Cicerone, Marco Tullio
, Vale per C. quello che si può dire in genere della cultura classica di D.: il suo modo di leggere i testi non è quello di chi fa di questa lettura un fine, per penetrare il senso di quelli inquadrandoli nel loro tempo, ma è naturalmente quello, tutto medievale, di chi vuole trasferire i testi nel proprio tempo, e farne un mezzo per esprimere esigenze proprie e della propria cultura. Non diversamente, del resto, si serviva di Omero C. stesso, non diversamente gli scrittori cristiani cercavano nei classici affermazioni, valide, o comunque adattabili da inquadrare nella loro etica e nella loro dottrina. D'altra parte interpretare un testo in servigio della propria tesi, piegarlo a particolari esigenze dialettiche, condurlo nell'alveo di nuove credenze, significa prendere atto che la cultura del passato rappresenta una realtà storica da cui non si può prescindere. Il problema che si pone a chi confronti un passo citato o interpretato da D. con l'interpretazione che egli ne dà, implica una trama di valutazioni che reciprocamente condizionano il testo dantesco e la fortuna dell'autore utilizzato.
C. è per D. il maestro di filosofia e di retorica, mentre il C. stilista è una scoperta del così detto Preumanesimo (Schiaffini, Tradizione e poesia, Genova 19432, 131 ss.): fra gli autori qui usi sunt altissimas prosas (VE II VI 7) D. pone Livio, Plinio (s'intende, Plinio il Vecchio), Frontino, Paolo Orosio, ma non nomina Cicerone. Anzi su circa sessanta fra citazioni e allusioni ciceroniane riscontrate in D. dal Moore, solo due o tre risultano tratte dalle opere retoriche, una forse dalla terza catilinaria, tutte le altre dalle opere filosofiche, la maggior parte dal De Officiis, dal De Senectute, dal De Finibus; segue il De Amicitia, che D. stesso ricorda (Cv II XII 3 ss., XV 1) come l'opera che, accanto al De Consolatione di Boezio, più lo ha spinto allo studio della filosofia. In Mn I I 14 D. afferma che nessuno oserebbe più prendere le difese della vecchiaia dopo l'apologia che ne ha fatto C., come nessuno oserebbe cimentarsi nei temi trattati da Euclide e da Aristotele. Ma la più significativa di queste testimonianze è in quello che D. dice del De Amicitia, che leggendo le parole con cui Lelio si consola per la perdita dell'amico, l'Africano Minore, ne trasse il farmaco della filosofia al suo dolore per la morte di Beatrice, sì come ne la Vita Nuova si può vedere (Cv II XII 4). Il senso di queste parole ha ben chiarito D. De Robertis (Il libro della Vita nuova, Firenze 1961, 21 ss., 93 ss.): per C. l'amicizia non può essere senza virtù, né altro che fra persone virtuose; è un incontro di anime parimenti degne di essere amate, un incontro cercato disinteressatamente, che è fine a sé stesso: questo concetto D. trasferisce nella Vita Nuova all'amore sublimato nel ricordo delle virtù di Beatrice, come l'amicizia di Lelio si esalta nel ricordo di ciò che fu l'Africano. Anche se in D. il concetto prende nuova luce dall'esperienza cristiana, più di uno spunto si può far risalire al De Amicitia, conosciuto non solo per diretta lettura ma anche attraverso la divulgazione scolastica (numerose citazioni sono già nel Tresor di B. Latini). Nel cap. XVIII della Vita Nuova domina il tema che l'amore ha in sé il suo premio, la sua esaltante dolcezza: è motivo già centrale per l'amicizia in C., ed è filtrato in D. attraverso la cultura medievale e reso sempre attuale: ché la caritas cristiana è, altrettanto quanto la caritas ciceroniana, condizionata e resa perfetta da una propensione verso l'oggetto amato che non insegue l'utile o il piacere, ma conferisce essa alla vita il suo piacere e la sua gioia.
Questa estensione del tema ciceroniano dell'amicizia all'amore trasumanato ha un senso più alto dell'analoga ma più banale e forzata estensione che D. opera quando, in Cv I XII 3 ss., dichiara che vale per il suo attaccamento al volgare ciò che C. dice dell'amicizia fra gli uomini: se per C. la prossimitade e la bontade sono cagioni d'amore generative, questo si applica anche al volgare, sia perché è prossimo a ciascuno, sia perché gli è propria la bontade che consiste nel ben manifestare i concetti, e quindi è ragione dell'amore che D. gli porta (XII 6 e 13).
Nel Limbo C. è collocato (If IV 141) nella filosofica famiglia che fa corona ad Aristotele, accanto a Orfeo e a Seneca morale: perché anche Orfeo è per D. simbolo di saggezza che rende miti i cuori umani, li educa alla scienza e all'arte (Cv II 13), proprio come la filosofia morale ordina noi a l'altre scienze (II XIV 14): musica e filosofia sono congiunte come già in Platone. D. è dunque nella linea della tradizione medievale: non conosce le Lettere di C., come non le conoscevano Vincenzo di Beauvais e molti altri dotti (le conoscevano però Liutprando e Giovanni di Salisbury); delle orazioni predilige le Catilinarie come Lamberto di Hersfeld (in Cv IV V 19 il C. delle Catilinarie è visto come il nuovo cittadino di picciola condizione, l'homo novus cioè, che fu strumento della divina provvidenza per la salvezza e la difesa della romana libertà contro tanto cittadino quanto era Catellina). Esalta il De Senectute e il De Amicitia come Corrado di Hersfeld, che conosceva solo queste due opere; cita volentieri il De Officiis, come Abelardo (cfr. Sandys, citato in bibliografia, I 648 ss.). Anche per lui C. è in primo luogo il filosofo.
