Giustino, Marco Giuniano
Storico latino del 2° sec. d.C., compendiatore della storia universale composta in greco da Pompeo Trogo (Epitoma historiarum Pompei Trogi). Gli studiosi moderni, non apprezzando molto l’opera di G., si sono limitati a valorizzarne soprattutto un aspetto: la posizione spesso sfavorevole a Roma della fonte da lui condensata. Molto diverso era stato invece il giudizio dei lettori medievali e degli umanisti: G. veniva reputato una lettura indispensabile perché, prima del pontificato di Niccolò V – quando il papa diede l’impulso a un grandioso progetto di traduzione di tutti i maggiori storici greci – era soprattutto all’Epitoma che ci si poteva rifare per le notizie sulla storia del mondo ellenico e orientale. L’opera di Pompeo Trogo, vissuto a cavallo fra il 1° sec. a.C. e il 1° sec. d.C., era infatti organizzata in quarantaquattro libri che presentavano tutti i diversi popoli del mondo allora conosciuto muovendo da Oriente a Occidente. Tra le tante prove dell’apprezzamento per G. basterà qui ricordare l’altissima considerazione in cui era tenuto da Francesco Petrarca e da Giovanni Boccaccio, che se ne servono abbondantemente nelle loro enciclopedie latine; Petrarca, in particolare, tende a preferire quasi sempre le versioni di G. rispetto a quelle di autori, pur a lui molto cari, quali Livio e Valerio Massimo. Anche il gran numero di manoscritti sopravvissuti conferma questo interesse praticamente ininterrotto per l’Epitoma, probabilmente favorito dal fascino che la figura di Alessandro Magno esercitava sui lettori medievali. Tra gli autori cronologicamente prossimi a M., di G. si servono Marco Antonio Sabellico nelle Enneades e Cristoforo Landino nel commento alla Commedia dantesca.
Non è escluso che M. abbia incontrato abbastanza presto l’Epitoma sul proprio cammino. Per la sua natura riassuntiva, l’opera di G. era spesso indicata dagli umanisti tra le letture più adatte ai principianti; è in questa chiave, per es., che la vediamo consigliata da Battista Guarino (De ordine docendi et studendi, § 22) e da Francesco Filelfo (lettera a Filiberto di Savoia, ag.-sett. 1479). Anche a Firenze nel Quattrocento l’Epitoma era usata tra i testi scolastici di uso corrente, e dal Libro di ricordi di Bernardo Machiavelli (→) sappiamo che il padre di Niccolò prese in prestito da un amico un manoscritto di G. e che lo restituì dopo qualche settimana, il 25 gennaio 1480.
L’Epitoma venne tempestivamente stampata a Venezia nel 1470 (presso Nicolò Jenson), poco dopo l’introduzione nella penisola dei caratteri mobili, e sempre a Venezia, nel 1477, seguì la pubblicazione di un anonimo volgarizzamento toscano del 14° sec. con prefazione di Geronimo Squarzafico Alessandrino (presso Johannes de Colonia e Johannes Manthen): un ulteriore segno dell’interesse che le vicende raccontate da G. trovavano anche presso un pubblico più ampio. Entro il 1500 furono impressi non meno di tredici incunaboli (compreso il volgarizzamento), tutti in Italia.
Rispetto a tanti altri grandi autori classici, la cui presenza nell’opera di M. non è mai evidenziata da una citazione letterale o da un rimando esplicito (si pensi per tutti a Polibio e a Dionigi di Alicarnasso), due passi di G. sono riportati, in latino e con minimi aggiustamenti, in Principe vi e in Discorsi III xxxi 13 (quest’ultimo individuato soltanto in Ridley 1988). Entrambi i passi sono scelti per la loro forza epigrammatica: il primo, infatti, è un giudizio sintetico su Ierone II di Siracusa, il quale anche da privato cittadino tanto svettava per le proprie qualità da mancargli, di un re, il solo titolo (Epitoma XXIII iv 15: il medesimo passo è richiamato anche nel proemio al primo libro dei Discorsi); il secondo, invece, è una massima di Scipione l’Africano sul carattere dei Romani, abituati a non perdersi d’animo nella sconfitta e a non insuperbire nella vittoria (Epitoma XXXI viii 8).
