MAMIANI DELLA ROVERE, Terenzio
Nacque a Pesaro il 18 sett. 1799 da Gianfrancesco, conte di Sant'Angelo in Lizzola, e da Vittoria Montani.
Ebbe la prima formazione a Pesaro, dove studiò privatamente fino al 1816 e dove fu in contatto con una società culturalmente raffinata e politicamente avanzata.
Fu discepolo e intimo amico di G. Perticari, il quale aveva dato vita nella città a un vivace circolo culturale che permise al M. "di supplire alquanto al difetto di buone scuole e metodi, e di molti libri e del trovar chiuso d'ogni parte il gran libro del mondo" (Lettera autobiografica a Giuseppe Zirardini [1839], in Lettere dall'esilio, I, p. 51. In realtà - confessa nella stessa lettera il M. - l'esser nato e vissuto per tanti anni nella città di Pesaro fu per lui "una disgrazia gravissima rispetto agli studi i quali in tanta picciola unione di uomini non rinvengono né il vigore, né la latitudine, né l'esercizio loro convenienti" (ibid., p. 42).
Il desiderio di approfondire gli studi letterari lo portò nel 1816 a Roma, dove fu collocato dal padre presso il Seminario romano con la segreta speranza di avviarlo alla carriera ecclesiastica; ma - avrebbe detto ancora il M. - "la mia andata a Roma non rimediò a nulla, perché le lettere in Roma studiavansi allora con una compassionevole pedanteria" (ibid., p. 51). Ben diversamente positivo fu invece l'influsso politico dell'ambiente pesarese.
La città di Pesaro aveva infatti vissuto pochi anni prima l'esperienza repubblicano-cisalpina, alla quale avevano partecipato lo stesso Perticari e suo cugino, il letterato F. Cassi. Al tempo della prima giovinezza del M., del resto, a Pesaro era stato forte il sostegno a G. Murat attraverso l'attività di Guglielmo Pepe, intimo amico di Perticari e di Cassi e in frequente contatto con loro in quanto generale comandante di un contingente di truppe napoletane di stanza nelle Marche.
Attraverso Pepe il M. poté maturare la sua fede politica fermamente ostile al governo pontificio e aperta alle istanze della libertà e dell'indipendenza nazionale italiana. Nel 1819 l'esperienza romana terminò dunque anzitempo e senza rimpianti. Rientrato nella città natale - dove rimase fino al 1826 - il M. perfezionò la sua formazione letteraria e politica: pubblicò le sue prime poesie e frequentò gli ambienti della carboneria, finendo anche per trovarsi coinvolto, nel 1825, in un grande processo contro i settari "di Pesaro e d'intorni" conclusosi con numerose e pesanti condanne, ma con il proscioglimento del M. per insufficienza di prove (1826).
Scampato il pericolo della condanna, nel desiderio di perfezionare gli studi e di cercare fortuna in un ambiente più fervido il M. si recò a Firenze, dove ebbe familiarità con gli intellettuali toscani più in vista, in particolare con G. Capponi, R. Lambruschini, G.B. Niccolini e G.P. Vieusseux, a contatto con i quali poté maturare definitivamente una propria sensibilità religiosa entro l'ambito dei valori di quello che fu poi definito cattolicesimo liberale. Un tipo di fede che nel M. coesistette fin da allora con una forte e crescente avversione per l'ambiente clericale, nella convinzione dell'impossibilità della Chiesa di riformare in senso liberale il proprio regime politico - autocratico perché teocratico - e di favorire perciò il risorgimento della nazione italiana e la base morale su cui doveva poggiare: il M. riteneva troppo esteriore la pietà ritualistica della Chiesa e troppo subordinate le coscienze all'onnipresente controllo delle gerarchie ecclesiastiche.
La permanenza a Firenze terminò quando il 28 ag. 1827 ottenne dal re Carlo Felice la nomina a professore di eloquenza nella Accademia militare di Torino, nella quale insegnò fino al novembre del 1828, allorché la morte del padre lo costrinse a rientrare a Pesaro. L'ambiente dell'Accademia non era certamente favorevole al liberalismo politico: eppure il M. non rinunciò a richiamare i suoi allievi a un concetto più ampio di patriottismo, come gli ricordava il 10 giugno 1880 un suo antico alunno, il generale R. Cadorna: "Ben posso assicurare, che il culto della patria, ebbe fin d'allora germi incancellabili; pel modo col quale, pur correndo tempi sospettosi, Ella sapeva accortamente e con coraggio civile, infiltrare nell'animo dei giovani, quei magnanimi pensieri di assennato patriottismo, che presiedono poi a tutte le azioni della vita".
