presenza del maestro giustiziere e dei giudici della corte regia devono essere registrati i nomi di coloro che sono stati colpiti da bando. Questo passo è significativo, perché fa intuire che il maestro giustiziere è coadiuvato nella curia regis da alcuni giudici, ed è incaricato di una specifica competenza: alla presenza sua e dei giudici di corte si procede alla trascrizione nei protocolli del bando, della causa del bando e del giorno della messa al bando.
II, 22, Contigit interdum aliquem de crimine capitali. "Talora accade che qualcuno, accusato per un reato capitale dinanzi al giustiziere regionale, mentre la causa è ancora in corso, sia citato dinanzi al maestro giustiziere della Nostra magna curia per un crimine equivalente o minore, oppure anche per una causa civile riguardante castelli o altri beni feudali, la cui competenza spetta specificamente alla Nostra curia; e così, a causa della priorità del giudice superiore, anche se la causa dinanzi al giustiziere era già prossima alla sentenza definitiva, viene di necessità differita, e non è provata l'innocenza di chi dovrebbe essere assolto e il colpevole non è condannato alla pena dovuta. Stabiliamo pertanto che la causa precedente in corso dinanzi al giustiziere sia condotta a termine e che tutto, cioè la qualità della causa e il procedimento giudiziario, sia reso noto al maestro giustiziere mediante una lettera del giustiziere. Soltanto allora, se lo consentirà l'esito del giudizio precedente, ad esempio in seguito alla precedente sentenza l'accusato potrebbe essere morto ‒ nel qual caso non potrebbe subire altra condanna ‒, il citato deve presentarsi alla Nostra curia. Peraltro, se l'accusato sarà denunciato dal maestro giustiziere per un crimine più grave, sommandosi le prerogative di un giudice superiore alla gravità del delitto, se non si è pervenuti alla sentenza definitiva dinanzi al precedente giudice, il citato, per non risultare contumace, dovrà presentarsi al maestro giustiziere. Da tutto quanto detto sopra escludiamo i crimini di lesa maestà, per i quali i colpevoli riconosciuti e condannati perdono la vita e i loro averi, per qualsiasi altro reato che prevede la pena capitale chi è accusato o citato dinanzi a un giudice superiore non esiti a comparire, pena la condanna per contumacia".
Questa costituzione è molto importante per la definizione del rapporto tra maestro giustiziere e giustizieri nel 1231, nonché per l'individuazione dei rispettivi compiti. Ecco perché l'abbiamo riportata per intero. Dal testo si evincono chiaramente le competenze esclusive del maestro giustiziere nella curia regis, e la sua superiorità gerarchica rispetto ai giustizieri.
II, 48, Appellationum tempora per quas definitive sententie. Questa costituzione è significativa, perché, nello stabilire la presentazione al maestro giustiziere o ai giudici della Magna Curia degli appelli avversi alle sentenze dei giudici ordinari, attesta che il maestro giustiziere e i giudici della magna curia hanno eguale potere e competenze.
La riforma della Magna Curia. L'indagine che è stata finora condotta sulle fonti legislative ha rilevato una piena corrispondenza con quanto Julius Ficker e Wilhelm Heupel ebbero modo di evidenziare dall'analisi dei documenti riguardanti il gran tribunale di corte, nonché dalle sentenze del gran tribunale di corte raccolte nei Regesta di Heupel. Il tribunale di corte ebbe una nuova organizzazione dopo le Assise di Capua del dicembre 1220. Alla sua direzione fu posto un gran giustiziere, nella persona di Richerio, vescovo di Melfi, coadiuvato da cinque gran giudici di corte (dei quali conosciamo i nomi di Roffredo da Benevento e Leone Mancino di Bari). Richerio e il suo sconosciuto successore svolsero la loro attività presso la corte.
Dalla fine del 1222 è attestato a capo della Magna Curia Enrico di Morra, che ne tenne la direzione fino alla morte, documentata da Riccardo di San Germano nel settembre 1242. Egli era coadiuvato da quattro o cinque giudici a latere e da un notaio, come è apparso anche dall'esame delle Costituzioni di Melfi riguardanti i componenti della Magna Curia. Enrico di Morra godette della speciale fiducia dell'imperatore, tanto che nel 1226 e durante la crociata del 1228-1229 fu nominato governatore del Regno, senza per questo essere esonerato dalla presidenza della Magna Curia.