L’apporto di G. va però ben al di là di questi due passaggi, tanto come fonte di informazione, quanto come stimolo alla riflessione. I commenti indicano una quindicina di passi per cui, con differenti gradi di probabilità, M. potrebbe dipendere dall’Epitoma: relativamente alla eccezionale durata dell’impero dei Medi (Principe vi da Epitoma I vi), alla congiura degli Ateniesi contro Pisistrato (Discorsi III vi da Epitoma II ix), al modo in cui, chiamato dai Tebani in qualità di comandante militare, Filippo II di Macedonia si era impossessato della città a tradimento (Principe xii da Epitoma VIII ii), alle radicali innovazioni introdotte dallo stesso Filippo in Macedonia (Discorsi I xxvi da Epitoma VIII vi), alla morte del solito Filippo in una congiura (Discorsi II xxviii da Epitoma IX vi), alla conquista di Tiro da parte di Alessandro Magno (Discorsi II xxvii da Epitoma XI x), alle lotte tra i diadochi e ai disordini nell’esercito macedone dopo la morte di Alessandro (Principe iv e Discorsi III xiii da Epitoma XIII-XVI, in particolare XIII ii), alla vicenda di Clearco, tiranno di Eraclea (Discorsi I xvi da Epitoma XVI iv-v), alla invasione dei Galli in Grecia (Discorsi II x da Epitoma XXV i-ii), alla congiura del generale punico Annone per farsi principe di Cartagine sopprimendo con il veleno tutti gli aristocratici (Discorsi III vi da Epitoma XXI iv), alla storia della tirannide di Agatocle (Principe viii e Discorsi II xii-xiii da Epitoma XXII e XXIII i-ii), alla vicenda di Ierone (Principe vi da Epitoma XXIII iv), al giudizio su Pirro (Principe iv da Epitoma XXV v).
Già questo primo nucleo di riferimenti offre una prima idea del grande rilievo che ha l’Epitoma nell’opera machiavelliana. Non c’è dubbio però che l’attenzione di M. si sia concentrata su alcuni snodi, rispetto ai quali non disponeva di fonti alternative, a cominciare dalla vicenda delle tirannidi siciliane e dalla vita del padre di Alessandro il Macedone. Lo suggerisce anche un passo dei Discorsi in cui le ‘vite’ di Filippo e di Agatocle vengono citate in coppia, a riprova della necessità della «fraude»: «come chiaramente vedrà colui che leggerà la vita di Filippo di Macedonia, quella di Agatocle siciliano e di molti altri simili» (Discorsi II xiii).
Il ritratto di Filippo II tracciato da G. è ampiamente sottinteso dal racconto machiavelliano. Il sovrano macedone, leggiamo nell’Epitoma,
a seconda dei casi persuasivo e ingannatore, prometteva a parole più di quanto poi mantenesse; […] coltivava le amicizie per interesse, non per lealtà. Fingere amicizia a queli che odiava, seminare ostilità tra alleati, cercare di essere in buoni rapporti con tutti e due – era il suo comportamento abituale (IX viii 8-9).
Gli inganni del macedone occupano infatti gran parte dei capp. iii-v nel libro VIII, ma M. doveva essere colpito soprattutto dalla formula riassuntiva: nulla apud eum turpis ratio vincendi («per lui nessun modo di vincere era disonesto»: Epitoma IX viii 7). Il ruolo di primo piano conferitogli in Principe xii va inquadrato anche in questo spregiudicato profilo.
Altre presenze di G. nel Principe e nei Discorsi possono essere segnalate (per l’Arte della guerra sembra aver contato soprattutto la descrizione dei Parti che si legge in Epitoma XLI i-ii). Per la difficoltà di eleggere un principe tra una comunità di eguali e di instaurare una repubblica dove il popolo non è mai stato abituato alla libertà (entrambi in Principe v), M. può avere avuto in mente le vicende dei diadochi (Epitoma XIII ii 3: «tra di loro l’eguaglianza aumentava la discordia, dal momento che nessuno superava tanto gli altri che uno di loro si sottomettesse a lui») e la storia degli abitanti della Cappadocia i quali, essendo rimasti senza un principe e non volendo governarsi da soli, ottennero dal senato di Roma di avere come sovrano Ariobarzane (Epitoma XXXVIII ii). Nonostante i numerosi riferimenti alla Ciropedia, il racconto della vita di Ciro che leggiamo in Principe vi dipende da G. (Epitoma I iv-vi, o alternativamente da Erodoto, Storie I cvii-cxxx), per cui Ciro avrebbe guidato la rivolta dei Persiani contro i Medi, comandati dal re Astiage (suo nonno), mentre, secondo Senofonte, Ciro avrebbe invece conquistato l’impero degli Assiri con un esercito composto di Persiani e Medi, unificando poi i due popoli alla morte dei genitori e dello zio Astiage, e dopo aver sposato la figlia di quest’ultimo. La constatazione di Principe xvii che nessun esercito si ribellò mai ad Annibale non è solo in Livio, ma anche in G.:
la sua prudenza [moderatio] fu tale che, pur comandando un’armata composta di popoli diversi, non fu mai minacciato dai suoi stessi soldati né tradito con l’inganno, nonostante i suoi nemici avessero spesso tentato l’una e l’altra cosa (Epitoma XXXII iv 12).
