VISCONTI, Matteo (I)
– Secondo la tradizione nacque il 15 agosto 1250 da Tebaldo e da Anastasia Pirovano, esponenti di due grandi stirpi aristocratiche milanesi.
Quella che viene definita ‘famiglia’ Visconti era in effetti una grande consorteria, che compare nelle fonti a partire dall’XI secolo e si articolò su diversi rami autonomi fra loro, radicati l’uno in città, un altro nelle regioni a cavallo fra l’alto Seprio e la valle del Ticino, con ramificazioni nel territorio di Novara, un altro ancora in Brianza. Dopo un periodo di fioritura nel corso del XII secolo, il ramo urbano della famiglia verso la metà del Duecento stava conoscendo un periodo di difficoltà e di marginalizzazione dalla vita pubblica ed economica: la discendenza restava tuttavia legata strettamente all’ambiente ecclesiastico cittadino e poteva contare su una regolare presenza dei propri membri nel capitolo della cattedrale e alla guida di importanti chiese o monasteri di Milano e del contado. Proprio da quest’ambito proviene una delle poche notizie documentarie su Tebaldo, che nel 1255 era rettore della Val Leventina, nominato da un parente di nome Azzone, canonico della cattedrale di Milano. Oltre a Matteo, Tebaldo ebbe un altro figlio, Uberto, che affiancò in diverse occasioni il fratello nelle attività politiche.
Matteo visse probabilmente almeno una parte degli anni giovanili fuori di Milano. Il padre infatti, così come buona parte dei Visconti, seguì in esilio l’arcivescovo Ottone Visconti (v. la voce in questo Dizionario; nominato alla cattedra milanese da papa Urbano IV nel 1262 ma impedito a entrare in Milano da Martino Della Torre che rivendicava la carica per il suo parente Raimondo), che divenne punto di riferimento dei nobili antitorriani fuoriusciti negli anni precedenti (i Della Torre erano al potere dal 1259). Nel 1276 Tebaldo Visconti fu catturato dagli intrinseci durante un’azione militare nell’Alto Seprio e venne fatto poco dopo decapitare sulla piazza di Gallarate.
Durante gli anni dell’esilio Matteo sposò comunque Bonacossa Burri, figlia di Squarcino, esponente di un’altra grande famiglia dell’aristocrazia milanese, a sua volta aspro oppositore dei Della Torre. Secondo la tradizione, il 21 gennaio 1277 Bonacossa diede alla luce il primogenito della coppia, Galeazzo (v. la voce in questo Dizionario). Nei venti anni successivi, Matteo e Bonacossa ebbero altri quattro figli maschi (Stefano, Marco e i futuri signori di Milano Giovanni e Luchino; v. le rispettive voci in questo Dizionario) e sei femmine (Floramonda, Beatrice, Caterina, Zaccarina, Agnese e Achilla). Lo stesso 21 gennaio 1277, le forze dei Della Torre furono sconfitte a Desio dagli esuli guidati da Ottone Visconti, sicché quest’ultimo poté rientrare in città e assumere per alcuni mesi un potere eccezionale.
Non vi sono evidenze, nelle travagliatissime vicende politiche milanesi del decennio successivo, di un ruolo in prima persona da Matteo Visconti.
La chiamata a Milano, con il titolo di capitano di guerra, del marchese Guglielmo VII di Monferrato (1278) si trasformò presto nel tentativo di affermare, con alcune famiglie aristocratiche locali, una vera e propria signoria sulla città, sinché nel 1282 Ottone Visconti guidò (senza ruoli istituzionali di sorta) un’insurrezione popolare che portò alla cacciata del marchese (che si alleò con i Della Torre). Si instaurò così un nuovo regime di Popolo, al vertice del quale vi era la magistratura dei Dodici di provvisione (divenuti nel 1285 anche Anziani del Popolo).
L’ascesa al potere di Matteo Visconti è stata di norma attribuita alla protezione esercitata su di lui dal potente zio, ma è indubbio che egli fu in grado di muoversi autonomamente con una certa abilità: nel nuovo contesto politico, infatti, ottenne nel 1287 il titolo di capitano del Popolo dall’assemblea comunale, ponendosi così come nuovo punto di riferimento dei populares. Acquisita la carica quinquennale, che poi gli venne periodicamente rinnovata, Matteo promosse la rivitalizzazione della Credenza di S. Ambrogio, l’antico organismo che nel corso del XIII secolo aveva rappresentato le istanze dei popolari ambrosiani); essa venne rifondata sullo scorcio del Duecento quale Società nuova della Credenza di S. Ambrogio.