La lettura di C. filosofo è confermata in primo luogo da citazioni testuali, come quelle che si susseguono a breve distanza in Mn II V, passim, dove vari esempi di virtù romana sono introdotti con passi del De Finibus e del De Officiis, non perché C. sia considerato da D. come fonte storica, ma per una frase incisivamente polemica verso gli epicurei come quella su Cincinnato, condotto dall'aratro alla dittatura (Fin. II IV 12) o per il commento etico che l'Arpinate dà agli atti di valore di un Publio Decio (Fin. II XIX 61) o di un Catone (Off. I XXXI 112). All'inzio del De Finibus D. allude in Cv I XI 14 per paragonare a coloro che preferivano, secondo C., la cultura greca alla latina coloro che antepongono il provenzale al volgare d'Italia. Un passo di Off. III X 42 è riferito in Mn II VII 12, uno di Par. I I 6 è senz'altro tradotto in Cv IV XII 6-7; uno di Off. I XXVIII 98 in Cv IV VIII 2-3; una frase di Senect. XXI 77 in Cv II VIII 9, dove c'è anche un più vago riferimento a Senect. VII 21; uno a Senect. II 5 è in Cv IV XXIV 9: qui non meno vagamente si allude anche a Off. I XXXIV 122 e XXXV 127 (ma D. sembra citare a memoria e accordarsi molto genericamente con C., come nota il commento di Busnelli - Vandelli, ad l.). Altrettanto generica è la citazione dal De Officiis in Cv IV XV 12, che i commentatori riferiscono a I XXVI 90; e senz'altro a memoria e non rispettosa del contesto ciceroniano quella di Off. I XXXV 127 in Cv IV XXV 9.
Da Senect. V 13 D. attinge invece la precisa notizia che Platone visse fino a 81 anni (Cv IV XXIV 6), da Senect. XIX 70 l'immagine che la morte è come un porto, un rifugio da una lunga navigazione (Cv IV XXVIII 3 e 7). Un'altra frase di Senect. X 33 è resa letteralmente in Cv IV XXVII 2 certo corso ha la nostra buona etade, e una via semplice è quella de la nostra buona natura; e a ciascuna parte de la nostra etade è data stagione a certe cose (" tempestivitas est data "), e da Senect. XXI 77 è tratta la citazione di Cv IV XXI 9 sulla celestiale anima discesa dal cielo entro di noi in loco lo quale a la divina natura e a la etternitade è contrario.
Dal De Finibus (I VI 19 e XI 37) D. è informato che Epicuro intendeva il piacere come assenza di dolore (cioè, diremmo noi, lo concepiva come ‛ catastematico '): Cv IV VI 12. La stessa opera di C. è chiamata in causa da D. in Cv IV XXII 2-3; e il passo ciceroniano è stato individuato da Busnelli - Vandelli con molta verosimiglianza in Fin. V VI 15, anche se ne esce invalidata la tesi, già fragile di per sé nell'argomentazione, del Padoan (v. in bibliografia) che D., quando scriveva il Convivio, conoscesse del De Finibus solo il primo libro.
Ma anche se il nome di C. non compare, la sua presenza si avverte in più luoghi. Così se in If XI 23 ss. D'ogne malizia... / ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale / o con forza o con frode altrui contrista si riconosce l'eco di Off. I XIII 41 " cum... aut vi aut fraude fiat iniuria "; altrettanto, in Cv IV I 1 la sentenza di Pitagora Ne l'amistà si fa uno di più riecheggia C., anche se la fonte non è citata: Off. I XVII 56 " id quod Pythagoras vult in amicitia, ut unus fiat ex pluribus ". Anche l'accenno all'incorruttibilità di Curio Dentato in Cv IV V 13 è ricavato letteralmente da Senect. XVI 55, e il personaggio D. l'accosta a Fabrizio come in Senect. VI 15 e XIII 43, Amic. VIII 28. Sui filosofi molto antichi, de li quali primo e prencipe fu Zenone, che videro e credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade (Cv IV VI 9) D. è informato da C., specialmente da Acad. pr. II XLII 131 " honestum... Zeno statuit finem esse bonorum, qui inventor et princeps Stoicorum fuit "; così l'accenno alle scuole derivate da Socrate in Cv IV VI 13-14 è sulla scorta di Acad. post. I IV.
In Mn II IX 8 è citato un frammento di Ennio che D. non poteva conoscere se non da Off . I XII 38 (è la risposta di Pirro ai legati romani mandati a lui per il riscatto dei prigionieri). D. riporta il passo che è in C., tralasciando solo la seconda parte dell'ultimo verso " doque volentibus cum magnis dis ": probabilmente per il plurale ‛ pagano ' dis il quale non si addiceva al contesto dantesco secondo il quale chi combatte per un'idea di giustizia osservando le regole della guerra ha con sé Dio, come è promesso nel Vangelo. Da C. è riecheggiato il giudizio dantesco su Pirro: tam moribus Eacidarum quam sanguine generosus (Mn II IX 8); C. aveva definito la risposta del re d'Epiro " regalis sane et digna Aeacidarum genere sententia ".
