SIRONI, Mario
– Nacque a Sassari il 12 maggio 1885 da Enrico e da Giulia Villa. Era il secondo figlio, dopo Cristina, futura concertista, e prima di Edoardo, Marta, Guido, Ettore.
Enrico, ingegnere edile, si era trasferito per lavoro in Sardegna, dove si trovava già il fratello, o fratellastro, Eugenio, che a Sassari aveva progettato il neorinascimentale palazzo della Provincia (1873-80). Giulia, donna di particolare sensibilità e temperamento cui l’artista sarebbe stato sempre profondamente legato, aveva studiato da soprano a Firenze. Il padre di Giulia, Ignazio Villa, scultore, architetto e scienziato, a Firenze aveva eseguito la tomba di Stanislao Poniatowski nella chiesa di S. Marco e costruito nel 1850-52 la ‘casa rossa’, significativo esempio di neogotico. Mario era quindi un figlio – o un nipote – d’arte.
Nel 1886 la famiglia Sironi si trasferì a Roma, dove Enrico, chiamato a costruire ponti e argini sul Tevere, morì prematuramente nel 1898. Sironi si formò dunque nella capitale, dove frequentò le scuole elementari e tecniche, dimostrando un precoce talento per il disegno. Ancora adolescente eseguì le prime opere: Marina (1899-1900); copie da Kitagawa Utamaro (1901) e Giovanni Segantini (L’aratura, 1902-03), riprese dalla rivista Emporium; lavori simbolisti influenzati da William Morris, da Aubrey Beardsley e dallo stesso Segantini (ex libris Ars et amor, 1901-02; Il pascolo, 1902-03). Sempre in questi anni lesse Arthur Schopenhauer e Friedrich Nietzsche, i poeti romantici e i romanzi francesi, e studiò il pianoforte, suonando soprattutto le opere di Richard Wagner. Nell’ottobre del 1902, in obbedienza a quanto avrebbe voluto il padre, s’iscrisse alla facoltà di ingegneria, ma già nel 1903 una crisi depressiva – primo episodio di un male che lo avrebbe tormentato sempre e di cui rimane traccia nel contemporaneo L’impiccato, un cupo ex libris influenzato da Félicien Rops – gli impedì di continuare gli studi.
Deciso a dedicarsi alla pittura, il giovane artista ottenne l’appoggio economico del cugino Torquato Sironi (affermato chirurgo, filantropo e uomo politico milanese), oltre all’incoraggiamento del pittore Antonio Discovolo, cui nel giugno del 1903 mostrò i suoi disegni, e dello scultore Ettore Ximenes. Nell’autunno del 1903 poté così iscriversi alla scuola libera del nudo di via Ripetta, dove ebbe tra i suoi compagni Cipriano Efisio Oppo, futuro segretario della Quadriennale di Roma, e Vincenzo Costantini, futuro critico, che avrebbe sposato sua sorella Marta. Sempre in quel periodo si avvicinò alla cerchia dello scultore simbolista Giovanni Prini e divenne amico di Gino Severini e soprattutto di Umberto Boccioni, entrambi allievi di Giacomo Balla. Frequentò anche lui lo studio di Balla, apprendendo la tecnica divisionista, che però usò irregolarmente (La madre che cuce, 1905-1906), senza infrangere la potente solidità volumetrica che sarebbe sempre stata caratteristica del suo stile.
Nel febbraio del 1905 espose per la prima volta alla mostra della Società amatori e cultori e iniziò a collaborare con L’Avanti della Domenica, avviando un’attività di illustratore che continuò poi quasi tutta la vita. Subito dopo compì i primi viaggi: nell’autunno del 1905 a Milano, ospite di Torquato; tra il maggio e l’agosto del 1906 a Parigi, dove ritrovò Boccioni, con cui divise la casa; nella primavera del 1907 ancora a Milano, dove si dedicò brevemente alla scultura. Nell’estate del 1908 e dal novembre del 1910 al marzo del 1911, nonostante le ricorrenti crisi depressive, soggiornò a Erfurt, in Turingia, presso l’amico Felix Tannenbaum, uno scultore di religione ebraica conosciuto a Roma. La seconda permanenza in Germania e l’amore per l’arte classica ritardarono la sua adesione al futurismo, e probabilmente Boccioni, che l’aveva incontrato nel maggio del 1910, rinunciò a chiedergli di far parte del movimento, vedendo la sua casa piena di gessi greci e le sue ossessive copie da quei modelli.
