MASTROIANNI, Marcello
– Nacque a Fontana Liri, in Ciociaria, il 28 sett. 1924 da Ottorino e da Ida Irolle, casalinga ed ex impiegata alla Banca d’Italia.
Seguendo gli spostamenti della famiglia, il M. iniziò le elementari a Torino (dove nacque il 7 nov. 1929 il fratello Ruggero, divenuto uno dei migliori montatori cinematografici italiani) e le concluse a Roma, dove il padre aveva aperto una bottega di falegname ebanista. Iscritto all’istituto di avviamento professionale Duca d’Aosta nel quartiere Tuscolano, assecondò la precoce e profonda passione per la recitazione presentandosi ai set di Cinecittà per essere arruolato come comparsa.
Tra il 1938 e il 1943 riuscì, pertanto, a essere coinvolto nelle riprese di film come Marionette di C. Gallone, La corona di ferro di A. Blasetti, Una storia d’amore di M. Camerini e soprattutto I bambini ci guardano, per il quale si fece raccomandare dalla madre – che ne aveva conosciuto la sorella Maria – a V. De Sica, per cui aveva una grande ammirazione.
Intanto, conseguito il diploma di perito edile, si iscrisse alla facoltà di economia e commercio e, per mantenersi agli studi, lavorò prima come disegnatore al Comune di Roma e poi si fece assumere dall’Istituto geografico militare di Firenze, il quale però, dopo gli eventi dell’8 sett. 1943, fu dislocato a Dobbiaco sotto il controllo dei Tedeschi. Nell’imminenza di un trasferimento in Germania, il M., nel 1944, fuggì con un lasciapassare falso a Venezia dove sopravvisse vendendo quadri e schizzi dell’amico pittore R. Brindisi. A Liberazione avvenuta fece ritorno a Roma, dove trovò lavoro come contabile alla Eagle Lion Films, casa di distribuzione del gruppo Rank, e poté continuare a dare sfogo alla sua vocazione iscrivendosi al Centro universitario teatrale (CUT). Nel febbraio 1948, mentre recitava insieme con l’amica Giulietta Masina nella commedia satirica Angelica di L. Ferrero, fu notato da E. Amendola, amministratore della compagnia diretta da L. Visconti, che cercava un ragazzo per il cast di Rosalinda o Come vi piace di W. Shakespeare; dopo uno sbrigativo incontro con il regista e con il suo assistente F. Zeffirelli in una sala da tè di piazza di Spagna, il M. fu scritturato per la prima volta regolarmente e iniziò le prove, senza peraltro rinunciare a una serie di particine (ottenute grazie all’interessamento della Masina) negli allestimenti estivi della compagnia Besozzi-Pola-Scandurra-Cei. Il debutto della commedia al teatro Eliseo, il 26 novembre successivo, segnò, in effetti, l’inizio di un’intensa militanza teatrale che lo tenne legato a Visconti, con l’esclusione di brevi periodi, sino a tutto il 1956.
Un apprendistato oltremodo prestigioso, come ebbe a dichiarare in seguito: «Certo, nel teatro, entrai dalla porta d’oro. La compagnia diretta da Visconti era probabilmente la più importante di quegli anni: c’erano Rina Morelli, Paolo Stoppa, Vittorio Gassman […]. Recitai in Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams; nella Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller; nella Locandiera di Goldoni; nello Zio Vanja di Cechov. E sempre di Cechov facemmo Le tre sorelle, spettacolo rimasto leggendario, dove io avevo il ruolo di Solenyj […]. Quelli furono certamente gli anni che mi hanno formato. La disciplina di Visconti, la sua grande esigenza, il suo perfezionismo (ma da artista!); i consigli ricevuti dai miei colleghi, specie da Rina Morelli, che mi proteggeva come una mammina: se so fare qualcosa, credo che lo devo molto a loro» (Mastroianni, 1997, p. 47).
