GOSIA, Martino
Nacque verso l'anno 1100. Sarti e Savigny, sulla scorta di notizie tratte dai testi del Piacentino, di Guglielmo da Pastrengo e di Cino da Pistoia, hanno indicato in Bologna la località della sua nascita. Altri hanno espresso opinioni diverse; l'ipotesi di una sua origine anconetana, avanzata dal Muratori, è apparsa presto frutto di un palese equivoco con la vicenda del nipote Ugolino. Maggior credito ha invece una diversa tradizione, risalente con tutta probabilità alla cronaca di Giovanni prete da Cremona, redatta tra XII e XIII secolo e degna di fede, come ha ultimamente provato Gualazzini. Questa tradizione lo vuole proveniente da Cremona. La tradizione di una sua origine bolognese avrebbe tratto motivo dall'avere il G. di certo abitato a lungo in Bologna e qui raggiunto grande fama come uno dei quattro dottori discepoli e continuatori dell'insegnamento di Irnerio.
Qualche dubbio peraltro resta, né a risolverlo può offrire lumi l'appellativo Gosia, ritenuto comunemente il cognome di Martino, trasmesso ai discendenti e dal quale presero nome i seguaci delle sue teorie, detti appunto gosiani. Gualazzini nel rivendicare l'origine cremonese ricorda che "il cognome Gosi è annoverabile anche tra quelli propri della onomastica familiare cremonese fino dal Medioevo" (p. 37). Ciò è indubbiamente vero; tuttavia una certa attenzione credo meriti a tale proposito l'opinione espressa da Gaudenzi: "Per quel che riguarda il cognome Gosia io non so se sia nome di donna e denoti quindi la discendenza da una Gosia, ovvero soprannome, derivato forse dalla guscia o gozzo […] certo anch'esso si mutò presto nel cognome personale di Gosio […] e più tardi la famiglia si appellò dei Gosii" (1898, p. 69). Gosia non individuerebbe pertanto una famiglia, ma il solo Martino e, dopo di lui, i suoi soli discendenti, come infatti avvenne. Quanto all'origine di tale cognome personale, studi successivi hanno mostrato che in Bologna "i primi tentativi di formazione dei cognomi sono proprio con nomi di donna" (Zaccagnini, p. 61). E anche se non risulta attestato nei pochissimi documenti coevi bolognesi il nome femminile Gosia, non è affatto improbabile che, come Gisla, Lamandina e altri nomi di donna, anche Gosia abbia trasmesso il ricordo di una, forse molto vicina, ascendenza femminile.
Luogo d'origine a parte, è certo che il G. fu a lungo in Bologna, a seguire prima l'insegnamento di Irnerio e a continuarne poi l'opera, al pari e in concorrenza con gli altri allievi del maestro. Di questi allievi la tradizione della scuola giuridica bolognese ha tramandato concordemente il numero (quattro) e i nomi: Bulgaro, il G., Ugo di Porta Ravegnana e Iacopo. Erano i più famosi di una schiera di maestri che attirava a Bologna da ogni parte dell'Impero un grande numero di studenti.
Un anonimo cronista di Bergamo (l'autore delle Gesta di Federico I), narrando in versi l'incontro avvenuto nel maggio del 1155 di Federico Barbarossa con i maestri (doctores) e gli studenti (discipuli) bolognesi, designa questi ultimi con l'efficace immagine di una "turba discere volens". Il poeta cronista non fa i nomi dei doctores che guidavano tale "turba", ma è pressoché certo che tra essi vi fosse anche il Gosia. Da questo incontro e dalle sollecitazioni provenienti da tutti coloro che componevano quello che era già nei fatti lo Studio bolognese, trasse motivo l'imperatore per una legge che proteggesse coloro che lasciavano la propria patria per seguire l'insegnamento di un maestro. Non è chiaro se in questa stessa circostanza e dunque nell'anno 1155 Federico I abbia emanato il testo definitivo della autentica "Habita" o se si sia limitato, accogliendo la petizione dei dottori e degli studenti bolognesi, ad accordare loro un particolare diploma di protezione, che, tre anni dopo, nel corso della seconda Dieta di Roncaglia e per sollecitazione dei quattro dottori bolognesi, egli avrebbe trasformato nell'autentica "Habita", ordinandone, solo in questa circostanza, l'inserimento nel Corpus iuris civilis. Resta comunque il fatto che questa legge, che proibiva l'esercizio dei diritti di rappresaglia nei confronti di tutti gli studenti forestieri in qualsiasi città dell'Impero e li sottraeva alla giurisdizione dei magistrati locali in favore di quella, a loro scelta, del vescovo o del proprio maestro, nacque per espresso intervento dei dottori bolognesi e dunque anche del Gosia.