L'evento cruciale di quella prima fase della vita del M. fu la rivoluzione parigina del luglio 1830. Fu lui stesso a ricordare che quando ne ebbe notizia reagì "gridando come un fanciullo: L'Italia sarà libera, sarà libera l'Italia nostra e certo gioia più pura, più alta e più espansiva di quella non credo mi sia destinato a sentire in terra" (Lettera autobiografica(, p. 47). In effetti, l'avvenimento in sé e il proclamato principio del non intervento da parte del governo francese dettero a molti l'impressione che fosse ormai giunto il momento di ribellarsi all'assolutismo pontificio e di dare vita a un primo nucleo di Stato nazionale italiano, libero e indipendente. Ebbe origine così la rivoluzione del marzo 1831, che doveva collegare i cospiratori modenesi di Ciro Menotti ai patrioti dello Stato della Chiesa, della Toscana e di Parma. In tale circostanza il M., quale esponente principale degli insorti di Romagna, ebbe prima l'incarico di tenere i rapporti fra il comitato delle Legazioni pontificie e quello toscano, e di ricoprire, poi, dal 4 marzo 1831, la carica di ministro degli Interni del nuovo governo delle Provincie unite d'Italia.
L'incarico durò però meno di un mese: chiamate da Gregorio XVI, le truppe austriache riconquistarono ben presto i territori insorti, e i rappresentanti del governo liberale si videro costretti a firmare in Ancona, il 26 marzo, l'atto di resa nelle mani del cardinale G.A. Benvenuti con il voto contrario del solo Mamiani. Arrestato con la gran parte dei congiurati e tradotto nelle carceri politiche di Venezia, fu sottoposto a processo (5-7 giugno) e condannato dal pontefice all'esilio perpetuo. Fu così che egli riparò in Francia, dove rimase fino al 1847.
Nel moto del 1831 molti videro la prima vera manifestazione del Risorgimento; tra questi il M. che da esso ebbe a trarre due importanti considerazioni: la necessità di coinvolgere nelle lotte nazionali le masse popolari, la cui scarsa sollecitazione fu da lui sentita come una delle cause del fallimento del moto; e il discredito morale sempre più diffuso nei riguardi del potere temporale dei papi, al punto di farne ritenere inevitabile la caduta.
L'esilio parigino si rivelò per lui di estrema importanza. "In Francia - annotò - i due primi anni furon passati in continui ondeggiamenti politici. Scrivevo ne' giornali, sedevo a banchetti patriottici, facevo litografare memoriali per i Ministri, stampai in francese un compendio dei nostri casi di Romagna col titolo Précis" (ibid., p. 50): tutto ciò nella speranza di poter persuadere il governo transalpino a intervenire nello Stato della Chiesa per contenere le nefaste conseguenze della restaurazione austriaca. Ben presto però dovette prendere atto dell'assoluta inutilità dei propri sforzi: le cancellerie delle potenze europee avevano ormai più interesse alla pacificazione europea che alla lotta armata. Di qui la maturazione di altri due importanti capisaldi della sua posizione politica: la convinzione, anzitutto, che per la sua rinascita l'Italia avrebbe potuto contare soltanto su se stessa e l'intuizione che essa avrebbe potuto comunque evitare l'aperta ostilità della diplomazia internazionale solo se avesse perseguito il proprio risorgimento in linea con i principî liberal-moderati dell'Europa più avanzata.
Il M., del resto, sin dall'inizio del suo esilio francese aveva preso le distanze da Mazzini, considerando il programma unitario e repubblicano della Giovine Italia come "temerario ed utopico", in quanto inaccettabile per le potenze internazionali oltre che contrario agli interessi reali dei vari principi italiani ed estraneo alle tradizioni storiche, culturali ed economiche del Paese.
All'ideale fortemente unitario del Mazzini egli contrapponeva un programma federale, come più consono alla storia civile ed economica della penisola e più realizzabile in quanto meno conflittuale. Per gli stessi motivi, egli rifiutava anche la strategia cospirativo-rivoluzionaria e affidava le ancora aurorali speranze del Risorgimento nazionale soprattutto all'aperta educazione etico-politica delle "plebi", imperniata non solo sui valori della libertà e dell'autonomia della patria, ma anche su uno specifico programma di emancipazione economica e sociale del popolo minuto. In tal modo - pensava - non solo si sarebbe eliminata la paura delle "strambe utopie dei socialisti moderni", ma si sarebbe anche allineato il Risorgimento italiano alla migliore cultura europea, ormai consapevole di dover favorire con ogni mezzo la partecipazione delle moltitudini alla rigenerazione comune, altrimenti demandata a un troppo ristretto ceto aristocratico-borghese di per sé incapace di dare origine a un'autentica epopea nazionale.
Sulla base di tali considerazioni nacque a Parigi - certamente in anticipo su quello elaborato in Italia negli anni Quaranta da C. Balbo e M. d'Azeglio (cfr. Pincherle, p. 37; Morelli, pp. 8 s.) - il primo vero programma moderato italiano, divulgato nel 1839 attraverso un opuscolo a stampa intitolato dal M. Nostro parere intorno alle cose italiane (Parigi): un manifesto del Risorgimento nazionale a carattere liberal-democratico e moderato, contenente la prima presa di distanza della cultura italiana dal liberismo economico, la cui legge fondamentale del libero mercato - vi si leggeva - "giovava a coloro soltanto che portano seco qualche facoltà e qualche sostanza da competere e da ricambiare; ma la plebe oppressa dall'ignoranza e dalla miseria, necessitosa del pane e non potendosi valere né avvantaggiare di alcuna cosa, rimarrà esclusa sempre da ogni concorso, e vivrà in tutto all'arbitrio e alla mercede de' ricchi" (p. 33).
