RICCI, Matteo
Fondatore delle missioni cattoliche in Cina, e primo sinologo, nato a Macerata il 6 ottobre 1552. Mandato a Roma, diciassettenne, allo studio delle leggi, un triennio dopo (15 agosto 1571) entrava nel noviziato dei gesuiti a S. Andrea al Quirinale, donde l'anno appresso passava nel Collegio romano restandovi sino al 18 maggio 1577, quando partiva per le Indie Orientali. Raggiunta Goa (13 settembre 1578), ivi prima, poi in Cocino insegnò lettere umane, e celebrata in quest'ultima città la prima messa (26 luglio 1580), fece ritorno a Goa per continuarvi sino al 1582 il corso di teologia interrotto in Roma.
Governava allora, in qualità di visitatore, le missioni gesuitiche sparse tra l'India e il Giappone Alessandro Valignani, tenace nel proposito di riprendere la predicazione del Vangelo in Cina già iniziatavi nel Medioevo dai frati minori, poi interrotta durante due secoli e invano ritentata al principio della seconda metà del sec. XVI da S. Francesco Saverio, dai suoi confratelli e da altri religiosi. A tal fine, posti gli occhi sul R., nelle feste di Pasqua del 1582 il Valignani lo sbalzava da Goa a Macao, sede di una colonia portoghese, affinché colà alle porte dell'impenetrabile Cina, insieme con il suo confratello Michele Ruggieri (1542-1607), che ve l'aveva preceduto nel luglio del 1579, studiasse di proposito la lingua e le istituzioni cinesi, attendendo il momento opportuno per entrare nel regno e fissarvi dimora.
Il 10 settembre 1583, i due mettevano piede in Sciaochin, la moderna Chao-ch'ing, nel Kwang-tung, allora capitale delle due provincie del Kwang-tung e del Kwang-si e sede del viceré di entrambe. Ottenuto da costui il permesso di edificare nella città una casa e una chiesa, che intitolò al Fior dei Santi, vale a dire alla Vergine Maria, il R. dava per tal modo principio alla sua missione. Quale incremento avesse l'opera del missionario, come venisse da lui ordinata e condotta innanzi, di quanti e quali frutti riuscisse feconda, ci venne tramandato dal R. stesso, oltre che nelle sue lettere edite e inedite, nei suoi Commentarî della Cina, pubblicati nel testo originale italiano nel 1911, ma conosciuti sino dal 1615 in una libera traduzione latina del gesuita belga Nicolò Trigaut.
Fermo nell'idea suggeritagli dal Valignani che a riuscire nella predicazione del Vangelo convenisse raggiungere Pechino e convertire lo stesso imperatore, o almeno renderselo favorevole, dai confini più meridionali del Regno di Mezzo andò avanzando dal mezzodì a settentrione. Fondata pertanto nel 1583 la prima stazione in Sciaochin, dopo sei anni ne aperse una seconda in Ch'ao-chou (1589), indi una terza e una quarta in Nan-chang (1595) e Nanchino (1599), finché nel 1601 riuscì a stabilirsi in Pechino, prima in una casa a pigione (1601), poi in una acquistata per la missione. In tutte queste residenze disposte da mezzodì a settentrione, coadiuvato da otto confratelli italiani, da quasi altrettanti portoghesi, da uno spagnolo e da otto cinesi, il R. si diede a svelare ai Cinesi, specialmente letterati e gravi mandarini, la civiltà d'occidente, da essi ignorata, con l'intento di attirarli alla legge di Cristo. Ma la maniera di conseguire lo scopo né fu sempre la stessa né si modellò su quella tenuta da altri missionarî. Entrando in Sciaochin il R. e il Ruggieri, a meglio cattivarsi l'animo dei Cinesi, avevano preso il nome e indossavano l'abito dei bonzi, ministri degli idoli. Ma i bonzi in Cina erano spregiati dai letterati e dai mandarini; conseguentemente i due missionarî occidentali si vedevano esposti allo stesso disprezzo da parte dei Cinesi colti, e tenuti lontani dalla dimestichezza con i letterati. A tanto sfavorevole condizione di cose il R., dopo dodici anni di penosa esperienza, rimediò, smettendo l'abito e il nome di bonzo per prendere quelli di letterato.
Nel 1595, uscendo dalla provincia del Kwang-tung, incominciò a dirsi teologo e dottore occidentale, vestendo da letterato, lasciando crescere la barba (ciò che non facevano i bonzi), non uscendo di casa se non al modo dei mandarini "in sedia levata in omeri di huomini" con la scorta di due o tre servitori "vestiti di lungo". Questo cambiamento, non fatto dal R. senza l'impulso del Valignani, e poscia approvato in Roma dal generale Claudio Acquaviva e da Clemente VIII, poco avrebbe giovato se il R. non si fosse nello stesso tempo industriato a tutt'uomo "di farsi cina" cioè cinese, come egli scrisse, assimilandosi, per quanto gli era permesso dalla sua fede e dalla sua professione religiosa, la cultura e, a così dire, lo stato mentale dei letterati cinesi, e impadronendosi della loro difficilissima lingua.