Anche a seguito della cattura e uscita dalla scena politica di Guglielmo di Monferrato, pericoloso rivale di Milano (1290), Matteo Visconti poté intraprendere la costruzione di un significativo dominio sovracittadino. Nello stesso anno 1290, entrò a Novara e Vercelli, ottenendovi il capitanato del Popolo quinquennale; nel 1291 conquistò Como con le armi e ricevette la stessa carica per la stessa durata. Nel 1292, infine, si portò con l’esercito a Casale e divenne ancora una volta capitano quinquennale, questa volta per tutto il Marchesato di Monferrato. Suggello di tale politica espansiva, fu la concessione del vicariato imperiale su Milano e la Lombardia, nella primavera del 1294, da parte dell’imperatore eletto Adolfo di Nassau. Nel frattempo, Matteo seppe mantenere buoni rapporti con le città guelfe della Lombardia orientale e dell’Emilia, alle quali Milano forniva podestà e, se necessario, contingenti armati.
Una svolta importante per la politica di Visconti fu l’inasprimento dei rapporti con il papa, specialmente dopo che nell’agosto 1295, alla morte di Ottone, Bonifacio VIII impedì l’elezione del nuovo arcivescovo da parte del capitolo cattedrale, al fine di evitare che nella sede ambrosiana si insediasse un altro membro della famiglia Visconti o, comunque, un suo protetto; elesse invece l’arcidiacono di Reims Ruffino da Frisseto (cui successe Francesco da Parma, ancora più aspramente ostile alla famiglia dominante). La mancata partecipazione dei Visconti alla ‘crociata’ proclamata nel 1297 contro i Colonna sancì definitivamente l’inimicizia tra Bonifacio e Matteo.
Negli anni successivi Matteo dovette affrontare non pochi problemi in Piemonte, ove un cartello antivisconteo (radunato con l’appoggio papale) che si era compattato attorno a Giovanni di Monferrato, il figlio di Guglielmo VII, rifiutò di continuare a riconoscere l’autorità di Matteo sul Monferrato. Fra il 1299 e il 1301, sotto la pressione militare di Giovanni e del Comune di Pavia, tutti i centri soggetti – Casale, Como, Novara e Vercelli – andarono persi e Matteo dovette battersi per la propria sopravvivenza di fronte all’offensiva scatenata contro Milano. Di fronte ai ripetuti insuccessi, fu di modesta consolazione per Matteo essere riuscito, nel 1299, a mediare la pace fra Genova e Venezia, che proprio in quell’anno fu conclusa a Milano.
Forse per uscire da questo pericoloso isolamento diplomatico, Matteo organizzò il matrimonio tra il figlio Galeazzo e Beatrice, figlia di Obizzo II d’Este, vedova di Nino Visconti (v. la voce Visconti Ugolino in questo Dizionario) ed esponente di una delle discendenze più legate alla politica pontificia. Lo sposalizio, celebrato con gran pompa il 24 giugno 1300, fu solido e duraturo, ma ebbe un esito politicamente disastroso: senza riuscire a promuovere un vero riavvicinamento con il pontefice, il nuovo legame fra Matteo e Azzo VIII d’Este (fratello di Beatrice) allarmò il Comune di Bologna e le altre città emiliane che temevano l’aggressività dei signori di Ferrara. Matteo e Galeazzo reagirono conducendo diverse spedizioni militari contro Pavia, Novara e Lodi, che però non portarono ad alcun risultato significativo se non quello di aggravare ulteriormente i costi della guerra sullo stremato bilancio del Comune di Milano.
In questo difficile contesto, Matteo tentò di rafforzare il proprio potere personale e di dar vita a una signoria ereditaria, garantendo la successione al potere a Galeazzo, che gli fu associato nel capitanato del Popolo nel dicembre del 1300. Ancor di più, egli aveva colpito le prerogative del Consiglio generale, trasferendo molte delle sue competenze alle magistrature popolari del capitano del Popolo, del giudice della Credenza di S. Ambrogio e negli Anziani.