Una citazione esplicita e testuale è poche righe più sopra (e sempre da Off. I XII 38): Et propter hoc bene Tullius...: inquiebat enim: " Sed bella quibus Imperii corona pro posita est, minus acerbe gerenda sunt " (Mn II IX 4): solo che C. (a parte qualche variante nell'ordine delle parole) ha " imperii gloria ", mentre corona ha per D. un più evidente sapore di attualità e acquista il senso di dignità o trono imperiale, come in Pg XX 58, Pd VIII 64, XIX 138 e XXX 134. D. sta parlando di una guerra che si decide attraverso un duello, per consenso delle parti in lotta, le quali rimettono al giudizio divino una controversia mossa non da odio ma da un'esigenza di giustizia. Il ciceroniano ‛ gloria ', nella sua polivalenza, gli suonava qui meno atto a sottolineare che non si tratta di rinomanza o potenza attribuita dagli uomini, ma d'investitura divina. D. sapeva da s. Tommaso che metaforicamente si chiama ‛ corona ' quel premio essenziale all'uomo che è la beatitudine di una piena comunione con Dio, ma, poiché muove dal senso letterale di signum regiae potestatis, la metafora si applica analogamente a ogni praemium accidentale che si aggiunga a quello essenziale (Sum. theol. III, suppl. 95, 1): ora, nel passo della Monarchia che qui c'interessa, D. sta parlando appunto dell'Impero inteso come ‛ premio ' che Dio, arbitro fra due contendenti che si misurano nel suo nome, concede come segno di vittoria (e qui si pensi a If IV 54) che è insieme crisma, riconoscimento divino (si pensi a corona di Pd XI 97) conferito a quella delle due parti che si batte per la causa più giusta. L'espressione Imperii corona, che non troverebbe posto nel latino ciceroniano, unisce nel contesto dantesco due significati egualmente precisi, di premio della vittoria in un agone e di potere imperiale concesso da Dio, premessa e garanzia di terrena felicità. Il nuovo senso che ora acquista secondo noi la " imperii gloria " ciceroniana ci pare chiosato poco oltre, dove D. induce che appunto il popolo romano ha conseguito l'Impero attraverso il duello, e pone il rapporto che lega i concetti di ‛ gloria ' e ‛ corona ': Quis igitur adeo mentis obtusae nunc est, qui non videat sub iure duelli gloriosum populum coronam orbis totius esse lucratum? Vere dicere potuit homo romanus quod quidem Apostolus ad Timotheum " Reposita est michi corona iustitiae "; ‛ reposita ', scilicet in Dei providentia aecterna (Mn II IX 19). Si spiega così che la ‛ imperii gloria ' ciceroniana diventi una ‛ corona ', che è anche qui corona di giustizia, conseguita per giudizio divino in un duello nel quale, aggiunge D., nefas est arbitrari iustitiam succumbere posse (IX 6). È anche questo un esempio di quell'intreccio di termini classici e biblici che già conosciamo in D. come suo modo di esprimere una fusione di esperienze antiche e nuove (cfr. A. Ronconi, Filologia e linguistica, Roma 1968, 220 ss.).
Che si tratti di citazione a memoria e di variante involontaria, pare dunque da escludere, e sono questi due significativi indizi di un modo di leggere C.: una soppressione ‛ cristianizzante ' e un ‛ aggiornamento ' storico-politico; per ciascuna di queste alterazioni si potrebbero incontrare dei precedenti nella tradizione scolastica e letteraria del Basso Impero e del primo Medioevo e nella stessa tradizione dei testi classici. Un luogo ciceroniano, non riferito più o meno esattamente, ma tradotto da D., è da Off. I XIV 43, in cui si sostiene che togliere a uno per donare a un altro è sempre rubare, né più né meno che prendere per sé la roba altrui. Nel paragrafo precedente C. aveva messo in guardia contro l'eccessiva liberalità che può andare oltre le possibilità del donatore e anche nuocere proprio a coloro a cui vuol giovare; e D. aveva sommariamente riassunto in Cv IV XXVII 12 la larghezza vuole essere a luogo e a tempo, tale che lo largo non noccia a sé né ad altrui. Senonché, continua ora C., " sunt... multi et quidem cupidi splendoris et gloriae, qui eripiunt aliis quod aliis largiantur, eique arbitrantur se beneficos in suos amicos visum iri, si locupletent eos quacumque ratione. Id autem tantum abest officio ut nihil magis officio possit esse contrarium ". D. si vale di questo passo nella sua invettiva contro i tiranni malestrui e malnati, che non solo fanno elargizioni ma ostentano sfarzo, imbandiscono conviti, indossano vesti magnifiche, si costruiscono palazzi, come se nessuno sapesse l'origine ingloriosa di tante ricchezze; e qui appunto egli si appella a C. traducendo: Sono molti, certo desiderosi d'essere apparenti e gloriosi, che tolgono a li altri per dare a li altri, credendosi buoni essere tenuti, [se li] arricchiscono per qual ragione essere voglia. Ma ciò tanto è contrario a quello che far si conviene, che nulla è più (Cv IV XXVII 15). C. parla di una falsa generosità di molti " che cercano la gloria " e credono di farsi un merito coi propri amici se li arricchiscono " con qualunque mezzo " onesto o disonesto: cosa tanto diversa dal rendere altrui un servigio (officium) che del render servigio è addirittura agli antipodi (perché presuppone un furto). Per D. si tratta di chi vuol apparire potente e mira ad acquistar gloria beneficando gli altri (non i propri amici, come C.) " per qualsiasi ragione ", cioè non per amore del prossimo ma solo per vana ambizione di ostentare grandezza. E la chiusa è banale e generica rispetto al testo ciceroniano: questo è contrario più di ogni altra cosa a ciò che si deve fare. Meglio appropriata è questa chiusa al contesto dantesco, il quale si inserisce in un discorso sulle qualità che più si convengono all'età dell'esperienza: fra queste è appunto il senso di misura in tutte le cose, anche nella liberalità. Un'aItra qualità (§16) è essere affabile, ragionare lo bene, e quello udire volentieri. E anche qui è invocato C. fuori luogo: è bene ragionare della virtù (dice D.) quando si è ascoltati come sono ascoltate le persone anziane, che per la loro lunga esperienza meglio conoscono il bene: Onde dice Tullio in quello de Senectute, in persona di Catone vecchio: " A me è ricresciuto e volontà e diletto di stare in colloquio più che io non solea " (§ 16). In realtà il Catone ciceroniano aveva detto che col passare degli anni si prende gusto ai banchetti non più per soddisfare la gola, come da giovani, ma per il gusto del conversare coi più giovani man mano che i propri coetanei scompaiono (Senect. XIV 46).