Il 12 ag. 1950 il M. sposò, dopo un breve fidanzamento, la giovane collega Flora Carabella, figlia del musicista Ezio Carabella, e il 2 dicembre dell’anno successivo nacque la figlia Barbara. Se non c’è dubbio che il giovane M., un timido di natura che in fondo si vergognava del proprio esibizionismo di attore, divenne professionista grazie ai ruoli interpretati sul palcoscenico, spesso accanto a partner del calibro di Paola Borboni, G. De Lullo, Rossella Falk o G. Tedeschi, i concomitanti impegni per il cinema stavano diventando sempre più gravosi e pressanti.
Nello stesso arco di tempo degli spettacoli viscontiani, infatti, prese parte a un numero incredibile di pellicole, passando in rapida progressione dai ruoli minori (spesso disbrigati in quattro o cinque giorni di lavoro sul set) a quelli di protagonista e rendendo familiari a un pubblico più vasto e non specializzato la sua presenza a un tempo concreta e leggera, il suo charme ironico e misurato e (quando si cominciò a non doppiarlo) la sua bella voce pastosa. È interessante notare come l’ascesa del M., un «bello» assai distante dal modello in voga dei vari A. Nazzari, R. Vallone o M. Serato, coincise con la rimonta della produzione nazionale, di un cinema nutrito dell’esperienza neorealista che riusciva, peraltro, ad allargare la sua presa popolare e a sfruttare meglio le sue chances spettacolari.
Alle prestazioni tramandate dagli ingenui ed enfatici Cuori sul mare (1950, regia: G. Bianchi), Contro la legge (1950, F. Calzavara), Tragico ritorno (1952, P.L. Faraldo), Penne nere (1952, O. Biancoli), Schiava del peccato (1954, R. Matarazzo), La principessa delle Canarie (1955, P. Moffa) o Tam-Tam Mayumbe (1955, G.G. Napolitano) si alternarono, così, i credibili personaggi del fidanzato dell’aspirante attrice Cosetta Greco in Il viale della speranza di D. Risi (1953), della vittima di una banda di giovani della jeunesse dorée in Febbre di vivere di C. Gora (1953), del coraggioso fruttivendolo antifascista in Cronache di poveri amanti di C. Lizzani (1953), del furbesco innamorato della compaesana Marina Vlady in Giorni d’amore di G. De Santis (1954). I più proficui risultati del periodo furono raggiunti grazie a L. Emmer e A. Blasetti che lo diressero più volte.
In Una domenica d’agosto (1950), dove indossava la divisa bianca del vigile urbano, Parigi è sempre Parigi (1951) e Le ragazze di piazza di Spagna (1952) del primo, il M. ribadì l’immagine del bravo ragazzo di umile censo, sprovveduto, ingenuo, occasionalmente portato all’ira ma in fondo bonario e fedele; mentre nell’episodio Il pupo di Tempi nostri (1954), Peccato che sia una canaglia (1954) e La fortuna di essere donna (1955) del secondo, perfezionò il timbro di sorniona naturalezza nell’impatto con le forti personalità femminili di Lea Padovani e soprattutto Sophia Loren, destinata a diventare, per affiatamento ed esuberanza, la sua partner ideale.
Ormai ampiamente affermato (avendo, tra l’altro, vinto una Grolla d’oro per Peccato che sia una canaglia e un Nastro d’argento per Giorni d’amore), abbandonò il teatro e si consacrò al cinema, cercando di variare sempre di più le prerogative dei personaggi: a tale proposito apparvero a critica e pubblico decisamente mature le incarnazioni del M. nell’operaio deluso perché senza figli di Padri e figli (1957) di M. Monicelli, nel piccolo borghese intimidito e spaesato dell’ambiziosa trascrizione da F.M. Dostoevskij Le notti bianche (1957), per il quale era tornato a lavorare con Visconti, o nel picaresco e donnaiolo imbonitore padano di Un ettaro di cielo (1958) di A. Casadio. Particolarmente significativa fu poi la sua partecipazione a I soliti ignoti (1958) di Monicelli.