Già nel 1583-84 in unione col padre Ruggieri e con alcuni maestri indigeni aveva composto e pubblicato la versione del Pater, dell'Ave e del Decalogo; nella seconda metà del 1584 fu pure di grande aiuto al baccelliere del Fukien, il futuro Paolo, nel ritoccare il manoscritto cinese del catechismo latino del Ruggieri, finito di stampare tra il 25 e il 29 novembre di quello stesso anno col titolo di Vera esposizione del Signor del Cielo; circa lo stesso tempo dava in luce la versione cinese del Credo e nel 1585 annotava in cinese la sua prima edizione del Mappamondo. Ma nel 1593, ricevuto ordine dal Valignani di darsi allo studio della lingua letteraria cinese, si fece discepolo di un valente maestro, sotto il quale si addentrò ancor più nell'arduo studio dello stile cinese, tanto da meritare dai posteri il titolo di primo sinologo. Impadronitosi quindi della lingua letteraria, dal 1595 (anno della sua prima opera in cinese, il trattato sull'Amicizia o Chiao Ieu Lüen [Chiao yu lun]) incominciò a comporre libri di scienze e di religione. Le sue opere, accolte con singolare favore e ammirazione dai dotti, trattavano di cartografia, di matematiche, di filosofia morale, di teologia, di apologetica. Tra esse vanno ricordate il Mappamondo o Ccoeniü Uancuo Ttsiënttu, (K'un yü wan kuo ch'uan t'u) che ebbe numerose edizioni dal 1585 in poi; i primi sei libri di Euclide o Chiho Iiienpen (Chi ho yüan pên; 1607), i Dieci Paradossi o Chigen Sce Pien (Chi jên shih p'ien; 1608) e specialmente il suo Catechismo o Ttienciu Sce I (T'ien Chu shih i; 1604), destinato a portare la conoscenza del vero Dio non solo in Cina, ma anche in Giappone e nei paesi limitrofi del Regno di Mezzo.
A questa operosità letteraria va in modo particolare attribuita la seconda introduzione e l'incremento del cristianesimo in Cina alla fine del Cinquecento e all'inizio del Seicento. I cattolici cinesi erano solo tre nel 1584; 19 o 20 nel 1585; 40 nel 1586; 80 nel 1589; passavano di poco i 100 nel 1596; arrivarono a un 500 nel 1603; laddove sorpassarono i 1000 nel 1605 e i 2000 nel 1608; dovettero probabilmente ascendere ai 2500 nel 1610, quando il R. morì. Più ancora del numero era da pregiarsi la qualità di questi primi neofiti, molti dei quali appartenenti alla classe più colta e nobile del paese. Il Vangelo era penetrato nella famiglia dell'imperatore Wan-li, protettore del R., con la conversione (dicembre 1604) di un parente dell'imperatore, seguito l'anno appresso dal figlio, da un suo cugino e da due suoi fratelli, e indi a poco da sua moglie, da sua madre e da sei altre dame di corte.
Si è preteso che il R. per assicurare un felice successo alla predicazione del Vangelo facesse uso di un quasi compromesso tra la fede cristiana e il confucianesimo (v. malabarici e cinesi, riti). Le fonti autentiche mostrano invece quanto tale opinione sia destituita d'ogni fondamento. Essa poté trarre origine così dal metodo tutto pieno di simpatia, di mitezza e di carità cristiana, tanto proprio del R., come da ciò che il R., valente apologeta, innanzi di proporre le verità rivelate soleva, a punta di raziocinio, indurre i letterati, in gran parte atei, ad ammettere le verità accessibili anche all'umano intelletto non per anco illuminato dalla grazia. Convinti che essi fossero dell'esistenza di Dio, della spiritualità ed immortalità dell'anima, d'una divina provvidenza governatrice del mondo, passava ad esporre loro tutta la dottrina cattolica, non esclusa la passione e morte del Salvatore. Ma da questo, tuttavia, all'affermare che il R. per fare proseliti alterasse il genuino contenuto della fede cristiana, venerasse quasi un nume Confucio, da lui certamente molto stimato, e ritenesse i neofiti dal praticare i riti della Chiesa romana, ci corre un abisso. Non sembra quindi da riprendere il R. perché, molto prima delle decisioni della competente autorità ecclesiastica, credette prudente di non proibire assolutamente ai suoi neofiti certe pratiche verso Confucio e i loro antenati.
