matrimonio
Unione tra due persone sancita in forma ufficiale davanti a un ufficiale di stato civile o a un ministro del culto.
Per la Mesopotamia, mentre si sa poco delle forme del m. presso i sumeri, il codice di Hammurabi ci da informazioni per il periodo babilonese: la validità del m. e subordinata a un contratto scritto; il marito compera la moglie, ma questa, se rimane vedova, dispone liberamente della propria dote. Il divorzio avviene per ripudio da parte del marito, ma può chiederlo, in caso di maltrattamenti, anche la moglie. Nell’India vedica il m. era, di regola, monogamico e indissolubile, contratto per libera scelta dagli interessati, previo pagamento di un prezzo da parte del marito, mentre la moglie portava una dote. La donna, considerata «metà» del marito e signora della casa, partecipava ai riti religiosi a fianco del consorte, ma non alla vita pubblica. La sua posizione andò tuttavia peggiorando in seguito. In tempi postvedici prevalgono i m. tra bambini, combinati dai genitori; la sposa rimane nella casa paterna fino alla pubertà. Dall’inizio dell’epoca induistica vige il divieto di sposare un individuo di casta inferiore (onde l’endogamia di casta). Fino al 1829 vi era il costume che le vedove salissero sul rogo accanto alla salma del marito (➔ ). Nella Persia avestica il m. era consensuale, monogamico e costituiva un dovere religioso. L’uso del m. tra stretti consanguinei è conservato tuttora dai parsi, ma limitatamente ai primi cugini. Nell’antica Cina, il m. era pattuito dalle famiglie, attraverso i servizi di un mediatore; era proibito non solo in caso di parentela, ma anche di uguale nome di famiglia; poteva avvenire anche in età infantile. Il m. era monogamico, ma il concubinato era consentito al marito, che era anche il solo a poter procedere al divorzio. Non molto dissimili erano le forme del m. nell’antico Giappone. Il m. musulmano è un contratto civile raccomandato dalla religione, ma che non implica riti religiosi. L’islamismo ammette la poligamia, limitandola tuttavia (rispetto alle usanze arabe preislamiche) al numero di quattro mogli. Alcune sette islamiche ammettono anche il m. temporaneo, che si scioglie da sé al termine convenuto, ma può essere prorogato con nuovo contratto. Presso gli antichi ebrei, nella concezione biblica il m. aveva notevole importanza, come base della famiglia e premessa della conservazione del popolo. Primo atto di esso era il versamento di un prezzo d’acquisto (mohar) da parte del futuro sposo al padre della futura sposa che a sua volta provvedeva a una dote. L’uso di un contratto scritto risulta soltanto per il periodo tardo. La poligamia era consentita e abitualmente in uso. Una serie di proibizioni concerneva il m. fra stretti consanguinei; d’altronde il fratello subentrava in alcuni casi al marito se quest’ultimo moriva. Riprovati erano i m. con stranieri, per timore di assimilazioni. L’adulterio era severamente punito. Il marito poteva ripudiare la moglie. Il diritto e le consuetudini matrimoniali ebraiche hanno subito profonde modifiche nel tempo, fino all’abolizione (non ubiquitaria) della poligamia e alla trasformazione del ripudio in divorzio.
In Grecia le forme più antiche di m., quella per ratto e quella per compera della sposa, sono già attenuate notevolmente nell’età omerica: il ratto, che avviene d’accordo tra lo sposo e il padre della sposa, sussiste solo a Sparta e la compera comincia a cedere il passo dinanzi alla promessa solenne che il padre della futura sposa fa al richiedente. Il m. era prevalentemente monogamico, ma non sembra che vi fossero leggi a proibire la poligamia. Scopo del m. era esplicitamente la procreazione di figli legittimi. Il m. avveniva generalmente in età piuttosto giovanile per la donna e assai più adulta per l’uomo; i m. tra consanguinei erano riprovati, e si tollerava solo quello tra fratellastri e tra suocera e genero. Ai non cittadini era permesso il m. solo nel caso in cui fosse stata concessa l’epigamia, privilegio di solito elargito non al singolo, ma a un intero Stato, che garantiva l’acquisizione del diritto di cittadinanza per l’eventuale prole. Ci sono poco note le concezioni e usanze relative al m. nell’Egitto antico. Sembra che il m. fosse di regola monogamico, eccezion fatta per il re e, forse, per gli strati più alti della società. Nell’Egitto tolemaico, oltre al m. di tipo greco che dava luogo alla redazione di una convenzione nuziale, vi era il m. egiziano del quale conosciamo due forme: l’una di pieno diritto, l’altra di minore diritto ovvero, secondo altri, risolventesi in un rapporto di concubinato. Varie sono le differenze tra m. egiziano e m. greco; di queste la principale è che tra gli egizi il m. tra fratelli è lecito e incoraggiato, almeno a partire dalla XXI dinastia e limitatamente alle famiglie regnanti.
