Marxismo
Il marxismo nasce, negli scritti di Marx e di Engels degli anni quaranta dell'Ottocento, sotto forma di una scienza della società che intende fornire un'interpretazione complessiva della nascente società borghese-capitalistica e della sua direzione di sviluppo. Naturalmente il marxismo non è soltanto questo, e lo vedremo in seguito; ma fin dall'inizio è anche e soprattutto questo. A partire dal 1845, e ancor più esplicitamente nel Manifesto del partito comunista scritto alla vigilia della rivoluzione europea del 1848, Marx ed Engels hanno preso posizione nei confronti di quello che hanno definito il socialismo "utopistico", contrapponendogli il proprio come socialismo "scientifico". E nella prefazione al Capitale (1867) Marx ha dichiarato che oggetto della sua indagine era "il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono", di cui si proponeva - in analogia con il procedimento delle scienze della natura - di scoprire le "leggi naturali", cioè le tendenze "che operano e si fanno valere con bronzea necessità". Questa rivendicazione di scientificità non è affatto estrinseca; essa è invece un elemento costitutivo dell'analisi marxiana (e poi marxistica) della società. Ciò che Marx ed Engels si propongono è infatti, in primo luogo, individuare gli aspetti caratteristici di una nuova struttura sociale che si è venuta affermando nel mondo europeo nel corso degli ultimi secoli, e di cui lo sviluppo dell'industria, dapprima sul suolo inglese poi anche nel continente, ha ormai posto in luce l'irriducibilità alle società del passato; in secondo luogo, spiegare il processo di trasformazione che ha messo capo ad essa e che potrà condurre, in futuro, alla nascita di un'altra società che ne costituisca il "superamento".
La prima linea di analisi ha il proprio centro di gravità nel riconoscimento della struttura capitalistica della società moderna - una struttura assente nelle società del passato - la quale si è venuta costituendo nel corso di un processo secolare che ha avuto inizio nel tardo Medioevo. Questa struttura risulta caratterizzata dal prevalere della proprietà privata o, più precisamente, di un tipo particolare di proprietà privata - la proprietà capitalistica - che comporta, per un verso, la trasformazione delle forme di proprietà precedenti e, per l'altro, un processo di crescente concentrazione nelle mani di un determinato gruppo sociale, ossia della classe dei "capitalisti". Caratteristica fondamentale della proprietà capitalistica è infatti la separazione tra capitale e lavoro, e quindi tra la classe che possiede i mezzi di produzione e quella che fornisce la forza-lavoro. Marx ha collegato questa analisi alla distinzione, formulata da Smith e largamente recepita dall'economia politica dei primi decenni del secolo XIX, tra salario, rendita e profitto, definendo il reddito del capitale investito in termini di profitto. Mentre la classe proprietaria di origine feudale aveva la propria base economica nella rendita, la classe capitalistica vive del profitto ricavato dall'investimento del capitale, e perviene ad accumulare capitale in misura crescente attraverso il profitto.
Ma nel passaggio dalla società feudale, fondata sulla proprietà terriera, alla società borghese-capitalistica non si ha soltanto uno spostamento di importanza dalla rendita al capitale; la rendita stessa viene trasformata in capitale, cosicché la classe percettrice di rendita vede progressivamente diminuita, insieme al proprio peso economico, anche la propria importanza sociale. E come la classe capitalistica viene assorbendo i ceti redditieri, così la classe operaia assorbe, da parte sua, i ceti artigianali e piccolo-borghesi. Al processo di concentrazione del capitale fa riscontro la proletarizzazione della forza-lavoro, che viene a trarre la fonte esclusiva del proprio sostentamento dal salario.Questa analisi, ripresa e ampiamente sviluppata nel primo libro del Capitale - pubblicato a distanza di circa un ventennio, nel 1867 -, poggia su un'interpretazione conflittuale della struttura dicotomica della società moderna. Capitale e lavoro, profitto e salario non sono infatti componenti che cooperano al processo produttivo integrandosi a vicenda; sono invece elementi contrapposti, in quanto la classe capitalistica tende ad accrescere il proprio profitto riducendo la quota di ricavo destinato ai salari al minimo possibile, a un livello di pura e semplice sussistenza, mentre la classe operaia è in balia delle crisi ricorrenti che producono disoccupazione. Il rapporto tra le due classi si configura perciò agli occhi di Marx e di Engels - i quali guardano soprattutto alle condizioni del lavoro nelle manifatture e nelle fabbriche inglesi, e al pauperismo che ne costituiva l'inevitabile conseguenza - come un conflitto permanente e non suscettibile di composizione, come una lotta. La lotta di classe è un elemento costitutivo, non eliminabile, della società borghese-capitalistica.
Tale elemento è rintracciato, fin dalla Deutsche Ideologie (1845), anche nelle società del passato: questa è la seconda fondamentale direzione dell'analisi marxiana. Tutte le società finora succedutesi nella storia presentano infatti un'analoga struttura dicotomica, anche se le classi "polari" e contrapposte sono diverse in ognuna di esse. E ciò per la correlazione che sussiste tra proprietà e stratificazione sociale. Richiamandosi su questo punto alla tesi largamente diffusa nella cultura socialista francese e inglese della prima metà dell'Ottocento, che aveva collegato l'origine della diseguaglianza sociale alla nascita della proprietà (secondo un modello interpretativo che risale a Rousseau e che è stato in seguito ampiamente sviluppato nei testi di Proudhon), Marx ed Engels ritengono che la divisione della società in classi sia un fenomeno universale riconducibile all'esistenza di una qualche forma di proprietà. Ma essi relativizzano questo fenomeno, cercando di determinare il rapporto esistente tra la successione storica delle formazioni economiche della società e quella delle forme di proprietà. E - fatto ancor più decisivo - pongono la struttura della proprietà in relazione con il progredire della divisione del lavoro. La divisione del lavoro è un processo per così dire lineare, che però dà luogo a una successione di modi di produzione tra loro qualitativamente distinti. Già nella Deutsche Ideologie s'incontra infatti la distinzione tra proprietà tribale, proprietà comunitaria, proprietà feudale e proprietà capitalistica, intese come le strutture portanti di forme differenti di organizzazione sociale. Nella comunità primitiva la divisione del lavoro ha una base naturale, essendo il semplice prolungamento della divisione per sesso e per età presente all'interno della famiglia, e la proprietà appartiene non al singolo ma alla tribù, cosicché in essa non esiste ancora proprietà privata; nelle forme successive la proprietà è invece nelle mani di una classe detentrice anche del potere politico, la quale trae il proprio sostentamento dal lavoro o degli schiavi o dei servi della gleba o, nella società borghese-capitalistica, del proletariato industriale. A differenza di quanto avviene nella comunità primitiva, queste forme di organizzazione poggiano tutte su una divisione tra classe possidente e classe non possidente, la quale coincide con quella tra classe dominante e classe dominata: tra cittadini e schiavi nella comunità antica, tra signori e servi della gleba nella società feudale, tra capitalisti e lavoratori salariati nella società borghese-capitalistica.
Marx ha ripreso i termini della sua analisi nei Grundrisse - un testo composto nel 1857-1858, ma pubblicato soltanto a metà di questo secolo, nel 1939-1941. Se nella Deutsche Ideologie l'elenco dei modi di produzione era riferito in modo esclusivo allo sviluppo europeo, nei Grundrisse se ne aggiungeva ad essi un altro estraneo a questo sviluppo, vale a dire il modo di produzione asiatico. Anche qui il punto di partenza era rappresentato dalla comunità primitiva, corrispondente all'organizzazione tribale. Da essa trae origine la comunità di villaggio diffusa soprattutto, ma non soltanto, nel subcontinente indiano, che detiene collettivamente il possesso della terra ma non la sua proprietà: questa è infatti nelle mani di un potere esterno alla comunità stessa, cioè del sovrano. Si ha così una dissociazione tra possesso comunitario e proprietà, la quale costituisce il fondamento del modo di produzione asiatico. Esso è infatti caratterizzato non soltanto, e non tanto, dall'appropriazione collettiva e dallo sfruttamento collettivo del terreno, già presenti nella comunità primitiva, quanto dal sorgere di un potere dispotico che si colloca al di fuori della comunità di villaggio e al quale va - sotto forma di prelievo fiscale o di prestazioni per lavori pubblici - il prodotto eccedente di ogni comunità.
A questa forma di organizzazione sociale se ne affiancano altre due, in un rapporto che per certi versi è di parallelismo, per altri versi di sequenza: la comunità antica e la comunità germanica, caratterizzate l'una dall'affermarsi della distinzione tra proprietà pubblica e proprietà privata e l'altra dal prevalere della proprietà individuale o familiare. Se la comunità germanica tenderà a scomparire dal quadro dell'analisi marxiana, il modo di produzione asiatico finirà per caratterizzare la prima formazione economica della società nata dalla dissoluzione della comunità primitiva. All'estremo opposto della serie a cui esso ha dato inizio si colloca, dopo le tappe intermedie rappresentate dal modo comunitario e dal modo feudale di produzione - che sembra affondare le sue radici nella comunità germanica più che in quella antica - la società strutturata su base capitalistica. Ma, comunque si configuri la classe proprietaria - sotto forma di un despota esterno alle comunità di villaggio o della classe possidente della città antica o della nobiltà feudale, o ancora della classe capitalistica - le si contrappone sempre una classe dominata, dal cui lavoro essa trae il proprio sostentamento.Questa concezione dicotomica della società distingue nettamente la marxiana scienza della società dall'impostazione della sociologia positivistica, quale era stata formulata negli scritti di Saint-Simon e di Auguste Comte successivi al 1815 e poi sistematizzata dallo stesso Comte nel Cours de philosophie positive (1830-1842).
Anche per Comte, come già per Saint-Simon, la società moderna che sta sorgendo dal processo di industrializzazione rappresenta una forma di organizzazione radicalmente nuova, irriducibile alle società del passato; anche per Comte la società moderna si distingue da queste in virtù dell'affermarsi di nuove classi sociali. Ma questa struttura non riveste affatto un carattere dicotomico. Il passaggio da una società all'altra si compie attraverso un processo di sostituzione delle classi detentrici del potere, tanto temporale quanto spirituale: dalla nobiltà feudale e dal clero che dominavano nel vecchio sistema ai giuristi e ai metafisici che nel periodo di transizione hanno minato le basi di quel sistema, agli industriali e agli scienziati positivi che costituiscono la base del nuovo sistema, cioè del sistema industriale. Ma all'interno di ognuno di questi sistemi non vi è una divisione rigida, e tanto meno una contrapposizione, tra le classi detentrici del potere e il resto del corpo sociale; vi è, anzi, una solidarietà che affida alle classi detentrici del potere la rappresentanza legittima degli interessi dell'intero corpo sociale. Non la lotta di classe, ma il progresso intellettuale dell'umanità - quale si manifesta nel passaggio dal sapere teologico al sapere positivo, attraverso l'intermediazione dello stato metafisico - costituisce il "motore" della storia.
Emerge qui la profonda distanza che separa la marxiana scienza della società dalla sociologia positivistica. Quest'ultima si richiama infatti al modello di una società organica fondata su rapporti di solidarietà, sia che si tratti della società sviluppatasi nel corso del Medioevo sulla base dell'autorità di una fede religiosa condivisa, oppure di quella che - dopo l'azione dissolutrice della Riforma, della cultura dei Lumi e della Rivoluzione francese - sta nascendo in seguito all'affermarsi dell'industria, e che trova la sua base nel sapere positivo e nel potere che dev'essere riconosciuto agli scienziati. In questa prospettiva il conflitto è un elemento transitorio della vita sociale, destinato a scomparire allorché la società poggia su un'autorità legittima e sul consenso che questa riscuote. Marx ed Engels proiettano invece la visione di una società organica nel futuro, nella formazione che dovrà nascere dalla dissoluzione della società borghese-capitalistica: per quanto riguarda il passato e ancor più il presente, la storia è - secondo la formulazione del Manifesto - lotta di classe, conflitto permanente tra classi contrapposte. E tale è stata fin dal momento dell'uscita dell'uomo dalla comunità primitiva, in cui il carattere collettivo della proprietà e dell'uso dei beni non consentiva il sorgere di divisioni al suo interno. O, più precisamente, tale è stata non la storia, ma la "preistoria" dell'umanità; perché la storia vera e propria avrà inizio soltanto con l'eliminazione delle classi e quindi del loro conflitto. Mentre la teoria comtiana (ma già quella di Saint-Simon) vedeva nella società industriale la forma definitiva di organizzazione sociale, la marxiana scienza della società fa del futuro, non del presente, il luogo della liberazione dell'uomo dalle catene prodotte dalla proprietà privata. Essa sfociava così in una filosofia della storia di chiara impronta escatologica.
Fin dall'inizio, infatti, il marxismo si presenta anche come una concezione dell'uomo e della storia dell'umanità, formulata in riferimento a Hegel e alle posizioni della sinistra hegeliana. Per Marx l'uomo è essenzialmente un essere sociale, un essere che ha bisogni e che cerca di soddisfarli trasformando la natura mediante il lavoro. Correlativamente, la società non è altro che l'insieme dei rapporti reciproci tra gli uomini, di rapporti storicamente determinati che sono, in primo luogo, rapporti di produzione. L'uomo si realizza nel lavoro, ma al tempo stesso viene a perdere la propria essenza, ad "alienarsi", in quanto è costretto a cedere ad altri il prodotto del proprio lavoro. Questa prospettiva è stata enunciata da Marx fin dagli Oekonomisch-philosophische Manuskripte del 1844 (rimasti inediti fino al 1932), in cui egli ha per la prima volta preso in esame la situazione del lavoratore salariato nella società borghese-capitalistica. Il rapporto tra capitalista e lavoratore è, per Marx, un rapporto di diseguaglianza, nel quale il lavoratore non può determinare il prezzo del proprio lavoro ma è costretto a sottostare alle condizioni che gli vengono imposte dal capitalista. In tale situazione anche il lavoro, che pure appartiene all'essenza dell'uomo, viene ridotto a merce, non differente dalle altre merci; e dalla mercificazione del lavoro deriva l'estraniazione del lavoratore dal processo produttivo, vale a dire la sua alienazione. Questa assume una triplice forma: nei confronti del prodotto del proprio lavoro, che non appartiene più a lui bensì al capitalista; nei confronti del lavoro, che risulta estraneo al lavoratore; e, infine, nei confronti dell'essenza stessa dell'uomo, che diventa estranea all'uomo in quanto semplice mezzo della sua esistenza. Marx riprendeva così la nozione hegeliana di alienazione per caratterizzare la situazione del lavoratore nella società borghese-capitalistica, definita dalla separazione tra la proprietà dei mezzi di produzione e la disponibilità della forza-lavoro. Ma l'alienazione, a rigore, non si ha soltanto nella società borghese-capitalistica; essa accompagna lo sviluppo dell'umanità fin dalla nascita della proprietà privata e quindi della divisione in classi, pur assumendo forme diverse nelle diverse forme di organizzazione sociale. L'uomo può liberarsi dall'alienazione soltanto dando vita a una società senza classi, compiendo cioè il passaggio al "comunismo".
Questo passaggio è reso non soltanto possibile, ma necessario, dalla dialettica della storia. Il trapasso da un modo all'altro di produzione, e quindi da una forma all'altra di organizzazione sociale, avviene in virtù del meccanismo tipicamente hegeliano dell'insorgenza di una contraddizione all'interno di una data società e della sua risoluzione in una struttura ad essa superiore. Ma la dialettica marxiana si presenta come il "rovesciamento" di quella hegeliana; si presenta non come dialettica dell'idea, ma come dialettica reale. In polemica con Hegel, ma anche con Feuerbach, Marx ed Engels fanno valere - a partire dalla Deutsche Ideologie - il principio secondo cui non è lo sviluppo dell'idea a determinare la vita degli uomini, ma sono i rapporti tra gli uomini a determinare le forme della coscienza, le quali non posseggono di per sé alcuna autonomia e quindi neppure, a rigore, una storia. La dialettica marxiana ha infatti il proprio fondamento nella relazione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione, cioè tra lo sviluppo della divisione del lavoro e dell'organizzazione produttiva e i rapporti sociali che caratterizzano una data formazione della società. Il che vuol dire che essa ha un fondamento economico, e che su questa base poggiano gli altri aspetti della vita dell'uomo. Lo stato di sviluppo delle forze produttive dà luogo a un determinato tipo di rapporti sociali; ma, mentre questi tendono a stabilizzarsi permanendo più o meno immutati nel tempo, quello sviluppo procede ininterrotto, mettendo in crisi i rapporti a cui ha dato origine.
Questa concezione si trova espressa in forma sintetica nella prefazione a Zur Kritik der politischen Oekonomie, che risale al 1859. "Nella produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il mondo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi si erano mosse. Questi rapporti si convertono, da forme di sviluppo delle forze produttive, in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. E con il mutamento della base sociale si sconvolge, più o meno rapidamente, tutta la gigantesca sovrastruttura".Marx collegava in tal modo la concezione del processo storico come movimento dialettico e la teoria del materialismo storico. La contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive, che tende a procedere al di là dell'assetto esistente, e i rapporti sociali che corrispondono a un momento precedente di tale sviluppo, rappresenta il meccanismo che conduce da una formazione economica a un'altra, in cui la contraddizione risulta "risolta". In questa maniera la società borghese-capitalistica è sorta dalla società feudale; e analogamente da tale società nascerà un'altra forma di organizzazione, il comunismo.
Anche per il marxismo, dunque, la storia dell'umanità ha un andamento progressivo; ma la base di questo progresso non è il movimento dell'idea, bensì lo sviluppo delle forze produttive - la divisione del lavoro e l'organizzazione della produzione. Se il "motore" della storia è, come si è visto, la lotta di classe, in quanto la contraddizione interna a ogni formazione si esprime appunto attraverso il conflitto tra classe dominante e classe dominata, il fondamento di esistenza delle classi è la struttura economica. In ciò consiste il materialismo storico, elemento fondamentale della concezione marxistica, dove per "materia" s'intende appunto la "struttura" economica della società in antitesi a ciò che è invece "sovrastruttura", vale a dire la sfera dei rapporti politici e quella dei fenomeni ideologico-culturali.La storia non è infatti altro che una sequenza di formazioni economiche della società, ognuna delle quali corriponde a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive. E soltanto la struttura economica possiede propriamente una storia. Lo Stato e il diritto, infatti, non sono altro che un apparato istituzionale creato dalla classe dominante a difesa dei propri interessi; analogamente, le idee di una data società sono le idee elaborate dalla classe dominante, che ne riflettono la concezione del mondo. Anche tra struttura e sovrastruttura, però, si ha una relazione dialettica, vale a dire un'azione reciproca. Se nel testo della Deutsche Ideologie il rapporto tra i due termini si configura piuttosto come un rapporto unilaterale, di determinazione della sovrastruttura da parte della struttura, in seguito alla struttura sarà attribuito da Engels il carattere di fondamento "in ultima istanza", e alla sovrastruttura sarà riconosciuta la possibilità di reagire sulla base economica della società, e in qualche misura di modificarla. Anche allora, però, il movimento della sfera politica come di quella ideologico-culturale sarà ricondotto al movimento della struttura, senza acquisire una propria autonomia sostanziale. Lo Stato e il diritto, al pari della cultura, sono pur sempre espressione di una particolare classe in conflitto con la classe ad essa antagonistica. E l'autonomia della sovrastruttura consisterà soprattutto nella capacità riconosciuta anche alla classe dominata di dare vita a una propria organizzazione politica e a una propria ideologia, in antitesi a quelle della classe dominante.
