BONTEMPELLI, Massimo
Nacque a Como il 12 maggio 1878, da Alfonso e da Maria Cislaghi. Rimase nella città natale solo pochi mesi. Infatti il padre, ingegnere costruttore nelle ferrovie, doveva spesso mutare residenza per le esigenze connesse con la sua professione e la famiglia lo seguì in queste peregrinazioni, dapprima a Milano, poi a Codogno, di nuovo a Milano, a Mortara, Chiavari (dove il B. iniziò il ginnasio presso gli scolopi), Civitavecchia, ancora a Milano (dove studiò al ginnasio Parini, avendo come insegnante A. Panzini), Voghera, Alessandria (dove terminò le scuole secondarie). Mentre faceva le prime prove di scrittore collaborando al periodico Fiammetta (1896-1897), frequentò la facoltà di lettere e filosofia a Torino, dove ebbe tra i professori A. Graf e G. Fraccaroli. Si laureò in filosofia (con una tesi sopra il libero arbitrio) e in lettere (con una tesi sull'origine dell'endecasillabo). Insegnò quindi per alcuni anni come professore di ginnasio inferiore in diverse sedi (cominciando a Cherasco e terminando la sua carriera ad Ancona). Nel 1910, dopo essere stato per due volte respinto nei concorsi per l'insegnamento dell'italiano nei licei, abbandonò la scuola e si trasferì a Firenze, ove fu redattore capo della rivista fondata da Ettore Romagnoli, l'Acropoli (1911), che ebbe vita effimera, e delle Cronache letterarie (1910-1912).
Già in questa primissima fase della sua attività abbondante è la produzione narrativa e poetica del B., espressa nella pubblicazione di numerose raccolte di liriche e di racconti. Tra le prime ricordiamo: Egloghe (Torino 1904), Verseggiando (Palermo 1905), Odi siciliane (ibid. 1906), Odi (Modena 1910), Il purosangue - L'ubriaco (Milano 1919). Tra i racconti: Socrate moderno (Torino 1908), Amori (ibid. 1910), Sette savi (Firenze 1912). Risale a questi anni anche una tragedia: Costanza (pubblicata a Torino nel 1905).
Tale produzione è contraddistinta dal segno di una forte fedeltà alla tradizione letteraria degli ultimi decenni dell'Ottocento. Ciò è particolarmente evidente nei suoi esperimenti di poesia, di stretta osservanza carducciana. Alcuni racconti del Socrate moderno e dei Sette savi, pur non presentando nessuna aperta velleità innovativa, esprimono già abbastanza chiaramente certe linee di tendenza nella costruzione delle situazioni e delle psicologie, che lasciano indovinare gli sviluppi successivi. Il timbro stilistico dominante è quello di un intimismo macerato d'ironia malinconica, che ha richiamato a taluni critici (con qualche forzatura) i nomi dei contemporanei Pirandello e Palazzeschi, e ad altri (forse con maggiore attendibilità storica) quello di A. Albertazzi, anche lui svincolatosi dal pesante magistero carducciano per la strada di una pensosa riflessione sulla paradossalità dei casi umani (del resto, non è escluso che, a sua volta, lo stesso Albertazzi avvertisse, sia pure con mezzi intellettuali diversi, l'influenza di un clima generale, in cui questi elementi di crisi circolavano un po' dappertutto). Fra i temi più diffusi, ove non siano quelli derivanti dall'esperienza autobiografica dell'insegnamento (dominanti soprattutto nella raccolta Socrate moderno, nella quale sembrano particolarmente interessanti i racconti Santippe e Daria e l'ideale), troviamo (soprattutto nei Sette savi)casi bizzarri di originalità psicologica confinanti col patologico (Il giusto mezzo)o, piùsemplicemente, umoristiche divagazioni sulla stranezza del carattere umano (La paura di morire).
Dopo aver partecipato alla grande guerra, dapprima come corrispondente dal fronte, poi come ufficiale di artiglieria da campagna nel '17 e '18 (meritando numerose decorazioni), il B. tornò a lavorare a Milano, dove si era già trasferito nei primi mesi del '15, e qui finì di maturare la sua "conversione letteraria", che evidentemente doveva avere già avuto intimo svolgimento negli anni precedenti e di cui era stato un chiaro preannuncio la "rappresentazione" teatrale La guardia alla luna (1916).Entrato in contatto con gli ambienti più avanzati del mondo letterario italiano contemporaneo (negli ultimi mesi di guerra aveva redatto con la collaborazione di alcuni futuristi il giornale di trincea Il Montello e aveva dato la sua adesione al partito politico futurista, il cui programma era stato pubblicato dal periodico Roma futurista nel settembre 1918), il B.compì infatti un completo mutamento di rotta - che, com'è possibile dimostrare, non esclude però alcuni aspetti di continuità - rispetto a tutte le sue esperienze precedenti, passando dal culto sia pure disincantato della tradizione classicista alle più audaci esperienze di avanguardia.
Questa conversione, tanto più sorprendente se si pensa che il B. la compì alle soglie dei quarant'anni, fu estremamente convinta e rigorosa: egli rinnegò infatti tutta la sua produzione precedente, senza esclusioni (salvo poi a recuperare più avanti, nelle raccolte di opere scelte che cominciarono ad apparire durante la sua piena maturità, i racconti del Socrate moderno e dei Sette savi, la pièce La guardia alla luna e, sole fra le poesie, Il purosangue). Da questo momento in poi, e fino alla conclusione del ventennio fascista, il B. diventa un personaggio preminente della cultura letteraria militante, sia come giornalista (oltre alla collaborazione alle riviste specializzate, vanno segnalate quelle a quotidiani come Il Mondo, Il Tempo di Roma, La Gazzetta del Popolo, Il Corriere della Sera, ecc.), sia come polemista brillante e coraggioso, sia come autore estremamente prolifico, sia come conferenziere e propagandista della cultura italiana all'estero (fra il '30 e il '38 fece numerosi giri di conferenze e dibattiti in Egitto, Grecia, Sudamerica, Spagna, Belgio, Scandinavia, Europa centrale, Romania).