Anche la lettura del De Senectute si offre dunque a interpretazioni di comodo e adattamenti. Lo stesso accade se il vecchio Catone, rivolgendosi all'Africano Minore, ricorda il padre di lui Paolo e i due avi, il naturale e l'adottivo, e il padre di quest'ultimo che mai avrebbero compiuto sì grandi imprese se non avessero avuto la certezza di riceverne il premio nell'eternità: il fatto stesso che il saggio accetta di buon grado la morte è autorevole testimonianza dell'immortalità dell'anima. E continua portando ad esempio sé stesso: " Equidem efferor studio patres vestros, quos colui et dilexi, videndi, neque vero eos solos convenire aveo quos ipse cognovi, sed illos etiam de quibus audivi et legi et ipse conscripsi " (Senect. XXIII 83). Qui i " vostri padri " sono Paolo, l'Africano Maggiore e gli altri ricordati prima: e non solo il Censore si esalta all'idea d'incontrare nell'altra vita le persone che ha conosciuto in questa, ma anche i grandi vissuti prima di lui, di cui ha notizia solo dalla storia. D., che si limita a rendere le parole qui citate nel testo originale, non solo sostituisce il ‛ vostri ' che non ha un riferimento nel brano del Convivio con un generico ‛ nostri ' (a meno che egli abbia letto nostros, come si legge in una correzione al codice Parisinus Ashburnanensis 454 del sec. X), ma, ciò che più interessa qui, lascia da parte " convenire aveo quos ipse cognovi " (l'integrazione del testo dantesco che una parte degli editori - tra cui i curatori dell'edizione del '21 e non senza esitazione Busnelli-Vandelli - ricavano da C. sembra arbitraria: A me pare già vedere e levomi in grandissimo studio di vedere li nostri padri che io amai e non pur quelli, ma eziandio quelli di cui udii parlare, (Cv IV XXVIII 6); l'opposizione fra personaggi contemporanei e personaggi della storia si perde completamente in D. per dar luogo a un'opposizione ambigua tra persone ‛ amate ' e persone ‛ conosciute per fama '.
Come abbiamo detto in principio, D. non opera sul testo ciceroniano diversamente che C. stesso sugli autori greci, massime Omero, per adattarne il testo alle proprie tesi. Proprio l'interpretazione che C. dà in senso moralistico del mito omerico delle sirene intese come dispensatrici di sapere (Fin. V XVIII 49) può non essere rimasta senza eco in D., come già ha accennato F. Forti (in " Cultura e Scuola " 13-14 [1965] 501). Ma si tratta di eco parziale e indiretta: C. aveva tradotto un passo dell'Odissea e lo aveva commentato dicendo che Omero si era reso conto come il racconto sulle sirene non poteva reggersi se avesse soltanto idealizzato le dolci seduzioni del canto senza dare a questo un contenuto di dottrina, da Ulisse non meno desiderato della stessa patria: un eroe come Ulisse " desideroso di sapere " Si lascia attrarre solo dalla promessa d'insegnamenti; col dolce incanto riporterà in patria anche maggiore dottrina. In D. (Pg XIX 19 " Io son ", cantava, " io son dolce serena, / che ' marinari in mezzo mar dismago; / tanto son di piacere a sentir piena! / Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio; e qual meco s'ausa, rado sen parte; sì tutto l'appago! ") la sirena è, secondo la comune interpretazione nota anche a D., allegoria di vana e pericolosa seduzione dei sensi, e si contrappone alla donna santa e presta che appare d'improvviso per far colei confusa (vv. 26-27). Qui Ulisse è distolto dal suo viaggio, diversamente che in Omero: perché D., più che da un'antica tradizione fuorviato, crediamo, da un accostamento che è in Orazio (Epist. I II 23), identifica Circe (v.) con una sirena; ma col suo nome la chiama nel canto di Ulisse (If XXVI 90). Da C. dunque D. non ha ricavato l'interpretazione delle sirene come maestre di scienza ma, se mai, quella di Ulisse sapientiae cupidus, che del resto non gli veniva soltanto da C., ma da tutta una tradizione, che è ben nota al Forti, e che va da Orazio (Epist. I II 17 ss.), Ovidio, Boezio (Cons. phil. IV III 11) al Medioevo, ed è echeggiata non meno puntualmente là dove Ulisse è per D. esempio tipico di un'opposizione fra razionalità e brutalità: fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscena (If XXVI 119-120). ‛ Virtute e canoscenza '; in Orazio, nell'epistola citata, che D. conosce, Ulisse assommava in sé virtus e sapientia, era il modello di ciò che possono, insieme congiunti, il valor militare e la prudenza, cioè le due qualità tipiche del Romano, guerriero e politico; in D., mentre ‛ virtù ' è più generico, alla ‛ sapientia ' si