MARZANO, Marino
– Di nobile famiglia napoletana, nacque verosimilmente agli inizi del sec. XV, figlio unico di Giovanni Antonio, duca di Sessa, conte di Alife e Squillace e grande ammiraglio, e di Covella Ruffo, dal 1419 principessa di Rossano e contessa di Montalto. Nel 1433 la regina Giovanna II di Napoli confermò al M. l’eredità della carica di grande ammiraglio, con la facoltà di nominare sostituti. Secondo i Diurnali, Giacomo Caldora, capitano di ventura al servizio di Renato, duca d’Angiò, tenne a lungo il M. in prigione a Napoli e nel 1438 lo portò nei suoi castelli abruzzesi. Il 3 maggio 1444 il M. sposò Eleonora d’Aragona, figlia naturale di Alfonso V d’Aragona, re di Napoli e di Sicilia; ricevette in dote dalla madre il principato di Rossano e la contea di Montalto, dal padre il ducato di Squillace e divenne padrone di gran parte della Calabria. Il 2 nov. 1445, morta la madre del M., Alfonso V gli confermò il principato di Rossano, il ducato di Squillace e la contea di Montalto, con tutte le terre e città costiere comprese tra il golfo di Squillace e il golfo di Taranto.
Il 15 marzo 1452 Alfonso V mandò il M. e il padre a Roma per assistere all’incoronazione imperiale di Federico III d’Asburgo. Dopo la cerimonia, il M. accompagnò a Napoli Federico e la moglie Eleonora di Portogallo, nipote di Alfonso V d’Aragona. Lungo il viaggio la coppia imperiale sostò nel castello di Sessa, ricevuta con sfarzo dal M. e dalla moglie. Quando i due giunsero a Napoli, il M. li accolse sontuosamente, con altri cavalieri, e partecipò alle giostre in loro onore, svoltesi in un anfiteatro di legno montato davanti al Castelnuovo. Il 19 aprile il M. prese parte a Napoli al torneo in onore di Federico, secondogenito di Ferdinando, duca di Calabria e figlio naturale di Alfonso V, tenuto a battesimo da Federico III. Il 5 luglio, morta Polissena di Fuscaldo, Alfonso V donò al M. la baronia di Fuscaldo e la terra di Paola, situate in Calabria, non lontano da Montalto.
Alla morte del padre (1453) il M. divenne duca di Sessa, conte di Alife e grande ammiraglio, con uno stipendio annuo di 366 onze e gli emolumenti connessi alla carica. Il 12 dicembre Alfonso V lo autorizzò a esportare 3000 salme di frumento franche dai porti della Calabria. Divenuto ammiraglio, il 17 genn. 1454 il M. nominò Joannello Perrone protontino (ammiraglio) del tratto di costa compreso fra Cetraro e Amantea. Il M. partecipò al Parlamento del 1456, alla fine del quale i baroni offrirono al re un consistente sostegno finanziario in cambio di privilegi giuridici e fiscali. Lo stesso anno il M. accolse ad Aversa, con altri nobili, gli ambasciatori di Enrico IV di Castiglia e li accompagnò a Napoli da Alfonso V. Il 19 apr. 1457 Alfonso V concesse al M. una pensione annua di 3000 ducati sul focatico versato dagli abitanti delle sue terre, il 1° settembre altre 40 onze annue. Inoltre, il re gli accordò la facoltà di lasciare in eredità al primogenito l’ufficio di grande ammiraglio. Il M. non doveva risiedere stabilmente a Napoli per esercitare la carica di grande ammiraglio, poiché alcuni suoi provvedimenti furono emanati dal palazzo di Sessa. Fra le sue residenze, ricordiamo il palazzo di Carinola, che costituisce un esempio di architettura catalana e richiama le sculture del maiorchino Matteo Forcimanya.
Alla morte di Alfonso V (27 giugno 1458) il M. si recò a Napoli per rendere omaggio al figlio Ferdinando I. Secondo Pontano, il M. voleva convincere Ferdinando ad affidare l’amministrazione agli italiani cacciando catalani e aragonesi. A novembre il M. fu inviato in Calabria con 105 cavalieri per reprimere la ribellione del marchese di Crotone. Nonostante i favori ricevuti da Alfonso V e la parentela che lo legava a Ferdinando, il M. iniziò a diffidare del re e smise di frequentarlo. Giunto in Calabria, il M. fu indotto a ribellarsi dal principe di Taranto e spinse alla rivolta anche Galeazzo Pandone. Senza avere dichiarato guerra al re, nel luglio 1459 il M. s’accampò con 1000 cavalieri tra Prata e Alife, compì incursioni e razzie a Capua, nell’agro campano, tra il Volturno e il Garigliano, nella piana del Liri e spinse alla ribellione gli abitanti della Campania. Per riconquistare la fiducia del M., Ferdinando gli affidò l’incarico di marciare contro Pandone e a settembre ottenne la sottomissione del principato di Rossano. Secondo Summonte, il M. chiese a Giovanni II re d’Aragona, fratello di Alfonso V, di strappare il Regno di Napoli al nipote Ferdinando, ma costui rifiutò perché era impegnato a combattere in Catalogna e Navarra.