Come gli altri dottori anche il G. all'attività di insegnante univa quella di consulente nelle cause giudiziarie. Ne offrono testimonianza tre documenti, tutti dell'anno 1154. Il primo è del 24 marzo e reca la sentenza con cui Guido da Sasso "Bononiensium rector et potestas" decideva la controversia su un diritto di ripatico nel porto di Trecenta, contestato dal Comune di Imola. Nella sua decisione Guido da Sasso attestava di essersi giovato del consilium sapientum, ma di questi sapientes non fa il nome. Quali testimoni compaiono, peraltro, al primo posto, i quattro dottori. Se dunque, a stretto rigore, il loro agire quali sapientes non è attestato, sembra tuttavia difficile pensare che "persone del loro prestigio potessero rimanere relegate ad una funzione meramente passiva, mentre nessuno meglio di essi era in grado di assicurare l'esattezza della procedura" (Rabotti, p. 259).
Gli altri due documenti riguardano la causa promossa con ricorso al papa dall'abate di S. Stefano contro l'amministratore dell'ospedale di S. Stefano in Quaderna, che, ricusando l'autorità dell'abate, rifiutava la dipendenza dal monastero.
Contro la relativa sentenza, emanata da Gerardo vescovo di Bologna quale giudice delegato del papa, era stato interposto appello e della sua cognizione il papa aveva investito Ildebrando, cardinale di S. Eustachio. La sentenza del cardinale, pronunciata il 9 apr. 1154 nel chiostro di S. Salvatore in Bologna, accogliendo le richieste dell'abate, ne riconosceva integralmente i diritti sull'ospedale e sui numerosi beni di questo, che lo stesso amministratore aveva via via incrementato negli ultimi trent'anni e ingiungeva a quest'ultimo di cessare dalle proprie funzioni. Quindi, dando immediata esecuzione alla sentenza, lo stesso cardinale, accompagnato dal vescovo di Bologna, si recava all'ospedale di S. Stefano in Quaderna e ne immetteva in possesso l'abate. A chiudere definitivamente la questione fu peraltro un accordo, intercorso il successivo 9 agosto, tra l'abate e lo stesso amministratore, che non mancava evidentemente di validi appoggi e che, ricevuto formalmente l'incarico dalle mani dell'abate, venne reintegrato nelle proprie funzioni, che avrebbe esercitato a nome del monastero, ma senza vincoli di soggezione allo stesso abate. Le parti, gli interessi coinvolti nella contesa, le stesse personalità chiamate a giudicare dovevano aver dato ampia risonanza alla causa e tra i tanti presenti all'emanazione della sentenza d'appello e alla conclusione dell'accordo compaiono, subito dopo i vari religiosi, i quattro dottori.
Neppure nei documenti bolognesi è pertanto attestata una loro attività di consulenza, ma è fondato il sospetto che, come nel caso di Imola, il rilievo attribuito alla loro presenza abbia trovato motivazione in un loro specifico contributo allo svolgimento del processo e dell'accordo conclusivo. Significativa a tale proposito appare anche un'altra circostanza. Tra i quattro dottori Bulgaro ha un'evidente preminenza: il suo nome è citato per primo e separatamente dagli altri tre, ma le qualifiche che li contraddistinguono sono le stesse: "Bulgarus causidicus et legis doctor, et Martinus Gosia et Ugo de porta Ravennate et Iacobus causidici et legum doctores". Se il titolo di "legis" o "legum doctor" era legato alla loro attività di insegnamento, quello di "causidicus" starebbe a indicare che in queste circostanze essi erano stati chiamati a fornire una precisa e motivata consulenza giuridica.
Più nota e sicura è invece un'altra consulenza che essi - e in particolare Bulgaro e il G. - prestarono in diverse circostanze per l'emanazione di leggi da parte dell'imperatore. Tale fu l'interesse suscitato dall'apporto da essi fornito che la loro presenza accanto a Federico I non solo venne ricordata dalle cronache, ma offrì spunti agli stessi novellieri, con ampio rilievo, in entrambi i casi, al contrasto che divideva l'opinione del G. da quella di Bulgaro.