sostituisce un termine diverso e più specifico, l'amore di conoscere, secondo quella concezione dell'Ulisse postomerico riflessa appunto in C. (Fin. V XVIII 49), dov'è detto che le sirene " scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupido patria esse cariorem ". L'Ulisse sapiens che sarà di Orazio e che è già di C. stesso in Tusc. V III 8 ecc., si configura più precisamente nel passo del De Finibus come sapientiae cupidus, avido di sapere, che antepone la scientia (" conoscenza ") alla patria; di qui può esser venuta a D. l'ispirazione per i vv. 94-98 del canto di Ulisse: né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né 'l debito amore / lo qual dovea Penelopè far lieta, / vincer potero dentro a me l'ardore / ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto: dove la ‛ patria ' si articola nel trinomio figlio, padre, moglie come (ad altro proposito, ma sempre con riferimento a Ulisse) in Off. III XXVI 97. Questa raffigurazione si colloca come terza fra le due tradizionali, indipendenti e contrapposte, esempio istruttivo dell'interpretazione moralistica che si dette di Omero dall'antichità al Medioevo: quella dell'Ulisse ‛ frodolento ' e ‛ doppio ', orditore d'inganni, che dai sofisti arriva a Virgilio e oltre Virgilio ( e fa sì che anche D. lo collochi nell'Inferno), e l'altra, platonica e stoica, di Ulisse che sa distinguere il vero dalle false apparenze, e resiste alle passioni lusingatrici, alla bellezza della maliarda Circe preferendo la saggezza di Penelope.
Due opposte concezioni si scontrano anche nel Catone Uticense dantesco: l'idealizzazione d'impronta lucanea fa di lui, nella Monarchia e nel Convivio, l'eroe che si sacrifica per la patria al pari dei Deci, e col suo sacrificio si fa testimone di un ideale di libertà e ne accende l'amore negli altri; questa concezione D. giustifica in Mn II V 15, appellandosi a 0f. I XXXI 112, di cui riporta le parole testualmente: il suicidio, che in altri pompeiani poteva essere addotto a colpa, diventa per l'inflessibile coerenza di Catone necessità di morire piuttosto che assistere allo spettacolo della tirannide. Significativo è che D. per bocca di C. separi dagli altri pompeiani Catone; e questo non soltanto, come C., per giustificare il suicidio, ma anche per un motivo meno contingente. Infatti, come ha osservato il Paratore (cfr. in bibliografia), D., mentre toglie a Lucano l'idealizzazione dell'Uticense, non ne subisce l'influsso per quanto riguarda l'atteggiamento ostile a Cesare; ma questo forse è meno singolare che al Paratore non sembri, perché Cesare incarna l'ideale dell'Impero esaltato nella Monarchia: è il primo vessillifero dell'aquila nel canto di Giustiniano, il primo principe sommo (Cv IV V 12), e ha in Enrico VII il suo ultimo successore (Ep VII). Catone resta il simbolo dell'opposizione alla tirannide che della monarchia idealizzata da D. è la degenerazione; è soprattutto il simbolo della perfetta e perenne coerenza alle proprie idee spinta sino al sacrificio della vita (Mn II V 17). Naturalmente in queste condizioni il ricorso alle fonti classiche non può essere condotto con totale coerenza; lo stesso Paratore opportunamente cita l'esempio di Curione, condannato all'Inferno come seminatore di discordia fra Cesare e Pompeo ed esaltato nell'epistola a Enrico VII per avere indotto Cesare a rompere gl'indugi di una guerra che instaurerà l'Impero. Virtù e colpa si collocano su piani che non sono commensurabili, in omaggio a ideologie che rappresentano momenti diversi del pensiero dantesco: il sogno imperiale è impersonato in Cesare, la virtù della sublime fedeltà a un'idea di libertà s'incarna in Catone: e di questa idea di libertà la Monarchia vagheggiata da D. è il presupposto, non la negazione. D. coglie il pretesto offerto da C. per scindere il martire dall'oppositore dell'Impero, per separarlo dagli altri della sua parte. Del resto, nota qui il Vinay, è tipicamente medievale la " disinvolta risoluzione simbolica dei contrasti e dei dissidi storici ", e la posizione del repubblicano C. si fa sfumata ed evanescente di fronte alla tesi, sostenuta nella Monarchia proprio a questo punto, che il popolo romano attuò il diritto assumendo per sé la dignità imperiale e facendo suo l'ideale monarchico. Così l'esaltazione dell'irriducibile avversario di Cesare non contrasta con la condanna dei cesaricidi al fondo dell'Inferno: Impero e libertà restano complementari anche se s'incarnano in due figure che furono tra loro avverse, Cesare e Catone.
