CASELLA, Mario
Nato a Fiorenzuola d'Arda (Piacenza) l'11 aprile del 1886 da Carlo e da Erminia Fornaroli, dopo gli studi medi a Parma si iscrisse alla università di Firenze, presso la quale si formò alla scuola di P. Rajna, E. G. Parodi e G. Mazzoni. Conseguita la laurea con un'originale dissertazione su jacopone da Todi, i cui temi centrali verranno ripresi e ampliati in un successivo saggio (Archivum Romanicum, IV [1920], pp. 281-339, 429-485), vinse una borsa di studio presso la medesima università, alternandone gli impegni tuttavia con una permanenza a Roma. Una seconda borsa di studio per perfezionamento all'estero gli consentì di soggiornare tra il 1914 e il 1915 in Spagna, e soprattutto a Barcellona, ricevendo fruttuosi impulsi culturali dalla conoscenza e dalla frequentazione di giovani intellettuali e studiosi affermati nel campo della catalanistica, tra i quali spiccava Antoni Rubió i Lluch.
Richiamato in patria dallo scoppio della guerra, vi partecipò con il grado di sottotenente di fanteria,. cadendo prigioniero nell'ottobre del 1917. Ripresi gli studi con la fine del conflitto, nell'autunno del '22 vinse il concorso per la cattedra di lingue e letterature neolatine presso l'università di Catania, dove insegnò per due anni. Chiamato a Firenze per succedere al Rajna, svolse con impegno e dignità la sua attività, quantunque si trovasse nel mondo accademico nella posizione di un emarginato per i suoi sentimenti politici ostili al regime, palesati dapprima con la sottoscrizione del manifesto Croce e, in seguito, con il rifiuto a iscriversi al partito fascista. Nel 1931 accolse l'invito della Columbia University di New York a tenervi dei corsi; fu accademico della Crusca, e dal 1949 diresse la rivista Studi danteschi.
Morì a Firenze il 9 marzo 1956.
Sebbene gli esordi del C. si muovessero nell'ambito della storia culturale della sua terra natia di cui ricostruiva momenti e vicende, tuttavia già davano la misura del livello di competenza raggiunto, soprattutto nel settore della medievalistica italiana, e dell'adozione di una prospettiva d'indagine che, nonostante i limiti provinciali, tendeva a non isterilire la ricerca entro i confini dell'erudizione e del puro dato documentario. Così nei due articoli Dell'antico nome di Fiorenzuola e Del comitato Aucense, apparsi nel 1910 (Boll. stor. piacentino, V, 3, pp. 97-115, e V, 6, pp. 257-268) le indagini sui toponimi vengono sorrette da un materiale di riferimento che attinge ampiamente alla storia civile e letteraria. Gli stessi criteri metodologici intesi a ristabilire i rapporti fra ambiente storico-culturale e fatti linguistici si ritrovano in uno scritto più tardo su Un oppidum celto-ligure dell'Appennino (ibid., XV [1920], 3-4, pp. 49-58). Ma il contributo di maggior impegno nel settore della ricerca linguistica, che rivela le sue doti di studioso attento e rigoroso, è dedicato alla Fonologia del dialetto di Fiorenzuola (St. romanzi, XVII [1922], pp. 5-71).
Insieme con scritti di interesse linguistico e storico-filologico, veniva intanto pubblicando un buon numero di saggi che facevano conoscere particolari interessanti della storia e della cultura della sua provincia: Le origini di Piacenza e una dotta polemica intorno ad esse (Piacenza 1912); Versi e prose d'amore in carte notarili del '300 (in Boll. stor. piacentino, VIII [1913], pp. 248-261); Note sul movimento dei Disciplinati a Piacenza (ibid., XVI [1921], 3, pp. 97-110). Nella stessa direzione ma su un piano storiografico più articolato si collocano alcuni scritti come Annibal Caro segretario di Ottavio Farnese (ibid., VIII [1913], 2-4, pp. 49-56); La Cronaca di Pietro da Ripalta e le sue fonti (in Arch. Muratoriano, I [1913], pp. 589-606) e alcune ricerche codicologiche come Per la storiografia piacentina. Il codice Casanatense 4158 appartenuto ai Landi di Ripalta (in Boll. stor. Piacentino, VII [1912], 5, pp. 193-212)e l'altra nella quale vengono collazionati i cinque codici vaticani del Chronicon di Pietro da Ripalta (Per la storiografia piacentina. I codici vaticant del "Chronicon" di Pietro da Ripalta (in Misc. di storia, letter. ed arte piac., 1915, pp. 19-35). Dall'incontro tra interessi piacentini e attività iberistica scaturiva l'articolo su Il Mago Severo nella "Egloga segunda" di Garcilaso (in Boll. stor. piac., XXIV [1929], 2, pp. 56-57), nel quale il personaggio garcilasiano era identificato nel monaco cisterciense e apprezzato umanista Severo Varini di Fiorenzuola, di cui veniva tracciata la biografia.