Al gruppo marinettiano Sironi si avvicinò solo nel 1913, dopo aver visto in febbraio una collettiva futurista al teatro Costanzi di Roma e aver riflettuto soprattutto sulla scultura di Boccioni. Del futurismo, se si eccettuano alcune iniziali scomposizioni (Dinamismo di una strada, 1913), diede sempre un’interpretazione volumetrica, in accordo con la sua sensibilità costruttiva e architettonica. Nel marzo del 1914 partecipò allo spettacolo futurista Piedigrotta di Ferdinando Cangiullo alla galleria Sprovieri, interpretando la parte del suonatore nano; in aprile alla libera esposizione internazionale futurista e al grande convegno futurista, sempre da Sprovieri. Nel 1915 si trasferì temporaneamente a Milano ed entrò nel nucleo dirigente del movimento, al posto di Ardengo Soffici. Realizzò in quel periodo lavori ‘paroliberi’ con inserti di lettere e una Ballerina con citazioni della Sintesi futurista della guerra di Filippo Tommaso Marinetti, collaborando anche alla rivista Gli avvenimenti. All’entrata in guerra si arruolò con Boccioni, Marinetti, Antonio Sant’Elia, Achille Funi, Luigi Russolo nel battaglione volontari ciclisti, combatté nella battaglia di Dosso Casina e in dicembre firmò il manifesto di Marinetti L’orgoglio italiano.
Agli inizi del 1916, dopo lo scioglimento del battaglione, tornò a Milano e rivide Boccioni, che scrisse il primo articolo su di lui (I disegni di Sironi, in Gli avvenimenti, II (1916), 6-7, p. 21). Conobbe inoltre Margherita Sarfatti, critica che gli rimase sempre vicino, e che già allora individuò in lui «un’arte di sintesi» (Sarfatti, 1916, p. 5). In ottobre, ancora sgomento per la recente morte di Boccioni (17 agosto), fu inviato a Torino per frequentare i corsi per ufficiali fotoelettrici e nella primavera del 1917, dopo avere completato la preparazione a Padova, partì per il fronte. Combatté in prima linea fino al luglio del 1918, quando fu spostato all’Ufficio propaganda. Subito dopo, grazie a una raccomandazione di Sarfatti a Ferruccio Parri (allora componente del comando supremo), poté collaborare con Massimo Bontempelli alla rivista per soldati Il Montello. Congedato nel marzo del 1919, si fermò brevemente a Milano, senza però assistere all’inaugurazione della Grande esposizione nazionale futurista, dove esponeva quindici opere, in gran parte disegni (poco futuristi) sul tema della guerra.
Rientrato a Roma, vide le opere metafisiche di Carlo Carrà e Giorgio De Chirico sulla rivista Valori plastici e ne rimase influenzato. In luglio tenne la prima personale da Anton Giulio Bragaglia, recensita negativamente da Mario Broglio sulla stessa rivista (Mostra Sironi, in Valori plastici, I (1919), n. 6-10, p. 30). Pochi giorni dopo si sposò con Matilde Fabbrini, con cui era fidanzato da quattro anni, ma la precaria situazione economica costrinse la coppia a separarsi quasi subito: insoddisfatto dell’ambiente artistico romano, in settembre Sironi partì per Milano, dopo aver pensato di stabilirsi a Parigi, e la moglie poté raggiungerlo solo qualche mese dopo. «Che cosa può darmi la città commerciante se non il ribrezzo e il bisogno di difesa contro la sua stessa potenza?», scrisse a Matilde nello stesso settembre (Lettere, a cura di E. Pontiggia, 2007, p. 23). Milano dunque gli suscitava «ribrezzo», eppure ne avvertiva tutta la «potenza». Dalle stesse contrastanti sensazioni di squallore e forza, dramma e monumentalità nacquero in questo periodo i Paesaggi urbani, periferie cittadine imponenti come cattedrali laiche, ma cariche di un senso di tragicità e di solitudine. Sempre nel 1919 Sironi aderì al fascismo, cui rimase fedele fino alla fine, condividendone la dottrina (non però le leggi razziali). Frequentò intanto il salotto di Sarfatti e nel gennaio del 1920 firmò con Funi, Leonardo Dudreville e Russolo il Manifesto futurista: contro tutti i ritorni in pittura, che con i suoi appelli alla costruzione della forma preannunciava in realtà il Novecento italiano. «Si sente il bisogno di una [...] sintetica visione plastica» sosteneva il manifesto (Scritti e pensieri, a cura di E. Pontiggia, 2000, p. 13), esprimendo le stesse idee di sintesi che circolavano nel salotto sarfattiano. In marzo Sironi espose per la prima volta i paesaggi urbani in una collettiva alla galleria Arte, presentata dalla stessa Sarfatti. «Da questo squallore meccanico della città odierna ha saputo trarre [...] gli elementi e lo stile di una bellezza e di una grandiosità nuove. È lui l’artista che ci insegna a scorgere, nelle tetre periferie urbane, il senso sospirato dal poeta “luxe, ordre et beauté”», osservò la scrittrice (1920, p. 73).