La storia non è però soltanto uno sviluppo avente carattere progressivo; è anche sviluppo che tende a un fine. E questo fine, che segna il passaggio dall'alienazione all'umanità liberata, è appunto il comunismo. Sul processo di transizione al comunismo, come sui caratteri che in esso contraddistingueranno i rapporti sociali, Marx e anche i successivi teorici del marxismo sono stati piuttosto generici. Negli scritti giovanili il comunismo è definito di solito in termini negativi, come "la soppressione dell'auto-alienazione" o "l'espressione positiva della proprietà privata soppressa" (com'è detto nel testo degli Oekonomisch-philosophische Manuskripte); ma anche in seguito, nel Capitale, esso sarà sempre caratterizzato in maniera piuttosto generica. Una cosa, tuttavia, è certa. Come per Hegel lo Stato moderno, quale si è configurato nel mondo cristiano-germanico, segna il culmine dello spirito oggettivo, così per Marx il comunismo rappresenta l'ultima possibile formazione della società, una formazione priva di quel carattere conflittuale che costituiva un elemento comune a quelle che l'hanno preceduta. Il comunismo non segna soltanto, infatti, l'eliminazione delle classi e quindi la scomparsa della lotta di classe; esso segna anche la liberazione dell'uomo dall'alienazione e il recupero della sua essenza, vale a dire - come si espresse Engels - il trapasso dal regno della necessità al regno della libertà.
Per realizzare il comunismo è però necessario il ricorso all'azione rivoluzionaria. In conformità al principio - enunciato nelle Thesen über Feuerbach - secondo cui "i filosofi hanno soltanto interpretato diversamente il mondo" e "si tratta ora di trasformarlo", Marx ritiene che la futura società senza classi possa essere instaurata soltanto attraverso la rivoluzione del proletariato. La necessità che presiede allo sviluppo storico, e che rende inevitabile la fine della società borghese-capitalistica, non può prescindere dall'intervento attivo degli uomini, di quegli "individui reali" la cui esistenza costituisce il primo presupposto della storia. Il passaggio da un modo di produzione all'altro non avviene in virtù di un processo evolutivo, ma attraverso la contraddizione che lo sviluppo delle forze produttive introduce nell'assetto sociale e la rottura di quest'ultimo. E la storia del modo di produzione capitalistico è costellata, del resto, da una serie di rivoluzioni non soltanto politiche ma anche sociali, culminanti nel 1848 e più tardi nella Comune parigina. Esse preannunciano, in qualche maniera, la rivoluzione del proletariato, che provocherà la fine della società borghese-capitalistica; e tuttavia questa dovrà avere caratteristiche peculiari. Essa sarà infatti, a differenza delle precedenti, una rivoluzione generale condotta dal proletariato nei confronti della classe che detiene la proprietà dei mezzi di produzione, una rivoluzione destinata a diffondersi in tutto il mondo. E ciò in quanto nel corso degli ultimi secoli si è venuto formando, a causa dello sviluppo della società borghese-capitalistica, un mercato mondiale, che ha trasformato la storia in "storia universale".
L'unificazione del globo in un mercato privo di confini, determinata dalla capacità espansiva del modo di produzione capitalistico, ha come conseguenza che la rivoluzione del proletariato, pur avendo inizio nei paesi in cui esso ha raggiunto il maggior grado di sviluppo, sarà anch'essa una rivoluzione universale.
Il marxismo è dunque sì una scienza della società, ma è anche - e in maniera indissolubile - una filosofia della storia che si propone di determinare lo sviluppo dell'umanità tanto nel passato quanto nel futuro, e una teoria della rivoluzione del proletariato come condizione necessaria del trapasso dal capitalismo al comunismo. Il cuore di questa complessa costruzione, quale è stata delineata da Marx dapprima nei Grundrisse e poi soprattutto nel Capitale, è costituito dall'analisi della società borghese-capitalistica, della sua origine, del suo sviluppo e delle tendenze che dovranno condurre alla sua scomparsa. Si tratta di un'analisi che ha per oggetto la struttura di tale società, vale a dire il funzionamento del sistema ecomico capitalistico, e che lascia in secondo piano - in quanto, tutto sommato, secondaria - la sua sovrastruttura, cioè i fenomeni appartenenti alla sfera politica e a quella ideologico-culturale. Essa riveste un carattere che si può dire storico-sociologico. Non si tratta infatti di un'analisi puramente storica, in quanto il suo scopo non è quello di delineare lo sviluppo del sistema capitalistico quale si è venuto configurando nelle varie epoche nei diversi paesi in cui si è diffuso; ciò che si propone è piuttosto l'individuazione delle sue fasi e la determinazione delle leggi del suo sviluppo. E neppure è un'analisi puramente sociologica, poiché queste leggi sono viste all'opera in contesti specifici, assumendo anzi come modello e come campo privilegiato d'indagine lo sviluppo del paese all'avanguardia nella trasformazione in senso capitalistico e poi nell'industrializzazione, vale a dire l'Inghilterra. Marx procede 'concettualizzando' i processi che prende in esame, riportando la loro dinamica a categorie desunte dall'economia politica al fine di darne una spiegazione teorica.
In questo procedimento il problema che inizialmente si pone è quello della formazione stessa del capitale, e quindi dell'origine della distinzione tra capitale e lavoro. Il problema è formulato teoricamente distinguendo l'accumulazione originaria, che consente la nascita del capitale, dall'accumulazione progressiva, che è all'opera nel successivo sviluppo capitalistico. Ciò conduce Marx a cercare i presupposti storici del capitale nel passaggio dalla società feudale alla società borghese-capitalistica. Il modo di produzione feudale poggiava sul lavoro della terra da parte dei servi della gleba, e la proprietà s'identificava perciò con il possesso del terreno. Con la fuga dei servi della gleba dalla campagna, con il loro insediamento in città e con l'affrancamento che essi vi ottengono, il modo di produzione feudale entra in crisi; i settori produttivi che si sviluppano in città assorbono la popolazione rurale che vi si insedia, e giungono a produrre in misura eccedente rispetto ai bisogni del suo sostentamento. Si ha così non soltanto un trasferimento crescente di manodopera dalla campagna alla città, e quindi dall'agricoltura all'attività artigianale, ma anche un ricavo crescente da parte di quest'ultima, che si traduce in capitale accumulato. Al rapporto dominio-servitù, caratteristico del modo di produzione feudale, subentra un diverso rapporto tra imprenditore e lavoratore, fondato sullo scambio, cioè un rapporto contrattuale: il lavoratore vende all'imprenditore il proprio lavoro in cambio del salario, mentre l'imprenditore investe il capitale che è venuto accumulando e se ne serve da un lato per procurarsi gli impianti produttivi (capitale costante), dall'altro per remunerare i lavoratori dipendenti (capitale variabile). La proprietà privata capitalistica presuppone la progressiva distruzione della proprietà feudale.Marx ha collocato lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo modo di produzione, tra società feudale e società borghese-capitalistica, all'inizio dell'età moderna, tra Quattro e Cinquecento.
Ma questa determinazione cronologica è, in fondo, secondaria: ciò che conta è il fatto che l'accumulazione originaria presuppone l'esistenza della città come centro produttivo e lo sviluppo di un'economia cittadina svincolata dal modo di produzione feudale. Come la città e l'economia cittadina abbiano potuto sorgere in concomitanza, e in certo senso in concorrenza, con la società feudale - anche se, per la verità, nella Deutsche Ideologie esse erano viste piuttosto come un suo correlato, e i rapporti di lavoro nella bottega artigiana erano in qualche modo assimilati a quelli della servitù della gleba - è un problema che Marx ha lasciato in ombra. Ciò che gli preme è stabilire le modalità dell'accumulazione originaria, per muovere di qui alla delineazione delle fasi successive di sviluppo del modo di produzione capitalistico.Queste fasi sono tre: la cooperazione, la manifattura e, infine, la grande industria. La fase della cooperazione segna la nascita del sistema economico capitalistico, ed è rintracciabile anche in contesti storici diversi da quello europeo - in contesti, cioè, che richiedono l'impiego su scala più o meno ampia di manodopera per effettuare opere pubbliche. Nello sviluppo storico europeo essa assume però una fisionomia specifica, in quanto la manodopera è fornita non più dalla tribù o dalla comunità di appartenenza del lavoratore, ma da lavoratori liberi i quali instaurano un rapporto contrattuale con l'imprenditore capitalistico.
Ed essa giunge fin verso la metà del Cinquecento, mentre la fase successiva, quella della manifattura, si estende fino all'inizio del processo di industrializzazione, che ha luogo verso gli anni settanta del Settecento. Più che lo spartiacque storico, però, interessa a Marx la distinzione concettuale tra queste tre fasi. La cooperazione comporta infatti l'attività in comune di più lavoratori nello stesso luogo e per la produzione dello stesso genere di merci; è cioè un lavoro in comune nell'ambito del medesimo mestiere. La manifattura sorge invece attraverso la concentrazione in una medesima officina di mestieri diversi in vista della fabbricazione dello stesso prodotto, oppure attraverso la cooperazione di addetti che, pur nell'ambito del medesimo mestiere, si suddividono le operazioni necessarie in vista di tale scopo. Il passaggio dall'una all'altra fase comporta però sempre la scomposizione di un'attività artigianale unitaria in operazioni parziali, svolte non più dallo stesso lavoratore ma da lavoratori diversi. Se la base tecnica dell'attività produttiva rimane quella artigianale, la sua configurazione viene però a mutare. La manifattura introduce infatti all'interno una gerarchia di funzioni e una corrispondente scala di salari, sotto la direzione dell'imprenditore capitalistico, e all'esterno una situazione di concorrenza tra i diversi produttori. Ne deriva la tendenza all'aumento delle dimensioni dell'impresa per quanto riguarda sia il numero dei lavoratori occupati sia il volume del capitale investito e quello della merce prodotta - una tendenza che mette capo alla terza e ultima fase del modo di produzione capitalistico, quella dell'industria.
L'industria non rappresenta quindi, per il marxismo, il punto di partenza di una nuova forma di organizzazione sociale, come riteneva invece la sociologia positivistica: essa rientra nel modo di produzione capitalistico, distinguendosi dalle due fasi precedenti in quanto il processo produttivo ha la sua base non più nella forza-lavoro e nella sua organizzazione, ma nel mezzo di lavoro, cioè nell'impiego su larga scala delle macchine. Essa rientra nel modo di produzione capitalistico perché il suo fondamento rimane pur sempre lo stesso, cioè la separazione tra capitale e lavoro, tra una classe proprietaria dei mezzi di produzione e una classe che fornisce la forza-lavoro: la sua specificità poggia sul progressivo trasferimento delle operazioni lavorative dall'uomo alla macchina. Non già che le macchine fossero assenti nelle fasi precedenti; ma in quest'ultima fase si ha dapprima la cooperazione di diverse macchine omogenee all'interno dell'impresa, poi il sorgere di un sistema di macchine eterogenee che vengono a formare una catena. Il trasferimento di operazioni dal lavoratore alla macchina non significa però - ed è questa una tesi centrale del marxismo - una liberazione dal lavoro, e neppure un miglioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice. Nell'analisi di queste condizioni Marx poteva richiamarsi infatti alle conclusioni cui erano pervenuti, negli anni trenta, Charles Babbage e Andrew Ure, e soprattutto al libro di Engels Die Lage der arbeitenden Klasse in England (1845), che aveva posto in luce le conseguenze socialmente negative del lavoro industriale e il processo di pauperizzazione che ne era derivato. Lungi dall'inaugurare un'epoca di libertà, l'industria comporta un grado crescente di alienazione del lavoratore.
Come ciò sia possibile, e anzi necessario, viene spiegato sulla base del rapporto di dipendenza che s'instaura tra il lavoratore e la macchina. Il passaggio dalla manifattura all'industria richiede l'aumento dei lavoratori salariati, e quindi il ricorso su larga scala anche al lavoro femminile e infantile, nonché il prolungamento della giornata lavorativa. All'aumento della manodopera impiegata subentra, in seguito, l'intensificazione del lavoro, cioè la sua condensazione: cresce la velocità delle macchine, e cresce pure il numero delle macchine che il singolo addetto deve sorvegliare. Lo sfruttamento estensivo della forza-lavoro cede il passo a uno sfruttamento intensivo. Ne deriva una diversa organizzazione del lavoro: come aveva già osservato Ure, la gerarchia di lavoratori specializzati, che caratterizzava la manifattura, tende a essere sostituita dal livellamento delle funzioni, in quanto gli addetti alle macchine risultano fungibili tra loro. Lungi dal liberare il lavoratore, la macchina lo ha asservito a sé. Tra il lavoratore e la macchina s'instaura perciò una competizione crescente: la macchina compie le operazioni che erano prima effettuate dai lavoratori, e questi vengono espulsi, in numero sempre maggiore, dal processo produttivo. Mentre all'inizio l'industrializzazione comporta l'aumento della manodopera, in seguito l'impiego delle macchine comporta il diffondersi della disoccupazione, cioè la creazione di quello che Marx ha chiamato "l'esercito industriale di riserva".
Il rapporto tra il capitalista e il lavoratore risulta nettamente squilibrato in favore del primo; anzi, lo scambio che in esso si ha tra forza-lavoro e salario risulta una "pura forma che è estranea al contenuto e lo mistifica soltanto". Ma lo sviluppo dell'industria ha effetti di ampia portata anche sul capitale, sia sotto l'aspetto quantitativo sia soprattutto sotto quello qualitativo. Non soltanto il progredire dell'accumulazione fa sì che il capitale investito assuma dimensioni sempre maggiori, ma cambia anche la composizione del capitale stesso: dal momento che il processo produttivo richiede l'impiego crescente di macchine, la parte investita in mezzi di lavoro, cioè il capitale costante, cresce a scapito della parte impiegata in salari, cioè del capitale variabile. Il monte salari diventa così una parte sempre minore del capitale complessivo. Diminuisce la domanda di lavoro, non già nel senso che la manodopera impiegata decresca in senso assoluto, ma nel senso che essa aumenta in proporzione decrescente rispetto al periodo iniziale del processo di industrializzazione. E tende a diminuire anche il livello della remunerazione, poiché il lavoro specializzato prima svolto dall'artigiano viene ora compiuto dalle macchine, e le operazioni lavorative risultano sempre più uniformate, con la conseguenza che vengono meno le differenze di funzione (e di retribuzione) tra i lavoratori.Attraverso questa analisi Marx è pervenuto, nel primo libro del Capitale, a enunciare la legge generale dell'accumulazione capitalistica, vale a dire la legge dello sviluppo crescente dell'esercito industriale di riserva.
Parallelamente all'aumento del capitale e al mutamento della sua composizione cresce anche la popolazione operaia in cerca di occupazione, e si ha quindi quella che egli chiama un'"accumulazione di miseria". Il pauperismo non è un elemento transitorio dello sviluppo capitalistico nella fase industriale, ma è il suo destino inevitabile. Alla concentrazione del capitale in una classe sempre più ristretta fa riscontro la proletarizzazione del resto della popolazione: come la classe capitalistica assorbe in sé la classe che viveva di rendita, trasformando la proprietà fondiaria in capitale da investire, così i ceti intermedi vengono progressivamente cancellati e ricondotti anch'essi nell'ambito del lavoro salariato. Ne risulta una polarizzazione della società che rende sempre più aspro il conflitto di classe, ponendo le condizioni per la rivoluzione del proletariato.
Nel terzo libro del Capitale questa analisi viene integrata con la formulazione di un'altra legge, quella della caduta tendenziale del saggio di profitto. Con l'aumento del capitale costante e la diminuzione di quello variabile si realizza, nel processo di industrializzazione, un incremento progressivo della produttività: ogni prodotto contiene una quantità di lavoro via via minore, e quindi ne risulta diminuito il margine di profitto che all'imprenditore capitalistico deriva dal plusvalore in esso incorporato. L'aumento della produttività che si attua nello sviluppo capitalistico si rivela infatti ambivalente: da una parte esso accresce il plusvalore, in quanto a una medesima quantità di lavoro corrisponde una maggior quantità di merci prodotte, ma dall'altra, in quanto richiede un investimento crescente in macchinario, riduce la proporzione del capitale variabile rispetto a quello costante, e quindi proprio quella parte di capitale che genera plusvalore. Se la massa del capitale aumenta, e con essa anche la quantità assoluta del profitto che il capitalista ne ricava, diminuisce invece, con il mutamento della composizione del capitale stesso, il rapporto tra il profitto e il capitale complessivo investito, ossia il saggio del profitto. È pur vero che a questa tendenza generale si contrappongono delle "controtendenze": aumenta il grado di sfruttamento del lavoro, si riduce il salario individuale e con esso il monte salari, diminuisce altresì il prezzo degli elementi che compongono il capitale costante, vale a dire il prezzo delle macchine, diminuisce il numero dei lavoratori impiegati; e inoltre il commercio estero allarga le possibilità di sbocco delle industrie, mentre la massa del capitale investito tende pur sempre ad aumentare. Ma queste "controtendenze" non sono tali da poter eliminare la tendenza di lungo periodo alla diminuzione del profitto che l'imprenditore può ricavare dal capitale investito. E con il declino del profitto viene meno la stessa ragion d'essere del sistema economico capitalistico.
C'è dunque una "necessità logica" interna allo sviluppo del modo di produzione capitalistico che deve condurre - come Marx sostiene nella prefazione alla seconda edizione del Capitale - a una crisi generale. Da una parte le condizioni di vita del proletariato si sono fatte insostenibili a causa della subordinazione del lavoratore alla macchina e del venir meno della sua capacità contrattuale nei confronti dell'imprenditore capitalistico; dall'altra il processo di concentrazione del capitale nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone comporta l'espropriazione di molti capitalisti. Alla proprietà diffusa del capitale si sostituisce la sua monopolizzazione; e così "suona l'ultima ora della proprietà capitalistica", la quale va ora incontro allo stesso processo di espropriazione che aveva colpito la classe lavoratrice. A ciò si aggiungono le crisi ricorrenti dovute allo squilibrio tra la produzione e il consumo, cioè quelle crisi di sovrapproduzione che, mentre accrescono la pressione sulla classe lavoratrice, impediscono il realizzo delle merci prodotte al loro valore, e quindi incidono sulla stessa formazione del plusvalore. Dall'analisi dello sviluppo del modo di produzione capitalistico Marx approda dunque all'affermazione dell'inevitabilità della fine della società borghese-capitalistica. La previsione - o, se si preferisce, la profezia - di questa fine fa parte integrante del corpus teorico del marxismo, e pone in luce il nesso che lega l'impianto della scienza della società con la prospettiva escatologica della filosofia della storia di Marx.
Come si è visto, nessun rapporto intercorre tra la marxiana scienza della società e la sociologia positivistica, portatrice di un'interpretazione della società moderna non soltanto differente ma sostanzialmente alternativa. E neppure essa si richiama alla tradizione della scienza politica settecentesca, inaugurata dall'Esprit des lois di Montesquieu, e al suo duplice sforzo di determinare da un lato la natura e il principio delle diverse forme di governo, dall'altro i diversi poteri che, nella loro distinzione, garantiscono la possibilità di un ordinamento fondato sulla libertà. Lo precludeva la stessa considerazione della politica come sfera appartenente alla sovrastruttura, e la conseguente interpretazione dello Stato come espressione degli interessi della classe dominante. Anzi, Marx ed Engels ritenevano che lo Stato fosse destinato a scomparire nella futura società senza classi, e che le funzioni politiche dovessero ridursi - come aveva suggerito Saint-Simon - a compiti di pura e semplice amministrazione.