Si trattava di una decisa svolta politica, volta a basare sul popolo la costruzione di un regime autocratico basato sul controllo delle cariche popolari e sulla dinastizzazione del titolo di capitano. L’élite politica milanese, probabilmente senza distinzioni fra nobili e popolari, si dimostrò però ostile al progetto, sicché, di fronte a una crescente opposizione, Matteo e Galeazzo emanarono nella primavera del 1301 una grande ondata di bandi politici contro diverse famiglie eminenti cittadine, accusate di cospirare contro il nuovo regime.
Inoltre, le crescenti spese militari avevano suscitato l’ostilità di buona parte della popolazione milanese, stremata da un prelievo fiscale in continua crescita, che aveva raggiunto cifre altissime, come l’enorme taglia di 150.000 lire d’argento imposta ai milanesi nel 1292. Questi carichi divennero sempre meno sopportabili a causa della situazione economica generale particolarmente difficile, che culminò nella grave carestia che nel 1302 martoriò l’Italia centrosettentrionale, facendo impennare il prezzo dei grani e causando gravi difficoltà, soprattutto ai gruppi sociali più deboli.
Nella primavera del 1302, la posizione di Matteo in Milano era dunque assai fragile. Proprio in quel momento, con la regia e l’appoggio di Bonifacio VIII, si costituì contro di lui una vasta alleanza, capeggiata dagli esuli Della Torre, che comprendeva, oltre ai fuoriusciti milanesi, gli eserciti di Piacenza, Cremona, Lodi e Pavia, per un totale all’epoca stimato attorno ai ventimila uomini, che agli inizi di giugno, muovendo da Lodi, entrarono nel territorio milanese risalendo il Lambro. Matteo, lasciato Galeazzo a presidiare la città con circa duemila mercenari, uscì ad affrontarli presso Melzo con altri quindicimila armati. La colossale battaglia però non si combatté mai, perché in assenza di Matteo, fra il 12 e il 13 giugno, i cittadini di Milano si ribellarono e, guidati da alcuni esuli antiviscontei prontamente rientrati, costrinsero alla fuga il contingente guidato da Galeazzo. Matteo, stretto fra i nemici e i ribelli, cercò la mediazione dei veneziani e il 16 giugno si dimise consegnando i simboli del potere ad Alberto Scotti, in cambio dell’incolumità personale e della promessa che avrebbe potuto rientrare in città. Scotti, però, tradì le aspettative di Matteo, vietandogli il rientro a Milano, dove presero il potere i Della Torre, il cui principale esponente, Guido, assunse negli anni prerogative sempre più ampie fino a diventare il vero e proprio signore della città.
Matteo e Galeazzo tentarono di ritornare con la forza a Milano nel luglio del 1302, nel maggio del 1303 e nella primavera del 1306, ma ogni volta i tentativi furono stroncati dalla reazione dei Della Torre e dei loro seguaci prima ancora che le forze degli esuli riuscissero ad avvicinarsi alla città. A questo punto, Matteo si rifugiò presso il guelfo Azzo VIII d’Este, fratello della nuora Beatrice, dove rimase fino al 1310, partecipando anche alla guerra civile scoppiata nel 1309, dopo la morte di Azzo, tra Folco, Aldobrandino e Francesco d’Este.
Nel 1310, la discesa in Italia dell’imperatore eletto Enrico VII di Lussemburgo, intenzionato a riappacificare le fazioni italiane e imporre il rientro di tutti i fuoriusciti, permise a Matteo di ritornare protagonista della politica milanese.
Preceduto dal fedele ambasciatore Francesco da Cermenate, a novembre Matteo raggiunse la corte imperiale ad Asti. Qui trovò l’arcivescovo di Milano, Cassone Della Torre, che era in lite con lo zio Guido. I due raggiunsero un accordo, che prevedeva la cacciata di Guido e il governo di Cassone su Milano, con l’appoggio, in posizione subordinata, dei Visconti. Il 23 dicembre, nonostante la contrarietà di Guido Della Torre, Enrico VII entrò solennemente in Milano accompagnato da Matteo, che gli aveva promesso, in cambio della riammissione in città, l’enorme somma di 60.000 fiorini. L’imperatore obbligò Guido a lasciare tutte le cariche e il 27 dicembre proclamò solennemente la pace fra Della Torre e Visconti, ordinando la riconciliazione delle parti, la fine dell’esilio, la remissione dei bandi e la restituzione dei beni sequestrati. Le continue richieste di denaro da parte di Enrico VII e dei suoi ufficiali, però, non tardarono a suscitare il malcontento della popolazione e Guido Della Torre tentò una mossa azzardata, proponendo a Matteo un’alleanza volta a guidare congiuntamente una rivolta antimperiale. Quando Guido si mosse, però, Matteo lo tradì e si rifiutò di seguirlo: gli uomini dei Della Torre, rimasti isolati, furono sconfitti dalle forze di Enrico e tutta la famiglia venne bandita dalla città. Anche Matteo fu brevemente allontanato, ma venne subito riammesso e diventò il principale interlocutore del sovrano.