Nell’agosto del 1921 nacque la sua prima figlia, Aglae. Lo stesso mese iniziò a collaborare con Il Popolo d’Italia, il quotidiano di Benito Mussolini, disegnando vignette il cui tema era spesso fornito dal capo del fascismo. Nel dicembre del 1922 fu tra i fondatori del Novecento italiano, che comprendeva anche Anselmo Bucci, Dudreville, Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig e Ubaldo Oppi. Il gruppo, che aspirava a una ‘moderna classicità’, cioè a una forma classica semplificata in un purismo sintetico, tenne la prima mostra a Milano, alla galleria Pesaro, nel marzo del 1923. Nel 1924 si presentò alla Biennale di Venezia, ma, per l’assenza di Oppi che aveva ottenuto una sala individuale, si dovette ribattezzare «Sei pittori del Novecento». Sironi espose L’architetto, L’allieva, Venere (Torino, Galleria d’arte moderna) e una Figura non identificata. Le opere vennero notate solo da Sarfatti e pochi altri. Il gruppo si sciolse subito dopo.
Sempre nel 1924 l’artista iniziò a lavorare per il teatro, realizzando scene e costumi per Marionette che passione! di Rosso di San Secondo, che andò in scena nel novembre-dicembre del 1924 al teatro del Convegno. L’anno successivo entrò nel comitato direttivo del Novecento italiano, che nel frattempo si era rifondato, ed espose con il gruppo alla III Biennale romana, presentando Il povero pescatore. Da quel momento partecipò a quasi tutte le mostre nazionali e internazionali del movimento: nel 1926 espose alla I Mostra del Novecento italiano alla Permanente (Solitudine, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna, Esopo, Il silenzioso) e a Parigi alla galerie Carminati; nel 1927 a Ginevra, Zurigo, Amsterdam, L’Aja; nel 1928 alla galleria Milano e alla Bellenghi; nel 1929 alla II Mostra del Novecento italiano alla Permanente e alle rassegne di Nizza, Ginevra, Berlino, Parigi; nel 1930 a Basilea, Berna, Buenos Aires; nel 1931 a Stoccolma, Oslo, Helsinki. Tuttavia il suo carattere incontentabile, le crisi depressive e l’accumulo del lavoro (oltre alle illustrazioni e alla partecipazione ai comitati scientifici della Biennale di Monza e delle Mostre sindacali, dal 1927 al 1931 scrisse come critico d’arte sul Popolo d’Italia) ritardavano spesso l’invio dei quadri, come accadde alla Biennale di Venezia del 1928. Iniziò intanto a lavorare come architetto con Giovanni Muzio, progettando nel 1928 il padiglione del Popolo d’Italia alla Fiera campionaria di Milano e il padiglione italiano all’Esposizione internazionale della stampa di Colonia (suo l’innovativo ingresso in vetro alla sala del cinematografo); nel 1929 il padiglione della Stampa all’Esposizione internazionale di Barcellona; nel 1930 la Galleria delle arti grafiche alla IV Triennale di Monza.
Nel 1929 nacque la sua seconda figlia, Rossana, ma intorno al 1930 conobbe la giovane Mimì Costa, alla quale, tra alterne vicende, rimase sempre legato, e si separò da Matilde.Tra il 1929 e il 1930 attraversò una stagione espressionista, caratterizzata da pennellate violente e figure appena abbozzate, influenzate da Georges Rouault. Espose queste opere, accanto a lavori precedenti, in una sala personale alla I Quadriennale di Roma del 1931, dove, nonostante l’appoggio di Ugo Ojetti, non ottenne premi. Ricevette invece, sempre nel 1931, il premio Pittsburgh.