Centrale è invece, per la formazione della teoria marxistica, il rapporto con l'economia politica, con Adam Smith ma soprattutto con Ricardo. Marx aveva letto la Wealth of nations e i Principles of political economy fin dal 1843-1844, accompagnando tale lettura con quella degli economisti posteriori, sia inglesi che francesi, da James Mill e John Ramsay McCulloch a Jean Baptiste Say; dopo il fallimento della rivoluzione del 1848 riprenderà sistematicamente lo studio dell'economia. E proprio la distinzione smithiana tra salario, profitto e rendita è il punto di partenza della teoria dell'alienazione esposta negli Oekonomisch-philosophische Manuskripte del 1844, così come la teoria del valore di Ricardo costituirà, nel Capitale, il termine di riferimento per la definizione del valore in termini di lavoro incorporato e per la formulazione della teoria del plusvalore. L'economia politica si presenta - agli occhi di Marx e del marxismo posteriore - come un corpo di dottrine che ha saputo cogliere i meccanismi di funzionamento della società borghese-capitalistica, enunciandoli in forma di leggi scientifiche, ma che ha anche preteso di trasformare queste ultime in leggi 'eterne', valide per qualsiasi modo di produzione. In quanto autointerpretazione della società borghese-capitalistica, l'economia politica ne costituisce non soltanto la scienza ma, al tempo stesso, l'ideologia.
Ciò spiega perché il marxismo si presenti non tanto come la prosecuzione, quanto come la critica dell'economia politica (non a caso questa espressione ricorre spesso, a partire dai Grundrisse, nel titolo delle opere di Marx). L'errore dell'economia politica consiste nell'aver assunto i rapporti di produzione che sono propri della società borghese-capitalistica come "leggi di natura immutabili della società in astratto", perdendo di vista il loro carattere storico. È pur vero che la produzione presenta caratteristiche generali che permangono nel tempo, e che sono quindi comuni a ogni società; ma essa si configura diversamente da un modo di produzione all'altro, in relazione alla forma della proprietà e ai rapporti sociali che ne derivano. L'economia politica ha arbitrariamente trasformato le categorie formulate per interpretare la società borghese-capitalistica, le quali sono "il prodotto di condizioni storiche e hanno piena validità soltanto per e all'interno di tali condizioni", in determinazioni dei processi economici in generale. Essa ha perciò assolutizzato sia il modo di produzione capitalistico sia le sue leggi specifiche.In realtà, il rapporto di Marx con l'economia politica è più complesso; e ciò per il fatto che il modo di produzione capitalistico non soltanto si distingue strutturalmente da quelli che lo hanno preceduto, ma costituisce anche il risultato ultimo (almeno fino a oggi) del loro sviluppo e il loro "superamento".
Come Marx scrive nei Grundrisse, la società borghese-capitalistica è "l'organizzazione storica più sviluppata e differenziata della produzione", e in quanto tale contiene in sé, "spesso solo del tutto atrofizzati, o addirittura travestiti", determinati rapporti che erano costitutivi delle forme precedenti di società. Come per la filosofia hegeliana della storia, così anche per il marxismo il passato si conserva nel presente, anche se "risolto" (aufgehoben) in una forma superiore. Stando così le cose, le categorie formulate dall'economia politica, pur riflettendo la struttura della società borghese-capitalistica, "permettono in pari tempo di comprendere l'articolazione e i rapporti di produzione di tutte le forme di società scomparse, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita". La loro applicabilità agli altri modi di produzione, che sembrava esclusa dal carattere storico che esse rivestono, viene così recuperata in virtù della dialettica della storia. La società borghese-capitalistica, in quanto risultato ultimo (fino a oggi) dello sviluppo storico, è al tempo stesso il modello interpretativo delle società che l'hanno preceduta, poiché consente di considerarle "come gradini che portano ad essa". L'impianto categoriale dell'economia politica, sebbene storicizzato, non perde la propria validità generale.
In questo quadro epistemologico si colloca la teoria marxiana del valore, oggetto di tante controversie - come vedremo - nella storia successiva del marxismo. Essa ha la propria origine nello sforzo compiuto dall'economia politica classica per determinare un criterio di misura dei prezzi. Più precisamente, essa si richiama alla distinzione che Smith aveva tracciato tra il valore d'uso e il valore di scambio delle merci e al collegamento da lui istituito tra quest'ultimo e il lavoro. A differenza del valore d'uso, che dipende dai bisogni individuali del singolo soggetto, il valore di scambio di una merce trova una base oggettiva nel lavoro necessario a produrla; ed è questa quantità che ne determina il prezzo. Ricardo aveva ripreso l'analisi di Smith riconducendo il valore di scambio a due fonti principali, la scarsità - che agisce però soltanto nel caso di merci particolarmente rare come, per esempio, i metalli preziosi - e il lavoro; e da ciò aveva concluso affermando che è la quantità di lavoro incorporata in una data merce a regolarne il prezzo. Il valore di scambio non è quindi altro, in sostanza, che lavoro incorporato. In realtà, l'analisi di Ricardo risultava più complessa, in quanto egli prendeva in considerazione anche altri elementi, come la qualità del lavoro, la diversa misura del compenso, l'incidenza degli strumenti e delle costruzioni nonché quella del capitale investito.
Marx si è richiamato alla teoria del valore di Ricardo lasciando cadere questi elementi e facendo della quantità di lavoro socialmente necessario il fondamento del valore di scambio. Una merce può essere scambiata con altre merci, e quindi ha un prezzo, in quanto in essa si cristallizza una determinata quantità di lavoro, misurata sulla base del tempo impiegato a produrla. Se per quanto riguarda il valore d'uso le merci sono qualitativamente diverse l'una dall'altra, dal punto di vista del valore di scambio possono sussistere soltanto differenze quantitative, vale a dire differenze nella durata temporale del processo lavorativo. La grandezza del valore di una merce è quindi data dalla quantità di lavoro socialmente necessario per produrla; cosicché la possibilità di scambio di merci diverse viene a fondarsi sulla quantità relativa di lavoro che esse hanno richiesto. Non già che il lavoro costituisca l'unico fattore della produzione; ché, al contrario, in essa intervengono anche altri fattori, e in primo luogo il capitale investito, che esige di esser remunerato. E proprio dal rapporto tra capitale e lavoro, tra remunerazione dell'uno e dell'altro sotto forma rispettivamente di profitto e di salario, nasce il plusvalore. Con questo termine Marx indica la quantità di lavoro che si traduce non già in salario, bensì in profitto. Affinché il capitale possa venir remunerato, infatti, il lavoratore riceve non già un salario equivalente al valore delle merci che ha prodotto ma un salario inferiore; più precisamente, dal momento che il capitale tende a ottenere la massima remunerazione possibile, egli riceve un salario commisurato al valore delle merci corrispondenti agli oggetti d'uso necessari per il sostentamento proprio e della sua famiglia. La differenza va all'imprenditore capitalistico, e costituisce il "lavoro eccedente" o il "valore eccedente", il plusvalore.
Di questa teoria - che costituisce il nucleo del primo libro del Capitale (di cui occupa le sezioni centrali) - Marx si è avvalso per spiegare il processo dell'accumulazione capitalistica, ma anche per illustrare la struttura dicotomica del processo produttivo proprio del modo di produzione capitalistico. Intorno ad essa ruotano gli altri aspetti della complessa costruzione dell'opera, dall'analisi del rapporto tra merce e denaro da cui essa prende le mosse a quella del processo di circolazione del capitale, e infine a quella del processo complessivo della produzione capitalistica: tutti temi in parte anticipati nei Grundrisse, e poi sviluppati in forma sistematica nel secondo e nel terzo libro del Capitale, pubblicati postumi a cura di Engels. Si può anzi asserire, con buon fondamento, che proprio l'accettazione della teoria del valore-lavoro e del plusvalore costituisca lo spartiacque tra l'economia marxistica e la scienza economica post-classica nei suoi diversi indirizzi. Essa offriva infatti una base teorica alla visione di una classe lavoratrice sfruttata, e sembrava saldarsi con la tesi dell'alienazione come elemento strutturale dell'esistenza dell'uomo nella società borghese-capitalistica.
Al rapporto con l'economia politica si aggiunge, più tardi, il rapporto con la nascente antropologia evoluzionistica. L'interesse per l'origine della società umana, e per il rapporto tra natura e società, era certamente presente già nel giovane Marx, che aveva infatti definito l'essenza dell'uomo mediante la sua capacità di trasformare la natura con il lavoro, traendone i mezzi per il proprio sostentamento. E di lunga data era anche l'interesse per la struttura della comunità primitiva, concepita - in contrapposizione ai modi di produzione sorti dalla sua dissoluzione - come una forma di organizzazione sociale in cui era assente, insieme alla proprietà privata, anche qualsiasi divisione in classi. Questo interesse aveva condotto alla 'scoperta' del modo di produzione asiatico, considerato come l'esito se non esclusivo, certo privilegiato del distacco da tale comunità: una scoperta le cui premesse si trovano già negli articoli di Marx sull'India degli anni cinquanta, e che confluisce nella trattazione delle forme di produzione precapitalistiche. Ne risultava un quadro dello sviluppo storico incentrato, come si è visto, sulla successione di modi di produzione correlati al progresso della divisione del lavoro, dove il 'fuoco' dell'analisi si portava sempre più sul modo più progredito, quello capitalistico. Non a caso nel Capitale Marx contrapponeva allo sviluppo della società borghese-capitalistica l'immobilità delle società asiatiche, nelle quali la costante dissoluzione e il riformarsi degli Stati è un fenomeno superficiale che non incide né sulla comunità di villaggio e sulla sua autosufficienza, né sulla struttura complessiva della società.
Ma il problema della struttura comunitaria della forma primitiva di organizzazione era destinato a ritornare in primo piano nel corso degli anni settanta, allorché Marx si trovò a dover affrontare il problema della possibilità di un processo di trasformazione rivoluzionaria che muovesse non da una situazione di capitalismo avanzato, come in Gran Bretagna o nell'Europa centro-occidentale, ma dalla dissoluzione della comunità agricola, come in Russia. Rispetto a questa possibilità egli si mostrò per la verità sempre scettico, e riaffermò più volte che una rivoluzione socialista presuppone un certo grado di sviluppo delle forze produttive, e quindi l'esistenza sia del proletariato sia di una borghesia capitalistica; anche se poi - soprattutto nella lettera a Vera Zasulič del marzo 1881, il cui testo risulta singolarmente attenuato rispetto agli abbozzi, che ne testimoniano la genesi laboriosa - egli parve ridurre la rigidità della sua posizione negativa ammettendo come condizione di una rivoluzione proletaria in Russia la contemporaneità dello sviluppo capitalistico in Occidente. In linea di principio, tuttavia, risultava chiara, ai suoi occhi, l'eterogeneità - e anche la discontinuità - tra la comunità primitiva e la futura società senza classi, e di conseguenza, nel caso specifico, tra la comunità rurale russa e il comunismo, che poteva realizzarsi soltanto in virtù del superamento del modo di produzione capitalistico. La comunità di villaggio russa veniva ricondotta al tipo della comunità rurale, cioè a quello che Marx riteneva essere il tipo più recente della formazione arcaica della società, e accostata tanto alla comunità indiana quanto alla comunità germanica studiata da Georg Ludwig Maurer.
Se la storia umana doveva condurre dalla proprietà comunitaria al comunismo, attraverso il susseguirsi di molteplici forme di proprietà privata e di organizzazione sociale, tuttavia il passaggio diretto dall'una all'altra si rivelava impossibile: l'esito della comunità rurale può essere soltanto la sua dissoluzione.I modi di produzione si susseguono quindi in un ordine non modificabile, poiché la loro sequenza è correlata allo sviluppo delle forze produttive, e quindi anche della divisione del lavoro. In questa visione Marx poteva trovarsi in sintonia con le prospettive dell'antropologia evoluzionistica, che proprio nel corso degli anni sessanta e settanta produceva le sue opere più significative: nel 1861 Ancient law e nel 1875 le Lectures on the early history of institutions di Henry Sumner Maine, nel 1865 le Researches into the early history of mankind and the development of civilisation e nel 1871 Primitive culture di Edward Burnett Tylor, nel 1870 The origin of civilisation di John Lubbock, sempre nel 1870 i Systems of consanguinity and affinity of the human family e nel 1877 Ancient society di Lewis H. Morgan. Già la pubblicazione dell'Origin of species di Darwin, intervenuta durante la stesura del primo libro del Capitale, aveva offerto a Marx una concezione della natura vivente compatibile con la sua visione della storia, cioè una concezione che assumeva la lotta per la sopravvivenza e la selezione da essa determinata come la chiave di spiegazione del sorgere e della scomparsa delle specie, non diversamente da come la marxiana scienza della società si avvaleva della lotta di classe come principio per spiegare il passaggio da un modo all'altro di produzione - tanto da fargli osservare, un po' ironicamente, che "in Darwin il regno animale è raffigurato quale società borghese".
La storia umana poteva quindi essere interpretata come la continuazione, in forma specifica, della storia naturale. Da ciò il nuovo rilievo che assumeva la comunità primitiva, nella quale si compie appunto il passaggio dalla natura all'organizzazione sociale propria della specie umana.Negli ultimi anni di vita Marx studiò a lungo i testi dell'antropologia evoluzionistica, in particolare la morganiana Ancient society, e ne fece degli ampi "estratti" (pubblicati soltanto nel 1972) in vista di uno studio che intendeva dedicare alla struttura della comunità primitiva e all'origine dello Stato. La sua ricerca veniva così a muoversi tra due poli, caratterizzati l'uno dalla nascita della proprietà privata e della divisione in classi, l'altro dall'eliminazione di quella proprietà e dalla fine della lotta di classe. E, per quanto riguarda il primo polo, gli "estratti" di Marx comprovano la sua sostanziale adesione al quadro dell'evoluzione dell'umanità delineato da Morgan, in contrasto con la critica rivolta a Maine su un punto essenziale, quello dell'origine dell'organizzazione sociale primitiva dalla famiglia congiunta. Il sorgere delle classi veniva fatto coincidere, di conseguenza, con il passaggio da una società organizzata sulla base della consanguineità (qual era la gens) a una società organizzata politicamente, o - nei termini, non del tutto equivalenti, dell'analisi di Maine - da una società in cui la posizione dell'individuo era determinata dal suo status a una società fondata su rapporti contrattuali. Veniva perciò in primo piano il problema dell'origine dello Stato, in certo senso parallelo, pur nell'opposizione, al problema della sua estinzione: se l'organizzazione politica è un fenomeno transitorio collegato all'esistenza delle classi, allora occorre spiegare il meccanismo che l'ha prodotta, e quindi anche individuare quale tipo di organizzazione sia preesistita alla sua nascita.
La morte (1883) impedì a Marx di elaborare sistematicamente questi temi; ma il lavoro da lui intrapreso offrì a Engels il materiale per la stesura di Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staats, apparso l'anno seguente. In questo volume Engels innestava la teoria dell'evoluzione sociale formulata da Morgan sul tronco del marxismo, quasi a colmare una lacuna della concezione marxiana della società. Egli accoglieva la distinzione di origine illuministica fra tre epoche di sviluppo dell'umanità - stato selvaggio, barbarie, civiltà - e le caratteristiche con cui Morgan le aveva definite. Al tempo stesso, però, egli si rifaceva alla teoria del matriarcato primitivo che Johann Jakob Bachofen aveva delineato nel 1861 in Das Mutterrecht.
Da una originaria promiscuità sessuale l'umanità è pervenuta, nel corso dello stato selvaggio, a darsi un'organizzazione fondata su una linea di discendenza matrilineare, a cui corrisponde un diritto su base matriarcale; soltanto in seguito, con l'affermarsi della monogamia, e quindi con la certezza della paternità che questa implica, ad esso è subentrato il diritto patriarcale. La famiglia monogamica si colloca così al culmine di un processo evolutivo i cui gradini inferiori sono rappresentati dai diversi tipi di famiglia posti in luce da Morgan - da quella consanguinea a quella "panalua" e poi alla famiglia di coppia. Lo sviluppo dell'organizzazione sociale primitiva era contrassegnato da un duplice passaggio, rintracciabile sia nel mondo antico sia nelle tribù indiane nordamericane a cui faceva riferimento Morgan, sia nelle popolazioni germaniche studiate, sulla traccia di Maurer, dallo stesso Engels: dalla gens alla famiglia e dal matriarcato al patriarcato.
La famiglia in generale, e quella monogamica in particolare, si presenta non come una struttura originaria (quale la riteneva Maine), ma come il prodotto di un'evoluzione coincidente, grosso modo, con l'esistenza dell'umanità allo stato selvaggio.Il passaggio dalla gens alla famiglia ha coinciso, per Engels, con il passaggio dalla proprietà comunitaria alla proprietà privata. Ma questa non riguarda soltanto il possesso del suolo e degli armenti; investe anche - e in ciò egli innova rispetto ai testi di Marx- i rapporti tra i membri della famiglia. La famiglia monogamica, organizzata su base patriarcale, comporta il dominio del maschio sulla femmina, del padre sui figli. In tal modo Engels sviluppava la teoria di Bachofen nel senso di rintracciare all'interno della famiglia monogamica, in virtù della divisione del lavoro che in essa s'instaura, il punto di partenza del conflitto di classe. L'antagonismo tra uomo e donna nella famiglia monogamica è alla radice dell'antagonismo tra classe dominante e classe dominata; la forma più elementare di oppressione è quella che il sesso maschile esercita su quello femminile, così come la prima forma di schiavitù è quella domestica della donna.
Famiglia monogamica, proprietà privata, rapporti di dominio e di subordinazione nascono a un tempo, al momento del passaggio dallo stato selvaggio alla barbarie. Ma insieme ad essi - o, più precisamente, in seguito ad essi - sorge un'altra istituzione, lo Stato: sorge dalla dissoluzione dei rapporti parentali su cui poggiava la gens e dall'affermarsi di un'organizzazione su base locale, insieme alla quale s'introduce la duplice distinzione tra liberi e schiavi e tra ricchi e poveri. Lo Stato diventa il garante dell'ordine, il che vuol dire il garante degli interessi della classe dominante.L'interpretazione dello sviluppo della società ai suoi primordi veniva a saldarsi, in Engels, con la visione del suo futuro. Se la famiglia monogamica, la proprietà privata, l'esistenza delle classi e la lotta tra classe dominante e classe dominata sono un prodotto storico, ossia il risultato di un processo evolutivo, allora acquista forza la prospettiva di una società differente da quella borghese-capitalistica, contrassegnata dalla "resurrezione, in una forma più elevata, della libertà, dell'eguaglianza e della fraternità delle antiche gentes" (come suona la citazione di Morgan che conclude il volume di Engels). E in questo quadro trovava un posto non secondario anche l'emancipazione della donna dalle catene della famiglia monogamica. Inglobando l'antropologia evoluzionistica nel quadro della marxiana scienza della società Engels non si limitava però a completare quest'ultima; la finalizzava, in qualche maniera, alla teoria del comunismo. La storia dell'umanità, pur mantenendo il carattere progressivo intrinseco alla dialettica, acquista un andamento circolare: da una condizione originaria di libertà a una condizione finale anch'essa di libertà, ma superiore, dopo una serie intermedia di epoche culminanti nella civiltà.
