CERESA, Marco Antonio
Figlio del nobile piacentino Antonio e di Giustina, nacque intorno al 1490.
Non si conoscono notizie precise del suo luogo di nascita né della sua attività di letterato. Un incisivo studio ad opera di Maria Corti ha identificato nel C. l'autore del Somnium Delphili, un poemetto di complessivi 2.500 versi in terza rima, preceduto da una introduzione latina e raccolto nel codice C 20 inf. della Bibl. Ambrosiana di Milano, arricchito da pregevoli miniature forse del pittore milanese Lorenzo Leombruno. Il codice, risalente ai primi del sec. XVI, appare scritto con la grafia umanistica libraria, su cui sono state apportate lievi correzioni da una seconda mano. Il poemetto è stato edito da M. T. Casella e G. Pozzi in F. Colonna, Biografia e opere, Padova 1959, II, pp. 199-299.
L'opera, già attribuita al domenicano F. Colonna, va inserita all'interno di quel felice e fecondo movimento di sperimentazione linguistica e culturale che si sviluppa nella seconda metà del '400 soprattutto nella regione veneta e che ha il suo capolavoro nella Hypnerotomachia Poliphili. Dall'analisi delle affinità tra questi due testi il Pozzi, in un accurato lavoro di ricostruzione della personalità letteraria del Colonna, deduceva l'attribuzione a quest'ultimo, soprattutto basandosi sul rilevamento di un processo di imitazione troppo chiuso e puntuale. Secondo la Corti l'opera, invece, consente la ricostruzione dell'identità dello scrittore per la presenza di riferimenti ad avvenimenti e a luoghi della sua vita, celati attraverso il ricorso a perifrasi, passi oscuri o immagini simboliche. In base a tali elementi si può riconoscerne l'autore che, nel testo, afferma di aver perso il padre intorno al decimo anno di età e ne fissa la morte tra l'inizio della conquista del ducato di Milano ad opera di Luigi XII e l'imprigionamento di Ludovico il Moro, avvenuto nell'aprile del 1500. Inoltre il C. fornirebbe un'ulteriore possibilità di riconoscimento, dando una descrizione puntuale del suo luogo di nascita: "Sorge di nove mura oppido antico / Sopra il ghiandorio, al megio a due torrenti: /Questo è un mio sito...", che la Corti ha identificato nel castello di Momeliano "posto nella valle tra la Trebbia e la Luretta" e sopra il torrente del Ghiandore dove è documentata la presenza della famiglia dei nobili Ceresa in tale periodo.
L'opera, ambientata durante la peste scoppiata a Pavia nei primi del '500, propone la vicenda dell'innamoramento tra il poeta e una giovanissima fanciulla esule a causa della epidemia nel castello di famiglia. Il testo, dunque, riproduce, nella struttura essenziale, la traccia del Polifilo, ma anticipa un'antitesi di fondo che spezza la corrispondenza iniziale e rinforza il procedimento del paradosso narrativo. Nel Polifilo, infatti, la vicenda dal contrasto iniziale volge poi ad una felice conclusione, mentre nel Delfilo l'interruzione del rapporto amoroso costituisce l'elemento dinamico della narrazione e la tecnica della sospensione finale.
Secondo il Pozzi nell'opera sono rintracciabili molteplici elementi a favore della paternità del Delfilo al Colonna: il lessico comune alle due opere, l'impiego di identici nomi propri errati nel Polifilo e poi successivamente corretti, una ortografia "bizzarra e personale", l'adozione di identici simboli figurativi. D'altra parte non mancano elementi contrari ad una tale identificazione: ad esempio, la presenza di vicende che non trovano giustificazione nella biografia del Colonna e alcuni esiti linguistici differenti. La Corti, partendo proprio da questi primi rilievi, costruisce la propria ipotesi di attribuzione, rilevando come la tematica e soprattutto il repertorio lessicale attestano senz'altro una contaminazione specifica con il testo del Colonna, in un'autonomia di sperimentazione che presuppone la conoscenza diretta di quei testi che costituivano l'antecedente culturale del Polifilo. L'adozione di esiti già sperimentati del Colonna, l'analogia con la costruzione sintattica del periodo (presente nel Polifilo) che privilegia la creazione a spirale di secondarie che spezzano l'unitarietà frasica e creano il presupposto del "meraviglioso", non distolgono il C. dal gusto di impegnarsi in invenzioni lessicali utilizzando anche dei nuovi suffissi. L'elaborazione di tale tecnica, nella volontarietà del processo imitativo, crea i presupposti per un prodotto levigato e complesso nello stesso tempo, dove il repertorio tradizionale si incontra con le esperienze più moderne nella suggestione di un linguaggio che è segno di un attento e privato esercizio. Tale cura si esprime soprattutto nell'adozione della figura della descriptio, evidente nei versi in cui il C. tratteggia la figura della donna amata. Egli concentra, infatti, un massimo sforzo nel delineare, con sensibilità tutta pittorica, questo personaggio compresso in un ruolo decisamente poco rilevante (al di là della funzione immediata che è chiamato a svolgere) per la giovanissima età che egli gli attribuisce. La figura, in tal modo, perde di consistenza e di credibilità divenendo una creazione assolutamente astratta e nello stesso tempo determinata, per il ricorso appunto a tale tecnica. La narrazione fisica si avvale, infatti, di molteplici elementi dettaglianti, di varianti espressive che in un accumulo ordinato e successivo contribuiscono ad evidenziarne il carattere rarefatto e cerebrale. Si spezza allora ogni valore temporale mentre la vicenda assume la fissità tipica della narrazione amorosa dove la circolarità del discorso si salda nell'assolvere la funzione primaria di specificazione, e dove ogni dettaglio, nella concretezza della scrittura, contribuisce a determinare un risultato di testimonianza visiva e di armonia finale.
Bibl.: Sul C. cfr. M. Corti, Da un convento a un castello piacentino (L'autore del "Delfilo" non è Francesco Colonna), in Giornale storico della letteratura italiana, CXXXVIII(1961), pp. 170-195; R. Avesani, Intorno a F. Colonna e M. A. C., in Bibliothèque d'Humanisme et de Renaissance, XXIV(1962), pp. 435-440; D. De Robertis, La letter. dell'Italia del Nord, in Storia della letter. italiana, a cura di E. Cecchi-N. Sapegno, III, Milano 1966, p. 640; A. Stussi, Lingua, dialetto, e letter.,in Storia d'Italia, I,Torino 1973, p. 697.