In questo periodo maturò anche il desiderio, che aveva sempre coltivato, di tornare all’affresco, abbandonando il quadro da cavalletto. Come teorizzò in Pittura murale (in Il Popolo d’Italia, 1° gennaio 1932), dove definì il quadro «una forma insufficiente», e nel Manifesto della pittura murale (firmato anche da Massimo Campigli, Carrà e Funi, in Colonna, 1933, n. 1, pp. 10 s.), considerava l’affresco una forma d’arte sociale, perché a disposizione di tutti e indipendente dal collezionismo privato, dalle mostre, dal mercato. La pittura murale, inoltre, comportava uno stile potente e non intimista. Nei suoi affreschi Sironi diede indubbiamente espressione all’ideologia del regime, ma non creò un’arte di propaganda per l’altezza del suo stile e per la drammaticità, la tensione metafisica, l’atmosfera mitica e senza tempo dei suoi soggetti. Anche se nel Manifesto della pittura murale auspicò pericolosamente un’«Arte Fascista», dimenticando che lo stesso Mussolini nel 1923 aveva dichiarato di non voler promuovere un’arte di Stato, le sue opere non scaddero mai in un ‘realismo fascista’, sull’esempio del ‘realismo socialista’, sia perché Sironi disprezzava l’arte affidata ai contenuti anziché allo stile, sia perché la sua concezione tragica della vita era intimamente in contrasto con le esigenze propagandistiche.
Negli anni Trenta l’artista lavorò incessantemente, fino a compromettere la sua salute, a varie opere monumentali: la vetrata La Carta del lavoro per il ministero delle Corporazioni a Roma (1931-32); due rilievi per la Casa dei sindacati fascisti a Milano (1930-32, distrutti); l’affresco Il lavoro per la V Triennale di Milano (1933, distrutto); le due grandi tele Il lavoro nei campi: l’agricoltura e Il lavoro in città: l’architettura per il palazzo delle Poste a Bergamo (1932-34); l’affresco L’Italia tra le arti e le scienze nell’aula magna dell’Università di Roma (1935); il mosaico L’Italia corporativa (1936-37, oggi a palazzo dei Giornali, Milano); gli affreschi L’Italia, Venezia e gli studi per Ca’ Foscari a Venezia (1936-37) e Rex imperator e Dux per la Casa madre dei mutilati a Roma (1936-38); il mosaico La Giustizia tra la Legge, la Forza e la Verità per il palazzo di Giustizia di Milano (1936-39); la vetrata L’Annunciazione per la chiesa dell’ospedale di Niguarda (1938-39); i rilievi per il palazzo del Popolo d’Italia, sempre a Milano (1939-42).
Coerentemente con il suo ideale di un nuovo sistema dell’arte, dopo il 1932 Sironi smise di partecipare alle Quadriennali (inviò solo un disegno a quella del 1935) e alle Biennali. Banco di prova della sua concezione fu la Galleria della pittura murale alla V Triennale del 1933, dove invitò a cimentarsi con l’affresco i maggiori artisti italiani, ma suscitò un vespaio di polemiche sul quotidiano Regime fascista di Roberto Farinacci.
Nel 1934 la sua posizione gli provocò anche una denuncia del suo gallerista Vittorio Emanuele Barbaroux, per il quale la sua assenza dalle mostre e la mancata consegna di quadri nuovi erano una perdita economica. Il contenzioso si compose dopo alcuni mesi: Sironi, per far ritirare la denuncia, dovette versare una penale, impegnandosi a riprendere a dipingere ed esporre. Il sogno della pittura murale, comunque, influenzò anche i suoi quadri, perché a partire dagli anni Trenta adottò spesso una composizione multicentrica, a riquadri, governata da una spazialità da affresco prerinascimentale.
Sempre nel 1934 partecipò, con Giuseppe Terragni, al concorso per il palazzo del Littorio di Roma, e nel 1939 a quello per il Danteum, entrambi con esito sfortunato. S’impegnò inoltre in numerosi allestimenti.
Allestì alcune sale della Mostra della Rivoluzione fascista (Roma, Palazzo delle esposizioni, 1932); molte sezioni della Triennale di Milano (1933); la sala dell’aviazione nella Grande Guerra alla mostra dell’aeronautica italiana (1934); il salone d’onore alla Mostra nazionale dello sport (1935); il padiglione FIAT alla Fiera campionaria di Milano (1936); la sala dell’Italia d’oltremare all’Expo di Parigi (1937); i pannelli per la mostra «Torino e l’autarchia» (1938) e per la Mostra nazionale del dopolavoro a Roma (con Armando Carpanetti, 1939). Molti furono anche i suoi progetti non realizzati, come gli affreschi per la colonia marina di Clemente Busiri Vici a Cattolica (1935) e per l’atrio del palazzo Liviano di Gio Ponti a Padova (1938).
