FLAMINIO, Marco Antonio
Umanista nato nel 1498 a Serravalle (ora, con Ceneda, Vittorio Veneto), morto a Roma il 17 febbraio 1550. Ingegno precocissimo, fu accolto come "giovinetto prodigio", nel 1514, da Leone X e introdotto nella famigliarità dei maggiori umanisti del tempo; e l'anno seguente già dava alle stampe la sua prima raccolta di elegantissimi versi. Girò mezza Italia da Napoli a Urbino, da Bologna a Genova, da Padova e Verona a Firenze, Viterbo, Trento, desiderato da letterati, da porporati, da principi. Si accostò a quei cattolici che, pur volendo conservarsi fedeli alla Chiesa, non restarono insensibili a certi principî teorici del protestantesimo specie a quello della giustificazione per la fede. Fu per quasi 15 anni segretario del vescovo Giberti a Verona e, per più breve tempo, del cardinale Polo, che lo condusse seco al Concilio di Trento, dove rifiutò, prima, l'alto onore di segretario del Concilio stesso, come poi quello del vescovado. Ammiratore ed amico, oltre che del Polo, di Vittoria Colonna, del cardinal Morone, del Carnesecchi, e, pur tenendosi da lui lontano nelle conclusioni, di Juan de Valdes, condusse gli ultimi quindici anni della sua vita interamente dedito alle cose della religione, ardente propugnatore d'una riforma interna della Chiesa, in seno alla quale morì.
La sua attività poetiea, sistemata nella postuma ed. fiorentina del 1552 in 8 libri, si può distinguere in tre periodi: il primo dei quali va dal 1515 al 1539 circa e vi prevale il poeta amoroso, l'umanista luminoso ed elegante, seguace e perfezionatore non sempre felice, nei Lusus pastorales, del Navagero; il secondo, dopo un silenzio di otto anni, in cui l'umanista, datosi ormai tutto alle cose dello spirito, è divenuto ammiratore fervidissimo della poesia davidica che cerca di combinare con lo splendore umanistico della forma latina (Paraphrasis in triginta psalmos, Venezia 1546, da non confondersi con l'altra "parafrasi" in prosa pubblicata due anni dopo), e un terzo, troncato subito dalla morte, in cui canta senza mediazioni il suo sentimento religioso (De rebus divinis carmina, Parigi 1551), cercando una sostanziale fusione tra le forme classiche e l'intimità fresca degl'inni della Chiesa. Il F., come è ciceroniano intransigente per la prosa, così - tranne che per quest'ultima poesia religiosa - ha quasi sempre dinnanzi Catullo e Orazio; ma pur riesce a crearsi una sua lingua relativamente originale, e, nelle cose migliori, anche uno stile relativamente indipendente da quello dei classici, meno fuso e metricamente armonioso, ma come velato, in compenso, di dolcezza e di malinconia petrarchesca. Il celebre Trattato del beneficio di Cristo, che gli si attribuisce, non fu da lui che ridotto a elegante forma italiana e difeso in una scrittura inedita. Lasciò anche in volgare pregevoli lettere, e in latino commenti e trattatelli di mediocre importanza. Le edizioni più complete dei carmi del F. restano quella cinquecentesca dei Carmina quinque illustrium poetarum (Firenze 1552) e le due cominiane, a cura del Mancurti, del 1727 e del 1743. Ivi anche la vita e la bibliografia. Molte sin dal '500 le traduzioni ital. dei suoi carmi: tra le moderne da segnalarsi quella, dei Lusus pastorales, del Grilli (Città di Castello 1900). Del Benefizio di Cristo si veda l'ed. a cura di G. Paladino (Bari 1913).
Bibl.: E. Cuccoli, M. A. F., con doc. inediti, Bologna 1897; P. Rossi, M. A. F., Vittorio Veneto, 1931 (cfr. B. Chiurlo, in Giorn. Stor. d. lett. it., LXXXXIX; e un po' tutti gli storici della Riforma e della Controriforma in Italia).