BRUTO, Marco Giunio (M. Iunius Brutus, nome che in seguito all'adozione da parte di Q. [Servilio] Cepione si mutò legalmente in Q. Caepio Brutus, sebbene la forma rimasta comunemente in uso, anche fra gli antichi, sia la prima)
L'anno della nascita, secondo che portano manoscritti del Brutus di Cicerone, corrisponde all'85 a. C. Altri scrittori ci parlano di una data più recente, l'82 o il 78; ma non esistono serie ragioni per ammettere che nei manoscritti ciceroniani vi sia un errore. La famiglia a cui Bruto apparteneva non era patrizia, ma vantava una nobiltà che si era fatta man mano risalire ad epoca più antica, fino a trovare il progenitore tra i fondatori stessi della repubblica. I Giunî della generazione che precedette il nostro furono ardenti democratici e militarono nel partito di Mario contro l'oligarchia senatoria. Uno di questi fu il padre stesso di Bruto, che durante i torbidi del 78 venne ucciso proditoriamente per ordine di Pompeo.
Rimasto orfano di padre in tenera età, Bruto studiò rettorica e filosofia, soggiornò ad Atene, e alla scuola dei maestri greci formò i suoi gusti e le sue dottrine letterarie e filosofiche. Sappiamo ch'egli ebbe a maestro, per la filosofia, Aristo (v.). Ma l'anima politica di Bruto si formò sotto l'influsso dello zio Catone (l'Uticense) che strappò il giovane all'indirizzo democratico della famiglia, e ne fece un conservatore e un partigiano dell'oligarchia senatoria.
A 26 anni, nel 59, Bruto fu adottato da Q. (Servilio) Cepione, che apparteneva alla famiglia della madre, e forse ne era fratello. Indi accompagnò lo zio Catone nella missione di Cipro, e fece ritorno a Roma nel 56. Tornò tre anni dopo in Oriente, nella Cilicia, e questa volta al seguito di Appio Claudio Pulcro, di cui aveva sposato la figlia. Così nella prima come nella seconda residenza in Oriente, Bruto si occupò di negozî bancarî senza portare negli affari una moralità più elevata di quella in uso al suo tempo.
Quando Pompeo si staccò da Cesare e divenne il campione del partito senatorio, Bruto, facendo tacere i suoi rancori privati contro l'autore della morte del padre, si piegò alle esigenze del momento politico. Pompeo a sua volta s'adoperò a salvare da un grave processo Appio Claudio, a difesa del quale Bruto impiegò le risorse della sua eloquenza. Nell'anno seguente, 49, allo scoppiare del conflitto fra Cesare e il senato, Bruto tornò in Cilicia, in qualità di legato, con la missione di preparare milizie e raccogliere navi e denaro. Di là passò in Macedonia, ove fu suggellata con un abbraccio la sua riconciliazione con Pompeo. Divise con lui a Farsalo le sorti della battaglia; ma cercò poi e ottenne di riconciliarsi con Cesare, che fu molto lieto di vederlo salvo; anzi lo ebbe tanto nelle sue grazie da permettergli d'impetrare il perdono per il cognato C. Cassio Longino, perorare la causa di Deiotaro (v.) e facilitare la riconciliazione con Cicerone. Era naturale che nel favore di cui Bruto godeva presso il vincitore si vedesse una conseguenza dei legami amorosi tra Cesare e Servilia, madre di lui. Ma la favola che Bruto fosse figlio di Cesare è più tarda.
I rapporti tra Cicerone e Bruto si fecero più vivi dopo quel tempo. Cicerone riprese l'interrotta attività letteraria, e diede mano a una serie di trattati su argomenti di oratoria e di filosofia in buona parte dedicati a Bruto. Questi a sua volta dedicò a Cicerone uno scritto di tema filosofico: De virtute. Tuttavia, nonostante le apparenze, non esisteva fra i due una cordialità sincera e profonda.
Verso la fine dell'estate del 47 Bruto fu destinato da Cesare al governo della Gallia Cisalpina, col grado di legato propretore: e ivi rimase fino alla primavera del 45
Così, mentre il partito senatorio subiva in Africa e in Spagna le più dure prove, Bruto attendeva alle sue occupazioni letterarie e al governo della provincia. Egli aveva dunque nell'ora più tragica rotto ogni solidarietà col suo partito. Quando giunse la notizia della morte dello zio Catone, volle che fosse onorato di un elogio: esortò Cicerone a scriverlo, e uno ne scrisse egli stesso.
Quando Cesare, vincitore a Munda, si mise in cammino per tornare in Italia, Bruto gli mosse incontro. Intorno a questo tempo ottenne da Cesare la pretura urbana per il 44, nonostante che vi aspirasse, con miglior diritto, suo cognato Cassio Longino.
