MARGHERITA di Savoia, regina d'Italia
MARGHERITA di Savoia, regina d’Italia. – Figlia primogenita di Ferdinando Maria Alberto di Savoia, duca di Genova, e di Maria Elisabetta, principessa reale di Sassonia, nacque a Torino il 20 nov. 1851. Il padre, fratello minore di Vittorio Emanuele II, morì trentatreenne nel 1855 e l’anno dopo la madre si unì in matrimonio morganatico con il maggiore Nicolò Rapallo, già ufficiale di ordinanza del duca di Genova.
L’educazione di M. – curata inizialmente dalla contessa Clelia Monticelli di Casalrosso e poi da Rosa Arbesser, austriaca di buona famiglia entrata in servizio nel 1861 – fu, rispetto a quella tipica delle fanciulle di sangue reale dell’epoca, arricchita da studi più approfonditi e da inconsueta curiosità intellettuale. Bionda, alta, non particolarmente bella ma certo sensibile e orgogliosa, volitiva senza asprezza, M. era destinata a esercitare un grande fascino e, quando sarebbe divenuta regina, a influenzare fortemente le decisioni del marito.
Declinata la richiesta di un primo pretendente, Carlo di Romania, il matrimonio di M. con il cugino di primo grado, il principe ereditario Umberto di Savoia, fu deciso sul finire del 1867, su pressione del presidente del Consiglio L.F. Menabrea, da Vittorio Emanuele II. A quella data M. aveva appena compiuto sedici anni e Umberto, ventitreenne, aveva allacciato la relazione con la duchessa Eugenia Attendolo Bolognini in Litta Visconti Arese – famosa e corteggiata dama di Milano, di sette anni più grande di lui –, destinata a durare tutta la vita. Sottoscritto il 21 apr. 1868 nella sala da ballo del Palazzo reale di Torino, l’atto nuziale fu seguito il giorno successivo dal rito civile e dalla cerimonia religiosa.
I cinque giorni di festeggiamenti che seguirono, per il carattere di «festa popolare» che assunsero, ebbero il chiaro intento di restituire alla città di Torino quella centralità che il trasferimento della capitale le aveva sottratto e di rafforzare il prestigio della Corona. Ancor più, il viaggio di nozze in tutta la penisola fu anche un’operazione politica, un grandioso tour promozionale in favore dell’istituto monarchico, tanto più che, morta la regina Maria Adelaide, nel 1855, e non avendo Vittorio Emanuele una consorte ufficiale, M. assunse il ruolo di prima dama d’Italia. Era dotata di intuito politico ed era capace di fare e dire le cose più appropriate per suscitare l’entusiasmo popolare. Educata a una concezione paternalistica della regalità, l’idea di monarchia di M. aveva ben differenti tratti rispetto a quella parlamentare cui il figlio avrebbe aperto le porte, ricollegandosi piuttosto al modello dell’assolutismo illuminato. Resta il fatto che, in una Italia appena costituita e bisognosa di simboli unificanti, M. con un proprio stile personale, affinato grazie alla preziosa guida di Paola ed Emanuele Pes di Villamarina, contribuì in maniera determinante al radicamento e alla costruzione della dimensione nazionale della casa regnante.
Non a caso la coppia si stabilì a Napoli e lì, nella residenza di Capodimonte, l’11 nov. 1869 M. dette alla luce l’unico figlio, Vittorio Emanuele Ferdinando Maria Gennaro. E non a caso in quei viaggi lungo la penisola che divennero una prassi per i futuri sovrani e che si risolvevano quasi sempre in veri e propri bagni di folla, M., da principessa prima e poi da regina, non mancava di indossare i costumi locali e di apprezzare pubblicamente tradizioni e cultura del luogo, così accattivandosi, più del consorte, simpatie e perfino devozione. Maggiori difficoltà, ovviamente, tale operazione di nazionalizzazione della monarchia era destinata a incontrare nella città di Roma, dove i principi ereditari fecero ingresso a soli quattro mesi dalla breccia di Porta Pia, il 23 genn. 1871. Nella capitale spettò a M. il gravoso compito di conciliare – lei così intensamente devota fino ai limiti del bigottismo – il successo della monarchia con il rispetto del pontefice. E, se pure in parte, riuscì, compatibilmente con le rigidità delle due «corti nemiche», costituendo al Quirinale un proprio circolo capace di conquistare almeno i più tiepidi della società «nera» e di ridare linfa a una città che viveva nel torpore. M. divenne così punto di riferimento di un’intensa vita mondana – che era poi il suo modo di fare politica – e trasformò la reggia romana in uno dei salotti più aristocratici ed esclusivi di tutta Europa.