Incontro fondamentale al tempo dell'esilio fu per il M. quello con V. Gioberti, per il quale egli nutrì sempre un'intensa e ricambiata amicizia e con cui condivise gli intenti del moderatismo, del federalismo e dell'educazione morale e materiale delle plebi. In un solo punto le idee dei due amici si differenziarono sempre: Gioberti pensava allora a un risorgimento incentrato sul Papato e sui valori cattolici come perni di una federazione dei principi italiani; il M., invece, non credette mai a una reale possibilità di riforma liberale dello Stato della Chiesa e meno che mai alla capacità di un pontefice di porsi alla testa del movimento risorgimentale. Al programma neoguelfo di Gioberti egli contrapponeva, fin dai primi anni Quaranta, una sorta di neoghibellinismo che rimase soccombente all'epoca del cosiddetto "piononismo", per affermarsi in seguito.
Nel frattempo a Parigi ebbe modo di dedicarsi agli studi letterari, assecondando la propria vocazione poetica o, meglio, quella che a lui per molto tempo sembrò tale, visto che in vecchiaia mostrò non pochi dubbi in proposito: pubblicò infatti gli Inni sacri (Parigi 1832), accompagnati da un'interessante lettera alle cugine Laura Della Massa e Margherita Castellani, a difesa dell'identità del suo impegno letterario con quello politico, uniti nel concetto di "religione civile". Il frutto più maturo di tale attività poetico-letteraria fu la pubblicazione in volume unico delle Poesie (ibid. 1843), che gli procurarono in Francia e in Italia una fama - seppure non larghissima - di raffinato scrittore classico.
A Parigi vide anche la luce il saggio filosofico Del rinnovamento della filosofia antica italiana (1834), a suo tempo variamente esaltato e anche aspramente criticato (A. Rosmini), ma che conteneva un'indubbia novità, al di là della sua fondatezza teoretica. Vi si esponeva infatti l'idea che la cultura costituisse la via privilegiata per la formazione di un'autentica coscienza nazionale allora solo incipiente e che non bastasse la sola attività insurrezionale antiaustriaca a fondare uno Stato nazionale.
Nel saggio il M. esaminava anche le correnti filosofiche europee, nel tentativo di superare quello che a lui sembrava l'errore fondamentale del tempo, lo scetticismo, soprattutto quello di derivazione kantiana, e di combattere la "nebbia del misticismo" teologico, giudicata irriguardosa della ragione.
A quelli cui interessò, il saggio piacque soprattutto per i riflessi politici dell'idea di cultura che vi era esposta: il M. esprimeva infatti la convinzione che una nazione può aspirare a costituirsi in Stato libero e indipendente solo se consapevole della propria specifica identità morale e spirituale - secondo il lessico del tempo, solo se era capace di manifestare un proprio genio e una propria missione - e si chiedeva perciò che cosa significasse essere italiani. Sotto questo punto di vista, perciò, la sua opera si presentava alla nazione come una ricerca delle proprie radici e della propria identità, "rivocando alla memoria esser la filosofia, del pari che tutte le grandi cose, divina semenza, nata e cresciuta sotto il bel clima italiano". Egli, infatti, pensava che esistesse una tradizione filosofica specificamente italiana - quella che dagli antichi eleatici si estendeva fino a T. Campanella, a G. Galilei, a G.B. Vico e a P. Galluppi - caratterizzata dal realismo conoscitivo, pur se limitato all'esperienza sensibile chiarificata dalla ragione. Una filosofia, questa, che il M. definiva "naturale" o anche "socratica" o "del buon senso" e che gli sembrava raggiungesse un risultato importante: "i dogmi del senso comune" potevano infatti essere elevati, con tale metodologia, a quel sapere certo e rigoroso che avrebbe espresso nei Dialoghi di scienza prima (Parigi 1846).
Nel 1847 il M. riuscì a porre finalmente termine all'esilio grazie alla decisione del re Carlo Alberto, che, conosciute le sue simpatie per casa Savoia, gli permise di rientrare in Italia e di stabilirsi a Genova, dove giunse il 10 febbraio.
Nel frattempo era stato eletto papa Pio IX, il quale aveva concesso il 6 luglio 1846 un'amnistia per i reati politici, permettendo ai congiurati del '31 il rientro nello Stato pontificio dietro una precisa domanda di grazia. Il M. però fu tra i pochi esuli che rifiutarono di rientrare in patria per una via considerata ingiusta e disonorevole, presupponendo essa l'ammissione di una colpa per la quale chiedere perdono, laddove il comportamento del '31 era solo il frutto di una legittima e moderna coscienza politica: quella nazional-liberale e costituzionale di contro al superato assolutismo regio.