Aggregato al manipolo degli incapaci ladruncoli che tentano un’impresa più grande di loro, il disgraziato fotografo con famigliola a carico interpretato dal M. contribuì infatti all’originalità delle invenzioni, alla pertinenza dei bozzetti e al brio del racconto.
Il rapporto tra il M. e F. Fellini, che fu di duratura e intensa amicizia oltre che di formidabile collaborazione, iniziò nel 1960 con La dolce vita.
Il regista lo impose per il ruolo di protagonista al primo produttore del film, D. De Laurentiis (poi subentrò A. Rizzoli), che voleva a ogni costo P. Newman sia per ragioni commerciali sia perché aveva individuato il M. come ex fidanzatino della moglie Silvana Mangano (quando i due, nella prima giovinezza, abitavano nello stesso quartiere romano, a via Enna). Già la lavorazione, che durò all’incirca sei mesi, fu un’esperienza eccezionale perché gli consentì di calarsi in un ambiente, quello degli habitués e dei «paparazzi» di via Veneto, che non conosceva affatto; ma fu proprio l’immedesimazione nel giornalista disilluso e nauseato Marcello Rubini – il personaggio-guida del viaggio, in apparenza caotico ma in realtà studiatissimo, nel microcosmo affascinante e corrotto dell’aristocrazia e della borghesia della capitale – a segnare indelebilmente la sua personalità prima ancora dell’immenso successo ottenuto e delle roventi polemiche accese dal film: «Il fatto strano, per chi ricorda la faida apparentemente insanabile che negli anni Cinquanta divise felliniani e viscontiani, è che Mastroianni apparteneva totalmente al partito avverso […]. Tirato su dal conte Visconti, ex allenatore di cavalli, con le durezze riservate a un purosangue, Mastroianni nella cerchia di Fellini scoprì disimpegno e allegria» (Kezich, 1997, p. 6). Un altro tema del film affidato al protagonista fu quello dell’indispensabile, tormentoso, eccitante rapporto con le donne, incarnate dalla possessiva e materna fidanzata Emma (Yvonne Furneaux), dalla ricca e perversa amante Maddalena (Anouk Aimée) e dalla giunonica, carnale diva americana Sylvia interpretata da Anita Ekberg, con la quale intrecciava deliziosi duetti di seduzione (tra cui quello mitico tra gli scrosci della fontana di Trevi). In effetti, mentre la «dolce vita» iniziava a indicare per antonomasia un modo edonistico d’intendere l’esistenza, il M., in un tripudio di premi (tra cui il Nastro d’argento), articoli, fotografie, pettegolezzi, emerse sulla scena internazionale come attore del momento e icona del latin lover.
Al culmine del successo si ripropose subito in numerosi film d’autore, spaziando ormai con grande sicurezza e distratto sex-appeal tra il giovane catanese impotente di Il bell’Antonio di M. Bolognini (1960), lo scrittore in crisi di La notte di M. Antonioni (1961) – del quale lamentò la scarsa comunicativa –, l’impomatato barone Cefalù del capolavoro satirico Divorzio all’italiana di P. Germi (1961) – grazie al quale ricevette la nomination all’Oscar – e il giornalista che rievoca teneramente lo scomparso fratello minore di Cronaca familiare di V. Zurlini (1962). Da maggio a ottobre del 1962 fu impegnato nelle riprese di 8 ½.
