Ferreri, Marco
Regista cinematografico, nato a Milano l'11 maggio 1928 e morto a Parigi il 9 maggio 1997. Il suo approccio al cinema avvenne nel segno del grottesco e dell'humour nero, anche se F. non amava particolarmente quest'ultima espressione, interpretata come una forma di freddezza nei confronti degli uomini e delle cose. Agli inizi della sua carriera volle anzi sottolineare la sua appartenenza al Neorealismo, sia pure a un 'neorealismo comico', senza eroi (ben distinto, in ogni caso, dal cosiddetto neorealismo rosa). In seguito, però, anche la definizione di neorealista si rivelò progressivamente meno pertinente: il suo cinema divenne sempre più rarefatto, 'freddo', quasi un referto di patologie comportamentali. Rappresentò un caso raro nel panorama del cinema italiano, che conta un numero limitato di opere venate di sfumature grottesche, comunque prive di quel tratto tipico che fu la caustica 'cattiveria' ferreriana. Tra i riconoscimenti che gli vennero tributati, il Gran premio della giuria al Festival di Cannes nel 1978 per Ciao maschio (1978), il David di Donatello nel 1982 per Storie di ordinaria follia (1981) e l'Orso d'oro a Berlino nel 1991 per La casa del sorriso.
Dopo i primi tentativi, falliti, di organizzare in ambito italiano, sulla scia di Cesare Zavattini, una serie di 'riviste filmate' del genere film-inchiesta (uscì solo il 'primo numero', il film collettivo L'amore in città, 1953), F. preferì tentare l'avventura in Spagna (1956), dove avvenne il fondamentale incontro con lo scrittore satirico Rafael Azcona Fernández, vicino agli ambienti del dissenso anti-franchista. F. sentì profondamente affine la cultura spagnola del grottesco macabro in cui si riconobbe, e con Azcona come co-sceneggiatore girò il suo primo film, El pisito (1958), al quale seppe conferire "la smorfia tragica di una fantasia buñueliana" (Grande 1974, p. 20) nel raccontare la vicenda grottesca di un giovane che sposa la vecchia proprietaria della pensione in cui abita, attendendone la morte per ereditare l'appartamento. Dopo Los chicos (1959), scritto con Leonardo Martín, la collaborazione con Azcona proseguì con El cochecito (1960), in cui il tema sociale della solitudine dei vecchi è poco più che il pretesto per un apologo atroce su una condizione generale di isolamento irrimediabile. Nel 1961 F. fece ritorno in Italia, senza però interrompere il sodalizio con Azcona insieme al quale firmò le sceneggiature delle sue opere successive in cui si vennero precisando i temi tipici del regista (o meglio, le sue ossessioni). Se Una storia moderna: l'ape regina (1963, titolo con cui il film, su soggetto di Goffredo Parise, in origine L'ape regina, venne infine programmato dopo essere stato bloccato dalla censura e aver subito alcuni tagli) è un ritratto impietoso di una società mostruosa e bigotta, rappresentata dalla bellissima Regina (Marina Vlady) che provoca la morte del marito (Ugo Tognazzi), inesorabilmente consunto in nome di un assillo tormentoso di procreazione, in La donna scimmia (1964) il tema della mostruosità e del suo sfruttamento a fini spettacolari si intreccia con quello della donna-animale (e vittima), che sarebbe tornato anche in La cagna (1972). In due mediometraggi, compresi in altrettanti film a episodi, F. tracciò poi la fisionomia di esistenze fallite: quella di Il professore (1964, episodio di Controsesso), figura laida e grottesca, la cui vita si dibatte tra morbosità e frustrazioni, e quella dell'ingegnere (Marcello Mastroianni) protagonista di L'uomo dei cinque palloni (uscito in Italia nel 1965 come episodio di Oggi, domani, dopodomani, e riedito in Francia nel 1969, in versione integrale, con il titolo Break up, erotisme et ballons rouges), dominato da un'idea ossessiva (calcolare l'esatta quantità di aria necessaria perché un palloncino risulti gonfiato al massimo senza scoppiare) che lo porterà al suicidio in un finale che è un trionfo di crudele cinismo. Dopo Marcia nuziale (1966), altro film a episodi tutti diretti da F. pur con esiti alterni, L'harem (1967) segnò una vera e propria svolta nel suo cinema. Se in passato aveva già rivelato il volto mostruoso della normalità, con quest'opera il regista presenta direttamente, portandoli in piena luce, i mostri che passano al contrattacco, si alleano e complottano: gli uomini si coalizzano contro la donna al centro della vicenda (Carrol Baker), la uccidono, spingendola giù da una scogliera, in una congiura di morti viventi. La società dei mostri sceglie dunque la strada dell'eliminazione dei diversi e la percorre fino in fondo. In Dillinger è morto (1969), sceneggiato, come il successivo, con Sergio Bazzini, F. si cimentò invece nel microstudio comportamentistico della giornata, fatta di accadimenti insignificanti e tempi morti, di un pubblicitario in crisi (Michel Piccoli), che alla fine tenta una fuga improbabile, a bordo di una nave magica, verso una terra il cui sole violaceo sembra richiamare l'universo della favola, ma anche (forse) il mondo apocalittico, post-catastrofe atomica, disegnato dal regista in Il seme dell'uomo (1969). In quest'ultimo film appare ancora più forte la volontà di autodistruzione dell'uomo che alla fine riesce a liberare completamente il pianeta dalla propria presenza: solo dei manichini di plastica allineati sulla riva di un mare morto rimangono a testimoniare il passaggio umano nel mondo.