Ciò nonostante egli ottenne nell'agosto 1847 un permesso di rimpatrio di soli tre mesi, grazie al quale il 23 settembre poté rimettere piede nello Stato; il permesso fu nuovamente concesso qualche tempo dopo in seguito all'improvvisa morte del fratello Giuseppe (21 dic. 1847). Fu precisamente in quell'occasione che le sorti del M. ebbero a subire una radicale svolta.
Si trovava infatti a Roma, osannato dai circoli liberali, quando il 29 apr. 1848 il pontefice denunciò, con la famosa allocuzione, la propria partecipazione alla guerra d'indipendenza nel frattempo combattuta nelle pianure lombarde. Nel clima di pericolosissima agitazione in cui Roma versava, Pio IX, in seguito alle dimissioni del governo in carica, si vide praticamente costretto dalla crescente pressione dei circoli popolari a invitare il M. - il cui nome veniva ormai fatto a gran voce - a dirigere come ministro degli Interni un nuovo governo. Il M. volle un governo composto per la prima volta tutto di laici e il 4 maggio lo varò a due precise condizioni: che sulla questione nazionale si continuasse sulla linea del ministero precedente e che la politica estera fosse distinta da quella religiosa e perciò affidata a un laico. Ma la svolta più radicale il M. la compì trasformando il regime assoluto e teocratico dei papi in un regime liberale, basato cioè sulla chiara distinzione fra potere spirituale e temporale, riservando quest'ultimo al governo e al Parlamento e restringendo la funzione politica del pontefice alla sola attività di capo - non responsabile - dello Stato. Una trasformazione, questa, proclamata dal M. il 9 giugno 1848 all'atto dell'apertura del nuovo Parlamento, ma accettata solo di mala voglia dal papa, che mai la perdonò al suo ministro. Fu, quello, indubbiamente il punto più alto della carriera politica del M., anche se da allora nella cerchia pontificia fu generalmente considerato come il ministro "traditore" di Pio IX e come il principale avversario del potere temporale.
Da parte sua, invece, il M. si considerò "l'iniziatore di una vita politica vera" nell'impolitica Roma papalina: egli presentò infatti alle Camere una serie di progetti di legge riguardanti l'ordinamento liberale e decentrato dello Stato, tendendo - come affermava nella Lettera a' suoi elettori di Pesaro - "all'acquisto di più larghe franchigie, svolgendo e applicando quelle già conseguite e avvezzando i popoli all'osservanza scrupolosa della legge del diritto" (Due lettere di T. Mamiani: l'una a' suoi elettori, l'altra alla santità di Pio IX, Roma, poi Genova 1849). In linea con la sua formazione di tipo democratico, presentò inoltre un disegno di legge relativo alla fondazione di un ministero della Pubblica beneficenza, volto alla "educazione del popolo minuto" e teso a "emendare e migliorare lo stato delle moltitudini più bisognose, scemarne le privazioni e i disagi, combattere da ogni banda le cagioni della indigenza, estirpare l'accatteria, stenebrare le menti, correggere gli animi e incivilirli" (Discorso al Parlamento, 26 giugno 1848). L'iniziativa, pur se certamente non nuova né estranea all'attività dei pontefici romani a favore dei poveri, vide tuttavia mutare la tradizionale impostazione caritativa, di carattere morale, in attività propriamente politica, intesa cioè come preciso dovere di un moderno Stato liberal-democratico.
L'ostilità di Pio IX al nuovo corso e soprattutto alla partecipazione alla guerra - portata avanti dal M. in forme costituzionali ma contro la notoria volontà del papa - nonché i rovesci militari subiti dalle truppe pontificie a Vicenza e dall'esercito sabaudo a Custoza segnarono, il 2 ag. 1848, la fine del suo governo.
Ancor più travagliata doveva comunque rivelarsi la successiva esperienza ministeriale, affidatagli dal pontefice pochi giorni dopo l'uccisione di Pellegrino Rossi (15 nov. 1848), nel tentativo di porre nuovamente riparo alla crescente pressione della piazza, che rendeva ingovernabile lo Stato: fu allora che Pio IX affidò al M. nel nuovo esecutivo - che riprendeva fra l'altro il programma del suo passato governo - il ministero degli Esteri. Anche questa volta il governo ebbe brevissima durata: fuggito nella notte tra il 24 e il 25 novembre a Gaeta, il papa nominò una Commissione governativa che sfiduciava il ministero e rendeva assai difficile la normale vita parlamentare, proprio mentre a opera dei rumorosi circoli democratici venivano aumentando in Roma le aspettative di una svolta antitemporalista e repubblicana. In tale situazione il Parlamento, in cui prevalevano ancora gli elementi liberalmoderati, decideva di dare vita a un organo collegiale di tre persone, la Giunta provvisoria, delegata in assenza del capo dello Stato a esercitarne le funzioni, a salvaguardare le libertà statutarie e anche a mantenere intatti i poteri e i diritti sovrani del pontefice. L'iniziativa non fu però bene accolta né dal papa, né da gran parte dei democratici; questi ultimi spingevano addirittura verso nuove elezioni per un'Assemblea costituente.