Il film, espressione della maturità creativa di Fellini, lo elesse definitivamente ad alter ego del regista, provvisto di tutte le sue doti, le sue curiosità e i suoi vizi. Il suo vero contenuto – al di là della trama vagamente incentrata su un cineasta in crisi – fu infatti una sorta di seduta psicanalitica per immagini, ricavata dalla «fitta trama dei rapporti del protagonista Guido […] con la moglie e l’amante, con l’ambiente di lavoro e gli estranei, con i guru della Chiesa e della critica, col passato e l’avvenire, con se stesso» (Il Morandini. Diz. dei film, s.v. 8 ½). La recitazione del M., abbigliato con un grande cappello in testa e gli occhiali cerchiati di scuro, fu frizzante e istrionica, «spiritualmente», oltre che fisicamente, consona all’inimitabile universo felliniano; come sintetizzava l’emblematica sequenza di Guido che – assediato dalla gelosia della moglie e dal narcisismo dell’amante – si rifugia nell’harem, dove tutte le donne della sua vita, finalmente rasserenate, si prendono cura di lui e gli fanno il bagno in un enorme mastello.
Sull’intesa con Fellini si sono versati fiumi d’inchiostro ed è stata tramandata ogni sorta di aneddoti – come quelli della passione per le automobili di lusso, che li indusse per tanti anni a una costosissima sfida o dell’inesauribile vocazione agli scherzi più fanciulleschi – ma i concetti più originali furono espressi dal regista nella prefazione a M. M. Il gioco del cinema di M. Hochkofler: «Io e Marcello, ci si vede pochissimo. A parte naturalmente quando giriamo un film insieme. Forse anche questo è uno dei motivi della nostra amicizia: un’amicizia che non pretende, che non obbliga, che non condiziona, che non stabilisce regole, confini. Una vera, bella amicizia basata su una totale, reciproca sfiducia» (p. 11).
Nell’ottobre 1962 il settimanale statunitense Time gli dedicò un importante servizio come divo straniero più popolare negli USA, ma il M. continuò a primeggiare nei film dei registi italiani, che sceglieva, peraltro, senza fare troppe distinzioni tra quelli già autorevoli e quelli solo promettenti. A I compagni (1963) di Monicelli, in cui fu un pittoresco agitatore socialista di fine Ottocento, seguì il fortunato sodalizio con De Sica, per il quale interpretò Ieri, oggi, domani (1963), Matrimonio all’italiana (1964), Amanti (1968) e I girasoli (1969), raggiungendo uno strepitoso successo soprattutto con i primi due, che consacrarono la coppia Loren-Mastroianni in cartellone per undici titoli in quarant’anni.
«Con Sofia non c’è mai stato nulla di sentimentale, di privato, ma è davvero la persona cui voglio più bene, quella con cui mi sono più inteso. Basta uno sguardo, e ci capiamo» (M. Porro, in Corriere della sera, 20 dic. 1996, p. 5).
Il M. più disinibito, quello che aveva regalato al pubblico la fatidica scena del giovanotto bolognese estasiato dallo spogliarello di Sophia, ragazza squillo nell’episodio Mara di Ieri, oggi, domani, si trasformò in seguito nel fantascientifico assassino di La decima vittima di E. Petri (1965), nel paranoico industriale di L’uomo dei palloni di M. Ferreri (girato nel 1965, ridotto nello stesso anno a un episodio di Oggi, domani, dopodomani e infine proiettato in versione integrale e con il titolo di Break-up quattro anni più tardi in Francia), nello stralunato protagonista di Spara forte, più forte… non capisco! di E. De Filippo (1966) e nell’abulico pied-noir Meursault di Lo straniero (1967) di Visconti. Mentre con quest’ultimo, però, la rentrée non si rivelò felice, la sintonia con il sulfureo Ferreri fu immediata e predispose ulteriori e fortunate collaborazioni.
Nel 1965, intanto, decise di imparare a cantare e ballare per interpretare un musical sulla vita di Rodolfo Valentino, scritto per lui da Garinei e Giovannini con L. Magni e corredato delle musiche di A. Trovajoli: Ciao, Rudy.
