DRUSO, Marco Livio
DRUSO, Marco Livio (M. Livius Drusus M. f. C. n.) - Figlio di Marco Livio Druso (v.) nato probabilmente nel 130 a. C.. Uomo di carattere aspro e impetuoso, assai orgoglioso, fu questore in Asia e rifiutò le insegne del grado ne quid ipso esset insignius, e come edile manifestò prodiga magnificenza. Nel 100 a. C. prese parte alla lotta contro Saturnino e Glaucia; questo atteggiamento politico e la sua valentia oratoria lo portarono al tribunato della plebe nel 91. In questo ufficio si fece iniziatore di un'azione legislativa molto complessa, il cui carattere ha suscitato e suscita tuttora vivissime discussioni fra i critici. Lo scopo principale della sua legislazione fu certamente l'abolizione del controllo che, attraverso le quaestiones giudiziarie per il crimen repetundarum, il ceto equestre aveva ottenuto sulla pubblica amministrazione romana: accanto a questo obiettivo aveva anche quello di restaurare gli antichi rapporti economici fra le classi sociali romane, rapporti che erano la base dell'ordinamento repubblicano. La legge giudiziaria di D. aboliva la concessione fatta ai cavalieri dalla legge Servilia giudiziaria del 106, per la quale essi avevano nelle liste dei giudici tanti posti quanti ne spettavano ai senatori. Per poter far approvare una legge simile, che avrebbe incontrato certamente le più vive resistenze tanto più che stabiliva anche (cfr. Cic., Pro Rab. Post., 7, 16) la possibilità di chiamare in giudizio per accusa di corruzione i giudici delle commissioni degli anni passati, D. cercò di dare un illusorio compenso all'ordine equestre concedendogli 300 posti in Senato, tanti quanti erano quelli già esistenti, e creando così senatori altrettanti cavalieri quanti ne erano compresi nella lista dei giudici. Inoltre pensò di chiamare in Roma Latini e Italici col miraggio di una legge agraria che assicurava distribuzioni di terra di cui anch'essi avrebbero potuto godere, grazie a una nuova legge per l'estensione del diritto di cittadinanza. Per accattivarsi la massa degli elettori, ricorse poi alla pubblica e legale corruzione ormai divenuta abituale, e cioè a nuove distribuzioni di grano a prezzo politico, e quindi semigratuite (frumentationes). Da molti si crede che la legge agraria, quella sulla cittadinanza e quella frumentaria fossero state presentate solo come espedienti di lotta politica, ma tale ipotesi non pare rispondente a realtà. D. cercava una forma di sistemazione per i problemi dello stato romano, illudendosi forse di poter compensare con la concessione di seggi in Senato il ceto equestre che perdeva le liste dei giudici, e di riuscire così a unificare nuovamente lo stato, ridando al Senato tutta la sua autorità e prestigio. Ma l'elemento senatorio non poteva gradire una riforma che lo obbligava a spartire i seggi con l'elemento equestre, e il ceto equestre intendeva perfettamente come i cavalieri, divenuti senatori, legati a tutti gli obblighi inerenti alla nuova dignità, e partecipando di conseguenza a tutti i diritti, sarebbero stati, per il ceto da cui provenivano, degli amici infidi e di breve durata. Questo ceto, che con la legge giudiziaria di C. Gracco aveva ottenuto un potere almeno pari a quello del Senato, e che nel 106 con la legge Servilia lo aveva in parte conservato, con la trasformazione ideata da D. avrebbe dovuto abdicare da questa autorità, limitandosi ad averne un assai dubbio compenso. Le leggi di D. furono naturalmente presentate tutte in una volta, ma la legge per la cittadinanza degli alleati non poté arrivare a votazione. Questa legge, che fu detta graccana, era certo tale da creare non poche opposizioni a D., perché urtava interessi e tradizioni; tuttavia mirava a ottenere un'equa sistemazione di uno dei più gravi problemi dello stato romano. In ogni modo, questo complesso di riforme spiaceva, per diversi aspetti, tanto alla oligarchia quanto ai suoi avversarî. I tumulti popolari e la delusione degl'Italici mutarono di nuovo le vie di Roma in campi di sanguinose lotte, e in queste avrebbe trovato la morte lo stesso D., benché vi sia qualche sospetto di suicidio. Delle sue leggi, quelle già approvate furono annullate in base alla legge Cecilia e Didia, essendo risultata l'esistenza di qualche vizio di forma.
Bibl.: Oltre alle storie generali di questo periodo, vedi F. Münzer, Römische Adelsparteien und Adelsfamilien, Stoccarda 1920, pp. 311 segg., 346 segg.; id., in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIII, col. 859 segg.; P. A. Seymour, in English Historical Review, XXIX (1914), p. 419 segg.; Strachan Davidson, Problems of roman criminal Law, II, Oxford 1912, pag. 78 segg.; Hardy, in Classical Review, XXXVII (1913), pag. 262 segg.; W. Strehl, M. Livius Drusus Volkstribun, 91 v. Chr., Marburgo 1887; J. Asbach, Das Volkstribunat des jüngeren M. Livius Drusus, Bonn 1888.