A fianco dei contributi piacentini il C. sviluppò una attività scientifica che diede stimolanti risultati in vari settori d'indagine, dalle ricerche su Dante agli studi di catalanistica e di filologia romanza. Agli studi di italiano antico si ricollegano i tre saggi apparsi tra il 1915 e il 1920, che da scopi prettamente filologici come l'edizione del testo siciliano del sec. XIV La epistola di lu nostru Signuri (in Atti della Acc. delle scienze di Torino, L [1914-1915], pp. 83-106) passano, a ricerche di più ampio respiro con il saggio su Ser Domenico del maestro Andrea da Prato rimatore del sec. XIV (in Riv. delle Bibl. e degli Arch., XXVII [1916], 1-5, pp. 3-42) e l'altro, già menzionato, su Jacopone da Todi che segna una svolta decisiva nell'interpretazione critica del poeta. Al soggiorno catalano si debbono una serie di cinque importanti saggi pubblicati tra il 1918 e il 1925 che ancor oggi sono ritenuti punti di riferimento nella cultura catalanistica: Agli albori dei Romanticismo e del moderno Rinascimento catalano (in Riv. delle Bibl. e degli Arch., XXIX [1918], 7-12-, pp. 51-120); Il Somni d'En Bernat Meige e i primi influssi italiani sulla letteratura catalana (in Archivum Roman., III [1919], pp. 145-205). La versione catalana del "Fiore di Virtù"(in Riv. delle Bibl. e degli Arch., XXXI [1920], 1-12, pp. 1-10); La versione catalana del Decameron e Il "Testament" d'en Bernat Serradell de Vich (entrambi in Arch. Roman., IX [1925], 4, pp. 383-420). In questa fase di studi sulla rinascita della letteratura catalana si situano anche gli scritti sull'opera del più grande dei félibri, F. Mistral, pubblicati nel 1930 in varie riviste.
Certamente il contributo più sostanzioso e insieme di maggior prestigio il C. lo dedicò all'opera di Dante che assorbì buona parte della sua vita di studioso. Alle prime ricerche dinteresse codicologico, come l'illustrazione del codice Landiano di Piacenza (Notizia sul codice dantesco di Piacenza e note ai primi sei canti, in [D. Alighieri] Sei canti della Divina Commedia [Inferno I-VI], riprodotti diplomaticamente secondo il cod. Landiano della Comunale di Piacenza, Piacenza 1912, pp. XIV-LII) e la Descrizione e tavola del cod. della Real Biblioteca del Escorial e.III.23 (in M. Barbi, Studi sul Canzoniere di Dante, Firenze 1915, Appendice II., pp. 511-521) seguì, in occasione della stampa del testo critico della Commedia curato dalla Società Dantesca, la prova più concreta della sua solida preparazione e del suo impegno di dantista: l'Indice analitico dei nomi e delle cose (in Le Opere di Dante. Testo critico della Società Dantesca Italiana..., Firenze 1921, pp. 838-976), un repertorio che si rivelò di grande utilità. Due anni più tardi il C. pubblicava per i tipi della Zanichelli il testo critico del poema dantesco (La Divina Commedia, testo critico a cura di M. Casella, Bologna 1923), e nel 1924 in un succoso saggio forniva i fondamenti filologici della sua edizione (Studi sul testo della Divina Commedia, in St. danteschi, VIII [1924], pp. 5-85) alla quale egli era giunto attraverso la ricognizione di capostipiti di famiglie di codici che lo avevano convinto dell'esistenza di due tradizioni manoscritte, discendenti da un comune apografo esemplato in area settentrionale. In altra parte del medesimo scritto analizza le dialefi e le dieresi d'eccezione e lo scempiamento del dittongo sia in rima sia fuori. A questa stessa fase di studi si possono ricondurre anche alcuni saggi posteriori, come la lectura Dantis tenuta in Orsanmichele, Il canto XXXIII del Paradiso (Firenze 1925; ristampato in Lettere dantesche, Firenze 1961, pp. 671-692); Il Volgare illustre di Dante (in Giornale della cultura italiana, I[1925], 3, pp. 33-40); Filologia e storia (ibid., 6, pp. 89-92) in cui ribatte le critiche sollevate da S. Debenedetti; Versi sbagliati in Dante (in Giorn. d'Ital., 10dic. 1925); mentre in Questioni di geografia dantesca (St. dant., XII [1927], pp. 65-77) si sofferma a considerare le conoscenze geografiche di Dante.