La documentazione degli anni 1223-1225 mostra che un gruppo di giudici di corte rimaneva al seguito dell'imperatore, mentre altri giudici accompagnavano il maestro giustiziere, che presiedeva la Magna Curia sul continente al posto dell'imperatore. Ciò indusse Ficker a ipotizzare una netta ed esplicita separazione tra il tribunale dell'imperatore e quello collegato al maestro giustiziere. Di contro Heupel apportò buone ragioni per dimostrare come si fosse trattato di una separazione dettata soltanto da motivazioni di funzionalità: la magna curia non perdette mai la sua natura di supremo e unico organo giudicante.
Dal luglio 1225 fino al luglio 1233 non ci sono pervenuti documenti che attestino decisioni autonome dei giudici di corte che accompagnavano l'imperatore, ma soltanto 'istrumenti' del gran tribunale di corte scritti in nome del maestro giustiziere. In particolare mi sembra significativo il fatto che dall'analisi delle liste dei testimoni dei privilegi imperiali risulti che il maestro giustiziere e gran parte dei giudici della Magna Curia (Simone ed Enrico di Tocco, Roffredo di San Germano, Pier della Vigna) si siano trattenuti a corte dal luglio 1230 alla fine del 1231, per tutto il periodo, cioè, durante il quale il testo delle Constitutiones fu verosimilmente sottoposto alla stesura definitiva.
È del luglio 1233 l'ultima decisione (tra quelle a noi note) della Magna Curia, resa al di fuori della corte imperiale. Enrico di Tocco, coadiuvato dal giudice Benedetto d'Isernia, presiedette in Sulmona un giudizio, la cui sentenza fu scritta da Guglielmo di Tocco, magne imperialis curie in iustitiariatu notarius. Quasi contemporaneamente, nell'agosto, i giudici del gran tribunale, Simone di Tocco e Leone Mancino, presenti alla corte imperiale in Palermo, emisero una sentenza con la quale dichiararono nulla per vizio di forma e di procedura una sentenza emessa in prima istanza dal giustiziere imperiale di Terra Giordana.
Dal marzo 1235 fino alla promulgazione delle cosiddette Costituzioni di Foggia del 1240 ci sono pervenute soltanto decisioni di singoli giudici di corte, anche non siciliani, prese in città dell'Italia settentrionale: Cremona, Padova, Brescia, Trento. Nello stesso periodo Enrico di Morra, nominato coreggente del Regno, fu dapprima in Germania insieme con Tommaso di Acerra, poi in Lombardia, e infine, dall'agosto del 1239, stabilmente alla corte imperiale.
Julius Ficker stabilì che il gran tribunale di corte, con le costituzioni del gruppo Nihil veterum principum auctoritati, assunse la fisionomia di un tribunale stabile alla corte imperiale. Questa ipotesi fu accettata sostanzialmente da Heupel, anche se in una prospettiva interpretativa in parte diversa. L'obbligo fatto al maestro giustiziere di seguire la corte significava per Ficker la fine della distinzione, da lui ipotizzata, tra tribunale personale dell'imperatore e tribunale del maestro giustiziere; per Heupel non significava nulla di nuovo per la magna curia nel suo complesso, ma soltanto la fine della prassi che aveva visto fino ad allora la persona del maestro giustiziere, coadiuvato da alcuni giudici, operare lontano dalla corte.
Le nuove costituzioni che mutarono la fisionomia della Magna Curia furono: I, 38, Nihil veterum principum auctoritati; I, 39, Litteras de remissione predicta; I, 40.1, Hac lege in perpetuum. L'ignoto rimaneggiatore del Liber Augustalis premise queste costituzioni all'originaria I, 40.2 di Melfi, che abbiamo già analizzato.
Queste nuove costituzioni definiscono in modo chiaro la figura del gran giustiziere, le sue competenze e quelle dell'ufficio a cui è preposto.