Presto la situazione precipitò: la Giunta provvisoria alla fine non solo propose il progetto della Costituente, ma sciolse anche d'autorità le Camere e si sostituì temporaneamente a esse, cercando nel frattempo di dare vita a un governo provvisorio con il compito di gestire le elezioni indette a suffragio universale per il 21 genn. 1849. Era questo un comportamento non certamente liberale, che, assunto sotto la pressione popolare e non privo del pericolo di una svolta autoritaria, il M., convinto sostenitore delle libertà costituzionali, non poteva accettare: di qui, dopo la denuncia della indebita soppressione del Parlamento, le dimissioni dalla carica di ministro degli Esteri e il rifiuto di entrare nel nuovo esecutivo varato il 23 dic. 1848.
Fra le due esperienze governative, intanto, il M. aveva dato vita il 10 ottobre a Torino - insieme con Gioberti - a una importante iniziativa: la formazione di "un congresso promovitore della Confederazione italiana" destinato a creare un progetto di legge federale, di tipo liberal-parlamentare, fra gli Stati della penisola allora costituzionali: una confederazione che avrebbe dovuto essere proclamata a Torino da una Costituente italiana appositamente eletta, dopo la ratifica del progetto di legge da parte dei singoli Parlamenti.
Nel corso del congresso, cui parteciparono le maggiori personalità favorevoli alla causa italiana, il M. svolse una funzione di prim'ordine, al punto da essere eletto presidente del congresso insieme con Gioberti e G.A. Romeo. Fu il tempo della sua maggiore notorietà e autorevolezza morale, anche se in seguito le condizioni militari e politiche resero impossibile l'attuazione del progetto.
Dopo le elezioni del 21 genn. 1849, l'Assemblea costituente romana sancì, il 9 febbraio, con due distinte votazioni, la fine del potere temporale dei papi e la nascita della Repubblica. Tali innovazioni, entrambe apertamente combattute dal M. in quanto nocive al mantenimento degli ordinamenti liberali in vista delle prevedibili reazioni militari di ordine internazionale, lo portarono a dimettersi da rappresentante parlamentare della città di Pesaro e a ritirarsi a vita privata, non volendo in alcun modo essere corresponsabile del fallimento di tante speranze: il che di fatto avvenne quando il pontefice chiese e ottenne l'intervento militare della Francia, dell'Austria, della Spagna e del Regno delle Due Sicilie.
Al M., che durante l'assedio dei Francesi avrebbe addirittura voluto espatriare e tornare a Genova, il Triumvirato diede una risposta secca: "Prenda un fucile e vada alle barricate". Cosa, questa, che egli - e con lui gli amici moderati - non si sentì di fare, convinto che la guerra avrebbe condotto a una completa restaurazione dell'assolutismo pontificio. Costretto a restare a Roma, suggerì al governo repubblicano di trattare con i Francesi sulla base di un ritorno al potere di Pio IX in cambio del mantenimento degli ordinamenti costituzionali. Tale soluzione era gradita alla Francia, che attraverso il suo ambasciatore a Napoli prese addirittura contatti in tal senso con il M., cercando di unire intorno al progetto la vecchia cerchia moderata. In effetti trattative private vi furono, anche se non pervennero ai risultati sperati.
Fu, questo, l'ultimo contributo che il M. ritenne di offrire alla causa romana e, in prospettiva, a quella nazionale, destinate ambedue a essere irrimediabilmente compromesse - pensava - qualora gli Austriaci fossero entrati nello Stato della Chiesa. I responsabili del governo repubblicano, però, non ne vollero sapere e seguirono le vie dell'intransigenza, finendo per capitolare e spianando così la via alla restaurazione. Come dal M. previsto, i Francesi non riuscirono a far prevalere la moderazione e gli Austriaci finirono per diventare i vincitori della guerra e i protettori del restaurato assolutismo.
Quanto al M., non trasse alcun giovamento dalla moderazione e dal realismo politico che aveva dimostrato, divenendo anzi oggetto di un'accesa campagna denigratoria: i moderati lo accusarono di eccessivo protagonismo; i repubblicani gli rimproverarono le trattative col nemico e il disimpegno bellico; e i clericali videro in lui il responsabile primo dell'esilio di Pio IX e della proclamazione della Repubblica, additandolo addirittura come apostata dalla fede cattolica. La giunta cardinalizia, infine, appena insediata a Roma dopo la caduta della Repubblica, pensò bene di estradarlo dal territorio pontificio nel giro di 48 ore (25 luglio 1849).