La previsione del crollo del modo di produzione capitalistico, conseguente alla caduta tendenziale del saggio di profitto e al progressivo intensificarsi delle crisi di sovrapproduzione, è un elemento costitutivo dell'analisi marxiana. La fine del capitalismo è il risultato inevitabile delle leggi che presiedono al suo sviluppo. Sull'imminenza di questa fine la posizione di Marx e di Engels è certamente mutata nel tempo con il venir meno delle aspettative rivoluzionarie del 1848 riemerse, ma per breve tempo, all'epoca della Comune parigina. In ogni caso, tuttavia, essa non si presentava come un evento remoto; tanto è vero che ancora nel 1895 Engels si spingeva a preconizzare il declino del capitalismo entro la fine del secolo. Ma proprio l'allontanarsi della rivoluzione che doveva segnare il passaggio al comunismo portava a sottolineare maggiormente il carattere oggettivo del processo di sviluppo capitalistico e delle sue leggi. Ciò non voleva certamente dire che la fine della società borghese-capitalistica potesse essere il risultato di un'evoluzione non traumatica; ma significava che il meccanismo che avrebbe dovuto provocarla è intrinseco alla sua stessa struttura. La dialettica della storia doveva produrre, prima o poi, una crisi generale di quella società, e quindi il passaggio al comunismo.
Su questa teoria si appuntò, nell'ultimo decennio del secolo, la critica di quel filone del marxismo a cui fu dato il nome di 'revisionismo', in particolare quella di Eduard Bernstein, che in una serie di articoli pubblicati sulla "Neue Zeit" - e poi raccolti nel 1899 sotto il titolo Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie - si propose di sottrarre l'analisi di Marx alle implicazioni deterministiche della teoria del crollo. Egli prendeva le mosse dalla constatazione che, nel corso dello sviluppo capitalistico, non si era verificata quell'intensificazione delle crisi di sovrapproduzione che Marx, sulla scia di Sismondi e di Rodbertus, aveva previsto, e che il capitalismo non aveva prodotto quel duplice processo di concentrazione del capitale in poche mani e di pauperizzazione del proletario che, secondo Marx, avrebbe dovuto segnare la fine del modo di produzione capitalistico. Lungi dall'essere collegate a una fase di capitalismo maturo, le crisi sono per Bernstein una caratteristica dei suoi albori, una specie di malattia infantile. La sovrapproduzione in singoli rami produttivi può essere controllata mediante la creazione di cartelli, e quindi sostituendo alla concorrenza sfrenata tra i produttori accordi tali da permettere il mantenimento di un adeguato tasso di profitto.
Anche l'espansione dell'economia capitalistica in altri paesi e in altri continenti, e la conseguente creazione di quel mercato mondiale di cui Marx aveva parlato fin dalla Deutsche Ideologie, non rappresenta il venir meno della possibilità di collocamento delle merci eccedenti il consumo interno; al contrario, essa favorisce il controllo del mercato e quindi riduce la frequenza delle crisi. Il modo di produzione capitalistico è quindi suscettibile di una trasformazione interna che, consentendogli di correggere i suoi errori iniziali, lo avrebbe consolidato. Il progresso tecnico, congiunto al perfezionamento dell'organizzazione industriale, appare in grado di impedire quella crisi generale del capitalismo che Marx ed Engels avevano data per inevitabile. Veniva perciò a cadere, insieme alla teoria del crollo, anche la profezia dell'avvento del comunismo in virtù della rivoluzione del proletariato. Il socialismo si trasformava in un "ideale etico" da perseguire attraverso strumenti democratici, cioè attraverso il sistema parlamentare. E proprio la democrazia appariva a Bernstein la "forma della realizzazione del socialismo", la via che il proletariato deve imboccare per migliorare le proprie condizioni di vita.Sulla critica di Bernstein alla teoria del crollo si accese, negli ultimi anni del secolo scorso, un'aspra polemica. Ad essa fu obiettato, e giustamente, che Marx non aveva mai parlato di "crollo", ma di una tendenza alla caduta del saggio di profitto, accompagnata dal progressivo intensificarsi delle crisi di settore, destinato a sfociare in una crisi generale. Soltanto Heinrich Cunow, in fondo, rintracciava in Marx una compiuta teoria del crollo, e nel difenderla cercava la spiegazione del ritardo della crisi generale del capitalismo nell'ampliamento del mercato capitalistico non soltanto nell'Europa continentale e negli Stati Uniti, ma anche nelle colonie inglesi oltremare. Proprio questa espansione del capitalismo aveva impedito che le crisi parziali sfociassero in una crisi generale; ma quando il processo raggiungesse i suoi limiti, quando cioè l'eccedenza produttiva dell'industria capitalistica non trovasse più una possibilità di assorbimento, allora quella crisi sarebbe stata inevitabile. Il rilievo terminologico era però, tutto sommato, secondario.
La divergenza riguardava infatti non tanto la presenza o l'assenza, nei testi di Marx, della nozione di "crollo" e di una compiuta teoria del crollo, ma la visione dello sviluppo capitalistico e, insieme ad essa, l'alternativa tra la via rivoluzionaria e la via riformistica al socialismo. L'originaria impostazione di Marx e di Engels - ripresa dai sostenitori della teoria del crollo come, in primo luogo, Karl Kautsky e Rosa Luxemburg - presupponeva infatti che capitalismo e comunismo fossero due modi di produzione, due forme di organizzazione sociale successive nel tempo, e che l'avvento del comunismo fosse il prodotto inevitabile dell'altrettanto inevitabile crisi generale del capitalismo, di cui la rivoluzione doveva costituire il momento conclusivo. Al contrario, Bernstein e gli altri esponenti del revisionismo facevano valere la prospettiva di una trasformazione interna del capitalismo in direzione del socialismo, da realizzarsi sì mediante l'organizzazione della classe lavoratrice da parte dei sindacati e quindi mediante il conflitto sindacale, ma senza il ricorso alla rivoluzione.Il dibattito si sviluppò intorno alle tesi dell'economista russo Michail J. Tugan-Baranovskij, che, muovendo da un'analisi delle crisi commerciali in Inghilterra, aveva poi, nel 1905, indagato i "fondamenti teorici del marxismo". Egli aveva sottoposto a critica la visione di una crisi cronica di sovrapproduzione, correlata al sottoconsumo della classe lavoratrice, che avrebbe reso impossibile la remunerazione del capitale investito bloccando così il processo di accumulazione capitalistica. A tale visione egli obiettava rilevando, tra l'altro, lo sviluppo di nuovi settori industriali i cui prodotti erano destinati non al consumo ma all'utilizzazione da parte di altri settori - come nel caso dell'industria mineraria, chimica o siderurgica. Ed egli concludeva affermando che l'economia capitalistica, quale si era andata sviluppando nel corso del secolo, non conteneva alcun fattore capace di determinarne inevitabilmente la fine; al contrario, essa ha continuato e continuerà a espandersi, aumentando di continuo la massa dei suoi prodotti e trovando, o creandosi, i mercati per il loro smercio.
A questa radicale critica della teoria del "crollo" Kautsky replicò sottolineando l'alternarsi di periodi di prosperità e di periodi di depressione. Egli scorgeva nel sottoconsumo il risultato permanente della condizione della classe lavoratrice e dell'aumento della disoccupazione per effetto non soltanto del progresso tecnologico, ma anche dell'aumento della popolazione industriale a scapito di quella agricola. Kautsky riconosceva che nella seconda metà del secolo il primato economico era passato dall'industria inglese a quella tedesca e americana, e che nuovi rami produttivi si erano via via aggiunti a quelli preesistenti; analogamente, egli riconosceva l'importanza dei cartelli come strumento per frenare la concorrenza tra i produttori capitalistici e mantenere alto il prezzo delle merci. Ma questi fenomeni non sarebbero stati in grado, secondo Kautsky, di eliminare il carattere periodico delle crisi a cui il capitalismo andava incontro e il loro sfociare in una crisi generale. Perciò egli respingeva la via democratica al socialismo, e indicava nella rivoluzione del proletariato l'unica possibilità di uscita dalle contraddizioni del capitalismo.Anche la Luxemburg prendeva posizione nei confronti del revisionismo, rivendicando la scelta della rivoluzione nei confronti della riforma sociale. Si trattava però di render conto del perché, contrariamente alla previsione di Marx e di Engels, il crollo del capitalismo non fosse ancora avvenuto, ed anzi sembrasse allontanarsi nel tempo. Per rispondere a questo interrogativo la Luxemburg riformulava la teoria marxiana dell'accumulazione capitalistica, sostenendo che l'ipotesi di una società polarizzata, costituita da una classe capitalistica e da una classe lavoratrice, era un'astrazione teorica che doveva essere messa a confronto con la realtà dello sviluppo capitalistico.
Marx aveva correttamente visto nella sovrapproduzione, e nell'impossibilità di assorbimento dei prodotti eccedenti da parte del proletariato, la radice delle crisi ricorrenti del capitalismo; ma il suo schema teorico non teneva conto del fatto che la produzione capitalistica trova una possibilità di smercio non soltanto all'interno della società capitalistica ma anche al di fuori di essa, in un ambiente non capitalistico. Così è avvenuto fin dall'inizio, quando il rapporto di scambio del capitalismo nascente con l'economia contadina tradizionale gli offriva la possibilità di rifornirsi sia di merci sia di forza-lavoro; e così è avvenuto nel corso dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, che è penetrato in altri paesi e in altri continenti sconvolgendo gli equilibri preesistenti ed erodendo i rapporti dell'economia naturale. Questo rapporto tra produzione capitalistica e ambiente non capitalistico spiega come al capitalismo sia stato finora possibile collocare i propri prodotti senza che venisse interrotto il processo di accumulazione. Ma l'area dei paesi non capitalistici è destinata a ridursi progressivamente; quando essa verrà meno, il capitalismo non potrà espandersi ulteriormente, e la sua crisi diventerà inevitabile. D'altra parte la pressione che ne deriverà sulla classe lavoratrice renderà più aspra la lotta di classe, e il proletariato internazionale - unificato dal dominio mondiale del capitalismo - sarà indotto a ribellarsi.
Nella riproposizione della teoria del "crollo" interveniva perciò, come elemento costitutivo, il riferimento sia all'allargamento della produzione capitalistica a nuovi settori sia al processo di espansione del mercato, correlato a sua volta con la politica coloniale delle potenze industriali. Il capitalismo non era più quello dei tempi di Marx, ma era entrato in una nuova fase: in ciò concordavano, in fondo, critici e difensori della teoria. E la vera risposta alle insufficienze che l'analisi marxiana rivelava fu infatti la teoria dell'imperialismo come "fase suprema del capitalismo" (come suona il titolo del saggio scritto da Lenin nel 1916, pochi anni dopo Die Akkumulation des Kapitals della Luxemburg). La teoria dell'imperialismo era, in origine, estranea al marxismo: l'aveva proposta per primo, nel 1902, uno studioso inglese di orientamento radicale, John A. Hobson, analizzando il ricorso all'espansione coloniale come strumento per trovare sbocchi ai prodotti dell'industria capitalistica. Hobson riteneva il commercio estero un fenomeno secondario, e destinato a diminuire, rispetto alla possibilità di sviluppo indefinito che attribuiva al mercato interno; e il rimedio da lui indicato si limitava a suggerire una più adeguata distribuzione del reddito, capace di innalzare il livello dei consumi della classe lavoratrice.
Ma il nesso tra ricerca di nuovi sbocchi per la produzione capitalistica e politica coloniale fu ben presto accolto dal marxismo come caratteristica fondamentale di una nuova fase di sviluppo del capitalismo, che era iniziata dopo il periodo ventennale della "grande depressione". L'analisi di Marx aveva assunto come modello lo sviluppo del capitalismo in Gran Bretagna, lasciando sullo sfondo il processo di diffusione dell'economia capitalistica che pure era implicito nella nozione di mercato mondiale; all'inizio del Novecento il capitalismo era diventato un fenomeno internazionale, che investiva non soltanto i paesi europei ma anche le loro colonie oltremare. La teoria marxistica doveva perciò fare i conti con questa nuova realtà.Per Lenin (come anche per Bucharin) il capitalismo si era ormai trasformato in capitalismo monopolistico, e proprio l'affermazione dei monopoli ne caratterizza l'ultima fase, quella imperialistica. Sorti dalla concentrazione della produzione e dall'associazione degli imprenditori capitalistici allo scopo di mantenere elevato il livello dei prezzi, i monopoli hanno condotto alla ricerca e al controllo delle fonti delle materie prime. Al capitalismo concorrenziale studiato da Marx è così subentrato un altro tipo di capitalismo, quello monopolistico.
A tale processo ha fatto riscontro lo sviluppo di una nuova specie di capitale, il capitale finanziario - la cui importanza Rudolf Hilferding aveva posto in luce fin dal 1910, in un libro fondamentale ad esso dedicato -, che si era affiancato al capitale industriale realizzando una fusione con esso. Anche il mercato internazionale aveva così assunto una nuova configurazione, poiché l'esportazione di prodotti aveva ceduto il posto, in misura crescente, all'esportazione di capitali dai paesi produttori alle altre regioni del globo. Diventava perciò essenziale, per gli Stati in cui il capitalismo si era sviluppato, acquistare il controllo delle materie prime e assicurarsene il regolare rifornimento: ciò spingeva alla conquista di colonie e alla creazione di zone d'influenza nei continenti extraeuropei. Il capitalismo aveva così trovato il proprio sostegno nell'imperialismo politico-militare. Ma ciò, se può spiegare la sua permanenza, nulla toglie all'inevitabilità della sua fine. Lo sviluppo capitalistico ha creato all'interno dei paesi produttori una classe di redditieri che vivono del profitto del capitale investito all'estero; anzi, gli Stati alla testa di tale sviluppo si sono trasformati in Stati rentiers, contrapposti a una massa di Stati economicamente dipendenti da essi. Lo stesso proletariato non è rimasto immune dalle conseguenze di questo processo, poiché la classe lavoratrice di quei paesi, trovandosi in una situazione relativamente privilegiata rispetto al proletariato degli altri continenti, ha subito un progressivo imborghesimento, e nei partiti che ne hanno la rappresentanza politica è prevalsa la tendenza all'opportunismo. Diffusione del capitale finanziario, espansione coloniale degli Stati europei, imborghesimento del proletariato sono i diversi aspetti del progressivo "imputridimento" del capitalismo, nei cui confronti Lenin faceva valere la prospettiva di una rivoluzione promossa e guidata da un'élite organizzata.
Proprio l'appello all'azione rivoluzionaria metteva in ombra, però, la teoria del crollo, anche se non mancarono, per la verità, tentativi di riproporla, nel periodo tra le due guerre, da parte di studiosi come Henryk Grossmann e Otto Bauer. E proprio la Rivoluzione sovietica, smentendo la tesi di Marx secondo cui il comunismo poteva sorgere soltanto nei paesi all'avanguardia dello sviluppo capitalistico, finiva per 'falsificare' tale teoria. Come ebbe a rilevare Antonio Gramsci, quella del 1917 fu in sostanza "una rivoluzione contro Il capitale", una rivoluzione, cioè, che non soltanto usciva fuori dallo schema interpretativo marxiano, ma ne rappresentava pure la smentita. Nei decenni successivi la rivoluzione comunista diventerà sempre più un fenomeno esclusivo dei paesi economicamente arretrati dei continenti extraeuropei. Dopo la Russia, paese a industrializzazione incipiente, sarà un paese contadino come la Cina a imboccare, in forme originali, la strada del comunismo; e dopo il successo della Rivoluzione cinese il comunismo diventerà sempre più un modello di sviluppo destinato all'esportazione nel Terzo Mondo.
Da parte sua il capitalismo, superando la crisi del 1929, mostrava una capacità di adattamento che ne ha assicurato la sopravvivenza; e la spinta rivoluzionaria che Marx aveva attribuito al proletariato, già affievolitasi a partire dalla fine dell'Ottocento, veniva assorbita dalla politica del Welfare State, quando non si trasferiva a gruppi sociali marginali diversi dal proletariato. La prospettiva rivoluzionaria si trasformava sempre più in un'utopia coltivata da gruppi più o meno ampi di intellettuali. La lunga stagione che va dal 1917 al 1989 - complicata dall'affermarsi di regimi totalitari all'interno del mondo capitalistico e dal contemporaneo sviluppo in senso totalitario dello stesso "socialismo reale" - ha visto il mondo diviso in due blocchi contrapposti, trasformando quello che doveva essere un rapporto di successione, e di "superamento", tra capitalismo e comunismo in un'alternativa tra sistemi economico-politici coesistenti nel tempo. In questa situazione così distante dalle previsioni di Marx e di Engels la teoria del "crollo" è stata sostanzialmente messa in disparte, anche se non sempre in maniera esplicita, prendendo atto dell'impossibilità, o almeno dell'improbabilità, di una crisi generale del capitalismo, senza tuttavia rinunciare alla prospettiva della futura società senza classi. E al suo posto è stata formulata la teoria della transizione graduale dal capitalismo al comunismo. Alla base di questa agiva il riconoscimento che il comunismo quale si era realizzato in Unione Sovietica, nei paesi dell'Europa orientale e nei paesi extraeuropei, si era arrestato alla fase della dittatura del proletariato, per di più sottoponendo il proletariato stesso al dominio di una "nuova classe" (secondo l'espressione di Milovan Gilas). Il socialismo reale, in altri termini, non era vero socialismo, né sarebbe potuto diventarlo. Il socialismo poteva sorgere soltanto nei paesi capitalistici così come si erano trasformati nel corso del secolo, imboccando la strada della democrazia parlamentare e delle riforme sociali. Si trattava quindi di compiere la transizione dalla democrazia parlamentare alla democrazia diretta, dal capitalismo al socialismo. Questa prospettiva, alimentata dalla "primavera di Praga" e dalla presa di distanza nei confronti del paese-guida, fu alla base dell'eurocomunismo che, richiamandosi alla tradizione socialdemocratica, si propose di conciliare le regole alla democrazia con il fine ultimo di un nuovo assetto economico-sociale, proclamando l'esigenza di un'"avanzata democratica" verso il socialismo. Anch'essa, però, conoscerà una brusca eclissi di fronte a una realtà imprevista che ha posto in termini pressanti il problema di una transizione in senso inverso, non già dal capitalismo al socialismo, bensì dal socialismo, per quanto "reale", all'economia di mercato organizzata capitalisticamente.