Le caratteristiche fondamentali del gran giustiziere sono la unicità dell'ufficio, la priorità assoluta di funzioni e di dignità, la discrezionalità, e l'indeterminatezza della durata. Egli deve risiedere sempre presso la curia del re, ed è affiancato da quattro giudici. La sua magna curia appare come un organo con funzioni collegiali, poiché, come è stabilito in I, 39, "litteras de remissione predicta vel de citatione super causis et eorum processibus ad magnam curiam nostram pertinentibus necnon super inquisitionibus faciendis et ad curiam nostram remittendis et demum de qualibet iustitia ordine supradicto servato sub titulo nostri nominis et speciali sigillo nostro quod de iustitia fieri mandavimus et quod apud iudices curie nostre residere iubemus de consilio predictorum omnium iudicum scribi volumus et etiam sigillari". Bisogna, tuttavia, sottolineare che sembra che questa determinazione di utilizzare un sigillo di giustizia non sia mai entrata in vigore, cosicché noi non siamo in grado di distinguere in alcun modo gli affari, che sono stati decretati in nome della giustizia, dalle lettere e dai mandati che in altro modo sono stati stabiliti in nome dell'imperatore.
Le competenze del gran giustiziere sono diventate più ampie e meglio articolate rispetto a quelle che abbiamo già esaminato in I, 40.2: a) Competenze giurisdizionali: reati di lesa maestà (a meno che l'accusatore non abbia deferito il crimen al tribunale di un giustiziere provinciale), i feuda quaternata, gli appelli contro le sentenze dei giudici ordinari o speciali, le contese tra curiali, la denegata giustizia (dopo un rescritto ordinante di stabilire la tutela dei diritti che sono stati violati, il maestro giustiziere procede contro il giudice che è venuto meno al suo dovere), i limiti delle competenze dei giudici inferiori, le deliberazioni in materia di petitiones (de iustitia de gratia). b) Competenze di giustizia amministrativa: cognizione e provvedimenti relativi alle inquisitiones (ordinarie e straordinarie) fatte nel Regno, dopo la loro istruzione da parte di due giudici della gran corte; accoglimento delle denunce di parte relative ai giudici inferiori e provvedimenti d'ufficio, senza la necessità di consultare il sovrano.
A partire dagli anni 1239-1240 la Magna Curia assume una forma più stabile nel modo di lavoro e nella composizione, nonostante che dal settembre 1242 al novembre 1246 sembra sia rimasta priva del gran giustiziere, dopo, cioè, la morte di Enrico di Morra e fino alla nomina di Riccardo di Montenegro.
Nel dicembre 1240 Pier della Vigna è documentato per la prima volta come giudice alatere della Magna Curia in un giudizio presieduto da Enrico di Morra davanti a Faenza. Nei successivi sette anni la sua presenza appare essenziale per il funzionamento dell'ufficio, soprattutto perché, insieme a Taddeo da Sessa, svolse un delicatissimo compito di collegamento con l'imperatore, fonte di ogni diritto, a cui spettavano tutte le decisioni finali. I giudici di corte, infatti, dovevano, prima della sentenza finale di un caso, trasmettere all'imperatore gli atti del processo e domandare le sue intenzioni. Ad esempio, allorché i giudici della gran corte si trovarono a esaminare un'accusa contro Città di Castello ‒ accusa che si collegava a un evento passato e che richiedeva una difficile decisione giuridica per la quale non esistevano dei precedenti ‒ fu proprio Pier della Vigna a essere incaricato dai suoi colleghi di richiedere la volontà dell'imperatore: costui rispose e fece determinare la decisione.
Ma Pier della Vigna svolse anche un importante ruolo di coordinamento della gran corte con la cancelleria, che, nell'ambito dell'espletamento dei suoi affari ordinari, risolveva un grandissimo numero di questioni di giustizia, senza che avesse luogo un processo giudiziario. Ad esempio, all'inizio del 1239 il comune di Vercelli aveva pregato l'imperatore di riaprire un processo che già era stato deciso in suo sfavore perché per negligenza non era stata utilizzata alcuna testimonianza. La petizione del comune fu esaminata nell'ambito della cancelleria ed i giudici della gran corte, Pier della Vigna e Taddeo da Sessa, nella loro qualità di direttori delle discussioni preliminari, dopo aver informato i richiedenti dell'accoglimento della loro richiesta da parte dell'imperatore, decretarono che i giudici della gran corte, Roffredo di San Germano e Lorenzo di Parma, curassero la compilazione di un instrumentum in virtù del quale i rappresentati del comune avessero il permesso di un nuovo processo.
Insomma, tutto lascia supporre che Enrico di Tocco, Roffredo di San Germano, Giovanni da Martorano, Pier della Vigna, Taddeo da Sessa costituirono una équipe di lavoro, che di fatto monopolizzò il potere presso la corte fridericiana, quasi sempre impegnata lontano dall'Italia meridionale.