Riparato a Genova per concessione del primo ministro piemontese M. d'Azeglio, il M. dette inizio a quello che avrebbe definito il suo "secondo esilio". Pur essendo l'emigrato di maggior spicco tra la folta schiera degli esuli politici, ottenne la cittadinanza sarda solo nel 1855 grazie al personale interessamento di C. Cavour, che lo volle poi al suo fianco in Parlamento, malgrado lo sapesse legato alla sinistra rattazziana. Eletto al Parlamento subalpino dal V collegio di Genova nelle elezioni del 1856, il M. si schierò subito a fianco di Cavour, che ricambiò i suoi consigli politici facendo di lui il portavoce parlamentare della maggioranza governativa, nominandolo ordinario di filosofia della storia nell'Università di Torino e designandolo alla funzione di corrispondente del Daily News per le cose italiane, nel tentativo di guadagnare alla causa italiana le simpatie dei lettori inglesi. Soprattutto, Cavour vide in lui l'uomo capace di dare credito e autorevolezza nel Paese e in Parlamento alla propria svolta politica, che, maturata dopo la guerra di Crimea nel corso del congresso di Parigi del 1856, ottenne nella tornata del 7 maggio l'approvazione a grande maggioranza della Camera sotto forma di un aperto programma nazionale italiano. Il M. contribuì in maniera decisiva al successo di quel programma, presentato come liberale, sabaudo, moderato e a "egemonia" piemontese.
Si trattò certamente di una svolta storica per le sorti del Regno di Sardegna e dell'intera penisola: in seguito a essa infatti "il Piemonte pigliava apertamente a patrocinare la patria comune e ad approfittare d'ogni occasione prontamente e gagliardamente" per "intervenire quind'innanzi con l'arme dovunque l'Austria pure con l'arme osasse d'intervenire" (T. Mamiani, Minuta di discorso, 28 giugno 1856).
Più in generale, in Parlamento il M. ebbe una preziosa funzione di mediazione tra i due poli della maggioranza governativa, quello cavouriano più moderato e quello rattazziano più combattivo e popolare: il che gli permise anche atteggiamenti dissonanti nei confronti della stessa politica cavouriana. Del resto, pur nella piena lealtà a Cavour, il M. non fece mai mistero di avere anche una propria strategia risorgimentale, certamente non antagonista né alternativa a quella del primo ministro, ma dalle aperture non del tutto coincidenti. Egli infatti, più e prima della linea diplomatica perseguita dal presidente del Consiglio - considerata peraltro anche da lui necessaria -, avrebbe preferito promuovere una linea di azione meno legata alla Francia e più aperta invece a un'alleanza Torino-Napoli o Torino-Firenze, secondo le suggestioni albertine dell'"Italia farà da sé".
Al tempo della guerra del 1859 il M. svolse invece con successo, grazie alla sua personale ascendenza presso i patrioti romani, il compito affidatogli da Cavour di impedire rivoluzioni a Roma, nella comune convinzione che esse avrebbero finito per danneggiare gravemente le sorti dell'Italia centrosettentrionale. Dopo la pace di Villafranca si segnalò quale deciso sostenitore delle annessioni al Piemonte dei Ducati padani, delle Legazioni pontificie e della Toscana, contro la linea attendista e incerta del governo e del re. Tra la fine del 1859 e l'inizio dell'anno successivo fu inoltre l'artefice primo del ritorno di Cavour al potere (16 genn. 1860).
Per quanto riguarda la sua attività di scrittore, va ricordato che nel 1850 egli aveva dato vita in Genova a un'Accademia di filosofia italica, nella convinzione che dopo la delusione del generale fallimento del '48 fosse necessario tornare all'educazione etico-politica degli Italiani. A tale scopo aveva dato alle stampe alcune importanti opere, tra le quali gli Scritti politici (Firenze 1853) e le Poesie (ibid. 1857), che ottennero finalmente vasto successo di pubblico in tutta la penisola. Particolare fortuna incontrò la monografia D'un nuovo diritto europeo (Torino 1859), edita a più riprese in Italia e subito tradotta con successo in francese e in inglese.
La si può considerare a ragione una diretta espressione dei complessi problemi di diritto internazionale scaturiti dalla seconda guerra d'indipendenza e, nella sostanza, una codificazione giuridica della ormai matura coscienza nazionale italiana, portata a livello di paradigma politico e culturale per la moderna civiltà europea, sulla base del concetto di autodeterminazione dei popoli, del rifiuto delle armi straniere quale mezzo di soluzione dei problemi interni degli Stati e dell'abbandono dell'ormai superata politica viennese del 1815.
Nel gennaio 1860 Cavour, tornato al potere, assegnò al M. il ministero della Pubblica Istruzione, nell'intento di realizzare una rivoluzionaria trasformazione del dicastero. Egli infatti aveva deciso di porre termine al tradizionale impianto della scuola piemontese, fondato su un rigido centralismo burocratico e didattico, e di dare vita a una scuola ormai "italiana" e aperta a principî di chiara ispirazione federale, decentrando le competenze, lasciando la programmazione educativa e didattica ai vecchi territori, garantendo la libertà di insegnamento e riservando al ministero solo pochissime attribuzioni di carattere generale. Il piano fu perseguito dal M. riformando in parte la legge Casati del 13 nov. 1859, ma non incontrò l'assenso del Parlamento, che lo giudicò insufficiente nei confronti degli ormai prevedibili mutamenti politici della penisola. Egli allora dette mano a una riforma organica e federale dell'intero comparto scolastico, in stretto collegamento con l'analoga riforma dello Stato, che nel frattempo stava elaborando il ministro degli Interni M. Minghetti.