Opere di profondo impegno critico e di enorme interesse sono pure le edizioni de I Fioretti di San Francesco (Firenze 1926; ma nel medesimo anno ne curò due diverse edizioni) e di Tutte le opere storiche e letterarie di N. Machiavelli (di cui esistono due edizioni: una [Firenze 1929] in collaborazione con G. Mazzoni, e l'altra [Roma 1929] autonoma, nella quale vengono inclusi come autografi frammenti o brani sconosciuti o di dubbia autenticità). Nello stesso anno 1929 il C. pubblicava due pregevoli saggi su Il Libro di Marco Polo (in Arch. storico ital., s. 7, XI [1929], pp. 193-230)e su Il più antico componimento poetico della letteratura ital. (in St. difilol. ital., II [1929], pp. 129-153) in cui l'escussione dei fatti linguistici tende a rifiutare il Ritmo Laurenziano come esempio di poesia giullaresca e popolare per inserirlo in un più ampio contesto in cui agiscono modelli latini e riecheggiamenti della letteratura colta d'Oltralpe.
La prospettiva di ricerca sin qui assunta dal C., incentrata soprattutto su complessi problemi di carattere filologico o di ricerca erudita in cui profuse tutta la sua preparazione accompagnata sempre da un vigile senso critico, subì negli anni della maturità (approssimativamente tra il 1934 e il 1938) una profonda revisione che lo porterà a scegliere orientamenti e criteri metodologici innovativi e più rispondenti alle esigenze di cogliere nell'analisi esegetica dei testi il valore della poesia alla luce di un sapere speculativo da cui riceve pregnanza e significato. Appare evidente l'influsso di alcuni filosofi come E. Gilson e soprattutto J. Maritain che esercitò su di lui un incalcolabile fascino. Secondo il C. era possibile comprendere l'autentico valore delle opere di poesia della civiltà romanza soltanto tenendo conto dei richiami dottrinari alla filosofia platonico-agostiniana o aristotelico-scolastica. Questo criterio esegetico trovò una prima applicazione nei confronti della poesia trobadorica provenzale, nel saggio sui canzonieri di Guglielmo IX di Poitiers e di Jaufré Rudel (Poesia e storia, I, Il più antico trovatore: Guglielmo IX conte di Poitiers; II, Jaufre Rudel, in Archivio st. ital., XCVI [1938], 2, pp. 3-63, 154-199), in cui l'interpretazione del testo e dei contenuti ideologici veniva effettuata sulla scorta del pensiero agostiniano e dei presupposti metafisici. Era dello stesso anno l'opera più Voluminosa che il C. abbia scritto, Cervantes. Il Chisciotte (I-II, Firenze 1938), che gli valse il premio internazionale cervantino "Isidre Bonsoms" e la medaglia d'oro messi in palio dall'Institut d'Estudis Catalans di Barcellona. Il modulo interpretativo sostanziaImente spiritualistico che d'ora in poi verrà adottato dal C. appare applicato con estrema coerenza anche nell'articolo La vida es suefio (in Nuova Antologia, 1° febbr. 1944, pp. 9198) nel quale, dopo aver dichiarato inadeguate tutte le precedenti tesi interpretative del dramma calderoniano, propone una lettura del testo in chiave provvidenzialistica, sebbene poi nei due saggi introduttivi sul Teatro di Calderón de la Barca (Firenze 1949) e di Lope de Vega (Firenze 1950) accolga considerazioni critiche di diversa natura, che si pongono al di fuori dei canoni e dei moduli d'interpretazione fin qui sperimentati validamente.