Che D. abbia conosciuto il Somnium Scipionis, se si pensa alla sua diffusione lungo il corso del Medioevo, grazie a Macrobio, è in sé altamente verosimile: se e dove siano da vederne le tracce o le riprove, è questione aperta. Il Parodi con altri indica un riscontro (molto vago e problematico) fra Pg I 23 quattro stelle / non viste mai fuor ch'a la prima gente (Adamo ed Eva) e Somn. 3 " erant autem eae stellae [che si vedevano dalla via Lattea] quas nunquam ex hoc loco [dalla terra] vidimus ". Anche meno convince l'accostamento del Moore tra If II 76-78 e Somn. 6, che parte da un'ormai superata interpretazione del passo dantesco. Neppure si ricava molto dal fatto che tanto D. quanto C. (Somn. 4) sembrano conoscere un'eco della dottrina, nota anche a Vitruvio, che faceva di Mercurio e Venere due satelliti del Sole (cfr. E. Moore, Studies, III 40 n. 6): il circa e vicino a lui di Pd XXII 144 non ci sembra eco diretta del ciceroniano " hunc ut comites consequuntur ". Che il Sole sia fonte della luce degli altri astri, è, anche questa, idea comune a C. e a D., ma a D. poteva benissimo venire da Alberto Magno o da Ristoro d'Arezzo o da Brunetto Latini. Ma questo non toglie che altri indizi si possano indicare di una lettura del Somnium.
Il più recente lavoro sull'argomento, quello di G. •Rabuse (cfr. in bibliografia), accanto a osservazioni caute, ne ha alcune arrischiate: giusto è che, se l'ordinamento della sfera celeste segue lo stesso sistema in D. e in C., questo non prova nulla perché è il sistema stesso di Tolomeo, accettato da tutta l'astronomia medievale. Ma anche l'idea che la terra è un misero punto nell'universo è un luogo comune: D. (Pd XXII 133 ss.) lo esprime diversamente da C., dal quale non aveva bisogno di ricavarlo (Renucci), né i raffronti vaghi addotti dal Rabuse valgono a mostrare il contrario: tanto meno si può vedere una prova che il Somnium sia " fonte importante della Comedia " nel fatto che vi sono ricordate le benemerenze dell'Africano Maggiore (If XXXI 116, Pd XXVII 61 ss.). Anche dove i concetti si accordano, mancano i riscontri verbali come quelli che possono incontrarsi fra D. e Boezio, il quale appare a volte intermediario fra il Somnium e D.: ciò che è detto della caducità della fama terrena in Pg XI 100 ss. (Non è il mondan romore altro ch'un fiato / di vento, ecc.) si accorda certamente coi concetti del Somnium, ma il modello riecheggiato da vicino è certamente Boezio (Cons. phil. II pr. 7). Così non c'è ragione che il " quae dicam trade memoriae " ciceroniano abbia ispirato Pd XVII 128 tutta tua vision fa manifesta, piuttosto che Pd V 40 Apri la mente a quel ch'io ti paleso / e fermalvi entro, oppure Pg XXXIII 52 ss. Più interessanti sono altri raffronti, come quello tra Pd XVII 95 ss., dove la profezia di Cacciaguida, quando annuncia le 'nsidie / che dietro a pochi giri son nascose, può far pensare col Moore a " insidiarum " di Somn. 3; anche, aggiungiamo, giri ricorda " solis anfractus " di Somn. 2. Altri esempi ci sembra di poter indicare: Pg XV 64 Però che tu rificchi / la mente pur a le cose terrene, può ricordare " quousque humi defixa tua mens erit " (Somn. 4). Ancora: dal sonno si slega di Pg XV 119 è la stessa immagine che " somno solutus sum " con cui si chiude il Somnium. Un'eco ci pare di risentire in D. del primo incontro dell'Emiliano col padre Paolo, del quale ha pur chiesto notizie, e non si accorge che sta venendo verso di lui: è l'Africano Maggiore ad avvertirlo: " quin tu aspicis ad te venientem... " (Somn. 3). Anche in lf X 31 D., che ha chiesto da poco notizie di Farinata, ora non lo vede: è Virgilio a richiamare la sua attenzione con la stessa stupita premura: Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata... E vorremmo aggiungere ancora un indizio in Cv IV XXIX 6-7 non onore, ma disonore dee ricevere quelli che a li buoni mala testimonianza porta. E però dice Tullio che ‛ lo figlio del valente uomo dee procurare di rendere al padre buona testimonianza '. Il Moore (I 273) rinuncia a scoprire la fonte ciceroniana; il commento di Busnelli-Vandelli con buona volontà arrischia un poco persuasivo confronto con Divin. II XLV 94, dove si dice che i figli solo per forza di natura e non per congiuntura di astri assomigliano fisicamente e moralmente ai padri, e un altro con Rhet. Her. III VII 13 dove, fra i loci communes della laus o della vituperatio oratoria, è citato quello che accosta ai suoi antenati la persona elogiata col dire che è degna di loro, e la persona che si vuol mettere in mala luce col dire che non fa loro onore. Se anche il secondo raffronto è meno inaccettabile del primo, sia consentito, ipotesi per ipotesi, proporne un altro con le parole di Paolo Emilio al figlio in Somn. 3 " sed sic, Scipio, ut avus hic tuus, ut ego qui te genui, iustitiam cole et pietatem " e più ancora con le parole dell'Africano Minore all'avo (Somn. 8 " Ego vero... Africane... quamquam a pueritia vestigiis ingressus patris et tuis decori vestro non defui, nunc tamen tanto praemio exposito enitar multo vigilantius... ", dove pare meglio sottolineato il dovere del figlio di rendere ai maggiori, ma al padre in primo luogo, degna testimonianza, decori non deesse.