Tornato a Roma, Cesare ebbe onori e poteri straordinarî. Si ordì allora contro di lui una congiura, di cui fu parte anche Bruto. Aveva egli creduto realmente che Cesare avrebbe restaurato la repubblica senatoria, e attese sino a questo momento per aprire gli occhi? Così si è pensato. Onde la sua partecipazione alla congiura sarebbe stata la conseguenza di un'acerba delusione. Ma le ragioni di questa nuova conversione son piuttosto da cercare nel suo spirito infermo, sognatore, avido di plauso e di gloria. L'iniziativa della congiura non fu sua, egli vi fu attirato e ne divenne uno dei capi. I congiurati erano molti, e si contavano fra loro non pochi cesariani; il proposito su cui tutti convenivano era quello di uccidere Cesare: il suggerimento di togliere di mezzo anche Marco Antonio fu da Bruto respinto. ll 15 marzo, nella curia di Pompeo, Cesare cadeva sotto i colpi dei congiurati. Anche Bruto aveva vibrato il suo: nel tumulto anzi riportò una ferita alla mano.
Ma appena l'impresa fu compiuta, i congiurati dovettero avvedersi ch'era stata un'illusione puerile il credere che, tolto di mezzo Cesare, la repubblica sarebbe senz'altro tornata in mano al senato. Bruto confidava nella sua oratoria; volle tenere un discorso al popolo nel foro, ma dovette con gli altri congiurati ritirarsi sul Campidoglio; quivi tenne un discorso, poi volle ancora parlare al popolo: fu tutto vano. Si stabilì allora di rimettere al senato la soluzione del problema, e il 17 marzo il senato votò un ordine del giorno che era un compromesso: non si doveva istruire processo per l'uccisione del dittatore, ma tuttavia i suoi atti di governo dovevano restare validi. Era una soluzione che, se poté un momento conciliare i dirigenti dei due partiti, non acquetò il popolo né i veterani. Durante i funerali dell'ucciso, il popolo cercò di mandare in fiamme le case dei congiurati, e Bruto e Cassio, insieme con altri, dovettero allontanarsi da Roma. L'eredità di Cesare fu presa da M. Antonio (v.). Il senato d'accordo con lui diede a Bruto e a Cassio la missione di provvedere il grano per i bisogni della città. Era una maniera onorevole di permetter loro d'uscire d'Italia; ma essi ricusarono di sottomettersi. Nel luglio Bruto cercò d'ingraziarsi il popolo mercé la celebrazione fatta in suo nome dei giuochi apollinari. L'attesa fu frustrata. Antonio intanto si era rafforzato, avendo dal popolo ottenuto come provincia la Gallia Cisalpina, spettante a Decimo Bruto, e legioni della Macedonia. Corse intanto fra lui e i due capi dei congiurati un fremente scambio di epistole. Antonio li minacciava, accusandoli di preparare la guerra civile. Il 4 agosto essi spedirono da Napoli una lettera ad Antonio che preludeva a una definitiva rottura, e dopo sei mesi d'incertezze, ire e angosce, verso la fine di settembre lasciarono tutti e due l'Italia. Era stato assegnato a ciascuno di loro, e su proposta di Antonio stesso, il governo d'una provincia. Quella di Bruto era Creta. Ma essi si recavano in Oriente col proposito di preparare le armi per esser pronti nel caso che si dovesse ricorrere a una nuova guerra civile.
Già ai primi d'ottobre si sentiva a Roma che l'impunità accordata agli uccisori di Cesare non sarebbe durata a lungo. L'assegnazione delle due provincie venne annullata; e quando Ottaviano, avuta ragione di Antonio prima, poi del senato, ebbe occupato Roma e fu eletto console, fece votare la legge Pedia (fine dell'agosto 43) che istituiva un tribunale per perseguire l'uccisione di Cesare. Bruto (che nel frattempo aveva occupato di sua iniziativa la Macedonia e l'Illirico e, con Cassio, aveva ricevuto dal senato il potere supremo sulle provincie d'Oriente) venne condannato, come gli altri uccisori, all'esilio e alla confisca dei beni. Intanto aveva luogo la riconciliazione tra Ottaviano, Marco Antonio e Lepido (il così detto secondo triumvirato). Ogni possibilità d'una soluzione pacifica scompariva. Bruto, già passato in Asia, si dedicò con Cassio ai preparativi di guerra con intensa alacrità. Le provincie d'Oriente furono sottoposte, senza pietà, a contributi straordinarî. Le città che facevano resistenza erano severamente punite. Le forze raccolte furono considerevoli: diciannove legioni, con armamento copioso, una cassa formidabile, oltre alla cavalleria e i contingenti ausiliarî: una flotta numerosa, parte della quale fu mandata a incrociare nell'Adriatico. Sennonché, non si riuscì a impedire agli eserciti degli avversarî di attraversarlo.