Il suo atteggiamento nei confronti del regime, più tardi ampiamente discusso, fu a lungo di consenso, sebbene di un genere un po' speciale. L'opera con cui egli segnò l'inizio della sua nuova opera di scrittore - i racconti della Vita intensa - si cominciò a pubblicare su Ardita, supplemento mensile del Popolo d'Italia di B. Mussolini. Numerosi sono nelle sue opere i riferimenti al clima nuovo indotto dal fascismo nell'ambito della società italiana, precedentemente chiusa e provinciale. Questo, sia come apprezzamento nazionalistico dell'eredità d'entusiasmo e di lotta, che la partecipazione italiana alla grande guerra aveva suscitato e che il fascismo aveva raccolto (basti pensare alla vicenda di Tullia, uno dei personaggi di Vita e morte di Adria e dei suoi figli, che, a scapito persino della compattezza fantastica del romanzo, viene fatta morire durante un improbabile ma eroico tentativo di spionaggio al di là delle linee austriache); sia anche e soprattutto come valutazione positiva del contributo di dinamismo e di energia che la rottura fascista della civiltà liberale aveva apportato alla cultura italiana. In questo secondo atteggiamento va probabilmente ricercato quanto di più profondo e reale c'è nel rapporto fra il B. e il fascismo e, contemporaneamente, la manifestazione del modo specifico con cui lo scrittore presenta in quegli anni il suo concetto di rinnovamento culturale. Le rivoluzioni politiche del XX secolo hanno preceduto quelle artistiche e indicato loro la strada. La rottura con il passato si pone su di un piano totale: rifiutare la democrazia per le nuove ideologie nazionalistiche e attivistiche non è cosa diversa dall'invocare una letteratura liberata dagli schemi borghesi e restituita alla sua forza creatrice e inventrice. Il fascismo è l'espressione più alta e più pura di un processo che investe l'Europa intera e che perciò è europeo: non c'è contraddizione tra il sentirsi ferocemente romani e l'aspirazione a una ideologia universale, che, senza cancellarle, travalica e sublima le culture nazionali. Lo spiega lo stesso B. nella Justification che apre il primo numero di "900" (autunno 1926): "La pratique (politique) a précédé l'art et la pensée pure (ce qui est bien naturel) dans l'effort d'ouvrir les portes du vingtième siècle. Aujourd'hui, avant que l'art ne reprenne le sens du monde extérieur et de la magie, la politique retrouve celui de la puissance et du contingent, qu'elle avait perdu le long de la rue démocratisante du dix-neuvième siècle. A l'heure actuelle il y a en Europe deux tombeaux de la démocratie du dix-neuvième. L'un est à Rome, l'autre a Moscou. A Moscou le tombeau est gardé par des fauves mystérieux qui grattent le sol. A Rome par des jeunes faucons qui, à force de regarder le soleil, finiront peut-être par influencer son cours. Nous les nouveaux, nous sommes assoiffés d'universel, et nous nous méfions de toute internationale. C'est pour cela que, dans l'instant même où nous nous efforçons d'être des européens, nous nous sentons éperdument romains...". Elementi di precisa origine futuristica stanno alla base di questo discorso, ma s'intrecciano con altri di più lontana e indeterminata origine avanguardistica e con altri ancora che, nell'ambito dell'esperienza culturale fascista, cercano di presentare il regime come la più alta espressione del contributo italiano al rinnovamento della civiltà mondiale contemporanea. Il B. vi aggiunge di proprio un "élan vital" e una carica di non mistificato entusiasmo creativo, che riscatteranno, almeno in parte, i limiti non piccoli del suo tentativo di progettazione culturale.
Le prime opere del "nuovo corso" sono i racconti de La vita intensa (Firenze 1920) e de La vita operosa (ibid. 1921). Trattasi di esperienze in cui il rapporto con il futurismo è molto evidente, ma in termini che sono già di filtraggio e di ripensamento. Se infatti nella forma esse richiamano certe caratteristiche soluzioni proprie dell'avanguardia futurista (La vita intensa è composta da dieci "romanzi sintetici", ciascuno dei quali cerca nel breve ma intenso giro di poche pagine di restituire il senso preciso di una vita, di un atteggiamento psicologico), a farle andare al di là di una ripresa pedissequa ci pensa l'ironia dello scrittore e la sua disposizione a un discorso lucido, netto, senza compiacimenti soggettivi. Sull'altro versante della ricerca, e contemporaneo a questo, c'è già l'esperimento metafisico di racconti come La scacchiera davanti allo specchio (Firenze 1922) e Evaultima (Roma 1923), con i quali siamo in direzione dei romanzi maturi, sia nel senso di una ricerca di atmosfere magiche e rarefatte sia nel senso della precisazione di psicologie bizzarre ed eccezionali.