Lo spettacolo andò in scena al Sistina il 7 genn. 1966 e, a dispetto di molte critiche malevole e della conclamata ostilità del geloso Fellini, totalizzò una trionfale serie di repliche con il tutto esaurito. Suscitò, quindi, una notevole eco la repentina decisione del M. di pagare un’enorme penale per non portare le repliche dello show (in cui una tribù di ottime attrici, da Olga Villi a Giuliana Lojodice, da Tina Lattanzi a Paola Pitagora, da Paola Borboni a Giusy Raspani Dandolo, ruotava attorno all’amante fatale e ballerino di tango) a Milano: Fellini dichiarò in proposito che il «vecchio Snàporaz» (come chiamava l’amico) lo aveva fatto perché non si sentiva d’insistere su una scelta sbagliata, mentre il M. sostenne di essersi liberato proprio per rendersi disponibile per il nuovo film di Federico, Il viaggio di G. Mastorna, destinato a restare sulla carta per sempre.
Il primo film girato in inglese (senza, peraltro, che il M. conoscesse la lingua) fu il divertente giallo-rosa Diamanti a colazione (Diamonds for breakfast) di C. Morahan (1968), ma all’epoca il M. – insignito nel 1967 dell’onorificenza di commendatore al merito della Repubblica – polarizzava l’interesse dei rotocalchi soprattutto per il flirt con la diva americana Faye Dunaway, conosciuta sul set di Amanti.
Anche se combatté sempre contro il cliché d’inguaribile seduttore, non si può negare che le donne nella sua vita furono tante e importanti, in un intreccio che spesso confuse i confini del grande schermo con quelli della realtà (nella quale, tra l’altro, non volle mai divorziare dalla Carabella).
Presente nel cast di I soliti ignoti, all’esordio del lungo cammino della commedia all’italiana, il M. ne contrassegnò la fase discendente con le convinte partecipazioni a Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca (1970) e Permette? Rocco Papaleo (1971) di E. Scola e La moglie del prete (1970) e Mordi e fuggi (1973) di D. Risi: l’interpretazione più riuscita del lotto – tanto da fargli guadagnare la Palma d’oro al festival di Cannes del 1970 – fu quella del rozzo proletario Oreste di Dramma della gelosia, che prende la vita come uno scadente fumetto e le cui pene d’amore sono grottescamente riflesse nell’ortodossia comunista. Dopo Leone l’ultimo (Leo the Last) di J. Boorman (1970) che gli offrì un trasognato personaggio di aristocratico convertito a paladino del popolo, girò … Correva l’anno di grazia 1870, un film per la TV di A. Giannetti (1971).
In quest’ultimo recitò al fianco di Anna Magnani per la prima e ultima volta (l’attrice scomparve improvvisamente a settembre del 1973): «Mi dispiace per le mie colleghe, ma l’emozione che ho provato con la Magnani è unica. Non si può commentare la grandezza e l’intelligenza di Anna Magnani come attrice» (Fava-Hochkofler, p. 28).
Nel corso del 1971 si trasferì a Parigi, per interpretare lo straziante Tempo d’amore (Ça n’arrive qu’aux autres) di Nadine Marquand Trintignant (1972) insieme con la bellissima Catherine Deneuve con la quale aveva iniziato una relazione: dalla coppia, protagonista del corrosivo e sensuale apologo La cagna di Ferreri, del 1972, il 28 maggio di quell’anno nacque la figlia Chiara. Parigi, in effetti, divenne la seconda città del regista e grazie al taciturno e caustico Ferreri, un altro artista che il M. amava frequentare al di fuori del mestiere, coltivò questa «francesità» acquisita nella nichilistica parabola del cibo e del sesso di La grande abbuffata (1973) e nella sgangherata demistificazione del western di Non toccare la donna bianca (1974). È inevitabile notare come l’inesausta operosità del M. – connessa alla proverbiale prodigalità nella gestione dei cospicui guadagni – s’intrecciò fin quasi a coincidere con la storia del cinema italiano, incrementando una filmografia dove la quantità non va peraltro a scapito della qualità. Basti pensare ai ruoli cesellati in Allonsanfan di P. e V. Taviani (1974), La divina creatura di G. Patroni Griffi (1975), Todo modo di Petri (1976), Una giornata particolare (1977) e La terrazza (1980) di Scola, Ciao maschio ancora di Ferreri (1978).