Neppure questa volta però la sua attività ebbe buon esito: l'impresa garibaldina del 1860 e poi le difficoltà incontrate dall'amministrazione nell'ex Regno borbonico sconsigliarono l'attuazione del progetto federale, sentito come troppo pericoloso per l'ancor fragile unità italiana. Fu così che finirono nel nulla sia il piano di Minghetti bocciato alla Camera, sia la riforma del M., mai portata alla discussione in aula. La sua attività di ministro si ridusse dunque soprattutto a rendere praticamente esecutiva la legge Casati: indubbiamente troppo poco rispetto alle speranze che aveva nutrito nei quattordici mesi di permanenza al ministero, conclusasi il 23 marzo 1861 non senza lasciare l'impressione di un sostanziale fallimento.
Lasciato il governo, il M. fu avviato da Cavour alla carriera diplomatica, nella quale ricoprì dapprima l'incarico di ministro plenipotenziario del Regno d'Italia in Grecia (1861-63) e nella Confederazione Elvetica (1866). Nel frattempo era stato nominato senatore del Regno (13 marzo 1864) e in tale veste, una volta dimessosi per motivi di salute dalla carriera diplomatica (1867), ebbe ancora una parte di rilievo come ascoltato e ricercato consigliere del governo Lanza in occasione della presa di Roma. Fu poi, nell'aprile 1871, relatore dell'ufficio centrale in Senato per la cosiddetta legge delle guarentigie, l'atto legislativo e politico più importante del nuovo Regno, tenendo una via mediana fra le istanze dei radicali giurisdizionalisti e anticlericali, sostenitori della estensione del puro e semplice diritto comune alla Chiesa, e quelle dei cattolici intransigenti legati all'idea dello Stato confessionale e della libertà giurisdizionale della Chiesa. Prevalse alla fine la tesi del M. - che dopotutto era anche quella del governo in carica - volta a rifiutare un concetto di Stato sia ateo o laico, sia confessionale, e a proclamare invece la realtà di uno Stato "incompetente" nelle questioni ecclesiastiche: non estraneo né indifferente ai sentimenti religiosi dei cittadini, ma neppure legato a fedi o a culti particolari.
L'ultima parte della lunga esistenza del M. fu particolarmente ricca di riconoscimenti e di onori: fu membro del Consiglio di Stato, vicepresidente del Senato, vicepresidente del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione (1868-84) e membro del Consiglio del contenzioso diplomatico. Nel 1872 Roma gli concesse la cittadinanza onoraria insieme con Alessandro Manzoni e Gino Capponi e lo elesse consigliere comunale a vita.
Molto intensa fu la sua attività di studioso, soprattutto nell'ambito della filosofia, disciplina nella quale si segnalò come il più accreditato pensatore spiritualista dell'epoca, rimanendo fedele a un sistema che egli continuò sempre a ritenere tipico della cultura italiana, pur se ormai variamente criticato dal sempre più diffuso hegelismo tedesco, che egli considerava invece estraneo alla sensibilità latina. Sintesi del suo pensiero filosofico furono i due ponderosi volumi editi nel 1865 a Firenze col titolo Confessioni di un metafisico (la prima edizione era apparsa nel 1850), in cui egli presentava il suo definitivo sistema di ontologia e di cosmologia.
L'opera segnò la svolta radicale e definitiva del M. dalla filosofia socratica al cosiddetto "platonicismo italiano": una filosofia contraria al pensiero kantiano e rosminiano - fondato sul concetto di conoscenza intesa come una sintesi a priori della ragione - e imperniato invece sulla convinzione che le idee, di per sé eterne e universali, non derivano "dai sensi ma dall'avvisare il contrario di quello che sono essi; e vale a dire, negando la finità, la volubilità e la contingenza loro; il che subito porge il concetto dell'universale, del necessario e dell'immutabile" (ibid., p. 59). Era, come si vede, una ripresa dello spiritualismo platonico, che il M. divulgò tenacemente nella rivista La Filosofia delle scuole italiane, da lui fondata a Firenze nel 1870 e diretta fino alla morte.
Nell'ultimo ventennio di vita l'interesse fondamentale del M. divenne la cosiddetta questione cattolica, che egli avrebbe voluto - pur restando fedele al corpo dogmatico della Chiesa - rinnovare e conciliare sia con le esigenze critiche e metodologiche della ragione laica e scientifica, sia con quelle della nascente filologia storico-biblica franco-tedesca, sia infine con quelle della tolleranza per le inevitabili diversità di pensiero e di culto dei credenti. Esigenze, queste, che contrastavano con le dichiarazioni del Sillabo di Pio IX (1864) e più ancora con il dogma dell'infallibilità pontificia affermato dal concilio Vaticano I (1870-71) e da lui considerato sempre come una "enormità" e come una deviazione dalla tradizione cattolica. Tutto ciò finì naturalmente per orientarlo verso soluzioni ai confini o oltre l'ortodossia, verso il libero pensiero della massoneria e del cristianesimo unitariano americano.