Sul versante personale, i rapporti coniugali si erano talmente deteriorati che dopo due soli anni di matrimonio, M. si era ritirata dal ruolo di moglie. Nonostante la rottura, restò accanto a Umberto e recitò dignitosamente la sua parte di consorte per il pubblico. Ognuno dei due ebbe la propria vita, ciò non escludendo una strettissima collaborazione in occasione di alcuni cruciali passaggi politici, come nei mesi successivi alla quasi contemporanea morte di Vittorio Emanuele II e di Pio IX (1878). Appena saliti al trono, il 9 genn. 1878 – Umberto trentaquattrenne e M. ventisettenne – i reali intrapresero l’ennesimo viaggio, a partire dall’alta Italia, affrontando piazze ritenute difficili come quella di Bologna. Fu proprio nella temuta culla del repubblicanesimo e del socialismo che la regina ottenne grande successo personale non solo tra la folla.
Grazie al suo fascino, conquistò anche il cuore di G. Carducci, che nel 1878 la cantò nell’ode Alla regina d’Italia, nel 1889 ne Il liuto e la lira e nel 1882 la definì «cortese al popolo; in palazzo […] regina», nell’Eterno femminino regale, attirandosi non poche accuse per questa sorta di «conversione alla monarchia». Carducci fu uomo che occupò un posto importante nella mente e nel cuore di M., certamente privilegiato anche rispetto alle celebrità che si raccoglievano nel «Circolo della regina», cioè in quel salotto di amicizie personali, soprattutto di esponenti del conservatorismo legati alla Destra storica, che si incontrava per discutere nei «giovedì della regina». Di questo cenacolo, tra tutti, fu M. Minghetti, i cui modi eleganti, intelligenza eclettica e brillante compagnia affascinarono M., a divenire il suo confidente intellettuale e vera e propria guida nel mondo della cultura.
Anche dopo il trauma dell’attentato di G. Passanante a Umberto I (Napoli, 17 nov. 1878) – che lasciò M. fisicamente provata ma soprattutto consapevole, più per istinto e sensibilità che per capacità di analisi politica, della ormai consumata fine dell’idillio tra casa Savoia e una parte dei cittadini italiani – la regina proseguì nella sua politica di costruzione di una rete di relazioni, sempre coadiuvata dai Villamarina che divennero dama d’onore e cavaliere d’onore. M. «costruì» la propria immagine tenendo sempre al centro l’obiettivo di accrescere il prestigio della Corona e, infatti, mentre negli anni Settanta nell’ambito del tentativo di accreditamento dell’immagine nazionale e democratica della monarchia, fece di sé l’icona per un nuovo inizio della storia italiana, negli anni Ottanta, quando si trattò di radicare l’immagine sociale della monarchia, si ritagliò un ruolo specifico come protettrice e visitatrice di ospizi per bambini e ciechi (nel 1892 nacque a Firenze sotto il suo patrocinio la prima biblioteca per ciechi), ospedali, società di carità e scuole, oltre che di accademie di istruzione e di esposizioni artistiche. E qui la sua fama di devota – rendendola gradita all’opinione pubblica cattolica e conciliatorista che da lei si attendeva una «benefica influenza» sulle posizioni del sovrano – amplificò il valore delle sue iniziative.
Negli anni Ottanta, grazie all’ausilio di un fitto stuolo di giornalisti e scrittori, si sviluppò intorno a M. un vigoroso culto. Nacque il «margheritismo»: dal settimanale di moda al cappellino, dalla pizza al cannone, dall’abito alla torta, tutto parlava della regina e, anche per i più graffianti polemisti alla P. Sbarbaro, la cui penna era prodiga di feroci attacchi al funzionamento del sistema politico italiano, al Parlamento e alla stessa Corona, M. appariva simbolo di «rigenerazione morale». Senza contare le frasi a lei dedicate da G. D’Annunzio ne Il fuoco (Milano 1900), in cui – non ultimo di un schiera di poeti non cortigiani ma affascinati da quella donna che ne sapeva lusingare la vanità – ne celebrò la grazia, il sorriso e la maestà.