Delle opere retoriche ciceroniane scarsi sono i ricordi in D., ma non è senza motivo se C. in Cv II XV 1 presiede con Boezio al cielo della Retorica (Renucci p. 157, n. 392). La Rhetorica ad Herennium, allora testo classico in materia universalmente attribuita a C., sarebbe presente in molte parti del De vulg. Eloq., secondo il Renucci che indica i presunti echi (ibid.).
Ma conviene chiederci se certa terminologia dantesca non possa presupporre, anche meglio, il C. autentico.
La distinzione che D. pone in VE II IV 6 fra i tre generi tragico, comico, elegiaco, a cui si adatta rispettivamente un volgare illustre, un volgare ora mediocre ora humile, un volgare esclusivamente humile, è ricondotta dal Renucci a Rhet. Her. IV VIII 11 che distingue fra oratio " gravis ", " mediocris ", " extenuata ". Ma la distinzione è tradizionale e nota anche a C., che ne tratta più volte; e la terminologia dantesca ricorda se mai più da vicino la " oratio illustris " di Part. or. 20 e di Acad. II VI 17; la " humilis oratio " di Orator LVII 192, l'" humilis sermo " (§ 196),l'" humile verbum " di Brutus LXXIX 274. Quando D. nel De vulg. Eloq. disserta sulle ‛ pure loquele ' (I XV 8) più che ricordare col Renucci Rhet. Her. IV XII 17, ove si tratta di " elocutio commoda et perfecta ", si potrà pensare a " pure loqui " di De Orat. I XXXII 144; Opt. gen. 4; o a " purus sermo " di De orat. III X 38 ecc.; e non si può dimenticare che nello stesso luogo D. parla di un volgare turpissimum, che a chi lo parla può sembrare pulcerrimum, proprio come per Orator 158 è " turpe " una parola dal suono aspro e sgradevole, mentre " pulchre et oratorie dicere " è usare un frasario scelto (Orator LXVIII 227), cioè, com'è spiegato subito dopo, armonioso. Anche la definizione dello stile tragico di VE II IV 7, che il Renucci deriva da Rhet. Her. IV VIII 11, è in realtà intessuta di termini genuinamente ciceroniani, qui variamente intrecciati: i danteschi ‛ gravitas sententiae ', ‛ constructionis elatio ' , ‛ excellentia vocabulorum ' ricordano da vicino espressioni familiari all'Arpinate: " sententiarum gravitas "; " constructio verborum "; " elatio orationis "; " elate dicere "; " excellentia verba "; ecc. Le opere retoriche autentiche non si sono mai perdute nel Medioevo, e D. doveva conoscerle anche se espressamente citato è solo il De Inventione; del resto il Moore (I 163) ha mostrato che una citazione di Platone in Cv II IV 5 è desunta quasi letteralmente dall'Orator III 10. Che C. sia guardato come il teorico dell'arte retorica, non come il modello di una prassi stilistica, non deve sorprendere chi consideri che lo studio di C. è studio scolastico, non compenetrazione e assimilazione di una personalità riflessa nello stile. Se le orazioni appaiono in D. le meno lette, e le Lettere, copiate nei monasteri dell'alto Medioevo, restano a D., come si è visto, del tutto ignorate, ignoti non erano in Italia, almeno in larghi florilegi, l'Orator, il De Oratore, il Brutus, anche se il testo completo fu noto solo ai primi del Quattrocento (cfr. Sandys, 1651).