Mosso dalle sue profonde esigenze di carattere religioso, si dedicò anche alla riflessione sul problema operaio, alla luce delle proprie convinzioni democratiche e in una linea mediana tra le istanze del socialcomunismo, cui mai aderì, e quelle dell'imperante liberismo, che egli volle temperato da un forte intervento dello Stato, scandalizzando con ciò i suoi vecchi amici liberali e gli organi culturali della Chiesa, che lo accusarono ingiustamente di comunismo.
Il M. morì a Roma il 21 maggio 1885 ed ebbe funerali di Stato e sepoltura in Pesaro.
Tre furono i meriti che sempre gli furono riconosciuti: l'attività educativa ai valori della libertà morale e civile, alla formazione della coscienza nazionale e all'indipendenza della patria dagli stranieri; il decisivo contributo alla valorizzazione della cultura e della lingua italiana, sentita come conditio sine qua non della legittimità del processo risorgimentale; l'impegno di riorganizzazione degli studi, per inserire l'Italia nell'Europa più avanzata. Il centro della sua complessa attività politica e intellettuale fu però il forte senso della libertà dei popoli e delle coscienze individuali: una libertà, che egli volle - a suo dire - come altri e più di altri, in tutto e per tutto, in quanto fine dell'intera sua vita e anima di ogni suo scritto. Fu anche deciso fautore dell'emancipazione civile e morale degli ebrei e delle culture subalterne in Italia come in Europa; fu inoltre sostenitore del risorgimento greco, polacco e ungherese e difensore della libertà degli Egiziani contro il colonialismo inglese così come fu contrario a ogni colonialismo, da lui definito espressione di rinnovata barbarie e di decadenza del senso morale. Difensore dei diritti dell'infanzia e della libertà civile e intellettuale delle donne, il M. si segnalò come uno fra i primi teorici della lotta al pauperismo industriale in Italia, sentito da lui come il più grave problema dei tempi moderni. In tutto ciò egli tradusse il profondo senso religioso del suo cattolicesimo liberale, vissuto come religione civile, lontana dal ritualismo della pietà devozionale ottocentesca, tutta interiorizzata, e aperta invece alla dimensione pubblica e politica.
Fonti e Bibl.: Il Fondo Mamiani - comprendente diari, articoli, lettere, opuscoli, pensieri filosofici e politici, minute di lezioni, discorsi, componimenti letterari -, quasi completamente inedito, è conservato presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro, distinto nelle serie: Lettere a T. M.; Carte di T. M.; Archivio di casa Mamiani (cfr. G. Vanzolini, Le carte di T. M. nell'Oliveriana di Pesaro, Pesaro 1896); I. Zicari, Catalogo del fondo "Comunale" Mamiani della Biblioteca Oliveriana. (Lettere ricevute da T. M. dal 1832 al 1885), in Studia Oliveriana, VIII-IX (1960-61), pp. 1-171. Poche sono le fonti edite: fra queste il Précis politique sur les derniers événements des États romains, ibid., n.s., V (1985), pp. 141-185 e i due volumi di Lettere dall'esilio, I, 1831-1845, e II, 1846-1849, a cura di E. Viterbo, Roma 1899. Elencano gli scritti e le fonti edite: L. Ferri, Commemorazione di T. M., Roma 1886, pp. 20-26; Indice delle opere che furono pubblicate dall'illustre filosofo pesarese conte T. M. D., Pesaro 1887, pp. 5-13; Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, I, Firenze 1971, pp. 210-213, in cui figura un'ampia bibliografia degli studi sul M. (aggiornamenti nella Bibliografia dell'età del Risorgimento 1970-2001, I, Firenze 2003, p. 337). Tra le biografie sul M.: G. Saredo, T. M., Torino 1860; G. Mestica, Su la vita e le opere di T. M.: discorso pronunziato nell'Università di Palermo (6 giugno 1885), Città di Castello 1885; P. Sbarbaro, La mente di T. M., Roma 1886; D. Gaspari, T. M. D., Ancona 1888; N. Bianchi, Della vita e delle opere di T. M., Pesaro 1896; T. Casini, La gioventù e l'esilio di T. M., Firenze 1896; M. Pincherle, Moderatismo politico e riforma religiosa in T. M., Milano 1973; E. Morelli, Premessa, in Studia Oliveriana, n.s., V (1985), pp. 7-10; G. Ciampi, T. M. e i problemi internazionali del suo tempo, ibid., pp. 97-136; R. Ugolini, M. e Cavour nel decennio di preparazione, ibid., pp. 55-95; A. Brancati - G. Benelli, Divina Italia. T. M. D. cattolico liberale e il risorgimento federalista, Pesaro-Ancona 2004 (con aggiornamenti bibliografici).