Gli anni Novanta rappresentarono l’apice del successo di M., anche se la vita familiare non era affatto serena. Nella vita di Umberto era infatti nel frattempo entrata la «contessa fatale», Vincenza Publicola-Santacroce in Sforza-Cesarini, contessa di Santa Fiora e, conteso tra quest’ultima e la duchessa Litta anche in termini di influenza politica, il re sembrava in loro balia con ciò gettando l’ombra dello scandalo sul Quirinale. E ancora, su M. pesava la distanza dal figlio, che era distanza di vedute e di interessi, ancor più profonda dopo il matrimonio (previa conversione della sposa al cattolicesimo) di Vittorio Emanuele con Elena Petrović Njegoš di Montenegro. Ed è forse anche nel tentativo di restituire smalto all’istituzione che grande fu l’entusiasmo con cui M., sempre più maldisposta verso il regime parlamentare, guardò a F. Crispi presidente del Consiglio, quale «uomo forte» in grado di fare barriera di fronte alla minaccia sovversiva. Al tempo stesso aderì, sposando le aspirazioni nazionalistiche, all’impresa africana, senza mostrare tentennamenti anche dopo Adua (1° marzo 1896), a differenza dell’oscillante posizione di Umberto. Ancora in contrasto con un re smarrito e incapace di scegliere tra apertura alla versione democratica del liberalismo e velleità di dominio personale, durante la crisi di fine secolo M. si fece punto di riferimento per le forze reazionarie: ferma sostenitrice della repressione dei movimenti di piazza, esercitò non poca influenza su quei due atti «protocollari» che chiusero la vicenda del 1898 (il telegramma di congratulazioni e poi la decorazione a F. Bava Beccaris dopo i tumulti di maggio a Milano).
L’assassinio di Umberto I (29 luglio 1900), che certamente fu motivo di profondo dolore per M., fu una tappa ulteriore nella costruzione del suo mito: i suoi comportamenti corrisposero perfettamente alla parte della vedova straziata e inconsolabile che un’opinione pubblica emozionata e disorientata si attendeva da lei.
La preghiera in memoria di Umberto, che ella stessa scrisse di getto nelle ore successive alla tragedia, ben condensa i suoi ammiccamenti intellettualeggianti, lo zelo religioso, la consapevolezza del proprio ruolo. Con il titolo Devozione, articolata in «cinque misteri dolorosi», approvata da monsignor G. Bonomelli, l’orazione consegnava agli Italiani il dolore della sovrana più che della donna, la dimensione politica più che quella intima dell’omicidio. Nonostante la fortuna incontrata nell’opinione pubblica internazionale, l’intervento de L’Osservatore romano, che ne decretò l’inammissibilità nelle pratiche di culto, tradusse la condanna della Chiesa che relegò la preghiera a fatto privato della regina.
Rimasta vedova, con un encomiabile rispetto delle regole dinastiche M. fece un passo indietro rispetto alla nuora, la cui dimessa regalità le faceva orrore, e al figlio, le cui aperture politiche in senso liberale non comprendeva né tantomeno accettava. Non ancora cinquantenne, non volle però uscire di scena ma riaffermò anzi, con meno vincoli, la propria presenza pubblica e la propria curiosità per le novità dei tempi: come regina madre intensificò i viaggi anche fuori dall’Italia e si dedicò con rinnovato slancio alle opere di carità. Sul versante pubblico, sentì su se stessa l’onere di assolvere a quelle incombenze e a quel protocollo dai quali Vittorio Emanuele rifuggiva: recisamente avversa alla «monarchia socialista» inaugurata dal figlio, cercò fino all’ultimo di conservare e preservare le tradizioni, le abitudini e i fasti di casa Savoia. E questo tanto più dopo la nascita del nipote Umberto, al quale si dedicò con trasporto anche trascurando nei primi tempi le consuete abitudini.