Mentre l'esercito repubblicano moveva dall'Ellesponto verso l'Adriatico, lungo la costa della Tracia, le legioni dei triumviri, comandate da Marco Antonio e da Ottaviano, si spingevano dall'Illirico per la stessa via verso l'Ellesponto. Le loro avanguardie avevano già occupato i passi dei Sapei e quelli dell'Ismaro, ma dovettero ritirarsi al sopravvenire dell'esercito repubblicano, che si avanzò sin presso Filippi. Qui, contro la volontà di Bruto e Cassio, che avrebbero voluto temporeggiare, approfittando della posizione strategica favorevole, e logorare il nemico, si combatté in due riprese la famosa battaglia (per la quale v. filippi). Alla fine del primo scontro, Cassio fu trovato ucciso lungi dal suo campo. All'indomani del secondo scontro, Bruto chiese alle quattro legioni che gli erano rimaste se volessero aprirsi la via verso gli accampamenti: le legioni rifiutarono. Bruto allora si appartò e si uccise o si fece uccidere (novembre 42). Antonio ebbe cura di rendere al cadavere gli estremi onori. Si dice anche che lo abbia fatto cremare e n'abbia mandate le ceneri a Servilia. V'era chi narrava che Ottaviano gli avesse fatto recidere il capo che fu mandato a Roma, ma venne buttato a mare in seguito a una tempesta dalla quale la nave che lo portava era stata assalita.
Nel tempo in cui era in Oriente a raccoglier le forze per l'ultima lotta, B. batté anche moneta, e gli antichi ne menzionano una di cui ci son rimasti alcuni esemplari. Essa porta la testa di B. stesso al dritto, con la leggenda BRUT(us) IMP(erator), e al rovescio il berretto frigio fra due pugnali, e il ricordo delle idi di marzo: EID(ibus) MART(iis). In questa moneta vediamo nella maniera più sicura il ritratto dell'uccisore di Cesare.
Sotto il governo imperiale non fu impedito di far l'elogio di Bruto come persona, ma venne considerata delittuosa l'esaltazione del suo gesto d'uccisore di Cesare. Cremuzio Cordo fu per questo sottoposto a processo. Era proibito che le immagini di Bruto e di Cassio fossero portate in processione nelle pompe funebri, fra i progenitori dei quali la famiglia dell'estinto si poteva gloriare. La memoria di Bruto e Cassio ebbe culto fra i Romani fedeli all'antica tradizione repubblicana, e in questo sentimento è scritta la biografia compresa nelle vite di Plutarco, in cui Bruto è messo accanto a Dione. Per il popolo romano Bruto e Cassio furono due parricidi. Altri storici antichi, pur non negando ammirazione alla figura di Bruto, qualificarono il suo gesto come un atto di criminosa follia.
Bibl.: Bynum, Das leben des M. Iunius Brutus, ecc., Halle a. S. 1898; Drumann e Groebe, Geschichte Roms, 2ª ed., IV, Lipsia 1908, p. 21 segg.; E. Schwartz, in Hermes, XXXIII (1898), p. 237 segg.; M. Gelzer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., X, col. 973 segg., con ricca bibliografia; Gardthausen, Augustus und seine Zeit, I, Lipsia 1891, passim; E. Meyer, Caesars Monarchie und das Principat des Pompeius, 3ª ed., Berlino-Stoccarda 1922, p. 450 segg., 533 segg.; T. Rice Holmes, The architect of the Roman Empire, Oxford 1928, passim; Boissier, Cicéron et ses amis, 14ª ed., Parigi 1908, p. 321 segg.
Bruto scrittore. - La fama di scrittore conseguita da Bruto fu grande, e dalla testimonianza di Tacito (Dial. de orat., 18, 25), come da quelle numerose che si possono ricavare da Cicerone stesso, appare come egli fosse uno dei più illustri rappresentanti di quel movimento che fu detto degli Attici (v. atticismo). Possiamo qui ricordare l'orazione Pro Milone, ch'egli scrisse per esercizio, sostenendo una tesi diversa da quella di Cicerone (Quintiliano, III, 6, 93), e l'altra effettivamente tenuta sul Campidoglio dopo la morte di Cesare, che Bruto mandò a Cicerone per correggerla prima di pubblicarla. Ma Cicerone in una lettera ad Attico (XV, 1ª Purser) dichiara di non averlo potuto fare, per la diversità di tendenze che li separava; in realtà la trovava mancante di passione. A ogni modo, Quintiliano (X, 1, 123) e Apro, nel Dialogo degli oratori di Tacito (21), pongono la valentia di Bruto scrittore di filosofia sopra quella sua di oratore. Come filosofo, fu sostanzialmente di vedute accademiche, il che non gl'impediva di appropriarsi per la morale, come Cicerone, vedute stoiche. Si ricordano di lui tre opere: De virtute, De officiis, De patientia, non giunte a noi. Ci è invece giunta una corrispondenza, o meglio il nono libro di tale corrispondenza, che contiene 15 lettere di Cicerone a Bruto, ma anche 8 di Bruto, delle quali 7 a Cicerone, una ad Attico. L'autenticità di questa corrispondenza è stata però più volte impugnata. Altre brevi lettere in greco sono oggi contestate e ritenute opera di un retore. Ma la falsificazione sarebbe assai antica, perché Plutarco riporta integralmente tre di queste lettere (Brutus, 2).