Sarebbe tuttavia un errore vedere tra questi due poli della produzione bontempelliana una contraddizione. C'è anzi un incontro, o meglio un tentativo d'incontro voluto e consapevole fra la tendenza verso un realismo moderno, attento ai caratteri nuovi provocati nella civiltà umana dallo sviluppo del macchinismo e dell'industria, e la ricerca, al di là del reale, delle esperienze psichiche che stanno sospese tra il conscio e l'inconscio. In un prezioso libretto di divagazioni apparso in quegli anni, La donna del Nadir (Roma 1924) il B. precisa egli stesso questo rapporto, scrivendo: "...sempre e dovunque l'Occulto, per operare, si serve di intermediari naturali; sempre e dovunque il Potere superiore si cala e nasconde entro una legge naturale. La storia naturale è il complesso e l'armamentario degli strumenti che in tal modo l'Occulto tiene a propria perenne disposizione" (p. 73). Che questa sia la situazione tipica dell'arte bontempelliana in questi anni lo conferma, nella breve ma succosa introduzione alla Donna del Nadir, C.Alvaro, osservando che gli argomenti preferiti dal B. "non sono altro che i rapporti tra mondo reale e mondo ideale, fra leggi accettate universalmente e tentativi di evadere, tra certezze supine e aspirazioni a un'ideale libertà" (ibid., p. 8), e cogliendo anche con molta acutezza un punto di riferimento necessario a comprendere quest'arte con queste conclusioni: "Come il dramma di Pirandello che arriva alla ribalta quando si sono spenti i lumi, l'arte del B. comincia dove il possibile ha il suo limite e la logica diventa un'aspirazione verso un mondo divino" (ibid., p. 11). Non c'è dubbio, infatti, che una componente pirandelliana assai forte anima la ricerca del B., il quale, del resto, proprio in quegli anni si era legato di rapporti di amicizia con il circolo di Pirandello e con Pirandello stesso (nel 1924 entra a far parte del Teatro degli Undici, di cui erano promotori Stefano Landi, figlio di Pirandello, e Orio Vergani). Pirandelliana è infatti questa sua incertezza di fronte a quale sia la vera realtà - se quella al di qua o quella al di là dello specchio -, pirandelliana la facilità con cui i personaggi mutano psicologia a seconda della situazione in cui si muovono e a seconda di chi li guarda; pirandelliana l'attenzione prestata alle sofferenze, che scaturiscono proprio dalle situazioni di trauma e di violento contrasto, in cui viene messo chi non sappia o non voglia più distinguere tra reale e ideale, tra reale "falso" e ideale "vero", e così via. Tutto ciò è visibilissimo soprattutto nelle opere teatrali del B., e in particolare in Nostra Dea (inaugurò gli spettacoli della Compagnia di L. Pirandello al Teatro Odescalchi di Roma, maggio 1925, protagonista M. Abba) e Minnie la candida (1927), che sono tra le migliori della sua produzione: storia, la prima, di una bella donna, che muta carattere e psicologia ogni qual volta muta vestito e che, senza vestito, non è più nulla ma solo una meccanica bambola di carne; e la seconda, di una deliziosa ingenua fanciulla, la quale, per aver creduto alla scherzosa invenzione che tra gli uomini veri ce ne siano mescolati altri falsi - congegni meccanici in tutto eguali a quelli veri, - a tal punto si fissa su questa mostruosa confusione di verità e falsità da impazzire ed uccidersi. È doveroso però aggiungere che, mentre in Pirandello il gioco dialettico degli scambi è ravvivato da un forte sentimento della sofferenza umana, il B. rimane spesso prigioniero della meccanicità della dimostrazione (ciò che, del resto, sarà sempre un suo limite). Nella tecnica di costruzione di questi drammi non sarebbe difficile ravvisare l'influenza del linguaggio cinematografico, cui il B. prestò molta attenzione (fondò il 10 maggio 1929 all'Hotel de Russie di Roma il primo cineclub italiano).
Il travaglio di questi anni intensi e felicemente operosi confluisce nella rivista "900" Cahiers d'Italie et d'Europe, che il B. fonda insieme con C. Malaparte nel 1926 per la casa editrice La Voce (col quinto quaderno, autunno 1927, subentrò l'Editrice Sapientia di Roma. La rivista, precedentemente trimestrale, divenne mensile dal luglio 1928 al giugno 1929, data dell'ultimo fascicolo). C'è chi ha voluto vedere in questa nuova esperienza un passo indietro rispetto alle audacie avanguardistiche precedenti e un segno della sua incipiente chiusura in schemi precostituiti. Parrebbe più giusto scorgervi invece una testimonianza di continuità, e, nello stesso tempo, un chiarimento delle prospettive teoriche e culturali dello scrittore. Le due nozioni intorno alle quali ruota l'esperienza - almeno per la parte che direttamente vi ebbe lo stesso B. - sono quelle di "novecentismo" e di "realismo magico". Da una parte, infatti, l'esigenza di fondo è quella di ricollocare l'arte e la cultura in una dimensione che corrisponda alle realtà nuove del secolo. Si apre ormai, secondo il B., la terza fase della civiltà umana. La prima, quella classica, è arrivata fino a Cristo. La seconda, quella romantica, va dal "discorso della montagna" fino alla guerra mondiale. La terza, quella moderna, antiromantica e anticlassica insieme, si è aperta appena alcuni anni dopo la guerra mondiale. Il B. sente che compito della sua generazione è di aprire le porte alla terza epoca dell'umanità occidentale (cfr. Fondements,Cahier d'hiver, 1926-27).