In Sozialismus und Staat (1922) Hans Kelsen ha distinto, all'interno del marxismo, una teoria economica incentrata sull'analisi dello sviluppo capitalistico e una teoria politica che ha il suo nucleo nella tesi dell'estinzione dello Stato nella futura società senza classi. Ciò coglie indubbiamente un aspetto peculiare del marxismo nei confronti della tradizione politica moderna che aveva invece attribuito un ruolo centrale allo Stato, cercando di determinare il fondamento della sovranità e di definire le relazioni tra sovrano e suddito in maniera da far coesistere il dovere di obbedienza con la rivendicazione di una sfera di diritti preesistenti all'appartenenza alla comunità politica. Per Marx, infatti, lo Stato è un prodotto della lotta di classe, e in quanto tale è destinato a scomparire con il venir meno di tale lotta. Fin dal suo primo scritto, Zur Kritik der Hegel'schen Rechts~philosophie, che risale al 1842, Marx aveva considerato la distinzione tra società civile e Stato come una caratteristica specifica del mondo borghese moderno, derivante dalla dissociazione che in esso si è prodotta tra determinazioni socio-economiche e determinazioni politico-giuridiche dell'individuo; cosicché quest'ultimo risulta, a sua volta, internamente scisso in citoyen, in quanto membro della comunità statale, e in bourgeois, in quanto appartenente alla società civile. Da ciò Marx prendeva le mosse per procedere a una critica radicale sia della "libertà dei moderni", che gli appariva una libertà puramente negativa fondata sull'isolamento "atomistico" dell'individuo, sia dell'eguaglianza così come era stata rivendicata dalla Rivoluzione francese, che riguarda soltanto i diritti del cittadino senza investire la sfera dei rapporti economico-sociali. Egli rifiutava perciò esplicitamente il principio di rappresentanza e lo Stato rappresentativo. Richiamandosi da un lato all'ideale rousseauiano della partecipazione di tutti i cittadini all'esercizio della sovranità, dall'altro al modello della polis come comunità vivente nella quale l'individuo si integra armonicamente con gli altri individui e quindi con la totalità stessa - un modello presente non soltanto nel giovane Hegel, ma in gran parte della letteratura politica romantica - Marx scorgeva nella rappresentanza il risultato della separazione tra società civile e Stato, di una separazione che finisce per sanzionare giuridicamente le diseguaglianze inerenti ai rapporti economici.
Lo Stato borghese moderno si presentava così, agli occhi di Marx, come una forma storica di organizzazione della vita sociale che, lungi dall'esserle sovraordinato, deve garantire il funzionamento della società civile. Il rapporto tra società civile e Stato si precisava quindi, nella Deutsche Ideologie, come un rapporto non soltanto di separazione ma anche di derivazione dello Stato dalla società civile. La società civile è "il vero focolare, il teatro di ogni storia"; e le diverse forme assunte dallo Stato riflettono la configurazione dei rapporti economico-sociali. È vero che la società civile è il luogo dell'antagonismo tra gli interessi particolari, ossia gli interessi dei singoli e dei gruppi, mentre lo Stato si presenta come portatore di un interesse collettivo estraneo; ma questo interesse - lungi dall'essere generale, come pretendeva Hegel - s'identifica, in realtà, con l'interesse della classe dominante. Una volta formulata la teoria del materialismo storico, e quindi attribuito ai rapporti di produzione un carattere strutturale, lo Stato veniva confinato nella sfera della sovrastruttura: le lotte politiche si presentano perciò come l'espressione, in forma illusoriamente indipendente, delle lotte reali, ossia del conflitto di classe. Su questa base Marx ha concepito lo Stato come lo strumento - o, più precisamente, come la "macchina" - del dominio di classe, come l'apparato di cui la classe dominante si avvale, rivestendo i propri interessi di una universalità soltanto apparente, per garantire il proprio potere. Di conseguenza, la rivoluzione del proletariato dovrà non già impadronirsi della macchina statale creata dalla borghesia ma "spezzarla", secondo la via tentata dalla Comune parigina; e il risultato dovrà essere non l'instaurazione di una nuova forma di Stato ma la sua soppressione. La scomparsa della proprietà privata e della lotta di classe comporta necessariamente, nella futura società senza classi, anche la scomparsa dello Stato. Nel regno della libertà non c'è bisogno di un apparato repressivo.
La teoria politica marxistica è dunque una teoria non della trasformazione, bensì dell'estinzione dello Stato. A quali istituzioni dovessero trasferirsi le funzioni esercitate dalla macchina statale, se e in quale misura esse dovessero ancora sussistere, rimaneva però del tutto indeterminato: Marx rifiutava infatti di offrire delle "ricette" per il futuro. Ma la teoria politica veniva a interagire con la teoria del "crollo" del capitalismo. Una volta che la crisi finale del capitalismo si veniva allontanando nel tempo, diventava infatti necessario indicare le modalità concrete con cui si sarebbe potuto arrivare alla realizzazione del comunismo. Nell'Antidühring (1878) Engels aveva prospettato il trapasso dalla proprietà privata alla proprietà statale dei mezzi di produzione, e la conseguente pianificazione dei processi produttivi da parte di un potere centrale. Ma ciò comportava, almeno in una fase transitoria, il mantenimento di un apparato in grado di dirigere la produzione. Veniva così in luce la contraddizione latente tra il termine finale del processo, cioè l'estinzione dello Stato, e la necessità di riprodurre un ordinamento politico anche se su una base diversa da quella dello Stato borghese. E qui le strade si divaricarono a partire dalla fine del secolo. Bernstein riteneva indispensabile, per la realizzazione del socialismo, non soltanto il raggiungimento di un determinato grado di sviluppo capitalistico, ma anche la partecipazione del "partito di classe dei lavoratori", cioè della socialdemocrazia, al potere politico.
Non il socialismo di Stato, cioè il trasferimento della produzione dagli imprenditori capitalistici allo Stato, ma lo sviluppo del movimento sindacale e l'aumento dei livelli salariali diventavano per lui le direttrici del cammino verso il socialismo. E ad esse doveva accompagnarsi la conquista del suffragio universale, che avrebbe assicurato la rappresentanza politica degli interessi della classe operaia. La democrazia diventava così non soltanto compatibile con il socialismo, ma la forma stessa della sua realizzazione; e venivano al tempo stesso recuperati i valori del liberalismo, non più considerati esclusivi della borghesia capitalistica. Diversa era la posizione di Kautsky, ai cui occhi la rivoluzione si presentava come l'esito di un processo evolutivo retto da leggi necessarie. Per instaurare il comunismo occorre che il proletariato conquisti il potere, e che lo conquisti da solo, trasformando lo Stato anziché proponendosi di sopprimerlo: l'esistenza di un ordinamento coercitivo è indispensabile per realizzare il "comunismo nella produzione materiale", anche se coniugato con l'"anarchismo in quella intellettuale".L'estinzione dello Stato diventava così una prospettiva remota; contemporaneamente veniva in primo piano, come soggetto del movimento politico, il partito in quanto strumento di organizzazione del movimento operaio. Non il proletariato in quanto tale, ma il proletariato organizzato in partito diventa il soggetto dell'azione politica e, di conseguenza, l'oggetto centrale della teoria politica marxistica. Allo Stato borghese, "macchina" della borghesia, si contrappone il partito di classe dei lavoratori. E se il revisionismo cerca di conciliare i due termini, spogliando lo Stato del suo carattere borghese e il partito del suo carattere rivoluzionario, nel marxismo della Terza Internazionale la contrapposizione si traduce in un conflitto insanabile.
Sarà Lenin, e con lui il movimento bolscevico, a compiere questo passo. Il partito è l'avanguardia della classe operaia, che immette in essa la "coscienza" rivoluzionaria: la rivoluzione non può essere il prodotto del movimento spontaneo delle masse, ma dev'essere diretta e realizzata dal partito. Questa concezione del partito sarà largamente condivisa anche da autori che non accoglievano invece il materialismo dialettico, come György Lukács e Gramsci. Entrambi hanno sottolineato il ruolo decisivo della coscienza di classe nel processo di costituzione del proletariato, additando nel partito il soggetto in cui essa si realizza. Se Lukács definiva la funzione storica del proletariato sulla base della coincidenza tra teoria e prassi, Gramsci faceva valere l'importanza decisiva del fattore soggettivo per la prassi rivoluzionaria, e lo vedeva incarnato nel "moderno Principe", ossia nel partito. Non una presunta necessità storica, ma la volontà dell'uomo rende possibile la rivoluzione.Il successo della Rivoluzione sovietica rendeva però necessaria un'integrazione della teoria politica marxistica, riproponendo il problema dello Stato, anche se di uno Stato differente da quello borghese: sorto in antitesi allo Stato, il partito del proletariato doveva creare anch'esso una sua "macchina", e insieme un diritto non finalizzato alla garanzia della proprietà borghese. Già Marx ed Engels avevano parlato - dopo l'esperienza storica della Comune - di una dittatura del proletariato come fase di transizione dal capitalismo al comunismo, nel corso della quale il proletariato organizzato avrebbe consolidato il suo potere prima che si realizzassero le condizioni per la scomparsa delle classi. Lenin trasformava questa fase in una struttura di lunga durata, caratterizzante "un intero periodo storico": una volta pervenuta al potere, la classe operaia avrebbe dovuto difendersi dalle spinte controrivoluzionarie della borghesia, e a tale scopo diventava necessario creare una nuova struttura statale, lo "Stato dei soviet".
La democrazia consiliare prendeva il posto della democrazia rappresentativa propria dello Stato borghese. Ma da essa, e quindi dalla partecipazione al potere, erano esclusi gli "oppressori del popolo", vale a dire i rappresentanti della borghesia capitalistica sconfitta ma pur sempre minacciosa. La dittatura del proletariato si avviava a diventare - Kautsky lo denunciava già nel 1918 - una dittatura tout court, una dittatura esercitata dal partito e dall'apparato statale controllato dal partito. L'unificazione di potere economico e potere politico, di direzione della produzione e controllo della "macchina" statale nelle mani di un nuovo apparato burocratico avrebbe reso possibile un regime tirannico che avrebbe fatto del terrore e della repressione del dissenso il proprio strumento quotidiano. L'esito della teoria politica marxistica sarebbe così stato non l'estinzione dello Stato ma uno Stato dispotico, non la democrazia socialista ma la soppressione della democrazia mascherata da democrazia "popolare".
In larga misura Il capitale è un'opera di economia politica, che riprende e sviluppa il corpus teorico elaborato a partire da Smith e da Ricardo. Anche la teoria del valore-lavoro affonda le sue radici, come si è visto, in questa tradizione. Ma essa segna al tempo stesso la differenza tra la posizione di Marx e la dottrina economica classica; poiché è proprio quella teoria che gli consente di dare una giustificazione scientifica alla tesi dello sfruttamento della classe lavoratrice da parte della classe capitalistica. Mentre la distinzione tra rendita, profitto e salario serviva a Smith e soprattutto a Ricardo come strumento analitico per determinare le componenti del valore delle merci, e quindi del loro prezzo, la teoria del plusvalore permetteva in primo luogo di mostrare come parte - e una parte crescente, almeno nel passaggio dalla manifattura all'industria - del prodotto del lavoro venisse sottratta al lavoratore, trasformandosi in profitto. Veniva così in luce la "connessione intima" tra salario e profitto capitalistico, cioè il fatto che il salario può aumentare soltanto a spese del profitto e viceversa, oscurata dalla "connessione apparente" secondo cui il meccanismo dei prezzi sarebbe in grado di accrescere il monte dei salari lasciando immutato il saggio di profitto.
La teoria del valore-lavoro costituiva infatti la base tanto dell'analisi della produzione e dello scambio in condizioni di economia capitalistica quanto del meccanismo di formazione dei prezzi. E proprio sulla validità della teoria, sulla sua capacità di render conto sia del rapporto tra valore e prezzo sia della tendenza a un saggio di profitto uniforme nei diversi settori produttivi si accese, a fine secolo, un'aspra polemica. Già da parte marxistica erano stati sollevati dubbi su alcune argomentazioni contenute nel Capitale, e si era cercato di riformularle in maniera da evitare le contraddizioni, vere o presunte, che emergevano dal testo marxiano.
Lo stesso Engels aveva sostenuto che, mentre la tesi dell'eguaglianza tra lavoro e valore di scambio vale per il periodo iniziale dello sviluppo capitalistico, in seguito viene in primo piano il prezzo di produzione delle merci, cioè un elemento che, per quanto riconducibile al valore-lavoro, sembra discostarsene in misura rilevante. Ma una critica frontale ai presupposti della teoria giungeva, all'indomani della pubblicazione del terzo libro del Capitale, da un economista austriaco, Eugen von Böhm-Bawerk, che già una decina di anni prima, in un'opera dedicata alle teorie dell'interesse, ne aveva posto in luce le aporie.Böhm-Bawerk partiva dall'osservazione che, mentre il plusvalore è proporzionale al capitale variabile, cioè alla parte del capitale investito in salario, Marx istituisce poi una relazione di proporzionalità tra il profitto e l'intero capitale. Questa contraddizione era stata rilevata dallo stesso Marx, che l'aveva tuttavia ritenuta suscettibile di essere risolta. Per Böhm-Bawerk, invece, quella contraddizione doveva condurre a mettere in discussione i presupposti della teoria del valore-lavoro. Egli muoveva dall'analisi del saggio di profitto condotta nel terzo libro del Capitale, in cui Marx aveva asserito che, in virtù della diversa composizione organica del capitale nei diversi settori produttivi, parte delle merci viene venduta al di sopra e parte al di sotto del loro valore, e che questa diversità del saggio di profitto nei vari settori si componeva, in virtù della concorrenza, in un saggio generale del profitto che esprime il profitto medio del capitale investito. In tal modo, però, il rapporto di scambio tra le diverse merci risulta determinato non dal loro valore, ossia dal lavoro in esse incorporato, ma dai prezzi di produzione; tanto è vero che Marx affermava, un po' enigmaticamente, che "i valori si trasformano in prezzi di produzione". Laddove Marx vedeva un processo di trasformazione, Böhm-Bawerk coglieva invece una contraddizione: lungi dall'essere l'espressione del valore inerente a ogni merce, cioè della quantità di lavoro socialmente necessario per produrla, i prezzi si formano indipendentemente da tale quantità, a causa della tendenza dei capitali a spostarsi dai settori in cui il saggio di profitto è minore ai settori più vantaggiosi.
La teoria del saggio generale del profitto, enunciata da Marx nel terzo libro del Capitale, costituisce perciò non la conferma o lo sviluppo, bensì la smentita della teoria del valore-lavoro esposta all'inizio del primo. E, delle due teorie, quella corretta è indubbiamente l'ultima, non la teoria del valore-lavoro. Böhm-Bawerk riconosceva sì che il plusvalore complessivo "regola" il saggio medio del profitto, ma nel senso che è una causa determinante di tale saggio accanto a un'altra, indipendente da esso, che è la grandezza del capitale. Il prezzo di produzione risulta perciò composto di due elementi, la spesa in salari (determinata, come aveva affermato Marx, dalla quantità di lavoro) e la somma del profitto medio.Attraverso questa serie di argomentazioni Böhm-Bawerk perveniva a individuare quello che, a suo parere, costituiva l'"errore" del sistema economico marxiano: il carattere puramente logico-dialettico della dimostrazione che esso fornisce dell'equivalenza tra valore di scambio e lavoro incorporato, a cui fa riscontro l'indebita limitazione dell'ambito di tale valore alle merci, ossia al prodotto del lavoro umano. Secondo Böhm-Bawerk, infatti, le merci costituiscono una categoria specifica di beni, accanto a cui ne sussiste un'altra, quella dei beni naturali, anch'essi componente della ricchezza nazionale e oggetto di scambio. Una teoria del valore dev'essere perciò formulata in termini più generali, validi sia per i beni naturali che per le merci, facendo riferimento alla proprietà comune che li rende, appunto, dei "beni": la scarsità rispetto al fabbisogno. Ciò consente di prendere in considerazione, accanto al valore di scambio, anche quel valore d'uso che Marx aveva spinto al margine della propria costruzione teorica.In tale maniera Böhm-Bawerk contrapponeva alla teoria del valore-lavoro una teoria del valore alternativa, che era stata formulata dal suo maestro Carl Menger e che costituiva il nucleo del nuovo paradigma marginalistico.
Pochi anni dopo la pubblicazione del primo libro del Capitale, infatti, Menger aveva esposto nei Grundsätze der Volkswirtschaftslehre (1871) una teoria generale dei beni in termini di bisogni e di capacità di soddisfarli, e aveva proposto una "misura" di entrambi, determinando l'economia reale sia da un punto di vista soggettivo, rappresentato dall'attività che dispone dell'impiego dei beni, sia da un punto di vista oggettivo, rappresentato invece dall'insieme dei beni e del lavoro a disposizione in base alle condizioni naturali e sociali di esistenza dell'individuo o del gruppo. L'impostazione di Menger trovava riscontro - al di fuori dell'ambiente austro-tedesco - nelle formulazioni di economisti inglesi come William Stanley Jevons, autore nel 1871 della Theory of political economy, e francesi come Léon Walras, autore nel 1874 degli Eléments d'économie politique pure, per poi confluire, nei decenni successivi, nel tentativo di sintesi di Alfred Marshall. La scienza economica si distaccava ormai dalla tradizione classica, a cui Marx aveva fatto riferimento, per costituirsi come una disciplina a sé stante, con un proprio apparato concettuale distinto da quello delle altre scienze sociali.E proprio su questa differenza d'impostazione faceva leva Hilferding nella sua replica (1904) a Böhm-Bawerk.
Alla critica alla nozione marxiana di merce egli rispondeva affermando che un bene diventa merce soltanto se viene posto in relazione con altri beni, e quindi dotato di un valore di scambio, cioè se viene considerato espressione di rapporti tra produttori indipendenti. Nella merce egli distingueva due aspetti, un aspetto naturale e un aspetto sociale, che sono oggetto rispettivamente della scienza naturale e dell'economia politica: in questa seconda prospettiva la merce è un prodotto della società, vale a dire un prodotto del lavoro che in essa si incorpora. Hilferding faceva quindi valere, contro Böhm-Bawerk, il principio che la teoria del valore deve partire non dal valore d'uso, cioè dalle qualità naturali delle cose e dalla loro capacità di soddisfare certi bisogni, ma dal valore di scambio, che riveste carattere sociale e, in quanto tale, può fornire ad essa un fondamento oggettivo. L'impostazione di Menger e di Böhm-Bawerk appariva quindi a Hilferding basata su un metodo "astorico" e "asociale", cioè su categorie "naturali" incapaci di cogliere le leggi di movimento della società borghese-capitalistica e le tendenze dello sviluppo capitalistico. Ma nella sua replica egli ricorreva anche a un altro argomento, vale a dire alla connessione tra la teoria del valore-lavoro e la concezione materialistica della storia.
Contro la concezione della scienza economica come scienza autonoma, fondata su un proprio corpus teorico, egli faceva valere il principio che "la vita economica non è che una parte della vita storica", e che le leggi economiche devono essere conformi alle leggi generali dello sviluppo storico. L'antitesi tra la teoria del valore-lavoro e la teoria soggettivistica del valore, formulata da Menger e da Böhm-Bawerk, era perciò ricondotta a una differenza di concezioni del mondo.Hilferding coglieva così un punto di importanza decisiva. La teoria del valore-lavoro s'inseriva, nel Capitale, in un'analisi storico-sociologica della società borghese-capitalistica, senza che fosse possibile isolare al suo interno un discorso specificamente economico. Le leggi che Marx e il marxismo posteriore si proponevano di scoprire erano leggi di sviluppo, tendenze evolutive che emergono dal processo storico e che consentono di spiegarlo. In questo l'impostazione marxiana era - al di là di differenze tutt'altro che secondarie - affine a quella della scuola storica di economia, qual era stata definita da Wilhelm Roscher nel 1843, nel Grundriss zu Vorlesungen über die Staatswirtschaft nach geschichtlicher Methode, e poi ripresa da Bruno Hildebrand e da Karl Knies: la distanza tra Marx e Roscher non era, tutto sommato, diversa da quella che aveva polemicamente contrapposto, su un altro terreno, Hegel a Savigny. Perciò la critica rivolta da Menger alla scuola storica investiva pure, sebbene implicitamente, l'approccio marxiano all'analisi dello sviluppo capitalistico.