Nel 1942-43, mentre lo Stato non era più in grado di commissionare opere monumentali, Sironi tornò più regolarmente al cavalletto. Dal 1942, influenzato da una grande mostra di Carrà a Brera, creò opere neometafisiche, dipingendo un mondo di manichini e macerie. Convinto da Peppino e Gino Ghiringhelli della galleria del Milione, lo stesso anno tornò anche a esporre in una mostra, accompagnata da un testo di Bontempelli. Nel settembre del 1943 aderì alla Repubblica di Salò e rimase fedele alle sue convinzioni nonostante il crollo di tutto quello in cui aveva creduto. «S’è tutto rotto in questi mesi, tutto. Non sono rimaste che macerie e paura», scrisse in un appunto (Scritti..., a cura di E. Camesasca, 1980, p. 330). Il 25 aprile, fermato da una brigata partigiana, si salvò dalla fucilazione grazie a Gianni Rodari, che gli firmò un lasciapassare.
Nel dopoguerra, dopo un processo di epurazione da cui uscì senza condanne, iniziarono per lui «gli anni della solitudine» (Sironi. Gli anni della solitudine, 2004), aggravati anche dallo strazio per la morte della figlia Rossana, che si uccise a diciotto anni nel 1948. Non smise però mai di dipingere, e in questo periodo, in cui trascorreva alcuni mesi dell’anno a Cortina, si dedicò anche al teatro, eseguendo scene e costumi per la Scala (Tristano e Isotta, 1947), il teatro Comunale di Firenze (I Lombardi alla prima crociata, 1948; Don Carlos, 1950) e il teatro romano di Ostia (Medea e Il Ciclope, 1949). Nella sua pittura alle forme drammaticamente imponenti delle stagioni precedenti si sostituirono spesso composizioni dalla sintassi più sfatta, vicine in certi esiti all’informale, che culminarono nel 1960-61 nel ciclo dell’Apocalisse, simbolo di una distruzione cosmica.
Il silenzio della critica ufficiale fu interrotto dalle voci di pochi amici (Ponti, Garibaldo Marussi, Marco Valsecchi, Agnoldomenico Pica, autore nel 1955 del saggio Mario Sironi pittore) e da alcune mostre (una personale a Boston, 1953, con Marino Marini; una collettiva d’arte italiana a Kamakura, in Giappone, 1955, organizzata da Fortunato Bellonzi e dalla Quadriennale di Roma). Lui stesso, peraltro, rifiutò sempre di partecipare alle Biennali di Venezia. Nel 1956 fu eletto accademico di S. Luca. I suoi ultimi anni, dopo il 1958, furono minati dalle sofferenze per l’artrite, che lo costrinsero più volte all’ospedale.
Colpito da una broncopolmonite, morì a Milano il 13 agosto 1961.
Scritti di Sironi: Scritti editi e inediti, a cura di E. Camesasca, Milano 1980; Scritti e pensieri, a cura di E. Pontiggia, Milano 2000; Lettere, a cura di E. Pontiggia, Milano 2007; Scritti inediti (1927-1931), a cura di E. Pontiggia, Milano 2013.
Fonti e Bibl.: M. Sarfatti, Il bianco e nero alla mostra degli Alleati, in Gli avvenimenti, II (1916), 52, pp. 5 s.; Ead., Considerazioni sulla pittura a proposito dell’Esposizione “Arte”, in Il convegno, I (1920), 3, p. 73; Ead., Sei pittori del Novecento, in XIV Biennale Internazionale d’arte (catal.), Venezia 1924, pp. 76 s.; M. S., a cura di G. Scheiwiller, Milano 1930; A. Pica, M. S. pittore, Milano 1955; M. S. (catal.), a cura di R. De Grada, Milano 1973; F. Bellonzi, M. S., Milano 1985; M. S. (catal.), a cura di C. Gian Ferrari, Milano 1985; F. Benzi - A. Sironi, S. illustratore (catal.), Roma 1988; S. Il mito dell’architettura (catal.), a cura di E. Pontiggia - F. Benzi - A. Sironi, Milano 1990; M. S. (catal., Roma), a cura di F. Benzi, Milano 1993; E. Braun, M. S. Arte e politica in Italia sotto il fascismo, Torino 2003; S. Gli anni della solitudine 1940-1960 (catal., Conegliano), a cura di V. Sgarbi, Milano 2004; S. La grande decorazione, a cura di A. Sironi, Milano 2004; M. S. Constant Permeke. I luoghi e l’anima (catal.), a cura di V. Trione, Milano 2005; S. metafisico. L’atelier della meraviglia (catal., Parma), a cura di S. Tosini Pizzetti, Cinisello Balsamo 2007; S. Gli anni ’40 e ’50 (catal.), a cura di C. Gian Ferrari - E. Pontiggia, Milano 2008; M. S. 1885-1961 (catal., Roma), a cura di E. Pontiggia, Milano 2014; E. Pontiggia, M. S. La grandezza dell’arte, le tragedie della storia, Monza 2015.