In questo senso, come egli scrive nella Justification del '26, "la tâche la plus urgente et la plus précise du vingtième siècle sera de bâtir à nouveau le Temps et l'Espace", e di rimetterli nel posto che le esperienze idealistiche dei decenni precedenti avevano loro strappato. D'altra parte, però, questa ricostituzione oggettiva dell'universo spazio-temporale deve permettere di separare la materia dallo spirito, che anche in questo caso le esperienze precedenti avevano confuso, e di conseguire "la redécouverte de l'Individu, sûr de soi, sûr d'être lui-même et pas un autre, avec ses certitudes et ses responsabilités, avec ses passions et une morale universelle". Questo afflato di oggettività e di certezza - che distingue ad esempio nettamente il "novecentismo" dal futurismo, restato lirico e soggettivo - non esclude ma rilancia la funzione insostituibile dell'arte, la quale, senza rinchiudersi in nessuna posizione di poetica ma usando come solo strumento l'immaginazione, riuscirà a riscoprire, nell'universo esterno così ricostituito, quei miti eterni dell'uomo senza i quali lo spirito si avvilisce nel tran tran dell'esperienza quotidiana e piccolo-borghese: "Le monde imaginaire viendra sans cesse féconder et enrichir le monde réel". Ma la capacità di riscoprire nel mondo esterno le segrete corrispondenze fra individuo e individuo, fra coscienza e coscienza, è già qualcosa di più di un semplice realismo sia pure rinnovato: è fare operazione magica, diciamo pure surreale: "Car, si l'art du vingtième siècle réussit à faire cet effort de construire à nouveau et de mettre au point un monde réel en dehors de l'homme, ce sera afin d'arriver à le dominer, et même à en bouleverser les lois à son gré. Or l'art de dominer la nature, c'est la magie". Ma una magia che, a sua volta, si sforza di rispettare rigorosamente le leggi oggettive del mondo entro cui si manifesta e che, sebbene talvolta mostri di poterle scavalcare, continua a muoversi tuttavia all'interno della rigida impalcatura ossea, che Tempo e Spazio forniscono. Il B. è consapevole che questo suo sforzo di ridurre l'oggettività ad una geometria può portarlo direttamente a una posizione neoclassica (e non v'è dubbio che a questo punto sia possibile considerare effettivamente non spenta in lui l'antica educazione classicista, come rivela la sempre vigile coscienza stilistica e formale). Ma da una parte stima necessario andare al di là delle pur fondamentali esperienze avanguardistiche europee del periodo 1900-14, dall'altra gli sembra opportuno che l'eredità avanguardistica ricevuta trovi nuova forza in un contesto stilistico e tematico, che necessariamente deve aspirare alla classicità, alla compiutezza, al definitivo. Così egli definisce perfettamente la propria situazione storica e culturale, scrivendo ancora nella Justification del '26: "Peut-être qu'en ce moment nous sommes les enfants de l'antithèse entre l'esprit cubiste et l'esprit futuriste... ou plutôt d'un effort de réaction contre les deux". Ma più esattamente, forse, egli circoscrive l'ambito di un gusto e di una scelta stilistica, quando fa appello ad una grande esperienza pittorica del passato: "I pittori che più attraggono i nostri gusti di novecentisti, che meglio corrispondono con la loro alla nostra arte, sono pittori italiani del Quattrocento: Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca. Per quel loro realismo preciso, avvolto in un'atmosfera di stupore lucido, essi ci sono stranamente vicini". Elementi surrealistici sono senza dubbio presenti in questo tipo di esigenza, e sarebbe interessante studiare quali punti di contatto effettivamente esistano fra il B. e le contemporanee esperienze dell'avanguardia francese. Certo è che solo due anni prima dell'apparizione di "900", Breton aveva pubblicato il primo Manifesto del Surrealismo (1924), di sicuro non ignorato dal B., nel quale ricorrono posizioni non lontane dalle sue. Soupault, uno dei fondatori del surrealismo, è tra i collaboratori di "900"; e in generale non è difficile accorgersi che la rivista si muove nell'ambito della cultura francese d'avanguardia, con un diretto riferimento talvolta al dibattito parigino. La rivista in questo senso è interessante, perché testimonia di questo tentativo di apertura sulla cultura europea, che non è né il solo né il più maturo di questi anni (si pensi all'esperienza del Baretti), ma che in "900" assume un timbro più marcatamente avanguardistico. La rivista, redatta per qualche tempo in francese, era curata da un comitato composto, oltre che dal B., da R. Gómez de la Serna, J. Joyce, G. Kaiser, P. Mac Orlan, e fra i collaboratori, oltre agli italiani Barilli, Alvaro, E. Cecchi, Spaini, ecc., contava personalità come Ehrenburg, Soupault, N. Frank, Mouratoff. Ospitò disegni di Picasso. Non si può nascondere, però, che quest'aura di cultura cosmopolita rivelava assai spesso un coacervo di vecchiumi e di tradizionalismi italici mai completamente scontati, e pronti a riemergere, quando ad esempio si trattasse di definire funzioni e attributi del letterato (come vedremo meglio più avanti, e come emerse chiaramente nelle polemiche con il gruppo di "Strapaese"). Si ha insomma l'impressione, e proprio dalle letture più impegnative di "900", che nel B. il rapporto con le esperienze più avanzate dell'avanguardia europea si realizzi sotto forma di "alleanza", più che di simbiosi profonda o di autonoma partecipazione, lasciando perciò inalterati certi caratteri della sua esperienza letteraria, a spiegare i quali dovremmo forse risalire fino al suo apprendistato di carducciano (non senza sostanziose inclinazioni verso l'altro grande dell'immediato passato, Gabriele D'Annunzio).
Il sodalizio iniziale del B. con C. Malaparte alla direzione di "900" si era presto rotto, passando Malaparte con notevole disinvoltura alle posizioni tradizionaliste e ortodosse dell'Italiano, e da queste attaccando con violenza il "cosmopolitismo" e l'esterofilia di "900". Ne nacque una polemica, condotta da ambedue le parti senza esclusione di colpi, che doveva mettere in subbuglio per alcuni anni il mondo letterario italiano. Tuttavia di essa non possiamo ricordare molto di significativo. Sebbene vi fossero coinvolti problemi di grande importanza, quali il carattere provinciale della letteratura italiana e la necessità ormai irrimandabile di uno svecchiamento, le argomentazioni che le due parti vi portarono non si sollevarono al di sopra di una reciproca, violenta animosità. Agì senza dubbio da freno, in questo caso, il rinvio alle ragioni politico-culturali del regime fascista, che era comune ai due contendenti e sia pure con sfumature e accezioni diverse. Considerare infatti il destino della cultura italiana legato a quello del fascismo portava inevitabilmente ad appiattire i termini della questione.
Gli anni '30 si aprono con la consacrazione ufficiale del B. a scrittore di grande fama e a personaggio ufficiale. Nel '29 assume la direzione della nuova serie dell'Italia letteraria, laquale, accanto alla Fiera letteraria di Fracchia, svolge in quegli anni una funzione rilevante nella diffusione della tematica culturale presso un pubblico abbastanza vasto (il B. vi portò l'impronta della sua posizione novecentista, inaugurando la collaborazione con un articolo, che troviamo anche nel fasc. n. 4, ottobre 1928, di "900"). Nel 1930 entra all'Accademia, d'Italia. Nel '33 fonda con P. M. Bardi la rivista Quadrante. Come all'estero, anche in Italia svolge un'intensa attività di conferenziere, di cui rappresentano i risultati migliori la commemorazione di Pirandello e un discorso su Verga, tenuti nella R. Accademia d'Italia rispettivamente il 17 genn. 1937 e il 15 febbr. 1940, il discorso tenuto a Recanati il 29 giugno 1937 per il centenario di G. Leopardi, i discorsi su Scarlatti e Verdi, tenuti rispettivamente a Siena il 15 sett. 1940 e a Venezia il 2 febbr. 1941. Infine, nel corso del decennio appaiono i tre romanzi più importanti e ambiziosi (se non sempre i più riusciti) della sua carriera di scrittore: Il figliodi due madri (Roma 1929), Vita e morte di Adria e dei suoi figli (Milano 1930), Gente nel tempo (ibid. 1937). Sono tre vere e proprie "summe" della sua posizione culturale e teorica.