Dopo un documentario del 1970 sulla contestazione giovanile negli Stati Uniti (Perché pagare per essere felici!), F. tornò a lavorare con Azcona per L'udienza (1972), apologo kafkiano dal clima sempre più gelido, agro e asfittico, in cui un candido giovanotto (Enzo Jannacci) muore nel tentativo di essere ricevuto in udienza dal Papa, divenendo vittima di un sottile rituale i cui celebranti sono, ancora una volta, i mostri dell'ufficialità. In La cagna, scritto con Jean-Claude Carrière dal racconto Melampus di E. Flaiano, ciò che conta invece, al di là dell'apologo sulla solitudine, è il tempo, uguale, sospeso e immobile in cui il film, quasi cullandosi, si dipana nello spazio racchiuso e claustrofobico dell'isola dove il protagonista (Marcello Mastroianni) si è ritirato, alla ricerca di una pace impossibile.In La grande bouffe (1973; La grande abbuffata), F. radunò tre attori cui era legato da rapporti di profonda amicizia, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi e Michel Piccoli, ai quali si aggiunse Philippe Noiret, coinvolgendoli in un rituale di degradazione e di morte: il suicidio collettivo attraverso l'ingestione di cibo, lo sfondamento della norma corporale. Un tema, quello dell'eccesso di cibo, che ossessionò sempre F. e che si ritrova nel cannibalismo di Los negros tambien comen (1988; Oh come sono buoni i bianchi!!!), in La carne (1991), nonché nel documentario girato per la televisione francese Fais ce que voudras (1994), dedicato alle mangiate pantagrueliche che si svolgono nella provincia francese durante i festeggiamenti in onore di F. Rabelais. Con Touche pas la femme blanche (1974; Non toccare la donna bianca) affrontò il problema, da lui molto sentito, della degradazione degli spazi urbani (in questo caso il grande vuoto provocato dalla demolizione del quartiere di Les Halles a Parigi) inteso come correlato di una più generale degradazione sociale che nel film viene adombrata anche dalla metafora western (una burlesca ricostruzione della strage di Little Big Horn, dove gli indiani rappresentano i proletari senza casa e i soldati stanno dalla parte degli speculatori edilizi). Mentre in L'ultima donna (1976) tornò all'analisi del rapporto uomo-donna e al tema dell'autodistruzione dell'uomo, scegliendo come protagonista Gérard Depardieu, interprete anche, in un ideale dittico, del successivo Ciao maschio, grottesco e malinconico addio alla centralità del ruolo maschile nella società e nel rapporto di coppia. F. volle quindi affrontare nuove tematiche, dedicandosi alla valorizzazione del mondo dei bambini (Chiedo asilo, 1979, con Roberto Benigni), accostandosi al mondo maledetto dello scrittore statunitense Ch. Bukowski (Storie di ordinaria follia) e alla vita difficile di un'attrice moderna (Storia di Piera, 1983, con Piera degli Esposti). Tentò poi la ricerca di nuove risposte all'indagine spietata sugli equilibri, le dinamiche, le prospettive del rapporto uomo-donna nei meno riusciti Il futuro è donna (1984), dal significativo ed esplicito titolo, e I love you (1986). Interessante, invece, il riaccostamento ai temi della vecchiaia (già affrontati nel lontano El cochecito) con La casa del sorriso, in cui appare sempre più radicale il ricorso a una lenta estenuazione narrativa, mediante la quale sembra che il cinema si vada consumando e lentamente esaurendo. Nel 1992, rinsaldando i suoi legami transalpini, F. girò per la televisione francese Le banquet, versione 'materialistica' (e perciò paradossale) del Simposio di Platone, e continuò il suo lavoro di sottrazione filmica nei vagabondaggi melanconici lungo le strade di una Roma irriconoscibile in Diario di un vizio (1993). Il suo ultimo film, Nitrato d'argento (1996), è una crepuscolare celebrazione della fine del cinema e dei cinema, intesi come sale, luoghi di un rito collettivo di cui si va perdendo anche la memoria.
M. Grande, Marco Ferreri, Firenze 1974.
F. Accialini, L. Coluccelli, Marco Ferreri, Milano 1979.
M. Maheo, Marco Ferreri, Paris 1986.
Antes del Apocalipsis: el cine de Marco Ferreri, a cura di E. Riambau, Madrid 1990.
Marco Ferreri: il cinema e i film, a cura di S. Parigi, Venezia 1993.