Vittorio Emanuele III non ammetteva alcuna ingerenza femminile nella politica attiva, tantomeno quella della madre, la quale, di nuovo patriotticamente infervorata in occasione della guerra di Libia, avrebbe invece gradito poter seguire gli eventi attraverso contatti personali e fonti dirette. Nel 1914, se pure in dissenso da quella rottura della tradizione filogermanica della politica triplicista voluta da Vittorio Emanuele, M. scelse la posizione della neutralità ben comprendendo, a differenza della maggior parte dei nazionalisti, quali e quanto profonde fossero le differenze tra una guerra coloniale e un conflitto tra potenze che fin dall’inizio aveva assunto il profilo di uno scontro ideologico. Tuttavia, a intervento deciso partecipò senza risparmiarsi nel modo che era possibile per il suo rango, attraverso l’assistenza a feriti e a madri, mogli e figli dei caduti.
In quest’attività M. sentiva di realizzare pienamente quella conciliazione tra patria e fede che tanto stava a cuore a lei e a quei settori del mondo intellettuale e del clero (in primis, monsignor Bonomelli, suo confidente e maestro di vita spirituale) impegnati a «cattolicizzare» l’Italia laica uscita dal Risorgimento. Palazzo Margherita – quel palazzo Piombino di via Veneto appartenuto al principe Boncompagni Ludovisi e divenuto residenza della regina-madre dopo la morte di Umberto – divenne così ospedale territoriale della Croce rossa e nell’assistenza lì portata ai feriti M. fu appassionata protagonista.
Al termine del conflitto la risposta di M. di fronte alla minaccia della rivoluzione bolscevica non poteva che essere quella della totale chiusura al nuovo: nazionalismo, conservatorismo sociale, antisocialismo, antiparlamentarismo; il tutto all’insegna di un governo autoritario, fondato sul culto della dinastia e sul ruolo dell’Esercito. Non stupisce dunque che, per l’attivismo «redentore» che lo animava, per l’uomo forte che lo guidava, per l’organizzazione paramilitare e per i richiami alla romanità, ella fosse affascinata dal movimento fascista e che nella primavera del 1922 scegliesse di appoggiarlo aprendo un filo diretto con la sua componente monarchica. La vocazione reazionaria di M. si compiva dunque nell’abbraccio con il regime, cui M. aggiunse una particolare e profonda stima personale verso B. Mussolini, senza però che ciò implicasse una qualche partecipazione politica ufficiale.
Gli ultimi anni – con soggiorni sempre più lunghi a Bordighera e a Gressoney – furono dedicati alle consuete incombenze: tra ricevimenti, visite a scuole e ospedali, fervida vita religiosa, quel periodo restituisce l’immagine di una M. fino all’ultimo compresa nel proprio ruolo, impegnata con slancio nella «missione dinastica» cui sentiva di dovere assolvere.
M. morì a Bordighera il 4 genn. 1926.
Il viaggio della salma verso il Pantheon, intrapreso il 10 gennaio, fu l’ultima dimostrazione della popolarità della regina e l’ultimo tassello aggiunto alla costruzione della sua leggenda.
Fonti e Bibl.:
L. Civinini, La regina di spade e la regina di cuori: M. di S. e Eugenia Litta, e S. Schiffini, Il compito regale di M., entrambi in Monza 29 luglio 1900. Il regicidio, dalla cronaca alla storia, a cura di P.E. Fiora, Milano 2000, rispett. alle pp. 56-64, 65-73;
F. Scaglia, M. vuole il Regno, Milano 2000;
C. Casalegno, La regina M., Bologna 2001;
C. Bocca, I Savoia, Roma 2002, ad ind.;
S. Bertoldi, Il re e M.: amore e morte nell’Italia di casa Savoia, Milano 2004.
Per l’infanzia, spunti nel diario di C. Crone Marsh, Un’americana alla corte dei Savoia. Il diario dell’ambasciatrice degli Stati Uniti dal 1861 al 1865, a cura di D. Lowenthal - L. Quartermaine, Torino 2004, passim.
Sulla vita di corte cfr. P. Vasili, Roma umbertina, a cura di F. Sarazani, Milano 1968 [ed. orig., La société de Rome, Paris 1889]; P. Paulucci, Alla corte di re Umberto. Diario segreto, a cura di G. Calcagno, Milano 1986, ad ind.; La giovinezza di Vittorio Emanuele III nei documenti dell’Archivio Osio, a cura di M. Bondioli Osio, Milano 1998, ad indicem.