Il figliodi due madri narra un caso eccezionale di trasmigrazione della personalità. Un bambino, di nome Mario, figlio di un agiato borghese romano, Mariano Parigi, e della signora Arianna, durante una passeggiata, che egli compie in occasione del suo settimo compleanno, si addormenta in un parco, e al risveglio non mostra di riconoscere né l'istitutrice né sua madre. Anzi, di più: non solo non riconosce in Arianna sua madre, ma le chiede di accompagnarlo subito a casa sua, dove senza dubbio lo sta aspettando la "mamma". Arianna, dapprima sgomenta, poi disperata, deve cedere alle richieste sempre più pressanti del piccolo e, seguendo le sue pur incerte indicazioni, giunge fino ad una strada della vecchia Roma e a un appartamento, ivi situato, che Mario (il quale sostiene di chiamarsi Ramiro) riconosce come proprio. Arianna intanto appura che quell'appartamento risulta abitato da una tale signora Luciana Veracina, la quale, come si verrà a sapere a poco a poco, esattamente sette anni prima, nella stessa ora in cui nasceva Mario, aveva perso il suo bambino, di nome Ramiro. Prima ancora che la Veracina rientri a Roma, Arianna ottiene la inconfutabile e drammatica certezza che Mario altri non è che un Ramiro reincarnato: la gente della strada lo riconosce come tale senza ombra di dubbi. Quando Luciana Veracina rientra a Roma, viene a conoscere l'incredibile avvenimento con tranquillità inaspettata. Per lei il ritorno di Ramiro, sebbene la colmi di una gioia immensa e quasi estatica, è un fatto da lungo tempo atteso e comunque tutt'altro che innaturale: assai più mostruoso le era sembrato perderlo. Ella si riprende Ramiro: non prende neanche in considerazione la possibilità di dividerlo con altri, e solo dopo aver constatato l'immenso strazio di Arianna stabilisce di chiamare questa, che lei ormai considera sua amica, a prender parte al possesso di Ramiro. Intanto, però, il meccanismo della burocrazia e della giustizia, la pazza curiosità della folla, il mediocre sentire degli uomini si scatenano intorno al caso eccezionale. Mariano Parigi vuole a ogni costo riprendersi il figlio: intervengono gli avvocati, gli psichiatri. Nel groviglio di fatti che occupa la seconda parte del romanzo, Ramiro viene di nuovo perduto, rapito. Luciana e Arianna si mettono alla sua ricerca, solidali. Ma Arianna, stroncata dal dolore, muore; e Luciana, proprio mentre credeva di poter riabbracciare suo figlio, se lo vede scomparire di nuovo per un altro caso romanzesco, - e questa volta, si suppone, per sempre.
In Vita e morte di Adria e dei suoi figli protagonista è, almeno all'inizio, la straordinaria bellezza di una donna, che al culto della propria perfezione ha dedicato la vita intiera. Il marito, infatti, e i suoi due bambini, Tullia e Remo, pur teneramente amati, vengono da lei tenuti lontano perché non incrinino con l'onda degli affetti la compattezza olimpica del suo bel volto e delle sue splendide forme. Ma a un certo punto Adria s'accorge che, per quanto ella faccia, intorno a lei il sommovimento delle passioni e delle cose rischia comunque di costringerla a una resa: dapprima, lo scoppio di pazzia sanguinaria di un suo tenace ammiratore deluso, poi, la profferta tenera e timida di un giovane affascinato dalle sue grazie, infine, l'improvvisa rivelazione del Tempo, che comunque corre inesorabile. Adria intende difendere la sua perfezione ad ogni costo. Abbandona la famiglia, si ritira in una casa a Parigi, con poca servitù, si sottopone ad una lunga segregazione volontaria: nessuno potrà più vedere Adria, neanche lei stessa, perché tutti gli specchi in quell'appartamento sono stati soppressi. Da quella remota prigione (che, per un paradosso non casuale, è collocata all'interno di una città-metropoli), ella manda di tanto in tanto a sua figlia Tullia ermetici messaggi, dai quali però traspare una sempre più profonda coscienza delle realtà profonde dell'essere; ma, a parte queste missive e alcune comunicazioni telefoniche, ella rifiuta ogni contatto. Intorno a lei gli avvenimenti grandi e piccoli continuano a succedersi: la grande guerra, la morte del marito, i vari casi accaduti ai due figli, e poi la morte di questi. Ma Adria resta. Finché una risoluzione del Comune di Parigi, che ordina il risanamento del quartiere ove Adria abita, e le intima lo sfratto, la spinge all'atto estremo: Adria, pur di non rientrare tra i vivi, pur di compire la sua opera perfetta, dà fuoco alla sua casa, brucia con essa, e solo nell'atto di sparire tra le fiamme solleva al suo viso l'ultimo specchio superstite, gelosamente custodito per tanti anni in una scatola sigillata.