E allo stesso modo anche la tesi machiavelliana secondo cui è meglio portare guerra nel territorio dei nemici che subirla nel proprio (Principe iii e Discorsi II xii) non dipende unicamente dalla lettura dei liviani Ab urbe condita libri, ma presuppone probabilmente i capitoli dedicati da G. al piano presentato da Annibale ad Antioco per portare l’attacco direttamente sul suolo italiano, con l’argomento che i Romani sarebbero «invincibili nei paesi altrui e fragili in casa», perché qui si potevano indurre le popolazioni recentemente sottomesse a defezionare da loro (Epitoma XXXI iii e v: ma è altrettanto significativo che nel suo racconto della campagna di Alessandro Magno attribuisca a Dario III l’opinione opposta in Epitoma XI vi).
Ma l’Epitoma per M. non è stata una mera fonte di informazione. Particolarmente interessanti sono i casi in cui M. dialoga con G. a proposito dell’interpretazione di un determinato evento. Per es., il breve accenno a Pirro alla fine di Principe iv – laddove si spiega che la sua difficoltà a mantenere le conquiste fatte non dipendeva da trascuratezza, ma dalla diversità dell’Europa a fronte dell’Asia sottomessa da suo cugino Alessandro Magno – non è altro che una confutazione del rimprovero mosso al sovrano dell’Epiro proprio da Giustino. La bipartizione su cui è costruita la parte di Principe xxi dedicata alla neutralità (là dove, davanti allo scontro tra due vicini potenti, M. suggerisce di chiedersi anzitutto se «vincendo uno di quegli tu abbia a temere il vincitore, o no») è stata probabilmente suggerita a M. da una lunga orazione con cui Filippo V cerca di persuadere i Greci della necessità di prendere partito nella guerra tra Roma e Cartagine perché «coloro che combattono con tante forze non saranno soddisfatti di porre un limite alla propria vittoria», e però bisogna che gli altri Stati comincino da subito a «temere anche la lotta con coloro che usciranno superiori» (Epitoma XXIX iii 5). Ma qualcosa di simile si può pensare anche a proposito dell’esaltazione della gioventù, al cui proposito è verosimile che M. sia stato colpito da un intero capitolo consacrato da G. a una serie di successioni quasi contemporanea alla guida dei principali regni ellenistici da parte di sovrani tutti adolescenti – Filippo V in Macedonia, Antioco III in Siria, Tolomeo Filopatore in Egitto, Ariarate IV in Cappadocia –, più l’elezione del parimenti giovane Annibale a capo delle truppe cartaginesi. La constatazione finale di G. è infatti che, nonostante l’età, in ognuno di loro (con l’eccezione di Tolomeo) «emerse un’indole virtuosa» (Epitoma XXIX i 8).
Ci sono dunque tutti gli elementi per escludere l’ipotesi che M. abbia avuto di G. solo «una conoscenza antologica» (Martelli 1998, p. 144 nota 196).
Bibliografia: Fonti: Delle istorie di Giustino abbreviatore di Trogo Pompeo. Volgarizzamento del buon secolo, a cura di L. Calori, Bologna 1880; Storie filippiche. Epitome da Pompeo Trogo, a cura e traduzione di L. Santi Amantini, Milano 1991.
Per gli studi critici si vedano: A. Momigliano, Livio, Plutarco e Giustino su virtù e fortuna dei Romani (1934), in Id., Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1966, pp. 499-512; L. Ferrero, Struttura e metodo dell’Epitoma di Giustino, Torino 1957; R. Ridley, Echoes of Justin in Machiavelli’s Discorsi, «Critica storica», 1988, 25, pp. 113-18; L. Braccesi, A. Coppola, G. Cresci Marrone et al., L’Alessandro di Giustino (dagli antichi ai moderni), Roma 1993; M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi, Roma 1998; J. Yardley, Justin and Pompeius Trogus: a study of the language of Justin’s Epitome of Trogus, Toronto 2003.