Il M. divenne così il principale sostenitore di Renato, duca d’Angiò, competitore di Ferdinando, e lottò al fianco di Giovanni, duca di Lorena, figlio di Renato. Lasciata Genova con una flotta, a novembre Giovanni fu autorizzato dal M. a sbarcare nelle sue terre, a dicembre si incontrarono a Baia al Volturno per stringere un accordo contro Ferdinando e pianificare la strategia militare. Il 20 dicembre il re prese Calvi, tra Capua e Teano, che controllava la via verso l’Abruzzo, ma il M. la riconquistò. Dopo una sosta a Teano, il M. accompagnò Giovanni a Sessa, dove fu accolto con archi trionfali, luminarie, banchetti e danze. Il M. giurò fedeltà a Renato d’Angiò e scelse Giovanni come padrino del figlio Giovan Battista, appena nato, battezzato nella cappella del castello di Sessa.
Il voltafaccia del M. suscitò la riprovazione di Pontano, secondo il quale il M. era nobile di sangue, ma non d’animo; quando era adolescente il padre lo aveva allontanato dalla sua vista sapendo che era di indole perversa, e lo avrebbe disconosciuto come figlio se Alfonso V non gli avesse fatto sposare la propria figlia, Eleonora, confermando ed estendendo il suo vasto dominio feudale. Nonostante ciò, per tutta la vita il padre continuò a criticare l’animo cattivo e i costumi perversi del M. e diceva che avrebbe rovinato la sua casata. Il giudizio negativo sul M. espresso da Pontano fu ripreso da Summonte. Secondo alcuni cronisti, il M. tradì Ferdinando perché temeva che gli togliesse i feudi, secondo altri perché il re aveva commesso incesto con la sorella Eleonora, moglie del M.; papa Pio II, invece, attribuì la ribellione del M. alla mancata concessione della città di Traetto (oggi Minturno).
Ferdinando autorizzò i baroni a lui fedeli a impadronirsi delle terre del M., ma si riservò il possesso di Rossano, Squillace e Montalto. Il 15 febbr. 1460 il re donò la città di Alife e la terra di Raviscanina a Onorato Caetani, conte di Fondi e protonotaro del Regno. Mentre Ferdinando combatteva in Terra di Lavoro, il M. mandò a chiamare Gregorio Coreglia, familiare regio, e gli disse che voleva riconciliarsi con il sovrano perché si era pentito di avere tramato contro di lui. Per dimostrare il suo pentimento, il M. elogiò i benefici ricevuti da Alfonso V, ricordò l’infanzia trascorsa con Ferdinando, i figli avuti da Eleonora e lamentò l’insolenza dei Francesi. Coreglia riferì gli esiti del colloquio al re che, dopo averne parlato in Consiglio, decise d’incontrare il M. a Torricella, in una chiesetta a un miglio e mezzo da Teano, per raggiungere un accordo di pace. L’incontro avvenne nel maggio 1460: Ferdinando si presentò accompagnato dal conte Giovanni Ventimiglia, poco idoneo a combattere per l’età avanzata, e da Gregorio Coreglia, debole e col braccio destro fuori uso; il M. aveva invece con sé i cavalieri Deifobo Anguillara e Giacomo Montagano, robusti e armati. Pontano racconta che Ferdinando e il M. si appartarono e, mentre Giacomo teneva a bada i due compagni del re, Deifobo andò con un pugnale avvelenato verso Ferdinando, che sguainò la spada e mise in fuga il M. e Deifobo. Secondo Summonte, la discussione degenerò per l’arroganza del M., che era talmente adirato da non riuscire ad articolare i suoi pensieri. Quando il M. tirò fuori il coltello per uccidere il re, costui sguainò la spada e lo mise in fuga.
L’episodio fu scolpito nelle due formelle superiori della porta di bronzo del Castelnuovo, a Napoli, realizzata tra il 1474 e il 1475. Nella formella sinistra è raffigurato l’incontro a Torricella, in quella destra l’assalto respinto. Di Costanzo riferisce che Deifobo portava la spada sia nella raffigurazione dell’attentato fatta dipingere in una camera della villa di Poggioreale sia nel dipinto della Duchesca, dimore realizzate tra il 1487 e il 1490 su progetto dell’architetto toscano Giuliano da Maiano. Nel sonetto «Vedi invitto signor, come risplende», Iacopo Sannazzaro descrive Ferdinando che da solo «sì fiero in vista, da tre nemici armati si difende» (p. 199) e afferma che forse un giorno qualcuno rivelerà la reale dinamica dell’attentato, «per memoria di sì bel fatto e di sì crudo inganno» (p. 200).