Tra questi ultimi restano memorabili il ruolo del sadico prete direttore degli esercizi spirituali che un gruppo di notabili democristiani esegue in un hotel sotterraneo in Todo modo e soprattutto quello – onorato da una nuova nomination all’Oscar – dell’umiliato omosessuale che, nella fatidica giornata della visita di A. Hitler a Roma (6 genn. 1938), vive un breve, intenso intermezzo di confidenza e amore con la sfiorita casalinga vicina di casa, interpretata dalla Loren, in Una giornata particolare.
La dodicesima replica della coppia Loren-Mastroianni risultò più fortunata di quella che lo vide riunirsi, oltre quindici anni dopo, al «suo» regista: Fellini decise, infatti, di affidargli il ruolo del protagonista in La città delle donne (1980), una sfrenata ma alquanto manieristica esplorazione del pianeta donna all’epoca del femminismo: stavolta il M. non riuscì a conferire al personaggio del maschio fuggiasco e sotto accusa nulla più di un’ammiccante curiosità, una strisciante apprensione e una svagata fragilità.
Negli anni Ottanta e Novanta il M. vide aumentare a dismisura i riconoscimenti: un altro titolo di migliore attore al festival di Cannes (1987, per Oci ciornie di N. Mikhalkov), un’altra nomination agli Oscar per lo stesso film (1988), il premio Felix alla carriera (1988), la coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile alla mostra di Venezia (1989, per Che ora è? di Scola), il Leone d’oro alla carriera ancora alla Mostra (1990), una nutrita serie di David di Donatello e Nastri d’Argento e una seconda onorificenza al merito della Repubblica, stavolta quale cavaliere. Fedele alla classe innata e al sottotono adottato sin dagli inizi del mestiere – da attore, come fu detto, «tanto grande da non accorgersene per niente» – il M. non mutò tuttavia d’abitudini e continuò a dedicarsi ai film con l’affettuosa cura di un artigiano specializzato, orgoglioso ma modesto.
Tra i personaggi più indovinati si segnalarono il commercialista stregato dai ricordi di Fantasma d’amore di D. Risi (1981), il napoletano pacioso antagonista di J. Lemmon di Maccheroni di Scola (1985), il cameriere cechoviano di Oci ciornie, il papà in crisi dello scontroso M. Troisi di Che ora è?, il vedovo siciliano in viaggio per «riscoprire» i figli emigrati di Stanno tutti bene di G. Tornatore (1990), il sarto russo di Prêt-à-porter di R. Altman (1994), in cui con grande autoironia rifece trent’anni dopo con la Loren la mitica scena dello spogliarello di Ieri, oggi, domani, e l’anziano giornalista letterario di Sostiene Pereira di R. Faenza (1995). Mentre molto apprezzate dalla critica, ma in sostanza subalterne all’estenuato lirismo del regista T. Anghelopulos, risultarono le trasferte greche per Il volo (1986) e Il passo sospeso della cicogna (1991).
Non aggiunsero, invece, molto alla sua fama gli ultimi due film portati a termine con il complice di sempre Fellini: Ginger e Fred (1985) e Intervista (1987).
Nel primo, cronaca della giornata di un’attempata coppia di ballerini di tip-tap stritolati dalla neovolgarità televisiva, l’intesa ritrovata all’istante con la Masina non bastò a mitigare una certa querula fiacchezza; nel secondo il M. si limitò a farsi prendere amabilmente in giro interpretando se stesso, mascherato da Mandrake, mentre gira uno spot pubblicitario.