Nelle Untersuchungen über die Methode der Sozialwissenschaften und der politischen Oekonomie insbesondere (1883) Menger respingeva infatti la riduzione dell'economia politica a scienza storica, cioè a "parte organica di una scienza universale della società", rivendicando la legittimità di un procedimento diretto a "isolare" i fattori che stanno a base del comportamento economico. Egli distingueva così tre approcci allo studio dei fenomeni economici: un approccio teorico, inteso a determinare leggi generali e a spiegare ogni fenomeno come caso specifico di una certa regolarità; un approccio storico, inteso a descriverlo nella sua individualità e nella sua posizione nello spazio e nel tempo; infine un approccio "pratico", che doveva offrire regole per il governo dell'economia. Economia politica, storia economica e politica economica si presentavano quindi - in netto contrasto con l'impostazione della scuola storica, ma anche di Marx - come discipline distinte anche se interdipendenti. E le leggi economiche non erano concepite come leggi di sviluppo, bensì come l'enunciazione di una regolarità nella successione o nella coesistenza dei fenomeni che prescinde dal riferimento a un contesto storico specifico. Quando Hilferding, al termine della replica a Böhm-Bawerk, rimproverava alla scuola storica di aver ignorato la teoria, sostituendola con la storia economica, dimostrava di non saperne cogliere la parentela metodologica con la teoria marxistica; e quando accusava il marginalismo di condurre all'autodistruzione dell'economia politica non si avvedeva che esso proponeva un paradigma teorico alternativo, destinato a diventare dominante nella scienza economica tra Otto e Novecento.
Dopo la polemica tra Böhm-Bawerk e Hilferding la teoria del valore-lavoro conobbe infatti un duraturo declino, tanto che nel 1942 Schumpeter poté tranquillamente dichiararla "morta e sepolta". L'economia marxistica - che proprio negli anni novanta aveva ottenuto, soprattutto ad opera di Werner Sombart, una legittimazione accademica - si contrappose a quella "borghese", senza produrre contributi innovativi. Anche quando si metterà in questione la validità del paradigma marginalistico, come nel complesso tentativo di riformulazione della teoria del valore compiuto da Piero Sraffa nel 1960 sulla base di un richiamo diretto a Ricardo, il risultato non sarà la conferma della teoria del valore-lavoro, ma la proposta di una teoria ad essa alternativa. E, infatti, per Sraffa l'equivalenza tra valore e prezzo si ha soltanto nel caso di un profitto pari a zero, cioè in un'ipotesi irreale dal punto di vista marxiano.Tuttavia non per questo il riferimento al marxismo verrà meno nelle complicate vicende della scienza economica di questo secolo. La scuola neoclassica aveva privilegiato l'approccio microeconomico rispetto a quello macroeconomico; le leggi che essa ha enunciato concernevano infatti il comportamento degli individui o di aggregati da essi derivati. E formulando una teoria dell'equilibrio economico - sia questa una teoria dell'equilibrio generale, come nel caso di Walras e poi di Pareto, oppure una teoria degli equilibri parziali, come nel caso di Marshall - essa adottava un modello statico, che doveva servire per spiegare il funzionamento di un sistema economico nel quale la domanda e l'offerta tendono a eguagliarsi. Ma questa duplice scelta si traduceva anche in un limite, cioè nell'incapacità di spiegare le trasformazioni in atto nell'economia capitalistica o - dopo la Rivoluzione sovietica - il funzionamento di un sistema economico non capitalistico. Del resto, anche al di fuori del marxismo il problema del capitalismo, della sua origine, delle sue caratteristiche differenzianti si era prepotentemente imposto all'attenzione degli studiosi nei primi anni del secolo: lo comprovano i tentativi di interpretazione compiuti, in quel periodo, da Sombart e da Max Weber. La risposta della scienza economica all'esigenza di costruire un modello di sviluppo compatibile con il paradigma marginalistico arrivò nel 1912, con la Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung di Joseph Schumpeter.
Schumpeter prendeva le mosse dalla teoria dell'equilibrio generale di Walras, che egli riteneva in grado di offrire un modello interpretativo valido per un sistema considerato allo stato stazionario, contrassegnato cioè da una crescita puramente quantitativa. Ma tale teoria gli pareva del tutto inadeguata a render conto della dinamica del sistema, cioè della trasformazione provocata dall'introduzione di un nuovo bene o di un nuovo metodo di produzione, o ancora dall'apertura di un nuovo mercato o dalla conquista di una nuova fonte di risorse. Ed egli s'impegnava appunto a elaborare un modello capace di spiegare l'insorgere di innovazioni, e ne indicava la base nel comportamento dell'imprenditore capitalistico. In questa prospettiva lo sviluppo economico diventava il risultato di "grappoli" di innovazioni concentrati in un certo periodo di tempo, che traggono origine dalla rottura dell'equilibrio preesistente operata dall'agire imprenditoriale. Esso assumeva così anche un carattere ciclico, in quanto la diffusione delle innovazioni è destinata a sfociare in uno nuovo stato di equilibrio, che dovrà a sua volta lasciare il posto a una nuova fase innovativa. La teoria dello sviluppo si saldava con il riconoscimento dell'esistenza di cicli economici, offrendo il quadro teorico indispensabile per l'analisi delle crisi ricorrenti nell'economia capitalistica.
Schumpeter elaborava in tal modo una visione che faceva leva non sulle condizioni di realizzazione (e di mantenimento) dell'equilibrio, ma sul venir meno di queste condizioni per effetto del comportamento innovativo dell'imprenditore. Anche per lui, come per Marx, il capitalismo si configurava come un sistema dinamico, il cui sviluppo si fonda sulla ricerca del profitto e comporta strutturalmente il ripetersi di crisi di diversa portata, prodotte da elementi interni alla produzione capitalistica. Tra tale visione e la concezione marxistica dello sviluppo capitalistico vi erano però anche delle differenze sostanziali. Fedele all'"individualismo" metodologico della scuola neoclassica Schumpeter riconduceva il processo di innovazione al comportamento degli imprenditori capitalistici, e non scorgeva in esso il prodotto dell'azione determinante di leggi di mutamento. Perciò l'andamento ciclico dell'economica capitalistica non implicava affatto, per lui, la necessità di un esito fatale: anche quando più tardi, in Capitalism, socialism and democracy (1942), Schumpeter sosterrà che la progressiva meccanizzazione della funzione imprenditoriale avrebbe condotto al declino del capitalismo, la sua prospettiva non sarà quella del "crollo" ma piuttosto quella di una trasformazione in un'economia pianificata, conseguente all'aumento degli investimenti pubblici e alle politiche redistributive dello Stato.Pure nelle teorie formulate, a partire da Oskar Lange e da Maurice Dobb, per analizzare il funzionamento dell'economia pianificata nei paesi socialisti, come del resto nelle teorie del sottosviluppo economico, largamente diffuse soprattutto nel secondo dopoguerra, il riferimento al marxismo e alle teorie economiche del Capitale è stato per lo più indiretto, spesso puramente programmatico. Né è difficile comprenderne i motivi. Il marxismo aveva offerto un modello esplicativo globale del capitalismo e del suo sviluppo, ma non si era mai preoccupato di delineare la struttura economica (o anche politica) della futura società socialista. In quanto alle teorie del sottosviluppo, e all'indicazione delle modalità di passaggio da un'economia sottosviluppata a un sistema industriale, Marx aveva escluso la possibilità di pervenire al comunismo "saltando" il modo di produzione capitalistico. Anche su questo terreno, se il marxismo fu prodigo di parole d'ordine di vasta risonanza, non offrì alla scienza economica strumenti adatti per interpretare una realtà profondamente mutata.
Pur nascendo da una matrice differente dalla neonata sociologia positivistica, il marxismo conteneva senza dubbio una sociologia implicita. E rispetto all'edificio comtiamo esso aveva un triplice vantaggio. Il primo era quello di dare una spiegazione di più lungo periodo del sistema sociale che era emerso dal processo di industrializzazione e dalla Rivoluzione francese, una spiegazione, cioè, in termini di società borghese-capitalistica anziché di società industriale, la quale riconduceva l'avvento dell'industria al processo di sviluppo capitalistico. Il secondo era quello di assumere la società moderna non come il sistema sociale definitivo, ma come una formazione storica al pari di quelle che l'avevano preceduta (anche se poi quel carattere di definitività, che Comte attribuiva al sistema industriale, veniva escatologicamente trasposto al comunismo). Il terzo era quello di dare un'interpretazione conflittuale, e non 'armonicistica', sia della società borghese-capitalistica sia delle società del passato. Il nucleo teorico di questa interpretazione fu la teoria delle classi, anzi - come si è visto - della lotta di classe.In verità Marx non ha mai dato una teoria compiuta delle classi sociali: com'è noto, il terzo libro del Capitale s'interrompe proprio a questo punto. Non c'è dubbio, però, che il concetto marxiano di classe sociale si salda strettamente con la concezione materialistica della storia. La nozione di classe viene infatti sempre definita su base economica, sulla base cioè della posizione che un gruppo sociale occupa all'interno della struttura economica, e dalla quale dipendono anche la sua politica e la sua cultura. Più precisamente, essa è definita con riferimento al tipo di proprietà che caratterizza una determinata formazione della società.
La funzione determinante delle classi e della lotta di classe nel corso della storia risulta quindi strettamente legata con il primato assegnato all'economia, in quanto struttura della società, rispetto alle manifestazioni della sovrastruttura. Ma proprio questo primato veniva messo in questione negli ultimi anni dell'Ottocento, e all'interno stesso del marxismo. Bernstein aveva denunciato le implicazioni deterministiche del materialismo storico, e soprattutto la sua tendenza a ricondurre la molteplicità dei "fattori" operanti nella vita sociale a un unico fattore, concepito come "fondamento" rispetto agli altri. E aveva lucidamente osservato che proprio lo sviluppo capitalistico tende ad accrescere l'autonomia della sfera politica e di quella culturale, in ciò incontrandosi con l'esigenza di determinare i "limiti" della concezione materialistica della storia, avanzata da Kautsky. Negli stessi anni Benedetto Croce, negando che il materialismo storico potesse esser considerato una filosofia della storia alla stessa stregua, per esempio, di quella di Hegel, lo riduceva a un "canone di interpretazione storica" che ha avuto il merito di porre in luce "una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella coscienza dello storico". Ma una critica radicale della distinzione tra struttura e sovrastruttura verrà, pochi anni dopo, da Max Weber, che in un celebre saggio sull'"oggettività" delle scienze sociali pubblicato nel 1904 riprendeva la revisione di Bernstein all'interno di un quadro epistemologico formulato in riferimento da un lato al neocriticismo della scuola del Baden, dall'altro alla critica formulata da Menger nei confronti degli "errori dello storicismo".
Qualsiasi tentativo di far valere, nella spiegazione storica, il condizionamento univoco di un certo "fattore", come per esempio il modo di produzione o la struttura di classe, o anche gli interessi "materiali" in antitesi a quelli "ideali", urta contro le caratteristiche metodologiche del procedimento esplicativo delle scienze storico-sociali. La riduzione esclusiva a cause economiche appare quindi a Weber del tutto insufficiente a spiegare non soltanto i processi politici o culturali, ma gli stessi processi economici. E contro di essa fa valere l'esigenza di tener conto del condizionamento reciproco che si ha, per esempio, nel rapporto tra struttura di classe, organizzazione politico-sociale, forme di produzione e vita religiosa: un rapporto di cui egli mostrava il punto d'incontro nell'etica economica delle religioni "universali", sia essa quella orientata verso la fuga dal mondo che è prevalsa nelle religioni della redenzione asiatiche, sia invece quella dell'ascesi intramondana delle sette puritane.
La critica "positiva" del materialismo storico sviluppata da Weber (com'egli stesso la definì) colpiva però altri due aspetti decisivi della nozione marxiana di classe. Il primo era l'immagine di una struttura dicotomica comune a qualsiasi società, in quanto risultato dalla forma specifica di proprietà in essa vigente. Nei saggi dedicati alla Wirtschaftsethik der Weltreligionen Weber poneva in luce come alla base delle religioni della redenzione vi siano, al momento della loro nascita, strati insoddisfatti del loro destino terreno, strati artigianali o guerrieri o d'altra specie; ma mostrava pure che la prospettiva di salvezza di cui esse sono portatrici si diffonde ben presto al di là di questi strati, indipendentemente dai loro interessi "materiali". E l'esito di questo processo può essere storicamente quanto mai diverso, andando dal sanzionamento religioso dell'ordinamento mondano alla sua contestazione, cioè al tentativo di subordinare il "mondo" a imperativi etico-religiosi. Il secondo aspetto era l'identità postulata tra struttura sociale e struttura di classe. Anche prescindendo dall'esistenza delle caste (di fronte a cui la dottrina marxistica si era sempre trovata in imbarazzo), non tutti i gruppi sociali sono definiti da una situazione di classe, ossia dal possesso di determinati beni o dalla possibilità di acquisire guadagno sul mercato dei beni; accanto ad essi vi sono gruppi caratterizzati dalla considerazione sociale derivante dalla condotta di vita, dall'educazione, dal prestigio dei loro membri. Classi e ceti sono quindi modi di organizzazione sociale non certo alternativi, ma che devono esser tenuti analiticamente distinti.
La critica di Weber, proprio perché formulata in termini di condizionamento reciproco e non sulla base della tradizionale alternativa tra "materialismo" e "spiritualismo" (come aveva fatto nel 1896 Rudolf Stammler in Wirtschaft und Recht nach der materialistichen Geschichtsauffassung), rendeva insostenibile una concezione della storia fondata sul primato del "fattore" economico. Essa portava la discussione su un nuovo terreno. Del resto, l'importanza del ruolo degli intellettuali come guida nell'organizzazione del partito e nell'azione rivoluzionaria veniva sottolineata dallo stesso Lenin, soprattutto in Che fare? (1902). Ma rivendicare il ruolo dell'intelligencija voleva dire, implicitamente, ammettere l'esistenza, almeno in una particolare situazione della lotta di classe, di un gruppo sociale non condizionato dall'appartenenza dei suoi membri a una classe in senso propriamente economico. Ciò portava in primo piano un elemento della definizione di classe che in Marx (ma soprattutto nel Capitale) era rimasto piuttosto in ombra: quello della "coscienza di classe". Marx aveva distinto tra proletariato in sé e proletariato per sé, riservando a quest'ultimo, cioè alla classe lavoratrice ormai unita dalla consapevolezza dei propri interessi, la capacità di esprimere il proprio potenziale rivoluzionario. Egli si era servito della terminologia hegeliana; e a Hegel, non soltanto al suo linguaggio, si rifaceva all'indomani della Rivoluzione sovietica Lukács, in una raccolta di saggi dal titolo Geschichte und Klassenbewußtsein (1923).
Contro Engels e il marxismo "volgare", rivestito di formule positivistiche, Lukács faceva valere quello che riteneva essere il marxismo "ortodosso", hegelianamente connotato dal metodo della dialettica. E metodo dialettico voleva dire, per lui, l'assunzione a categoria interpretativa fondamentale della categoria di totalità, la quale sola consente di ricondurre tutti gli avvenimenti a un processo unitario e di determinare in tal modo il "senso immanente" della storia. Richiamandosi alla teoria marxiana dell'alienazione Lukács respingeva come estraneo al marxismo ortodosso il presupposto della specificità dell'economia come struttura del processo storico e come elemento caratterizzante delle diverse forme di oggettività. In tal modo Lukács non soltanto lasciava cadere la distinzione tra struttura e sovrastruttura, ma poteva riprendere da Weber l'interpretazione del capitalismo come razionalismo economico e ritradurla in termini hegeliani. Mentre nei modi di produzione precedenti la struttura sociale è una struttura politico-giuridica, il capitalismo segna l'affermazione, e al tempo stesso la presa di coscienza, del ruolo centrale che ha assunto l'economia. Nel capitalismo, in altri termini, l'economia perviene all'esistenza per sé, consentendo il sorgere di una coscienza di classe. Ma questa possibilità non è esclusiva della borghesia; è comune ad essa e al proletariato. Anzi, tra la coscienza di classe della borghesia e quella del proletariato c'è una differenza essenziale: che la prima non è in grado di rendersi conto dei limiti del sistema economico capitalistico, cosicché si ha un'antitesi ineliminabile tra l'ideologia e il fondamento economico, cioè una "falsa coscienza", mentre la seconda è in grado di cogliere la direzione del processo storico e il compito che la storia assegna al proletariato. Con ciò il proletariato diventa il "soggetto" della storia, liberandosi (e liberando l'umanità) dal processo di reificazione che ha contrassegnato le epoche precedenti.
Lukács esprimeva in linguaggio hegeliano una prospettiva rivoluzionaria svincolata dal materialismo storico. Anche da altre parti, però, questo entrava in crisi. Non soltanto Karl Korsch, ma anche Gramsci - largamente influenzato dalla critica di Croce, come Lukács lo era da quella weberiana - sottolineava il ruolo degli intellettuali nella direzione della vita sociale, e soprattutto nel processo di conquista dell'"egemonia" da parte della classe lavoratrice. Sia per costituirsi come classe, sia per affrontare la lotta per l'egemonia e quindi per assumere la guida della società, il proletariato ha bisogno dell'apporto degli intellettuali in quanto categoria specializzata; più precisamente, esso ha bisogno del lavoro di un intellettuale che sia "organico" ad esso, e che rechi le proprie competenze di specialista al servizio della causa rivoluzionaria. Da ciò un'interpretazione del marxismo come filosofia della prassi, che coniugava il richiamo alla concezione leniniana del partito con la ripresa della visione immanentistica della storia formulata dall'idealismo.Così, già nel periodo tra le due guerre la concezione materialistica della storia risultava sostanzialmente abbandonata all'interno stesso del marxismo, mentre la teoria delle classi sociali andava in cerca di formulazioni più flessibili. La nozione di classe si avviava infatti a far parte del patrimonio concettuale della sociologia, così come aveva ispirato, in sede storiografica, un nuovo approccio alla ricostruzione delle società del passato. In base ad essa Theodor Geiger intraprendeva, nel periodo tra le due guerre, l'analisi della divisione di classe nella società industriale avanzata, mostrando quanto l'impostazione dicotomica del marxismo fosse inadeguata a renderne conto.
E a partire dagli anni cinquanta il suo impiego diventerà corrente in sociologia, soprattutto nella sociologia europea. Mentre il legame della teoria delle classi con il marxismo si affievoliva fin quasi a scomparire, un altro filone di ricerca si affermava nella cultura americana: quello che si richiamava alla teoria della stratificazione. Questa strada era stata imboccata già nel 1927 da un sociologo russo emigrato dopo la Rivoluzione, Pitirim Sorokin, che in Social mobility formula un insieme di categorie analitiche per determinare la collocazione dell'individuo all'interno della società organizzata gerarchicamente per strati sovrapposti e le modalità di passaggio da uno strato all'altro. In questa impostazione la stratificazione economica, che Marx aveva collegato alla nozione di classe, appariva una delle tre forme fondamentali di stratificazione accanto a quella politica e a quella professionale; e la rigidità attribuita alla società borghese-capitalistica cedeva il posto all'immagine di una società dotata, più delle altre, di prospettive di ascesa per l'individuo. Con Sorokin e con le successive ricerche condotte da W.L. Warner nel secondo dopoguerra l'analisi della struttura sociale poteva ormai prescindere dalla teoria delle classi, o considerare la divisione in classi come uno schema classificatorio al quale contribuiscono, combinandosi tra loro, differenti criteri di determinazione del posto e del ruolo dell'individuo.