Il De Inventione è la sola opera retorica che D. cita espressamente nominando C.: e sono due parafrasi riassuntive più che citazioni. Nell'epistola a Cangrande (XIII 49), che ormai la critica più recente e più autorevole (a eccezione del Nardi) considera in tutto autentica, si legge: ad bene exordiendum tria requiruntur, ut dicit Tullius in Nova Rethorica, scilicet ut benivolum et attentum et docilem reddat aliquis auditorem; et hoc maxime in admirabili genere causae, ut ipsemet Tullius dicit. Il che deriva da Invent. I XV 20 " Exordium est oratio animum auditoris idonee comparans ad reliquam dictionem: quod eveniet, si eum benivolum, attentum, docilem confecerit. Quare qui bene exordiri causam volet ", ecc.; e dal paragrafo successivo: " In admirabili genere causae, si non omnino infesti auditores erunt, principio benivolentiam comparare licebit ". D. ha riassunto il testo latino, piegandolo ai propri fini. Anzitutto intende a suo modo l' " admirabile genus causae ", che per C. era quello " a quo est alienatus animus eorum qui audituri sunt ", cioè, come D. sapeva, e in ogni caso gli spiegava il suo Brunetto Latini; " Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale convenente che dispiace all'uditore, perciò ch'è di sozza e di crudele operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è contra noi et è straniato dalla nostra parte et in questo abisogna d'acquistare benivolenzia sì che l'uditore intenda, sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo padre o fatto furto o incendio " (La Retorica, ed. Maggini, 162-163). E non dice C. che ‛ specialmente ' nel " genus admirabile " si deve ricorrere alla " captatio benivolentiae ", ma che in questo caso vi si può ricorrere solo se l'avversione dell'ascoltatore non è totale e l'ascoltatore è recuperabile; altrimenti si deve ricorrere a un altro genere di esordio, che è l' " insinuatio " (cfr. B. Latini, ed. cit., p. 168). Invece per D., il quale secondo un'antica tradizione scolastica applica o storce alla poesia una precettistica che è dell'arte oratoria, il " genus admirabile " è quello rappresentato dalla terza cantica del suo poema: e così deduce: Cum ergo materia circa quam versatur praesens tractatus sit admirabilis, et propterea ad admirabile reducenda, ista tria intenduntur in principio exordii sive prologi (Ep XIII 50). E rende così ragione dei primi versi del Paradiso. L'esplicita ‛ tripartizione ' dantesca (tria requiruntur... ista tria intenduntur) in momenti distinti (rendere benevolo, rendere attento, rendere docile l'uditore) non è nel passo ciceroniano parafrasato, dove " benevolum, attentum, docilem conficere " si riassumono nell'unico concetto di " animum auditoris idonee comparare ": D. non l'ha desunta tanto da qui direttamente né da XVI 22, dove si parlerà separatamente del modo di rendere benevolo, attento, docile chi ascolta, quanto avrà tradotto, si può supporre, nel suo latino il commento dello ‛ sponitore ' Brunetto che al passo a cui D. si è richiamato annota, sottolineando la tripartizione: " primieramente dice che è exordio, mostrando che tre cose dovemo noi fare nell'exordio... " (ed. cit., p. 159).
Anche l'altra citazione dantesca riassume rapidamente il testo ciceroniano adattandolo al principio sostenuto (sulle orme di s. Tommaso) in Mn II V 1-3, che la legge è legge solo di nome se non mira al bene della comunità, che è il vero fine del diritto, e se non lega gli uomini in un reciproco impegno. E qui s'inserisce, più preziosamente che a proposito, la sua citazione ciceroniana: Propter quod bene Tullius in Prima rethorica: semper - inquit - ad utilitatem rei publicae leges interpretandae sunt (§ 2): e questo realmente dice il testo citato (Invent. I XXXVIII 68), ma nel senso che distingue l'interpretazione letterale da quella che intende lo spirito della legge: " omnes leges, iudices, ad commodum reipublicae referre oportet et eas ex utilitate communi, non ex scriptione, quae in litteris est, interpretari "; perché i " nostri maiores ", commenta C., nella loro saggezza non intesero mai scrivere nelle leggi cosa che potesse nuocere al bene della repubblica. L'ammonimento ai giudici che devono rettamente applicare la legge è invocato da D. a suffragio della tesi che identifica nel bene pubblico il fine del diritto: ammonimento ai governanti e ai legislatori, non, come in C., agli esecutori delle norme giuridiche. C. qui è l'autorità somma, la cui saggia parola è avallo di verità, come Omero per Platone e per C. stesso, che nel ‛ massimo poeta ' tradizionalmente considerato ‛ educatore della Grecia ' cercavano l'enunciazione prima di ogni verità. Non la parola ha valore in sé, ma l'ammaestramento che se ne può ricavare con un'accorta interpretazione. Un po' come le etimologie che, da Varrone a Uguccione da Pisa, allo stesso D., non erano ricostruzione storica del vocabolo ma ricerca della verità che si poteva vederci simboleggiata. Non diversamente opera D. sul testo virgiliano, con l'arte sottile che, costruendo su un sostrato classico la - propria ideologia, dalla parola degli antichi foggia un suo modulo espressivo adattato a più moderne esigenze e categorie di pensiero, quasi a simboleggiare l'incontro fra due mondi nel rivolgersi a lettori la cui cultura, essenzialmente formata sui testi classici, deve aprirsi a verità nuove.
Bibl. - J.E. Sandys, A History of classical Scholarship, rist., New York 1958, 648 ss.; T. Zielinski, C. im Wandel der Jahrhunderte, rist., Darmstadt 1967; E. Moore, Studies in D., I, Oxford 1896, 258 ss.; III, ibid. 1903, 14 ss., 40 ss.; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1951; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, ibid. 1954; E. Paratore, Tradizione e struttura in D., Firenze 1968, 62, 68, 154; F. Groppi, D. traduttore, Roma 19622; A. Taddei, D. traduttore nel ‛ Convivio ', in " Cultura neolatina " XXII (1962) 154-169; G. Padoan, Il canto degli epicurei, in " Convivium " XXVIII (1959) 19; G. Rabuse, Dantes Jenseitvision und das Somnium Scipionis, in " Wiener Studien " LXXIII (1959) 144 ss.; ID., Dante: Antäus-Episode, der Höllengrund und das Somnium Scipionis, in " Archiv für Kulturgeschichte " XLIII (1961) 18-51. Per un'ipotesi, del resto assai fragile, di relazioni tra la visione dantesca e il Somnium Scipionis, vedi L. Sala, Il sogno di Scipione e il Paradiso di D., Milano 1891. Interessa la fortuna di C. lo studio di P. Toynbee, Benvenuto da Imola and the De consiliis of C., in " Athenaeum " aprile 1899, 400.