Quando nel 1995 gli fu diagnosticato un cancro al pancreas, continuò a lavorare come sempre, anche dopo l’operazione subita all’American Hospital di Neuilly-sur-Seine, timoroso soltanto che la notizia della grave infermità gli precludesse nuove avventure e nuovi ingaggi. Supportato con discrezione da Anna Maria Tatò, la regista romana che fu sua compagna per gli ultimi vent’anni, volle persino tornare sulle scene in Le ultime lune di F. Bordon per la regia di G. Bosetti.
Un testo di crepuscolare esistenzialismo con il quale trasmise al pubblico un’emozione pressoché insostenibile perché – tra un ricovero in clinica e un effimero recupero – vi spendeva ogni sera le ultime stille d’energia.
L’anziano M. de Oliveira fu l’ultimo regista a dirigerlo in Viaggio all’inizio del mondo (1997) e nelle more delle riprese in Portogallo accettò di girare il film-intervista Mi ricordo, sì, io mi ricordo, firmato dalla Tatò, in cui alla vigilia del congedo rievocava il suo pigro, scettico, garbato modo d’intendere la vita e la carriera.
Il M. morì il 19 dic. 1996 a Parigi.
La salma, traslata a Roma, fu esposta nella camera ardente allestita in Campidoglio e tumulata al cimitero del Verano. Come ultimo omaggio le autorità municipali romane fecero scendere in segno di lutto tre lunghi drappi di seta nera dall’alto della fontana di Trevi, celebre scenario della Dolce vita.
Fonti e Bibl.: Immediatamente successivi alla morte del M., in una medesima linea memorialistica si vedano: E. Biagi, La bella vita. M. M. racconta, Roma-Milano 1996; C. Costantini, M. M.: vita, amori e successi di un divo involontario, Roma 1996; M. Mastroianni, Mi ricordo, sì, io mi ricordo, a cura di F. Tatò, Milano 1997 (trascrizione dell’ultima confessione davanti alla macchina da presa); e ancora: M. Lazzerini, M. e gli «allegri» ragazzi di Castiglioncello, Firenze 1999; M. M. nelle fotografie di Tazio Secchiaroli, a cura di G. Bertelli, Azzano San Paolo 2006. Per l’attività teatrale va consultato R. Chiesi, M. M. attore di teatro, Genova-Bologna 2006. Tra i documentari trasmessi in televisione e rieditati in DVD, si segnala per dovizia d’immagini, dati e testimonianze M. Canale - A. Morri, Marcello: una vita dolce, Surf Video Italia 2006. Tra i numerosissimi saggi disponibili, il più qualificato è quello di T. Kezich in I divi, Bari-Roma 1986, ad ind., cui si aggiunga Immagini da un mito. M. M., a cura di T. Kezich (inserto allegato a Panorama, gennaio 1997, n. 1). Inoltre si vedano: A. Pavoni, Profili. M. M., in Ciak si gira, 1988, n. 2 (febbraio), pp. 29-35; M. Marchesini, Ciao Marcello, in Ciak, 1997, n. 2, pp. 88-105; N. Richard, M. M., in Variety, 23 dic. 1996 e 5 genn. 1997; F. Bolzoni, M. M., in Riv. del cinematografo, 1997, n. 1-2 (gennaio-febbraio), pp. 16-18; G. Geron, M. M. Il suo primo amore, in Sipario, 2002, n. 640, pp. 67-70. Tra le altrettanto copiose interviste segnaliamo quella inclusa in Commedia all’italiana: parlano i protagonisti, a cura di P. Pintus, Roma 1985, ad indicem. Le due monografie più autorevoli restano, però, C.G. Fava - M. Hochkofler, M. M., Roma 1980 e M. Hochkofler, M. M. Il gioco del cinema, Roma 1992: la prima particolarmente documentata sulla cronologia e filmografia, nonché corredata di un fondamentale excursus critico di Fava; la seconda costruita in forma di informatissimo romanzo biografico.