La prospettiva spiritualistica assunta trovò il suo più congeniale campo di applicazione in opere prevalentemente mistiche e in correnti letterarie fortemente permeate da istanze speculative, ma soprattutto nell'opera di Dante. È del 1936 l'interessante articolo Dai trovatori al Petrarca (in Annali della Cattedra petrarchesca, VI [1935-1936], pp. 3-24) volto a illuminare gli stretti legami tra mondo petrarchesco e poesia occitanica; argomento che verrà ripreso nel capitolo Francesco Petrarca della Storia illustrata della letteratura italiana scritta da un gruppo di studiosi, di cui si pubblicò soltanto il primo volume (Milano 1942., I, pp. 167-204). Alla scuola del Dolce Stil Novo dedicò nello stesso volume un altro capitolo (pp. 93-116) in cui, partendo dai famosi versi danteschi, tentava di rintracciare i canoni costanti e comuni del cenacolo nell'ambito dei singoli esponenti. Alla poetica stiinovistica, inoltre, dedicò altri due saggi sui testi programmatici della scuola, Al cor gentil repara sempre amore (in Studi romanzi, XXX [1943], pp. 5-53) e La canzone d'amore di Guido Cavalcanti (in St. di filol. ital., VII [1944], pp. 97-160).
Dopo un lungo silenzio il C. ritornò di nuovo agli studi danteschi con la lectura, tenuta in Orsanniichele, de Il Vcanto dell'Inferno (Firenze 1940) in cui l'analisi critica era avviata secondo il nuovo criterio interpretativo nel quadro della problematica filosofica che reggeva l'impianto, del poema, anche se non mancavano considerazioni di vario ordine. Con l'articolo L'amico mio e non della ventura (in St. dant., XXVII [1943], pp. 117-134) veniva proposta la lettura dei verso in una dimensione squisitamente agostiniana, mentre con il saggio Per il testo critico del Convivio e della Divina Commedia (in St. di filol. ital., VII[1944], pp. 29-77), tentava di saldare il nuovo criterio di esegesi alla problematica testuale. In una medesima prospettiva si situava l'analisi dei problemi testuali e dei temi di mistica de Il Cantico delle Creature (in St. mediev., n.s., XVI [1943-1950], pp. 102-134) considerato come "voce della carità che nell'anima di san Francesco contemplante parla e si effonde". Nel complicato saggio Le guide di Dante nella Divina Commedia (in Atti e mem. dell'Accad. fiorentina di scienze morali, La Colombaria, n.s., I [1943-1946], pp. 3-51) utilizzava la nozione di analogia del Maritain per far comprendere il processo di ascesi di Dante attraverso saggezze ordinate a Dio. Anche nella serie delle Interpretazioni dantesche, pubblicate nella rivista Studi danteschi a partire dal 1949, la modalità d'approccio era sempre la stessa, tesa ad una penetrazione critica dall'interno, sebbene certe posizioni sembrassero diluirsi e stemperarsi senza che peraltro venisse abbandonato il modello interpretativo che gli aveva fruttato analisi suggestive.
Bibl.: Per l'elenco completo degli scritti del C. si rinvia a F. Mazzoni, in St. danteschi, XXXIII (1955-1956), 2, pp. 43-60; sull'opera del C. si vedano: F. Maggini, ibid., XXXIV (1956), pp. s 9; V. Pernicone, in Giornale storico della lett. italiana, LXXXIII (1956), pp. 326-328; G. Tammi, M. C. dantista, in Piacenzaa Dante, Piacenza 1967, pp. 170-179; C. Frisia, La critica dantesca di M. C., in Annali dell'Ist. di st. dant., I (1967), pp. 412-435; G. E. Sansone, M. C., in Lett. ital., I critici, Afilano 1969, I, pp. 2695-2721; Encicl. dantesca, I, Roma 1970, pp. 858-59.