Gente nel tempo è la storia di una famiglia, in cui si scopre l'esistenza di un ritmo inesorabile: ogni cinque anni muore un suo componente. Dapprima la vecchia nonna, la "grande vecchia", dominatrice della famigliola; poi suo figlio; poi la moglie di questo; poi un altro figlio; poi il figlio appena nato di una delle due ragazze superstiti; poi una di queste, suicida per salvare l'altra... Quest'ultima resta ancora viva, ma ormai sconvolta fino alla pazzia dal suo attaccamento alla vita. La narrazione trova i due fulcri fondamentali nella descrizione, da una parte, della dispotica volontà della "gran vecchia", a cui, si suppone, va forse fatta risalire la matematica rigidità della scansione con cui la famiglia si estingue; dall'altra, nell'analisi delle sofferenze atroci delle due fanciulle, Nora e Dirce, che per prime conoscono il destino cui è sottomessa la loro famiglia e vedono la propria sopravvivenza affidata alla morte delle persone più care (il figlio di una di loro, ad esempio) e arrivano fino al punto di desiderare la morte l'una dell'altra per poter vivere ancora cinque anni.
L'esposizione delle trame dei tre romanzi maggiori del B. serve a indicare innanzi tutto quali siano gli elementi basilari del suo procedimento inventivo. Si tratta, come si vede, di storie in cui, intorno a un fatto eccezionalissimo, anzi supernaturale, viene fatto ruotare un mondo di affetti e di passioni, il quale, ove non fosse sollecitato da quel motivo fuori del comune, potrebbe dirsi normale. Il rapporto fra realtà e sopra-realtà è determinato da questo: che proprio l'intervento di un fatto o di un atteggiamento eccezionali scatena un'onda di sofferenze, ma anche di affetti vivi, di profonde e sincere lacerazioni, che probabilmente sarebbero restati in caso contrario soffocati sotto la coltre grigia e pesante delle abitudini quotidiane. Messi invece di fronte all'inopinato manifestarsi del miracolo o del mito - oggi tanto più inaspettato e dunque tanto più sconvolgente, - gli uomini riscoprono in se stessi profondità celate, eroismi che nessuno avrebbe supposto, una capacità di sacrificio che sembra di altre età. Il B. svolge queste sue tematiche con una scrittura precisa, attenta, oggettiva, ma non certo geometrica, ché anzi il frequente bagliore di certe lucidità espressive ha richiamato persino il nome di Gabriele D'Annunzio. I punti più alti raggiunti sono nelle descrizioni degli stati psicologici eccezionali che si producono in quei personaggi i quali più da vicino sembrano aver guardato nel grande pozzo senza fondo del magico - al di là delle cose che vengono definite reali e sono in verità solo superficiali: nella Veracina, per esempio, posseduta da quel suo sotterraneo e incrollabile rapporto affettivo con il figlio, che va al di là del tempo e dello spazio, ed è destinato a sconfiggere persino la morte; in Adria, tesa al suo ideale di perfezione assoluta, cui nulla è disposta ad anteporre; nella "gran vecchia", che sembra dominare anch'essa, con uno sforzo di volontà superiore, le regole imperscrutabili del tempo, della vita e della morte. Più debole è il B. nella delineazione delle parti e dei personaggi secondari, la cui funzione è appunto quella di restituire alla vita quotidiana gli effetti e i riflessi dell'assoluto: banalizzanti risultano perciò sia il groviglio di fatti, che cresce intorno al "figlio di due madri", sia le storie personali di Tullia e di Remo, staccate da quella della madre Adria, sia, perfino, taluni aspetti delle vicende di Nora e di Dirce, che pure sono protagoniste in Gente nel tempo. Laddove il B. scende a definire più precisamente e programmaticamente la concatenazione degli avvenimenti, è facile che scada nel gioco puramente meccanico delle rispondenze prodigiose: e questo è un limite grave della sua fantasia, un po' troppo arida e secca, che cresce si può dire da un romanzo all'altro (Il figlio di due madri è meno intenzionale di Adria, e Gente nel tempo è fra tutti il più voluto e costruito: sebbene poi per altri versi Adria sia forse quello che contiene l'intuizione più geniale ed affascinante, il culto della bellezza perseguito fino all'isolamento e alla morte), e denuncia un'involuzione progressiva della formula. Un altro aspetto della posizione del B. si chiarisce nella lettura di questi tre romanzi: egli che aveva voluto essere scrittore moderno e popolare, nella realtà dei suoi risultati stilistici e formali si rivela scrittore di cifra difficile e aristocratica, molto attento ai valori dell'espressione letteraria, e tutt'altro che disposto ad una confusione di piani con altre attività e interessi umani e sociali. In altri termini possiamo dire che nel B. la tempra del letterato tradizionale persisteva assai forte sotto la scorza dell'avanguardista, e che la patina classica, di cui sa preziosamente abbellire la sua scrittura, gli deriva non soltanto dalla ricerca di una perfezione formale ma anche dalla precisa consuetudine con le buone esperienze letterarie del passato.
Sulla base di questa concezione letteraria, come avevamo spiegato il rapporto del B. col fascismo, così possiamo spiegare il suo successivo dissidio con esso. Chi arrivasse infatti come lui a scrivere, con trionfante orgoglio di letterato: "Io ammetto che in momenti di superiore necessità si mandi uno scrittore a zappare i campi; ma mai e poi mai si permetta al burino di venire a dettare legge in materia di lettere e di pensiero. Dico del burino come potrei dire dell'uomo d'armi, dell'amministratore, del poliziotto, ecc." (L'Italialetteraria, n.s., XII [1929], n. 1), avrebbe potuto con la stessa facilità schierarsi a favore del fascismo tutore dell'ordine e garante quindi della "libertà della cultura" (non stupisce che il B. abbia pronunciato nel '19 un giudizio favorevole al conservatorismo politico-letterario della Ronda), e contro il fascismo, quando avesse avuto sentore di una inframmettenza dei "burini" del regime nelle cose della letteratura. Intorno a risentimenti e riflessioni di questo genere (in cui il concetto di autonomia dell'arte da difendere è più vicino alle placide consuetudini del letterato italiano tradizionale che alle animose accensioni degli avanguardisti europei contemporanei) matura il suo distacco e poi la sua opposizione nei confronti del regime. Nel 1938 rifiutò la cattedra di letteratura italiana all'università di Firenze, tolta ad A. Momigliano, per l'applicazione delle leggi razziali. Nel novembre del 1938, dopo la commemorazione ufficiale di Gabriele D'Annunzio, tenuta a Pescara il 27 di quel mese, il B. viene espulso dal Partito nazionale fascista e sospeso per poco più di un anno da ogni attività di giornalista e di scrittore. Reintegrato nella professione, divenne condirettore della rivista Domus e collaboratore fisso del Tempo settimanale, su cui tenne dal '39 al '43 una rubrica molto seguita, Colloqui.