Lettere e Commentarî del R. contengono una copiosa messe di notizie geografiche e rappresentano anzi, nell'insieme, la prima opera apparsa in Occidente che possa considerarsi un'organica, esatta e compiuta descrizione geografica della Cina. Per quanto il contenuto sia nei due scritti sostanzialmente lo stesso, i Commentarí non sempre riassumono e condensano tutto quanto ci dànno le Lettere, che racchiudono qua e là pagine di grande interesse per la conoscenza del territorio cinese, dei suoi abitanti e soprattutto della loro vita e delle loro costumanze (specialmente il gruppo che si riferisce al periodo 1589-95 e che illustra i viaggi del R. nell'interno del paese). Dei Commentarî la parte maggiore ha rapporto alla storia, ma il libro I costituisce una vera e propria monografia della vita e della civiltà cinese nel sec. XVI, che, per gli elementi e il modo della trattazione, assume carattere prevalentemente geografico. Con lo studio della lingua cinese e la frequente consuetudine con i letterati locali, il R. riuscì a radunare una somma di materiali che supera, anche come copia, quella di tutti i suoi predecessori europei; percorse direttamente buona parte della Cina dal Chih-li al Kwang-tung, conobbe e visitò a suo agio quasi tutte le principali città del suo tempo e delle rimanenti ebbe notizia da più fonti e di queste poté controllare in più occasioni l'attendibilità; durante la sua lunga permanenza nella capitale ebbe probabilmente modo di consultare anche i documenti ufficiali che i Cinesi custodivano più gelosamente e certo una gran quantità di libri che ad altri, anche dopo di lui, sfuggirono o non furono se non imperfettamente noti. Egli poté così per il primo fra gli Occidentali collocare la Cina al suo vero posto con misurazioni astronomiche dirette o con stime rigorose su fonti degne di fede, nel che egli anticipa l'opera condotta a termine, mezzo secolo dopo, dal suo confratello Martini, e offrire della vita cinese un quadro complessivamente fedele, senza gli elementi favolosi e sovrumani che la fantasia popolare vi aveva ricamato, anzi cercando di cogliervi acutamente la ragione delle cose e le relazioni reciproche dei diversi fattori. Né minore importanza ha l'opera propriamente cartografica svolta dal R., della quale, anche se non tutto è giunto fino a noi, rimane pure quanto basta a farci comprendere come il grande missionario potesse riuscire, con tal mezzo, a procacciarsi fama e favore presso i dotti della Cina. Il grande (misura in complesso m. 3,75 × 1,80) mappamondo in sei fogli pubblicato a Pechino nel 1602 e poi ristampato per ordine dell'imperatore su di un nuovo calco nel 1608 - mappamondo di cui rimangono copie a Pechino, a Londra e a Roma, e che è stato più volte riprodotto - rappresenta un lavoro in gran parte originale, composto da un autore che si mostra bene al corrente dei progressi compiuti dalla cartografia europea e che in pari tempo rinnova dalle fondamenta la rappresentazione dell'estrema Asia orientale. Per questa infatti il R. non solo mette a profitto il materiale cinese avuto a mano, ma ne corregge e ne amalgama criticamente i dati, riuscendo ad una elaborazione che rimane insuperata fino almeno alla costruzione dell'Atlas Sinensis del Martini (1655) e che esercitò larga influenza sulle carte venute a luce durante tutto il sec. XVII.
I Commentarî della Cina e le Lettere del R. e dei suoi compagni di missione, sono stati editi da P. Tacchi Venturi, in Opere storiche del P.M.R., Macerata 1911-1913, voll. 2, delle quali si prepara la 2ª edizione accresciuta di nuove lettere e d'importanti documenti inediti, con l'uso delle fonti cinesi e con i nomi proprî di persone e di luoghi in caratteri cinesi a cura del P.P. D'Elia. Ivi pure si troverà un'accurata bibliografia delle opere cinesi del R.
Bibl.: Le prime biografie del R. ci furono date in portoghese dal gesuita pugliese S. De Ursis, P. Matheus Ricci, pubblicata nel testo originale da V. A. Cordeiro, Roma 1910, e in cinese dal bresciano Giulio Aleni (1587-1649). Pregevoli monografie sopra speciali questioni attinenti alla vita e all'apostolato del R. si hanno pure in Atti e memorie del Convegno di geografi orientalisti tenuto in Macerata il 25, 26, 27 settembre 1910, Macearta 1911. V. inoltre: G. Caraci, Il padre M. R. (1552-1610) e la sua opera geografica, in Riv. geogr. ital., 1918-24; J. P. Baddeley, Father M. R's chinese world-map, 1584-1608; E. Headwood, The relationships of the R. maps, in Geogr. Journal, 1917, p. 254 segg.; L. Giles, Translations from the chinese World Map of Father R., ibid., 1918, pp. 367-85 e 1919, pp. 19-30; W. E. Soothill, The two oldest Maps of China extant, ibid., 1927, p. 532 segg.; H. Bernard, La mappemonde de Ricci du Musée historique de Pékin, Pechino 1928.