Le esigenze di funzionamento della giustizia nel Regno di Sicilia, soddisfatte per il passato dall'attività del gran giustiziere e dai suoi giudici, che avevano operato lontano dalla corte nelle province continentali, furono ora adempiute dal tribunale di seconda istanza dei gran capitani e gran giustizieri, che dal 1240 divenne una dipendenza della gran corte di giustizia.
Questa riforma fu sancita con la promulgazione della costituzione I, 43, Capitaneorum autem, che a me sembra non debba essere attribuita alla curia generale di Fano del 1235, ma debba essere collegata proprio alle riforme degli anni 1239-1240. Nel Regestum napoletano, infatti, è presente la prima attestazione dei "capitanei et magistri iustitiarii a porta Roseti usque ad Trontum ad fines Regni", e "a porta Roseti usque Farum et per totam Siciliam" (Il registro della cancelleria, 2002, p. 1019).
La nuova costituzione affidò ai due capitanei e maestri giustizieri compiti militari, giurisdizionali e amministrativi. Essi dovevano circuire provincias sibi decretas per osservare da vicino le situazioni locali e provvedere a una pronta giustizia; convocare le curie regionali nei giorni solenni; avere conoscenza esclusiva dei 'grandi delitti', e conoscenza diretta delle cause criminali in loco; giudicare in sede di appello anche per le cause riservate alla magna curia magistri iustitiariii (se costui fosse stato lontano dal Regno, con la corte del sovrano), ascoltare e punire le querimonias contro gli ufficiali regionali (in particolare contro i castellani, responsabili locali della difesa del Regno).
Conclusioni. Wilhelm Heupel ha opportunamente sottolineato come il superstite instrumentum della gran corte del marzo 1247, redatto a Terni, segni la fine della fase della sua attività iniziata nel 1239-1240. Dapprima l'elezione del nuovo maestro giustiziere, Riccardo di Montenegro, poi la fine di Pier della Vigna, infine la nomina dei nuovi giudici Andrea di Capua, Durando di Brindisi e Roberto di Palermo, aprirono l'ultima fase dell'attività della gran corte durante il regno di Federico II.
Prendendo le mosse dalla nomina di Roberto di Palermo a giudice della gran corte, forse avvenuta nel 1250, si deve non solo evidenziare quanto sia provvisoria e frammentaria la conoscenza che noi abbiamo della Magna Curia al tempo di Federico II, ma anche elencare le questioni che meriterebbero un ulteriore approfondimento.
Su Roberto di Palermo siamo informati da un privilegio imperiale del settembre 1241, a lui indirizzato, che loda i suoi servigi: "que idem magister Robbertus tam in Sicilia in servitiis nostris iudicatus officium exercendo, quam etiam in Lombardia et aliis partibus in nostra magna curia commorando, fideliter et constanter exhibuit, maiestati nostre devote exhibet et exhibere poterit in futurum" (Scheffer-Boichorst, 1902, p. 107). Ebbene, questo personaggio che già nel 1241 era stato al servizio dell'imperatore in un ufficio di giudice in Sicilia, ed aveva seguito Federico in qualità di giudice della gran corte in Lombardia ed in altre province, non è più attestato se non dopo dieci anni, nel 1250, in un giudizio della magna curia, quale giudice a latere del maestro giustiziere Riccardo di Montenegro.
I vuoti nella documentazione sono, dunque, davvero consistenti. Essi, tuttavia, non sono tali da impedire una ricostruzione del funzionamento dell'ufficio. Heupel lo ha ben dimostrato nella sua ricerca. Ecco alcuni temi che restano ancora insoluti, e che meriterebbero di essere approfonditi. Quali erano i rapporti della Magna Curia con la corte dell'imperatore e, in particolare, con la cancelleria e la camera? Chi prendeva di fatto le decisioni nelle cause della gran corte e in quale modo si svolgeva ogni singola decisione? Quale era il ruolo del magne imperialis curie in iustitiariatu notarius in relazione allo imperialis curiae (actorum) notarius, e quale la natura dell'instrumentum da lui redatto? Vi era uniformità nei processi della magna curia rispetto all'ordinamento del processo previsto nel Liber Augustalis? Quale era, infine, l'efficacia delle decisioni della magna curia?
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