Nell’antica Roma, il m. è il rapporto di convivenza dell’uomo e della donna con l’intenzione di essere marito e moglie. I due requisiti del m. romano sono dunque il consenso, non solo iniziale, ma duraturo e continuo, e la convivenza effettiva dei coniugi (una volta iniziata questa, il rapporto perdurava anche se di fatto i coniugi abitavano separati, come accadeva tra persone di rango consolare). Nell’età cristiana, e quindi nella legislazione giustinianea, questa fisionomia tipica del m. romano è già fortemente alterata; Giustiniano è incline ad ammettere l’esistenza del rapporto indipendentemente dalla convivenza comune. In compenso, si afferma l’importanza delle forme, essenziali per la sua validità: cosi, almeno per alcuni casi, la confezione degli strumenti dotali. Nel diritto bizantino, in omaggio al precetto della Chiesa orientale che considerava peccato la celebrazione delle nozze senza la benedizione, si lasciarono dapprima libere le parti di celebrare le nozze «davanti agli amici»; più tardi, la benedizione religiosa fu resa indispensabile per l’esistenza del matrimonio. Requisito perché il m. sia legittimo è la capacità civile e la hanno solo i cittadini romani tra loro. Erano iniustae nuptiae, prima della lex Canuleia del 445 a.C., le nozze tra patrizi e plebei, obbligati a un’endogamia di classe; non era m., ma contubernium, l’unione stabile tra schiavo e schiava. Altro requisito è la capacità naturale: non possono contrarre m. gli impuberi e, nel diritto giustinianeo, gli evirati. È richiesto infine il consenso del paterfamilias: essenziale in origine, fu poi ridotto a un assentimento passivo. Il m. si scioglie o per morte di uno dei coniugi o per venir meno della capacità o del consenso.
Mentre nella Gallia i celti, forse sotto l’influsso del sostrato preceltico, davano alla donna una posizione di favore anche nella vita pubblica, nelle isole britanniche la degradavano, a quanto sembra, a comune proprietà dei maschi di una famiglia.
Non facile a essere fissata nei suoi termini esatti è la concezione del m. nel mondo germanico, in genere visto come atto intergentilizio, di cui la donna era oggetto; istituto in cui il maggiore interessato non è tanto il marito, quanto il capo della famiglia di lui.
La concezione germanica del m. non rimase a lungo intatta; inserita nel mondo italico, non poté non risentire l’influenza della tradizione latina e, soprattutto, della Chiesa, che già nella fase classica della patristica aveva fissato i criteri fondamentali di una propria concezione dell’istituto. Questi si raccolgono, sostanzialmente, nella dottrina agostiniana del triplex bonum: la fides, consistente nella reciproca fedeltà dei due coniugi, il sacramentum, che è l’indissolubilità del rapporto, la proles (che però può mancare); dottrina che resta quasi immutata fino al sec. 11°. Questa concezione spiritualizzata del m., nella quale si era inserito il concetto paolino dell’indissolubilità del vincolo come simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa, non poteva lasciare indifferente la società longobarda, soprattutto dopo la conversione al cattolicesimo. A partire dal sec. 12° la storia del m. è opera della Chiesa, che, riconoscendogli definitivamente la dignità di sacramento, ne avoca a sé la regolamentazione. La legislazione pontificia va a permearsi tutta sul principio del consenso dei coniugi, mentre la teologia studia ampiamente il m. come stato, come contratto, come sacramento. I principi generali del m. cattolico furono definitivamente fissati dal Concilio di Trento, quando fu definita la dottrina generale dei sacramenti (1563) in cui fu stabilita la nullità di tutti i m. che non fossero contratti davanti al parroco e a due testimoni.
Accanto al m. canonico c’è il m. civile: ma la sua storia è relativamente recente, e non deve essere confusa con quella dell’ingerenza dello Stato in materia matrimoniale, che ha origine antichissima e non è mai mancata. Nell’Età moderna, però, il potere statale in molti Paesi si disinteresso della legislazione matrimoniale e lasciò alla Chiesa l’esclusivo potere di regolarlo. Tra gli Stati cattolici, la Francia fu quello che più vivamente se ne interessò, sotto l’influsso delle dottrine gallicane. Il m. civile fu introdotto per la prima volta, come facoltativo, nei Paesi Bassi nel 1580; comparve brevemente in Inghilterra sotto O. Cromwell e, nella seconda metà del sec. 17°, in qualche colonia dell’America Settentrionale. La Rivoluzione francese sancì il principio che lo stato civile degli uomini debba essere indipendente dalle loro opinioni religiose, e che quindi il m. non possa essere considerato dalla legge dello Stato se non come contratto civile (22 ag. 1791). Il codice di Napoleone regolò il m., che doveva essere celebrato dinanzi all’ufficiale dello stato civile, previe pubblicazioni alla municipalità. Era ammesso il divorzio per cause determinate o per dissenso reciproco. Fu inoltre vietata la celebrazione del m. religioso senza previo m. civile.