Dopo la conclusione della seconda guerra mondiale il B., avviandosi ormai verso la settantina, tentò vanamente di dar corpo a una nuova fase della sua attività, impegnata questa volta in senso direttamente civile e antifascista. Divenuto collaboratore di giornali di sinistra, quali Vie nuove e L'Unità (cuidiede l'ultimo suo lavoro narrativo, il racconto Idoli, pubblicato nel 1951), si presentò alle elezioni del 18 apr. 1948 nelle liste del Blocco del popolo e venne eletto senatore. Ma la sua elezione, con un rigore che non fu usato nel confronto di altri, venne invalidata per il suo passato fascista e la sua appartenenza alla Accademia d'Italia. Questo colpo, e malattie di vario genere che lo colpirono in quegli anni, e la vecchiaia lo sottrassero sempre di più all'attività militante e alla produzione letteraria. Nel '47 era stata presentata a Venezia la sua Venezia salvata, mediocre rielaborazione della Venice preserved di T. Otway. In Sipario (agosto-settembre 1949) apparve la sua pièce drammatica Innocenza di Camilla. Non poté neanche accudire completamente alla ristampa in volume dei suoi scritti di carattere artistico, apparsi sotto il titolo di Appassionata incompetenza (Note su cose d'arte), Venezia 1950, e a quelli di carattere musicale, ugualmente raccolti nel volume intitolato Passione incompiuta (Milano 1958). Gli ultimi anni del B. furono tristi, per gli acciacchi della vecchiaia e l'isolamento in cui lo scrittore e la sua opera, nonostante l'impegno di alcuni vecchi e fedeli amici, erano caduti. Piccola consolazione fu per lui l'assegnazione del premio Strega per l'Amante fedele (Milano 1953), una raccolta di racconti già editi. Si spense a Roma il 21 luglio 1960.
Il B. svolse anche un'intensa attività di curatore e traduttore di testi di vari autori: Apuleio, Dumas, Molière, Stendhal, Aretino, Poliziano, Pulci, ecc.
Alla musica il B. si era interessato fin dalla giovinezza, studiandola, di nascosto della famiglia, per proprio conto e seguendo con sensibilità e attenzione il percorso di quel rinnovamento del gusto musicale che nei primi decenni del secolo andavano effettuando Pizzetti, Casella, Malipiero e, in parte, Alfano e Respighi. Nel 1919 diede il suo primo contributo diretto alla creazione musicale con quattordici brevissimi pezzi per alcune scene del suo dramma Siepe a nord-ovest; continuò poi a comporre musiche da camera, sinfoniche e ancora di scena per altri suoi lavori teatrali, Nostra Dea,Valoria,Nembo e Cenerentola (quest'ultimo scritto per l'VIII Maggio musicale fiorentino, 1942).
La sua attività di musicista, tuttavia, anche se svolta costantemente, fu assai meno intensa e significativa di quella di scrittore, della quale sembra essere stata, talvolta, un "completamento" sonoro. Gran parte della sua musica, spesso eseguita in concerti, è rimasta inedita; fra quella eseguita vanno ricordati un'Aria per violino e pianoforte, Tre preludi in re minore per violino, pianoforte e violoncello, Due tempi per quartetto d'archi, Sei preludi e finale per quartetto d'archi, Danza in cinque tempi per quartetto d'archi e pianoforte, Partita per otto, strumenti, Piccola suite per quintetto d'archi, flauto, clarino, pianoforte e piccola batteria.
Le composizioni stampate si limitano, oltre alla Scena di Arlecchino per Eva ultima (in Due favole metafisiche, Milano 1940) e alle altre musiche di scena per i lavori già citati (in Teatro, 2 volumi, Milano 1947), a Tre racconti per pianoforte (Milano 1934), alla Suite popolare per pianoforte (Roma 1937), alla riduzione pianistica dei Balli per il terzo atto di Nostra Dea (Roma 1938) e a Tre preludi per pianoforte (Milano 1941). Nelle pagine pianistiche sono ravvisabili vaghe somiglianze stilistiche che sembrerebbero avvicinarlo a Casella e a Malipiero, dei quali il B. subì particolarmente l'influsso, nell'attenzione alla linearità del discorso musicale "ristretto", costruttivo e continuo, rifuggente da qualsiasi svolgimento tematico. Espressioni vive e dirette della sua sensibilità e di uno stato d'animo essenzialmente poetico appaiono le brevi musiche di scena, per lo più impressionistiche, volte a sottolineare con suggestiva fantasia imomenti salienti dell'azione. Più che nel campo prettamente musicale il B., dunque, esplicò le energie del suo fervidissimo ingegno in quello della critica e della saggistica, di cui sono testimonianza gli articoli scritti per La Rassegna musicale e per il Tempo, in qualità di collaboratore e di critico musicale, il saggio su G. F. Malipiero (scritto nella primavera 1940 e pubblicato a Roma nel 1941 e a Milano nel 1942), i discorsi celebrativi su Scarlatti,Verdi e Pergolesi (pronunciati il primo alla Accademia musicale chigiana di Siena il 15 sett. 1940, il secondo al Teatro La Fenice di Venezia il 2 febbr. 1941 e il terzo ancora all'Accademia musicale chigiana il 15 sett. 1942, tutti ripetutamente pubblicati, poi raccolti nel volume Introduzioni e discorsi,1936-1942, Milano 1945, e nella silloge Passione incompiuta, Milano 1950) e infine tutti i suoi scritti vari sulla musica - questa sua "passione incompiuta" -, che compaiono nella raccolta omonima poc'anzi citata. La raccolta copiosa costituisce un insieme singolare, in cui si trovano "cronache e polemiche, riflessioni e saggi sugli avvenimenti e gli aspetti più importanti della musica durante quarant'anni: dal 1910 al 1950, che furono anni cruciali e decisivi, inquieti e drammatici, contraddittori e spregiudicati così per la musica come per le altre arti" in Italia (vedi recensione, nella Rassegna musicale, XXIX [1959], pp. 190 s.). Degli scritti compresi nel capitolo Forme e teorie meritano di essere ricordati quelli intitolati Della musica e dello scriver musica (p. 81) e Meditazione intorno alla musica (p. 87)- precedentemente un articolo solo, apparso sulla Rassegna musicale, VII (1934), pp. 401-404, con il titolo Meditazioni -, nei quali il B. definisce in modo originale il rapporto fra lo scrittore e il musicista, affermando che "scolpire sta a dipingere come lo scrivere sta a comporre" e che anche allo scrittore può accadere "di sentirsi arrivato a un limite ove la parola ha una esattezza troppo tirannica, ove alla visione occorre un mezzo di espressione meno simbolico e insieme più fluido; allora è, che la parola si sfa e nello stesso tempo si ricompone in suono: lo scrittore va al pianoforte e compone un preludio" e può in quell'atto "...al momento giusto nel compor musiche ritrovare una sua nuova libertà" (pp. 84 s.).