La distinzione tra classe, status e potere esprimeva proprio questa esigenza di definire la collocazione sociale dell'individuo in riferimento a una pluralità di gruppi di appartenenza.La teoria della stratificazione era stata elaborata con riferimento a una società come quella nordamericana, dove le distinzioni di classe si intrecciavano con distinzione di altra specie, soprattutto di carattere etnico, e dove il tasso di mobilità era molto più elevato che nella società europea. Qui, invece, il conflitto di classe era più marcato, e anche più visibile; e la nozione di classe si prestava meglio di altre a definire il posto della classe operaia, del proletariato industriale. Ma lo sviluppo di quest'ultimo era anch'esso avvenuto in una direzione assai diversa, addirittura opposta a quella che Marx aveva previsto. Le riforme di fine Ottocento ne avevano migliorato i livelli retributivi e le condizioni di vita, la concessione del suffragio universale e l'organizzazione dei partiti di massa ne avevano aumentato il peso politico, mentre il Welfare State stava garantendo la sicurezza dal bisogno. Soprattutto, però, i gruppi intermedi tra classe capitalistica e classe lavoratrice, lungi dal venir meno, si erano accresciuti e moltiplicati; la borghesia non si era proletarizzata e, caso mai, era la classe lavoratrice a far propri i modelli e le abitudini di consumo della borghesia. Anche concesso che la società industriale mantenesse una struttura di classe, e che le divisioni in classi fossero pur sempre quelle fondamentali, l'impostazione dicotomica di Marx non reggeva più.
Da tale constatazione presero le mosse i tentativi di riformulare la teoria delle classi sociali, che fiorirono numerosi nel corso degli anni sessanta e settanta. Già nel 1957 Ralph Dahrendorf, in Soziale Klassen und Klassenkonflikt in der industriellen Gesellschaft, metteva in questione i criteri con cui il marxismo aveva definito l'esistenza delle classi, e soprattutto il ruolo determinante assegnato ai rapporti di proprietà, che egli tendeva piuttosto a ricondurre a rapporti più generali di dominio e di subordinazione. Alla base della divisione in classi vi è per Dahrendorf una struttura di potere, non la struttura economica; mentre la divisione in ceti poggia sul prestigio attribuito ai diversi gruppi che costituiscono una società. Dahrendorf si collocava nel solco della distinzione weberiana tra classi e ceti, collegandola con un'altra nozione chiave della sociologia weberiana, quella di Herrschaft; e di essa si serviva per analizzare la nuova configurazione che il conflitto sociale aveva assunto nelle società industriali avanzate. Ma il processo di revisione investiva anche i teorici del marxismo. Nel 1963 un sociologo marxista polacco, Stanislaw Ossowski, fornì un'analisi critica di quella che chiamava la "sintesi marxiana", mostrando come in Marx confluissero schemi interpretativi diversi e come a base della stessa impostazione dicotomica vi fosse, in realtà, l'incrocio di criteri di divisione eterogenei. Egli manteneva sì la tesi del ruolo fondamentale della nozione di classe nel definire la struttura sociale, ma mostrava al tempo stesso come l'interferenza di questi criteri mettesse capo a un'immagine della società molto più articolata, e "gradualistica", di quella che ne aveva offerto Marx. Pochi anni dopo Nicolas Poulantzas tentava di innestare sulla teoria delle classi due distinzioni estranee alla tradizione del marxismo, quella tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo e quella tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Anch'egli attribuiva alla posizione economica un ruolo centrale nel determinare l'esistenza delle classi e l'appartenenza ad esse; ma rivendicava l'autonomia di quella che Marx aveva considerato la sovrastruttura, e quindi il ruolo dei fattori politici e culturali nel configurare la struttura di classe di una società.
A differenza di quanto è avvenuto per la teoria del valore-lavoro, la teoria delle classi è divenuta parte integrante della sociologia contemporanea. Ma, più che la teoria, lo è diventata il riconoscimento del ruolo che le classi - accanto a gruppi sociali di altro tipo - rivestono nel determinare la struttura di una società. In tale processo la nozione di classe è profondamente mutata; essa si è per così dire 'pluralizzata' sia per quanto riguarda i criteri che possono definirla, sia per quanto riguarda i soggetti a cui può essere essere applicata. E proprio in questo netto distacco dalla tradizione marxistica sta, forse, la ragione della sua permanente fecondità.
Si è visto come l'interesse per la società primitiva sia, in Marx, un interesse tardivo suscitato dalla lettura dei testi dell'antropologia evoluzionistica, e in particolare di Morgan. Né, d'altra parte, il volume di Engels contiene aggiunte sostanziali all'impianto di Ancient society, e la sua maggiore originalità consiste nel mostrare l'origine storica di istituzioni che, proprio per il fatto di esser nate in un certo periodo dello sviluppo dell'umanità, sono destinate a scomparire nella futura società senza classi. Engels integrava nel marxismo la visione morganiana di un'evoluzione socioculturale scandita secondo fasi predeterminate, rintracciabili presso ogni popolo; ma si trattava di un rapporto a senso unico, senza che i presupposti del marxismo incidessero sulla nascente teoria antropologica. Anche il metodo comparativo, che sembrava comune all'antropologia evoluzionistica e al marxismo, celava un equivoco: poiché l'antropologia evoluzionistica andava in cerca di regolarità di sviluppo, postulando una specie di scala evolutiva indipendente dal tempo cronologico, sulla quale si disponevano gruppi sociali lontani e privi di relazioni tra loro, mentre al marxismo interessava cogliere all'opera leggi di mutamento in grado di spiegare il processo plurisecolare che ha condotto alla società borghese-capitalistica.
Non deve quindi sorprendere che la grande stagione dell'antropologia novecentesca, inaugurata dall'opera di Franz Boas e della scuola boasiana negli Stati Uniti, e parallelamente da quella di Bronislaw Malinowski e di A.R. Radcliffe-Brown nel mondo inglese, non rechi traccia rilevante di rapporti con il marxismo. I presupposti a cui essa si è richiamata sono stati piuttosto quelli dell'idiografismo della ricerca sul campo, che Boas trasferiva dallo studio delle società storiche allo studio delle culture preletterate, oppure quelli del funzionalismo antropologico, inteso a concepire la cultura come un complesso di relazioni funzionali in vista del soddisfacimento di certi bisogni. Dovrà trascorrere quasi mezzo secolo perché il metodo comparativo impiegato dall'antropologia evoluzionistica ritorni a essere praticato come strumento di analisi, e si cerchi di delineare le fasi dello sviluppo umano nel corso della preistoria. Questa svolta ha inizio con l'opera di V. Gordon Childe e dà luogo, nel secondo dopoguerra, a quella composita corrente antropologica che va sotto il nome di neoevoluzionismo.
Utilizzando schemi divenuti correnti nella ricerca archeologica, ma con una documentazione molto più ricca di quella disponibile ai tempi di Morgan, Childe si è proposto, intorno alla metà del secolo, di delineare le modalità del passaggio dal Paleolitico al Neolitico, e quindi all'età del bronzo e a quella del ferro. Il termine di riferimento della sua analisi è, ancora una volta, Morgan, reinterpretato in chiave marxistica - ma sulla base non tanto del volume di Engels, quanto delle prospettive d'indagine elaborate dall'archeologia sovietica degli anni trenta. Childe riconduce infatti le periodizzazioni usate in sede archeologica alla tripartizione morganiana, facendo coincidere il Paleolitico con lo stato selvaggio, il Neolitico con la barbarie e il passaggio all'età del bronzo con la nascita della civiltà. L'impostazione evoluzionistica subisce però una correzione importante. Il passaggio dal Paleolitico al Neolitico, e da questo all'età dal bronzo e poi all'età del ferro, non costituisce per Childe il risultato di un processo evolutivo continuo, ma comporta una rivoluzione nel modo di produrre che investe anche l'organizzazione della società. Il passaggio dal Paleolitico al Neolitico è reso possibile dalla rivoluzione agricola, cioè dal passaggio da un'economia di raccolta a un'economia fondata sulla produzione del cibo. Analogamente, il passaggio dal Neolitico all'età del bronzo coincide con la nascita delle città, e rappresenta quella che egli chiama la rivoluzione urbana: l'eccedenza produttiva, resa possibile dal controllo delle acque a scopi agricoli, rende possibile la formazione di gruppi sociali che non si dedicano direttamente alla produzione del cibo o alla fabbricazione degli strumenti per la coltivazione dei campi, ma si impegnano in attività intellettuali.
Con la rivoluzione urbana nascono la divisione del lavoro, la distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, l'amministrazione statale, ma anche un ceto sacerdotale e un ceto di scribi spesso coincidente o subordinato a quello. Questo processo ha il suo centro di irradiazione in Mesopotamia e nelle regioni circostanti, anch'esse caratterizzate dalla presenza di grandi fiumi, cioè nelle valli del Nilo e dell'Indo; e di qui va gradualmente irradiandosi in regioni sempre più lontane. Viene così in luce un altro elemento distintivo della posizione di Childe rispetto a Morgan e a Engels: il rilievo che egli attribuisce ai processi di diffusione. La rivoluzione urbana è un fenomeno in qualche senso unico, geograficamente localizzato, che a partire dal 3000 a.C. si estende progressivamente verso oriente fino alla Cina e verso occidente nel bacino del Mediterraneo. Questo processo di diffusione comporta anche un adattamento ad ambienti nuovi, e quindi una progressiva differenziazione tra gruppi pervenuti a uno stesso livello di civiltà. Se la società del Paleolitico è ancora largamente uniforme, e si differenzia soltanto per il tipo di cibo che l'ambiente offre alla raccolta o alle attività di caccia e di pesca, già nel Neolitico non esiste una sola cultura, ma una varietà di culture con caratteri ben distinti. La tendenza alla differenziazione crescente è il correttivo metodologico che Childe introduce nella visione morganiana di un processo evolutivo uniforme.
L'evoluzione socioculturale è dunque un processo che si compie per "salti", per grandi trasformazioni che hanno la loro base nel modo di produzione. Anche per Childe, dunque, l'economia è il "motore" della storia, o più precisamente della preistoria; e dal mutamento produttivo deriva quello dell'organizzazione sociale. Ma il mutamento produttivo è in primo luogo progresso tecnologico. E infatti, dopo Childe, il neoevoluzionismo verrà sempre più sottolineando - soprattutto ad opera di Leslie H. White, e poi anche di Marvis Harris - il ruolo decisivo della tecnologia come fattore di trasformazione. Accanto a questo, però, ne emergeva un altro non meno importante, di cui la scuola boasiana (e non soltanto essa) aveva mostrato la portata: l'adattamento o, meglio, la risposta all'ambiente. Se il progresso tecnologico è un elemento di uniformità, il rapporto con l'ambiente è invece un elemento di differenziazione culturale. Privilegiando l'uno oppure l'altro ne derivano due diverse immagini dell'evoluzione, quella di un'evoluzione unilineare per stadi universali comuni a tutti i popoli - che Engels condivideva con Morgan, e che White riprendeva da quest'ultimo - e quella di un'evoluzione multilineare, diversa da ambiente ad ambiente. Lo sforzo di Julius H. Stewart è stato appunto quello di riformulare la teoria evoluzionistica in questo secondo senso, correlando le variabili tecnologiche con le differenze ecologiche; e sulla sua scia si sono mossi molti altri antropologi di orientamento neo-evoluzionistico, da Marshall Sahlins a Elman R. Service e a Robert Mc. C. Adams. La teoria dell'evoluzione multilineare veniva così staccandosi nettamente dalla matrice morganiana, e lasciava cadere quel primato della struttura economica che Engels vi aveva innestato.Anche per un'altra via, però, il marxismo ha agito nel dibattito antropologico contemporaneo: attraverso lo studio dei sistemi economici non capitalistici sviluppatisi al di fuori dell'ambito europeo.
Nel 1944 Karl Polanyi pubblicava The great transformation, un'opera a cavallo tra antropologia ed economia, nella quale il sorgere dell'economia di mercato connessa al capitalismo ottocentesco era visto come una svolta epocale che ha prodotto un sistema sociale eterogeneo rispetto a tutti i precedenti. Nel passato l'economia è sempre stata inserita in istituzioni economiche, ma soprattutto non economiche, che l'hanno regolata facendo valere i principî della reciprocità nello scambio e della ridistribuzione delle ricchezze; il comportamento economico e lo stesso mercato erano condizionati da imperativi di carattere religioso o politico. Anche il capitalismo, nella sua fase mercantilistica, si è sviluppato sotto la spinta e il controllo dello Stato moderno. Nel secolo XIX si è invece affermato il mercato autoregolato, sottratto a ogni controllo esterno, e con esso un sistema che tendeva ad "annullare la sostanza umana e naturale della società". Come già per Max Weber, anche per Polanyi il capitalismo moderno è un sistema economico-sociale unico nella storia, che però, diversamente da Weber, Polanyi considera profondamente innaturale. Di questo sistema l'economia politica ha formulato le leggi, proiettandole poi sull'intera storia dell'umanità e pretendendo che valessero per qualsiasi sistema società.
Riprendendo in forma originale la "critica" dell'economia politica di Marx, Polanyi ha sottolineato la necessità di studiare le economie del passato - e, in particolare, quelle primitive - prescindendo dalle categorie dell'economia di mercato. L'antropologia economica diventava perciò l'alternativa metodologica all'economia politica. Come questa ha posto in luce il funzionamento dell'economia poggiante sul mercato autoregolato, così l'antropologia economica permette la comprensione degli altri sistemi economico-sociali.L'interesse di Karl A. Wittfogel va invece a un capitolo poco sviluppato del marxismo: il modo di produzione asiatico e il suo rapporto con quello che Marx aveva chiamato il "dispotismo orientale" (da cui prende il titolo la sua opera maggiore, apparsa nel 1957). Per Wittfogel il modo di produzione asiatico non rappresenta però uno stadio universale nello sviluppo che dalla comunità tribale conduce al capitalismo; al contrario, esso designa una formazione complessa, un'organizzazione dell'economia e della società che si è venuta stabilizzando nel corso dei millenni. Mentre Marx aveva caratterizzato il modo di produzione asiatico con la coesistenza della comunità di villaggio e di un potere dispotico ad essa esterno, detentore della proprietà del terreno, Wittfogel ne indica il fondamento nella società idraulica, ossia in una società che realizza uno sfruttamento intensivo del suolo attraverso la regolazione delle acque. Ma perché una società del genere possa funzionare non basta l'esistenza di un potere centrale al quale affluisca, sotto forma di tributi, l'eccedenza produttiva dei villaggi sottoposti al suo controllo; occorre un'organizzazione del lavoro che può essere garantita soltanto da un'efficiente burocrazia centralizzata. Lungi dall'avere il suo centro nella comunità di villaggio, la società idraulica richiede un'economia manageriale e una direzione burocratica; richiede l'esistenza di uno Stato controllore più che proprietario. Già in essa, quindi, compare una divisione in classi contrapposte: da una parte la burocrazia detentrice del potere, e di un potere totale, dall'altra il resto della popolazione, costretto a prestare la propria forza-lavoro per la costruzione delle opere di regolazione.
La società di classe, con la sua struttura tipicamente dicotomica, viene così rintracciata anche in seno alla società idraulica. Nello stesso tempo Wittfogel - studioso del mondo cinese e, più in generale, orientale - identifica in maniera esplicita l'ambito geografico di questa formazione con il continente asiatico. Ma il continente asiatico comprende per lui anche la Russia, sia quella tradizionale sia quella sovietica. Il regime instaurato dalla Rivoluzione non ha nulla a che fare con il comunismo preconizzato da Marx; è invece una riedizione ammodernata del dispotismo orientale.Se Polanyi ha contribuito in maniera decisiva al sorgere dell'antropologia economica, l'analisi di Wittfogel ha un più spiccato intento ideologico. Né l'uno né l'altro si sono proposti di sviluppare un'antropologia marxistica; e, del resto, per entrambi il marxismo è uno solo dei termini di riferimento del loro discorso. Questo proposito è invece centrale nel lavoro di Maurice Godelier, sviluppatosi negli anni sessanta e settanta in un ambiente dominato dalla presenza dello strutturalismo lévi-straussiano e dall'importanza da esso attribuita alle strutture della parentela. Godelier intende mostrare la fecondità della nozione di modo di produzione asiatico, ma svincolata - contrariamente a quanto aveva fatto Wittfogel - dal concetto di dispotismo orientale: essa non designa un'economia di tipo schiavistico, bensì il passaggio da un'organizzazione comunitaria a una società di classe, in cui si afferma la diseguaglianza tra gruppi sociali differenti. Questo passaggio è caratterizzato per un verso dal sorgere di rapporti sociali indipendenti dai rapporti di parentela fin allora dominanti, per l'altro verso da quel progresso delle tecniche produttive già posto in rilievo da Childe.
Lungi dall'essere condannate alla stagnazione, come voleva Wittfogel, le società in cui domina il modo di produzione asiatico segnano il superamento della forma comunitaria di organizzazione: mentre i rapporti di parentela erano insieme struttura e sovrastruttura, ora i due termini vengono a separarsi e nascono istituzioni specifiche di carattere politico o religioso. Ma Godelier si differenzia da Wittfogel (e dallo stesso Marx) su un altro punto decisivo: nel rifiuto della delimitazione geografica del modo di produzione asiatico. Questo è rintracciabile non soltanto nel continente asiatico, ma anche in Africa e nell'America precolombiana. Una rilettura corretta del testo di Marx, svincolata dalla commistione con l'evoluzionismo di Morgan, offre la chiave interpretativa per l'analisi delle società extraeuropee, in cui lo sviluppo delle forze produttive ha preso una direzione diversa da quella che ha condotto al capitalismo. Anzi, proprio il riferimento a Marx permette di correggere lo schema di un'evoluzione unilineare, e di considerare la successione dei modi di produzione indicati nei Grundrisse come riferita in modo specifico al processo storico dell'Occidente.
Negli ultimi anni di vita Engels aveva cercato di completare il marxismo con una filosofia della natura entro cui sistemare le più importanti acquisizioni della scienza ottocentesca, dalla teoria dell'elettricità alla teoria dell'evoluzione. Anche se il testo della Dialektik der Natur verrà pubblicato soltanto nel 1925, le linee del suo progetto erano note, soprattutto dall'esposizione divulgativa che Engels ne aveva dato nell'Antidühring, e diventarono uno degli elementi della koiné dottrinale marxistica. Il marxismo cessava di essere in primo luogo scienza della società per assumere la veste di una concezione generale del mondo, in grado di determinare i principî della conoscenza scientifica della realtà intera. Il "movimento operaio tedesco" diventava - secondo la formulazione di Engels - "l'erede della filosofia classica tedesca".