Il re informò papa Pio II che il M. aveva cercato di ucciderlo con l’inganno. Il 7 luglio 1460 Ferdinando fu sconfitto a Sarno e si ritirò a Napoli. Francesco Sforza, duca di Milano, e Antonio Piccolomini, nipote di Pio II, inviarono truppe in aiuto del re. Il M. fu dichiarato ribelle e il re concesse sulla carta il ducato di Sessa ad Antonio Piccolomini, che nell’aprile 1461 espugnò Castellammare di Stabia, presidiata dagli uomini del Marzano. Diffusasi la notizia della ribellione contro Ferdinando, si sollevarono anche i baroni e la popolazione dell’Abruzzo e del Molise. Quando L’Aquila e Campobasso si arresero ai ribelli, la rivolta si estese anche in Calabria e un contingente militare del M. si accampò a Squillace. L’esercito di Giovanni d’Angiò giunse in Puglia, dove anche il M. combatté. Nell’agosto 1462 Ferdinando sconfisse a Troia il duca d’Angiò e nel gennaio 1463 tornò a Napoli, accolto dai nobili e dal popolo, ma il M. continuava a resistere. Il re progettò di attendere l’estate per devastare i raccolti e depredare il bestiame, senza attaccare le città e le fortezze, perché il M. aveva collocato cavalieri e fanti a presidiare i passi.
Seguendo le sollecitazioni di Pio II e dello Sforza, Ferdinando mise a ferro e a fuoco la zona tra Capua e Teano e si spinse fino ai bagni di Sessa. Il M. si asserragliò presso il monte Massico e pose cavalieri e fanti a guardia di due passi, uno molto angusto e ben fortificato, l’altro nei pressi dei bagni di Sessa, difeso da bastioni e sorvegliato. Le truppe del re assaltarono i bastioni, misero in fuga il M. e razziarono animali e raccolti, poi cercarono di conquistare la rocca di Mondragone, accampandosi nella pianura sottostante. Il M. e il duca Giovanni assaltarono l’accampamento regio di notte con numerosi fanti e, respinti con difficoltà dal re, fuggirono con alcuni prigionieri. Sessa era ben fortificata, circondata da un territorio ricco di casali in cui abbondavano frumento e uva, e i contadini assicuravano al M. le vettovaglie. Dopo avere saccheggiato i casali e catturato 50 cavalieri e parecchi fanti sotto le mura di Sessa, l’esercito regio s’accampò a due miglia dalla città. Temendo che il M. lo abbandonasse, Giovanni d’Angiò gli assicurò che presto sarebbero giunti soldati, armi e denaro, inviati da Marsiglia e da Genova, e Ferdinando gli avrebbe concesso una tregua. Nonostante l’arrivo di due compagnie di cavalieri e di 200 fanti, il M. temeva che gli abitanti di Sessa si ribellassero per la mancanza di grano, e inviò ambasciatori al re per chiedere una tregua.
Ferdinando si disse disposto a un accordo di pace, ma rifiutò la tregua, temendo che fosse uno stratagemma per prendere tempo. Il M. respinse con vari pretesti l’ambasciatore del duca di Milano, il vescovo di Ferrara e il cardinale Bartolomeo Roverella, legato di Sisto IV, giunti per trattare la pace. Allora il re fece distruggere a colpi di bombarda la torre più debole del castello di Sessa, posta a guardia del fiume, e ottenne la resa di quella meglio munita. Il castello a valle era già stato danneggiato e fu bruciata anche la torre dei bagni. Dopo la pesante sconfitta, il 5 luglio 1463 il M. rientrò a Sessa. In agosto ripresero le trattative con la partecipazione del cardinale Roverella. Il M. si disse consapevole di avere offeso il re e affermò che la soluzione per ricomporre il conflitto era fare sposare il proprio figlio, Giovan Battista, con Beatrice, figlia di Ferdinando e della duchessa Isabella Chiaramonte. Grazie alla mediazione di Alessandro Sforza, fratello di Francesco, e del cardinale Roverella, il 7 settembre Ferdinando e il M. si riconciliarono e stipularono un accordo per fare sposare Giovan Battista, di quattro anni, e Beatrice, di sei, quando l’età l’avesse consentito.
Per suggellare l’intesa, il re mandò Beatrice a Sessa dalla sorella Eleonora, affinché i promessi sposi crescessero insieme, mentre il M. diede in pegno a Ferdinando fortezze e castelli. Il 10 genn. 1464 il M. si trovava a Sessa, da dove spedì una lettera al duca di Milano pregandolo di garantire la sua incolumità, poiché doveva recarsi al convegno convocato dal re a Mazzone delle Rose, presso Capua, per ricevere dai baroni il giuramento di fedeltà.