Diverse furono le occasioni di incontro dell'imperatore con i quattro dottori. In qualche caso furono agevolate dal passaggio di Federico I nel territorio bolognese, come avvenne appunto nel 1155 e in altre occasioni, protrattesi, per alcuni di loro, fino al 1167. In altri casi ne fu motivo una espressa convocazione da parte dell'imperatore, come avvenne durante il primo assedio di Milano e nell'autunno del 1158, nel corso della seconda Dieta di Roncaglia, quando vennero chiamati a esprimere il proprio parere per la definizione del fondamentale istituto di diritto pubblico delle regalie.
Dell'intervento per l'emanazione in forma definitiva dell'autentica "Habita" già si è detto; ma anche altre leggi imperiali recano tracce sicure della loro consulenza. Una, in particolare, merita attenzione, poiché è chiaramente espressione delle opinioni del G., l'autentica "Sacramenta puberum". Essa detta norme circa la validità del giuramento prestato da un minorenne a conferma della cessione di beni di sua proprietà: una fattispecie sulla quale esisteva una divergenza di opinioni tra il G. e Bulgaro.
L'autentica di Federico I, sulla falsariga di un rescritto dell'imperatore Alessandro Severo, conferma la validità del giuramento prestato liberamente dal minorenne, sancisce la nullità del giuramento estorto e la irrilevanza di pretestuose contestazioni giudiziarie in merito. Le ricerche di Gualazzini hanno fatto il punto sia circa il contesto economico e sociale nel quale l'autentica era destinata a produrre effetto - la necessità di monetizzare le proprietà immobiliari anche dei minorenni a sostegno di un'economia in forte sviluppo - sia sulle fasi della sua elaborazione. L'imperatore avrebbe sottoposto a Bulgaro e al G., dei quali era nota la diversa posizione in merito alla possibilità di estendere la validità del rescritto di Alessandro Severo, un primo testo della autentica. Bulgaro lo avrebbe approvato, a differenza del G.: le ragioni da quest'ultimo addotte avrebbero convinto l'imperatore a modificare il testo predisposto. La forma in cui esso è giunto a noi riflette infatti quella concezione di equità che era tratto distintivo della visione che il G. aveva del diritto. La consulenza dei dottori bolognesi e in particolare del G. avrebbe quindi indotto l'imperatore a emanare una norma pienamente congrua alla situazione di profonda innovazione che caratterizzava l'economia italiana all'aprirsi della seconda metà del XII secolo.
Diverso e anzi opposto fu invece il risultato che le opinioni da essi espresse ebbero nel quadro del disegno politico messo in atto dall'imperatore. Il programma di governo formulato da Federico I nel 1158 a Roncaglia, che prevedeva il ripristino in Italia di un sistema accentrato di impronta giustinianea, era anche frutto della convinzione ripetutamente espressa dai dottori bolognesi che solo al titolare del Sacro Romano Impero spettasse la stessa plenitudo potestatis degli antichi imperatori romani. Questa affermazione - basata indubbiamente su una rigorosa interpretazione della legislazione giustinianea - era tuttavia troppo lontana dalla reale situazione dell'Impero, ove si stavano affermando i vari regni nazionali, e ancor più da quella italiana, che aveva visto il progressivo consolidarsi delle autonomie comunali. L'opinione espressa dai dottori bolognesi, nel clima di un conflitto tra l'Impero e i Comuni che si andava irrimediabilmente radicalizzando, fu interpretata come una precisa scelta di campo, frutto di una visione del diritto pubblico del tutto astratta e sorpassata e, in definitiva, fortemente ostile alle aspirazioni delle città italiane.
Nel limitato contesto della città di Bologna la posizione assunta dai dottori non dovette peraltro, al momento, essere accolta negativamente né dagli studenti, in grande maggioranza forestieri e ben consapevoli dell'importanza della protezione imperiale, né da coloro che detenevano il potere nella città, ligi in questo periodo alle direttive imperiali. Infatti, salvo brevi intervalli nel 1161 e nel 1164, Bologna si mantenne sostanzialmente fedele all'imperatore. Soltanto nell'autunno del 1167 Bologna mutò campo, aderendo alla Lega lombarda, e unì le proprie forze a quelle delle altre città in lotta contro Federico I.