Si compiva in tal modo il primo passo verso una sistematizzazione del pensiero di Marx e di Engels, in virtù della quale il materialismo dialettico si affiancava al materialismo storico e veniva a costituirne, in qualche maniera, la base filosofica. Questo processo fu proseguito soprattutto in ambiente russo, da Plechanov e dal Lenin dei Quaderni filosofici - apparsi nel 1929-1930 ma scritti, per la maggior parte, nel periodo iniziale della guerra - e mise capo alla filosofia ufficiale della Russia staliniana, il Diamat. In virtù di esso il marxismo veniva interpretato come una filosofia materialistica, che aveva le sue premesse nel materialismo settecentesco ma che se ne differenziava per la sua interpretazione dialettica della natura e della storia. La dialettica hegeliana, riletta con lo sguardo rivolto più alla scienza della logica che alla filosofia dello spirito oggettivo, si presentava come la struttura del movimento e, nello stesso tempo, come il fondamento della sua intelligibilità. In conformità a una chiave interpretativa largamente diffusa nella letteratura hegeliana, si conservava il metodo dialettico lasciando cadere il "sistema" di Hegel, e sostituendolo con una metafisica materialistica in cui l'economia diventava la "materia" del processo storico.Questa concezione del mondo ha trovato nel 1909 il suo corollario gnoseologico, nel corso della polemica di Lenin contro l'empiriocriticismo, nella teoria della conoscenza come "rispecchiamento". Essa serviva a Lenin, e servirà a Stalin, per difendere il carattere oggettivo delle leggi storiche come di quelle naturali, evitando il pericolo soggettivistico che essi vedevano nella teoria "economica" della conoscenza così come in quella neokantiana, spesso accolta dai teorici dell'austro-marxismo.
La vecchia formula dell'adaequatio rei et intellectus veniva combinata, senza troppe preoccupazioni di coerenza, con una metafisica materialistica riformulata in linguaggio hegeliano. Il risultato fu una scolastica filosofica fortemente ripetitiva, che non si stancava di proclamare la superiore verità della concezione marxistica del mondo nei confronti non soltanto delle filosofie "borghesi" ma anche di molti orientamenti della scienza novecentesca - a partire, ovviamente, dalla teoria della relatività e dal principio di indeterminazione, che sembravano mettere in questione l'oggettività delle leggi naturali.Accanto a questo filone venne tuttavia affermandosi, già nel corso degli anni venti, una diversa interpretazione del marxismo che ne rivendicava anch'essa il significato filosofico, ma andando a cercarlo altrove, fuori della proclamata discendenza del materialismo dialettico da quello settecentesco. Piuttosto paradossalmente, però, anche il marxismo "occidentale" - come lo denominerà ne Les aventures de la dialectique (1955), con un'espressione fortunata, Maurice Merleau-Ponty - rivendicava il ruolo centrale del rapporto di Marx con Hegel, offrendo una lettura hegeliana di Marx prima ancora che vedesse la luce il testo dei manoscritti parigini del 1844.
Si trattava però non di materialismo dialettico, bensì di dialettica senza materialismo, di una dialettica il cui campo di azione veniva limitato al mondo storico, con il conseguente rifiuto della dialettica della natura enunciata da Engels. Anche Lukács separava il metodo dalla costruzione sistematica di Hegel, assumendo la dialettica come il metodo del marxismo "ortodosso"; ma lo Hegel a cui faceva riferimento era il teorico dell'alienazione (e della reificazione), non quello della logica e della filosofia della natura. Da ciò è derivata una concezione della conoscenza che respingeva la teoria del rispecchiamento, per richiamarsi piuttosto alla polemica hegeliana contro l'intelletto astratto. Alla razionalità del sapere scientifico, anch'esso visto come un prodotto della reificazione propria della coscienza borghese, Lukács contrapponeva la razionalità dialettica del materialismo storico, l'unica capace di cogliere la totalità del processo. Tra le scienze e la concezione marxistica s'instaura così un rapporto analogo a quello che per Hegel sussisteva tra l'intelletto astratto e la ragione concreta; solo che la distinzione veniva ora fatta corrispondere a quella tra la coscienza reificata della borghesia e la coscienza "vera" del proletariato. Analoga è la posizione di Karl Korsch allorché, in Marxismus und Philosophie (1923), interpreta il marxismo come una "critica" non soltanto dell'economia politica, ma della filosofia e delle scienze borghesi, capace di superare il punto di vista particolare di queste ultime.
Anche se su una piattaforma differente da quella dell'ultimo Engels e di Lenin, il marxismo si presentava come una concezione generale del mondo, che doveva determinare il quadro di riferimento delle singole discipline scientifiche.Questo orientamento apparenta, pur nella diversità tutt'altro che secondaria della tradizione filosofica a cui si richiamano e delle formulazioni a cui pervengono, la maggior parte degli indirizzi del marxismo del Novecento. Man mano che veniva in luce la problematicità dell'analisi dello sviluppo capitalistico compiuta dalla marxiana scienza della società, il marxismo approdava ai lidi più rassicuranti della filosofia. Se nei Quaderni del carcere di Gramsci la presenza dell'idealismo di Croce (e di Gentile) è corretta dallo sforzo di utilizzare gli strumenti del marxismo per comprendere la società italiana e le sue condizioni di arretratezza, a partire dalla metà del secolo il marxismo diventa, specialmente nei paesi latini, una corrente filosofica variamente intrecciantesi con dottrine di diversa origine. Alla lettura hegeliana di Marx fa spesso riscontro, soprattutto nella cultura francese, una lettura in chiave marxistica degli scritti giovanili di Hegel e della Fenomenologia dello spirito, propiziata dai corsi di Alexandre Kojève. Così, per esempio, nella Critique de la raison dialectique (1960) Jean-Paul Sartre combinava il marxismo con l'eredità della fenomenologia husserliana e dell'esistenzialismo, mentre negli anni immediatamente successivi Louis Althusser ne forniva un'interpretazione strutturalistica, andando in cerca di una "frattura" gnoseologica all'interno dello sviluppo del pensiero marxiano, coincidente con il passaggio dall'umanesimo del giovane Marx all'analisi del Capitale.
Nacque in tal modo, attraverso un'accumulazione dottrinale che espungeva sia le prospettive riformistiche sia il massimalismo rivoluzionario, il marxismo-leninismo e poi - come variante dogmatizzata di esso - il marxismo dell'età staliniana; e ad esso si contrapposero, spesso combinando la presa di posizione teorica con l'adesione al partito comunista, le non poche varianti del marxismo "occidentale". Ma la tendenza a tradurre il marxismo in una concezione generale del mondo si accompagnava anche a un diverso rapporto con l'ideologia. Marxismo e ideologia erano, agli occhi di Marx, termini antitetici: l'"ideologia tedesca" era per lui non soltanto una teorizzazione estranea alla realtà, ma anche una mistificazione della realtà, una forma di "falsa coscienza". Anche se nei testi marxiani si trova non tanto una teoria quanto l'impiego del concetto di ideologia, non c'è dubbio che questo rivesta costantemente, fin dalla polemica contro Feuerbach, una valenza negativa: in quanto pretende di "innalzarsi al di sopra del mondo", e quindi di essere svincolata dalle condizioni reali di esistenza degli uomini, che sono appunto condizioni materiali, l'ideologia comporta un rovesciamento del rapporto tra coscienza e realtà. Le dottrine che la cultura borghese ha formulato sono perciò inevitabilmente "ideologiche", mentre non lo è, né può esserlo, il materialismo storico. Anzi, il compito della critica marxistica consiste precisamente nello svelare il carattere fittizio della pretesa di autonomia di quelle dottrine, cioè nel mostrare il loro rapporto con il fondamento economico dell'esistenza.
E infatti il marxismo promosse - con il contributo decisivo offerto da Marx negli scritti storici successivi al 1848 - la critica delle ideologie, ponendo in luce il legame di dottrine politiche, di credenze religiose, di posizioni filosofiche con gli interessi di determinati gruppi sociali. Anche se nella forma schematica - e spesso anche schematicamente applicata, perfino da parte di autori come il Kautsky di Der Ursprung des Christentums (1920) o il Lukács della Zerstörung der Vernunft (1953) - rappresentata dall'affermazione del carattere sovrastrutturale delle manifestazioni intellettuali, esso aprì nuove prospettive alla comprensione storica. Certamente il marxismo non fu solo ad agire in questa direzione; anzi, il suo apporto si coniugò variamente con la teoria paretiana dei "residui" e delle "derivazioni", e anche con la ricerca delle radici "profonde" del pensiero intrapresa da Freud. Ma il riconoscimento del condizionamento sociale delle idee è all'origine di un filone di analisi che, attraverso Weber, conduce fino alla sociologia del sapere di Mannheim.In Ideologie und Utopie (1929) Mannheim allargava e al tempo stesso correggeva la nozione marxiana di ideologia, attribuendo ad essa un significato non più negativo ma neutrale. Egli muoveva dalla distinzione di due concetti di ideologia: un concetto "particolare" di ideologia, in virtù del quale vengono qualificate come ideologiche determinate posizioni dottrinali che si ritengono false e che si vogliono perciò confutare, e un concetto "totale", che si riferisce all'intera intuizione del mondo dell'avversario, con l'intento di renderne possibile un'analisi storico-sociologica. Ed egli attribuiva appunto al marxismo il merito di aver formulato per la prima volta, attraverso l'affermazione di una coscienza di classe condizionata dal grado di sviluppo delle forze produttive, questo secondo concetto. Il marxismo lo aveva però impiegato in maniera "speciale", sottraendosi al tipo di analisi che applicava alle altre dottrine.
Occorreva quindi compiere il passaggio a una concezione "generale" dell'ideologia, il che vuol dire applicare al marxismo stesso la critica da esso rivolta alle altre posizioni. Si compiva così, nella critica delle ideologie, una svolta rappresentata dal riconoscimento del condizionamento sociale di qualsiasi forma di pensiero, o per lo meno di quello che Mannheim - escludendo la conoscenza scientifica della natura - chiamava il "pensiero storico-politico". Entro questo quadro egli distingueva tra ideologia e utopia, considerate come orientamenti di pensiero alternativi tra loro, l'una intesa a giustificare l'assetto sociale esistente e l'altra rivolta al futuro, in uno sforzo di trasformazione della realtà; e le riconduceva al conflitto tra gruppi sociali dominanti e gruppi oppressi. Anche il materialismo storico, nonostante le sue pretese di scientificità, veniva fatto rientrare in questo schema interpretativo.Sulla necessità di riconoscere il condizionamento sociale anche della teoria marxistica la sociologia del sapere s'incontrava, in realtà, con le posizioni del marxismo "occidentale".
Anche Lukács, in Geschichte und Klassenbewußtsein, l'aveva proclamata esplicitamente. Il materialismo storico, in quanto "autoconoscenza della società capitalistica", dev'essere interpretato in base ai propri principî; ma ciò non conduce alla sua relativizzazione, poiché esso rimane pur sempre, secondo Lukács, "il vero metodo storico", in quanto la comprensione della totalità del processo storico e della sua direzione di sviluppo è riservata alla coscienza di classe del proletariato. Più complessa è la teoria delle ideologie elaborata, nella prima metà degli anni trenta, da Gramsci. Egli riprendeva il tema del ruolo degli intellettuali affrontato da Mannheim, ma pervenendo a una conclusione opposta. Mannheim aveva attribuito all'intelligencija una funzione mediatrice, anzi di "sintesi", nei confronti delle ideologie (e delle utopie) in conflitto, resa possibile dal carattere freischwebend proprio degli intellettuali. Gramsci, invece, vedeva gli intellettuali coinvolti anch'essi nella lotta di classe, e quindi "organici" al partito e alla classe da esso rappresentata. Il loro compito risultava perciò duplice: da un lato un compito positivo, quello di contribuire all'elaborazione di una concezione del mondo rispondente agli interessi e alle aspirazioni della propria classe, dall'altro un compito negativo, quello di criticare le concezioni del mondo che esprimono gli interessi delle classi avversarie. All'intellettuale spettava così non soltanto l'organizzazione del consenso, ma anche la critica delle ideologie concorrenti. Anche il marxismo è infatti, per Gramsci, un'ideologia; ma, a differenza delle ideologie borghesi, è un'ideologia scientifica, intrinsecamente dotata di una capacità demistificante nei loro confronti.
Mentre il marxismo "occidentale" cercava variamente di far coesistere la "verità" del marxismo con il riconoscimento del suo carattere ideologico, il marxismo sovietico tendeva a presentarsi come una costruzione compatta e non suscettibile di essere scalfita; lo scostamento dai suoi principî era bollato come deviazionismo. Esso diventava perciò sempre più un'ideologia in senso negativo. Il potenziale critico del marxismo fu lasciato cadere; e alla ricerca economica o sociologica fu assegnato, quasi sempre, il compito di dare una conferma a posteriori della validità di una concezione del mondo che, in quanto tale, pretendeva di collocarsi su un piano gnoseologico superiore al sapere scientifico.
Da critica delle ideologie il marxismo venne così degradandosi in un'ideologia al servizio del paese-guida del comunismo mondiale. E se la capacità di attrazione dell'Unione Sovietica - ancora assai forte negli anni cinquanta e sessanta, come mostra emblematicamente il caso di Sartre - venne gradualmente scemando, per cedere il posto alla rivendicazione di una pluralità di "vie nazionali" al socialismo, il richiamo della rivoluzione trovò alimento nel '68. Solo che questa rivoluzione era assai lontana dal modello teorico che ne aveva dato Marx. Il Welfare State aveva privato la classe lavoratrice della sua carica rivoluzionaria: il soggetto della lotta contro il capitalismo doveva quindi esser cercato non più nel proletariato imborghesito, ma in ceti sociali emarginati o devianti, non assimilabili a una classe in senso marxistico. Ma, soprattutto, il successo della Rivoluzione cinese e il diffondersi di regimi socialisti da Cuba al continente africano mostravano che la rivoluzione era diventata - in netto contrasto con quanto aveva presagito Marx - merce di esportazione per paesi economicamente arretrati. Così alla visione dello sfruttamento di classe subentrò quella dello sfruttamento del Terzo Mondo da parte dei paesi capitalistici, reso possibile dalla divisione internazionale del lavoro. A questa prospettiva fornì una base teorica la ripresa della teoria dell'imperialismo, sovente combinata con la contrapposizione tra la politica colonialistica del capitalismo e l'appoggio prestato dal mondo comunista alle lotte di liberazione dei popoli oppressi. L'ideologia marxistica diventava così, il più delle volte, un'ideologia terzo-mondistica che trasferiva le prospettive di emancipazione al di fuori del mondo capitalistico.
Sorto in un'epoca nella quale soltanto l'economia politica aveva conseguito un grado soddisfacente di autonomia disciplinare, costituendo un proprio corpus teorico, il marxismo si era proposto di offrirne una "critica" capace di liberare le sue categorie dall'assolutezza che presentavano in Smith e in Ricardo. Il risultato era stato, come si è visto, la storicizzazione sia dell'economia politica sia del suo oggetto. A questa operazione si era accompagnato il tentativo di costruire, coniugando le categorie economiche con una concezione della storia come progresso, una scienza della società che ne determinasse le leggi oggettive di sviluppo e permettesse quindi, oltre che di spiegarne i processi, anche di predire la direzione del suo sviluppo futuro. Questo programma era analogo a quello della sociologia positivistica, anche se presupposti e risultati erano divergenti: anch'essa proponeva infatti una critica delle dottrine dell'economia politica, anch'essa assorbiva in sé la scienza politica, anch'essa non ammetteva la legittimità di discipline rivolte a studiare singoli aspetti o settori della vita sociale.
Marx si richiamava alla dialettica hegeliana, mentre Comte innestava il modello di una società organica ereditato dall'ideologia della Restaurazione sui tentativi tardosettecenteschi di una scienza dell'uomo ispirata alla fisiologia; ma il modello epistemologico di una scienza unitaria della società, coincidente con la filosofia della storia, era comune. Il parallelo tra Hegel e Comte, proposto da Oskar Negt, è probabilmente più appropriato nel caso di Marx.Questo modello ha dominato la sociologia come, in qualche misura, anche l'antropologia evoluzionistica ottocentesca, mentre è stato sostanzialmente estraneo (già in Smith e in Ricardo) allo sviluppo della scienza economica. Ma anche in sociologia e in antropologia esso è ben presto entrato in crisi. Già all'indomani del compimento del grandioso edificio del Capitale esso appariva difficilmente sostenibile. Con Tönnies e Durkheim aveva inizio, nella sociologia europea, il processo di distacco dal positivismo; e se la prima generazione dei sociologi d'oltreoceano - quella di Lester F. Ward, di William Graham Sumner (l'autore di Folkways), di Albion A. Small - si muove ancora in un orizzonte che ha come termini di riferimento principali Darwin e soprattutto Spencer, già nei primi decenni del Novecento anche la sociologia americana imbocca strade nuove.
E in antropologia le prospettive evoluzionistiche vengono sottoposte a una critica radicale fin dai primi anni del nuovo secolo. Al modello di una scienza onnicomprensiva della società o dell'evoluzione umana si sostituisce - e, sul terreno epistemologico, si contrappone - la realtà di molteplici discipline indipendenti, che rinunciano all'ambizione di un'interpretazione "globale" della società. Le scienze sociali si separano dalla filosofia della storia; anzi, ne respingono la stessa possibilità, o per lo meno negano ad essa qualsiasi rilevanza scientifica.Lo sviluppo delle scienze sociali ha così percorso vie divergenti da quella indicata da Marx. Ciò che è venuto meno, nel corso del secolo e mezzo che ci separa ormai dagli anni in cui Marx elaborò il suo progetto di analisi della società borghese-capitalistica, è proprio il nesso tra scienza della società e concezione generale della storia, da cui discendeva la pretesa di determinare la direzione dello sviluppo storico nel futuro prossimo o remoto.
Le scienze sociali sono oggi diventate un universo disciplinare composito, caratterizzato dalla compresenza di teorie e di metodi differenti, non riconducibili a una matrice unitaria. Ciò non vuol dire che tra queste discipline e i loro apparati teorico-concettuali non siano frequenti gli scambi, che i concetti da esse formulati non possano essere trasferiti in contesti disciplinari diversi da quello originario. Ma l'interdisciplinarità della ricerca non significa affatto - com'è stata talvolta intesa - riducibilità a una base teorica comune; meno che mai può significare, oggi, la subordinazione a una teoria generale della società che stabilisca le direttrici d'indagine delle singole scienze o ne irrigidisca i rapporti in un quadro sistematico.Questo processo ha finito per "spiazzare" il progetto marxiano (e marxistico) di una scienza della società; anzi, ha finito per renderlo improponibile. Esso è soggiaciuto alla critica metodologica dapprima di Max Weber, poi dell'epistemologia di derivazione neopositivistica. Anche Karl Popper, in The open society and its enemies, ne ha denunciato il peccato originale, la pretesa "olistica", e il conseguente trapasso dalla predizione scientifica alla profezia. Ma questo peccato rappresenta anche, paradossalmente, il motivo di forza del marxismo, la sua capacità di attrazione. Come ogni costruzione scientifica di ampia portata, esso è in grado di offrire suggestioni e ipotesi interpretative; lo è stato ieri, e può esserlo anche oggi. Non deve quindi sorprendere che, in determinate congiunture storiche, non soltanto intellettuali impegnati ma anche scienziati sociali possano richiamarsi a Marx e al marxismo, traendone spunti per il loro lavoro. Purché sia chiaro che le suggestioni non possono esser assunte come direttrici vincolanti della ricerca, e che le ipotesi interpretative non possono esser scambiate per verità acquisite.
(V. anche Alienazione; Antropologia ed etnologia; Capitalismo; Classe, coscienza di; Classi e stratificazione sociale; Comunismo; Economia; Economia e società; Evoluzionismo; Formazioni economico-sociali; Ideologia; Politica; Proletariato; Rivoluzione; Socialismo; Sociologia; Sovrappiù, teorie del; Struttura sociale; Valore, teorie del).
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