Dopo la resa del M., Giovanni d’Angiò promise di partire da Sessa entro quindici giorni e, con l’aiuto del M., si rifugiò a Ischia. Nonostante il patto col re, il M. si tenne in contatto con il duca e gli inviò vettovaglie, soldati e armi. Nell’aprile 1464 Giovanni lasciò l’isola per Marsiglia. Domate le rivolte baronali, Ferdinando radunò l’esercito in Terra di Lavoro, per sferrare l’attacco finale contro i ribelli e punire il M., che per primo aveva accolto Giovanni d’Angiò nelle sue terre. Per non destare sospetti, Ferdinando agì d’astuzia. Pontano racconta che il re si accampò presso il fiume Savone, vicino alla torre di Francolise, e compì battute di caccia nel territorio di Capua e di Aversa, poi ingiunse al M. di presentarsi nell’accampamento con l’esercito, se non voleva essere dichiarato suo nemico e attaccato. Il M. decise di recarsi dal re, sollecitato dai suoi e perché temeva che la popolazione si ribellasse per la fame. Giunto nell’accampamento, il M. fu ben accolto e alloggiato nella tenda regia, dove rimase alcuni giorni. L’8 giugno le guardie del re arrestarono il M., che si era allontanato a cavallo con pochi uomini, e lo condussero in prigione prima a Capua, poi nel Castelnuovo di Napoli. Il 10 giugno tutte le terre del ducato di Sessa prestarono omaggio di fedeltà al re. Nel 1466 Ferdinando donò al conte Galzerano de Requesens una casa confiscata al M. a Napoli, presso S. Pietro a Majella.
Il re fece imprigionare il M. in malsane prigioni, con il figlio Giovan Battista, e gli confiscò tutti i feudi, le città e le fortezze. Secondo Corio, la punizione riservata al M. «dette gran pavento» agli altri baroni ribelli (p. 1369). Ferdinando fece condurre ad Aversa la moglie e le figlie del M. e assegnò loro una prebenda di 3000 ducati annui. Poi Eleonora ottenne dal fratello il permesso di vivere a Capua, nel castello delle Pietre. Il 10 luglio 1482 Ferdinando vendette per 12.000 ducati la città di Alife e le terre di Mondragone, Santangelo e Raviscanina al cavaliere Pasquasio Diasgarlon, castellano del Castelnuovo. La città di Sessa fu affidata a un viceré fino al 1495, quando giunse a Napoli Carlo VIII di Francia e il figlio del M. fu liberato. Commines e Della Marra affermano che il M. rimase in prigione fino alla morte di Ferdinando I (25 genn. 1494).
Salito al trono di Napoli, Alfonso II d’Aragona fece trasferire il M. a Ischia insieme con altri prigionieri e lo fece uccidere con un colpo di mazza sul capo da un moro che subito dopo fu liberato. Per altri, il M. morì in prigione di morte naturale nel 1489.
Il re fece imprimere nella moneta d’argento detta armellina, del valore di mezzo carlino, un ermellino circondato dal fango, per ricordare l’ingratitudine del M., perché l’ermellino preferisce morire di fame e di sete nella tana piuttosto che sporcarsi, quando i cacciatori otturano la tana col fango per catturarlo. Per altri nel 1465 Ferdinando I fondò l’Ordine dell’Armellino, con il motto «Malo moriri, quam faedari», per ricordare la sua clemenza verso il M., tenuto prigioniero e non ucciso, sebbene avesse attentato alla vita del re. Volpicella ritiene infondata la notizia, poiché i motti impressi sul collare dei cavalieri dell’Ordine dell’Armellino e sulle monete sono «Decorum» e «Serena omnia».
Dalla moglie Eleonora il M. ebbe Giovan Battista, Covella, Caterina, Margherita e Maria. Il progettato matrimonio tra la figlia di Ferdinando I e Giovan Battista andò a monte e il papa sciolse i promessi sposi da ogni obbligo poiché consanguinei, così Beatrice poté sposare Mattia Corvino, re d’Ungheria. Giovan Battista uscì di prigione nel 1495 e sposò Franceschella Lentini. Ferdinando I fece sposare Covella con Costanzo Sforza, figlio di Alessandro, principe di Pesaro; Caterina con Antonio Della Rovere, conte di Sora e d’Arpino, nipote di papa Sisto IV; Margherita con Leonardo de Tocco, despota di Larta, duca di Leucade e conte di Cefalonia; Maria con Antonio Piccolomini, duca di Amalfi e conte di Celano, vedovo di una figlia naturale di Ferdinando.
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