Per i frammenti delle orazioni, v. Fragm. orat. Romanorum, 2ª ed., Zurigo 1842, pp. 433-452. La corrispondenza con Cicerone si trova nelle edizioni delle lettere di quest'ultimo. Le lettere greche sono negli Epistolographi graeci, editi da R. Hercher, Parigi 1873, pp. 177-191.
Bibl.: La genuinità delle lettere latine fu oppugnata da V. D'Addozio, De M. Bruti vita et studiis doctrinae, Napoli 1895, e poi in due fascicoli Sulla corrispondenza tra Cicerone e M. Bruto, Napoli 1905; le lettere di Cicerone e di Bruto sarebbero state fabbricate nell'età d'Augusto da taluno che viveva nel circolo di Messala. Ricche indicazioni bibliografiche presso Schanz-Hosius, Geschichte der röm. Litt., I, 4ª ediz., p. 395 segg.
Bruto presso i posteri. - Il sentimento del Medioevo cristiano di fronte a B. è sintetizzato in Dante (Inf., XXXIV, 64-65 e Parad., VI, 74), ed è di riprovazione e di ribrezzo contro chi non solo aveva armato la mano contro il benefattore, ma aveva ucciso in questo anche il restauratore della pace nel mondo e l'instauratore dell'impero romano, che era quanto dire - secondo le viste della Provvidenza - dell'impero romano-cristiano. Il Medioevo fino a Dante - se ammette un vago diritto di resistenza contro l'autorità monarchica - non giustifica la stessa resistenza al servizio d'idealità repubblicane. Ma già col Boccaccio, che esclama: "Non vi è sacrificio più accetto del sangue di un tiranno!" (De casibus virorum illustrium, II, 15), si apre la via anche alla giustificazione dell'atto di B. In pieno Rinascimento si arriverà all'ammirazione e all'esaltazione, in seguito anche alla mutata visione storica dell'età romana, per cui - capovolgendo quella che era stata la visione medievale - si vedrà nell'impero romano l'epoca della corruzione incipiente, della tirannide. L'allargarsi della cultura al campo della civiltà greca e, in quello della letteratura latina, l'ammirazione per Tacito, aiutano a creare questo stato d'animo di retoricheggiante democraticismo repubblicano. L'esempio di B., insieme alla sete della fama e della gloria, sentite al modo degli eroi classici, fu presente e incitante in tutti i più noti suscitatori ed esecutori di congiure del tempo: nell'umanista Cola Montano, suscitatore, con la sua calda eloquenza, della congiura dell'Olgiati e Lampugnani contro Galeazzo Sforza; nel Boscoli, che di B. era stato ammiratore entusiasta, come il suo concittadino Alamanno Rinuccini, che nel trattatello De libertate ne fa una vera apologia. Forse lo stesso Michelangelo non si sottrasse all'ammirazione per Bruto. Lorenzino dei Medici invece nella sua Apologia si fa forte dell'esempio di Timoleone, fratricida per amore di libertà, probabilmente perché il caso gli sembra più calzante al suo proprio.
Nell'età della Controriforma, la figura di Bruto, nei paesi cattolici, rientra nei suoi contorni d'origine schiettamente letteraria e non dà più fermenti ideali; se la scuola dei monarcomachi in Francia se ne fa forte, è chiaro però che i presupposti teorici del loro diritto di resistenza alla monarchia sono di natura etico-religiosa, che non fa male convalidare con l'autorità degli antichi; ma questi antichi non riscuotono più il credito incondizionato che godevano in pieno umanesimo. E nonostante le apparenze in contrario, sono idealità d'altra natura, di uguaglianza sociale, che mettono di moda la figura di Bruto fra gli elementi più radicali del democraticismo rivoluzionario e repubblicano della fine del sec. XVIII; ma, invero, Bruto comincia a cedere a Gracco e non è più idealmente presente ai cospiratori del secolo scorso, che s'ispirano direttamente al mito democratico egualitario, o a torbide teorie anarchiche o alle accese passioni nazionali.