Un anonimo studente-poeta, che mirava a procacciarsi la benevola attenzione del figlio del G., Guglielmo (che seguì le orme paterne più come esperto di diritto, sembra, che come insegnante), dopo aver ampiamente elogiato le grandi doti del G., maestro di diritto e uomo di grande liberalità, scrive che questi, ritiratosi dall'insegnamento a favore del figlio, elargiva gratuitamente la propria consulenza ai concittadini che gliene facevano richiesta (Gaudenzi, pp. 132-134). Il quadro che i versi delineano, nell'isolare la figura del G. rispetto a quella degli altri tre dottori e nel sottolinearne quelle doti di umanità che gli avrebbero procacciato l'elogio di Enrico da Susa (l'Ostiense; Sarti - Fattorini, I, p. 444) e di Boncompagno da Signa nonché un'aperta testimonianza, anche se spesso rancorosa, di postumi avversari, appare in buona misura convincente. Difficile è invece, considerato il particolare contesto in cui la notizia viene data e le scarse conoscenze in merito all'organizzazione dell'insegnamento in questa epoca, valutare l'attendibilità del racconto di un volontario ritiro del G. dall'attività di docente per favorire la successione in essa da parte del figlio.
Credibile è comunque il fatto che questa poesia sia stata scritta nell'ultimo periodo di vita del G., vicino pertanto all'anno 1166 che viene tradizionalmente indicato come quello della sua morte. Pochi autori, traendo da Pasquali Alidosi, indicano invece, come anno di morte, il 1167. Tutti peraltro concordano nell'affermare che la morte del G. avrebbe preceduto di poco quella del rivale Bulgaro. Non sono stati reperiti documenti atti a dare conferma di una di queste due date, ma è senz'altro possibile circoscrivere a esse la scomparsa del Gosia.
Noto è invece il luogo della sua sepoltura: il sagrato della chiesa di S. Procolo. Già nel secolo XII S. Procolo era centro di riferimento per gli studenti oltremontani (non italiani) e per le loro organizzazioni. Nel quartiere che dal santo prendeva nome erano ubicate molte delle scuole dei dottori di legge. Da questa stretta connessione con il mondo dello Studio sarebbe derivata, secondo vari autori, la scelta del luogo di sepoltura. Si tratta di un'ipotesi valida, tanto più che sul sagrato delle stessa chiesa venne eretto poco dopo anche il sepolcro di Bulgaro, quasi a perpetuare la contrapposizione che aveva diviso in vita l'insegnamento dei due dottori. Purtroppo dei due sepolcri non resta oggi alcuna traccia. Essi furono probabilmente rimossi nel 1392, al pari di tutte le altre sepolture del sagrato della chiesa, nel corso di interventi per la ristrutturazione della facciata.
Alla sua morte il G. lasciava una casa in Bologna, attestata quale luogo di stesura di un contratto il 13 apr. 1158, ma della quale si ignora la precisa ubicazione e, forse, altri immobili, menzionati in una divisione stipulata tra i nipoti nel 1204. Lasciava anche fama di una prodigiosa conoscenza del diritto - copia legum è il titolo di cui l'onorano Boncompagno da Signa e i versi, tramandati da Ottone Morena, falsamente attribuiti a Irnerio - e una notevole produzione scientifica iniziata, sembra, fin dal 1125. Essa comprende in particolare numerose glosse a vari passi di tutti i testi della compilazione giustinianea. Una prima loro elencazione, curata da Savigny, è stata integrata da successive individuazioni da parte di Dolezalek, Meijers, Bellomo, Caprioli e altri.
Alcune di queste glosse hanno struttura e consistenza di distinctiones, cioè di testi nei quali la soluzione di un punto di diritto controverso viene raggiunta tramite un articolato schema di singole questioni e relative risposte. Tra queste distinctiones quella nota come "Interesse quandoque circa rem" merita una menzione particolare. In essa il G. per primo cercò di unificare la trattazione della materia dell'interesse, disciplinata in modo disarticolato in vari passi del Digesto e delle Istituzioni. Le soluzioni proposte dal G. rivelano il distacco che segnava la sua interpretazione rispetto a quelle degli altri glossatori e dello stesso Irnerio, tutte basate su di una coerente, ma rigida applicazione della norma scritta.
Un'altra glossa - la "De computatione graduum", tanto consistente da venire considerata un piccolo trattato - esamina una materia di grande rilievo, teorico e pratico, per i suoi riflessi nella determinazione degli impedimenti matrimoniali. Rilevanti in essa sono sia l'attenzione del G. per il diritto canonico in una misura inusuale rispetto agli altri glossatori, sia l'altrettanto inusuale accettazione del sistema di computo ecclesiastico dei gradi di parentela.
Opera a sé è l'Apparatus Istitutionum, una raccolta di glosse a opera dello stesso G., a commento delle Istituzioni giustinianee. Alcuni reputano che essa sia più propriamente una lectura reportata, vale a dire una raccolta curata da un allievo, che avrebbe riassunto le lezioni del G. sul primo volume della compilazione di Giustiniano.