Nel capitolo Vite nella musica sono radunate piccole, gustose biografie di Berlioz (1913), di Gluck (1914), di G. Sgambati, ecc., dal carattere ora divulgativo ora d'informazione critica, nelle quali però non mancano tratti d'incisivo giudizio. Le doti peculiari di acuto e fine critico emergono completamente nei quattro saggi fondamentali su Scarlatti, Verdi, Pergolesi e Malipiero già citati e che, insieme con quelli su Palestrina (1914) e Ravel (1939), formano il capitolo Profili. Fra tutti, posti sullo stesso piano d'alto livello per la "forte originalità del pensiero e il coraggio del giudizio, sicuro e penetrante, sia nei confronti dei musicisti antichi come Alessandro Scarlatti o Palestrina, sia (con una prontezza d'eco anch'essa non comune) nei confronti di musicisti contemporanei come Ravel o Malipiero" (cfr. recensione), si è rivelato durevolmente felice e convincente il saggio su Verdi, dal B. definito "il terrestre", il primo musicista, cioè, che "ha portato di colpo la musica dal cielo in terra", sottraendola a qualsiasi risoluzione trascendentale.
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Opere. Critica, saggistica, divagazioni autobiografiche: Meditazioni intorno alla guerra d'Italia e d'Europa, Milano 1917; La donna del Nadir, Roma 1924; Il neosofista e altri scritti (1920-22), Milano 1928; Stato di grazia. Interpretazioni, Roma 1931; Novecentismo letterario, Firenze 1931; Pirandello,Leopardi,D'Annunzio, Milano 1938 (poi in Sette discorsi, ibid. 1942); L'avventura novecentista, Firenze 1938; Arturo Martini, Milano 1939; Verga,L'Aretino,Scarlatti,Verdi, ibid. 1941 (poi in Sette discorsi, cit.); Introduzione all'Apocalisse, Roma 1942; Gian Francesco Malipiero, Milano 1942; Dignità dell'uomo (1943-46), ibid. 1946; Appassionata incompetenza, Venezia 1950; Passione incompiuta, Milano 1958; Introduzioni e discorsi, ibid. 1964. Poesie: Egloghe, Torino 1904; Verseggiando, Palermo 1905; Odi siciliane, ibid. 1906; Odi, Modena 1910; Il purosangue - L'ubriaco, Milano 1919 (ediz. separata de Ilpurosangue, ibid. 1943). Teatro: Costanza, Torino 1905; La piccola, Milano 1916; Siepe a nord-ovest, Roma 1923; Primo spettacolo (La guardia alla luna, Siepe a nord-ovest), Milano 1927; La famiglia del fabbro,ibid. 1932; Teatro (La guardia alla luna [1916], Siepe a nord-ovest [1919], Nostra Dea [1925], Minnie la Candida [1927], Valoria ovvero la famiglia del fabbro [1932], Bassano padre geloso [1933], La fame [1934], Nembo [1935]), Roma 1936 (2 voll., Milano 1947); Cenerentola, Roma 1942; Venezia salvata, Venezia 1947 (col titolo Venezia salva, Milano 1949); Innocenza di Camilla, in Sipario, ag-sett. 1949. Narrativa: Socrate moderno, Torino 1908; Amori, ibid. 1910; Sette savi, Firenze 1912; Dallo Stelvio al mare, ibid. 1915; La vita intensa, ibid. 1920; La vita operosa, ibid. 1921; Viaggi e scoperte, ibid. 1922; La scacchiera davanti allo specchio, ibid. 1922; Eva ultima, Roma 1923; La donna dei miei sogni e altre storie d'oggi, Milano 1925; L'Eden della tartaruga, Roma 1926; Donna nel sole e altri idilli, Milano 1928; Il figlio di due madri, Roma 1929; Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Milano 1930 (col titolo Vita e morte di Adria, ibid. 1958); Mia vita,morte e miracoli, Roma 1931; "522". Storia di una giornata, Milano 1932; Primi racconti (1905-1914), ibid. 1934; Galleria degli schiavi, ibid. 1934; Noi,gli Aria, Roma 1934; Pezzi di mondo, Milano 1935; Gente nel tempo, ibid. 1937; Giro del sole [Viaggio d'Europa,La via di Colombo,Le ali dell'ippogrifo], ibid. 1941; Notti, Roma 1945; L'acqua, ibid. 1945; Ottuagenaria, ibid. 1946 (quest'ultimi tre racconti, poi ne L'amante fedele, Milano 1953). Tra le opere scelte, si ricordano Racconti e romanzi, a cura di P. Masino, con introduzione di C. Bo, 2 voll., Milano 1961.
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A. Asor Rosa