Un testo molto più complesso, il più ampio fra tutti quelli attribuiti ai quattro dottori, è quello noto come De iure dotium, un vero e proprio trattato, composto probabilmente intorno al 1140. Il G. vi illustra gli elementi fondamentali dell'istituto dotale - definizione, costituzione, restituzione della dote, eventuali patti integrativi, azioni a tutela dei diversi diritti sulla dote stessa - traendo da tutti i testi della compilazione giustinianea, che egli armonizza in una serie di proposizioni esplicative, suddivise in una trentina di paragrafi. A conclusione della esposizione, ricca e dettagliata, anche se spesso fredda nella sua rigida derivazione dai testi del diritto romano, si inserisce, forte e partecipe, lo spunto polemico sul tema che divideva il G. dagli altri glossatori. Si tratta, com'è noto, della restituzione da parte del marito della dos profecticia in caso di esistenza di figli: negata dal G. e ammessa invece dai suoi oppositori e in particolare da Bulgaro, che il G. tuttavia qui non nomina. La lunga serie di testi addotti a sostegno dell'interpretazione si chiude con il richiamo a quella aequitas che per il G. costituiva termine di riferimento essenziale per il giurista: "Hanc sententiam aequitati congruam diligens lector ex multis legibus comprobabit", espressione che ha indotto il Kantorowicz ad affermare: "He could not have described his methodical credo better: positivismus tempered by teleology" (p. 98).
Non propriamente opera del G., ma frutto diretto del suo insegnamento, stante l'ampio rilievo attribuito alle sue opinioni, sarebbe, secondo Meijers, anche la Summa codicis, detta Trecensis, opera di cui Kantorowicz giudica invece autore Rogerio.
Dal complesso della produzione del G. appare evidente come egli sia stato tra i primi glossatori il più coerente sostenitore di una visione del diritto aperta a soluzioni conformi ai principî dell'equità. I suoi scritti ne rivelano la disponibilità a trarre a tal fine spunti interpretativi anche dal diritto canonico e dal diritto germanico, del tutto alieno quindi dal rinchiudersi entro rigidi, esclusivi parametri di riferimento al solo diritto romano, lontano perciò da quello ius strictum che aveva nel contemporaneo Bulgaro il suo massimo esponente.
La posizione di Bulgaro era del tutto coerente a quella riscoperta del diritto romano quale unico diritto vigente che fu il fondamentale apporto del primo Studio bolognese e ne costituì il preciso orientamento fino alla glossa di Accursio. La posizione del G., nell'attenzione rivolta agli altri diritti, il canonico e perfino il germanico, indubbiamente se ne allontanava, dando voce a un mondo ben più vasto e articolato di quello che si radunava nelle aule ove si leggevano i testi giustinianei. Il contrasto fra Bulgaro e il G. fu immediatamente colto nello Studio. In esso si è vista l'origine di una particolare serie di scritti della scuola bolognese, le Dissensiones dominorum, schematiche contrapposizioni di pareri e soluzioni, delle quali è primo, rilevante esempio quello composto da Rogerio e riferente appunto le opposte interpretazioni del G. e di Bulgaro. Odofredo definì la posizione del G. frutto di "aequitas bursalis" e tale definizione venne ritenuta da Sarti fortemente denigratoria: una ricerca di equità nell'applicazione del diritto dettata da una smodata avidità di denaro. Sembra invece, come annotava già Savigny, che il termine "bursalis" indicasse una esigenza di equità che nasceva non dalla legge, ma dalla capacità di giudizio individuale.
Sulle qualità del G. come scrittore Savigny aveva espresso forti riserve, giudicandone sciatti lo stile e la lingua; ma la conoscenza approfondita della sua intera produzione e soprattutto delle opere più ampie e complesse ha indotto a rovesciare del tutto tale giudizio.
Pochi e non del tutto certi (Cipriano, Arriano) sono i nomi degli allievi del G., ma è evidente che il Piacentino in particolare ne riprese con coerenza temi fondamentali. Grazie a lui la prima scuola giuridica francese subì fortemente gli influssi delle teorie gosiane. E, se nella scuola bolognese di diritto civile, ligia alle interpretazioni di Bulgaro e dei suoi seguaci, le teorie del G., fortemente eterodosse, furono sempre minoritarie, diversa e ben più favorevole accoglienza esse ebbero presso i canonisti e nella normativa statutaria comunale.
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