Approfittando delle difficoltà di Enrico VII durante l’assedio di Brescia, il 13 luglio 1311 Matteo si fece nominare vicario imperiale di Milano, grazie a un nuovo donativo di 50.000 fiorini. La carica era attribuita a tempo indeterminato, finché la somma non gli fosse stata restituita. Enrico non fu mai in grado di rendere il denaro, sicché di fatto Matteo rimase vicario perpetuo. Grazie al suo nuovo potere, Matteo obbligò Cassone Della Torre a lasciare la città, facendone occupare militarmente i beni e, nonostante le pressioni dell’imperatore, l’arcivescovo non poté rientrare in Milano, riducendosi a scomunicare Matteo tre anni dopo, nel 1314.
Parte delle proprietà sottratte alla Chiesa venne utilizzata per risanare le stremate casse del Comune: la situazione finanziaria infatti era difficile a causa della necessità di pagare i donativi promessi all’imperatore e gli stipendi alle numerose truppe mercenarie stanziate in città. Altri beni furono incamerati dai Visconti stessi e, per impedire successive rivendicazioni ecclesiastiche, venne distrutta gran parte dell’archivio episcopale che conteneva i titoli di possesso. I sequestri dei beni ecclesiastici non erano sufficienti a finanziare le ambizioni politiche e militari di Matteo, sicché fu necessario imporre pesanti prelievi fiscali alla popolazione, suscitando un ampio malcontento, che però al momento non trovava modo di sfogarsi.
Nonostante le difficoltà interne, fra il 1312 e il 1313, mentre l’imperatore si spostava nell’Italia centrale tra Roma e la Toscana, Matteo assunse il ruolo di referente e coordinatore delle forze ghibelline nell’Italia settentrionale. Dopo che Roberto d’Angiò prese esplicitamente posizione contro Enrico VII e i suoi alleati, infatti, nel Nord scoppiò un conflitto generalizzato tra le città ghibelline raccolte attorno all’imperatore e quelle guelfe coordinate dal re di Napoli. Nel 1312 Guido Della Torre morì a Cremona e Matteo impedì che il suo corpo fosse seppellito a Milano.
Dopo la morte dell’imperatore, avvenuta il 24 agosto 1313, Matteo si fece confermare il dominio su Milano dal Consiglio generale del Comune, che il 20 settembre di quell’anno, in adunanza generale, lo nominò signore perpetuo e rettore generale. Grazie a queste cariche, egli poteva nominare altri vicari succedanei o direttamente il podestà. La morte di Enrico VII cambiò le basi legali, ma non la sostanza del potere di Matteo su Milano: anzi, Matteo non cessò di utilizzare il titolo di vicario imperiale finché nel 1317 papa Giovanni XXII non glielo revocò. Egli si fece dunque rinnovare i poteri straordinari dal Consiglio del Comune e continuò a governare sulla base della sola legittimità locale. In questi anni, Matteo accentuò il carattere di parte del governo, ponendosi alla testa dell’aristocrazia ghibellina della città, mentre il Popolo venne emarginato dal potere con la scomparsa, di fatto, della Credenza di S. Ambrogio dagli organismi politicamente attivi. Furono ristretti anche gli ambiti d’azione della Società dei Mercanti e delle corporazioni di mestiere, mentre a sostegno del nuovo signore fu creata una compagnia d’armi che prese il nome di Società di Giustizia di Milano. Vastissimi beni fondiari furono sequestrati ai banditi e andarono a rinforzare le disponibilità economiche della famiglia viscontea.
Nel settembre del 1313 le forze guelfe si portarono fino a Legnano, preparandosi ad assalire Milano, ma alla fine il comandante angioino non ebbe il coraggio di attaccare direttamente la città e, con grande sdegno degli esuli torriani, si ritirò.
L’episodio segnò la crisi della presenza militare angioina in Lombardia e negli anni successivi le forze milanesi guidate dai figli di Matteo ottennero grandi successi contro di loro: fra il 1314 e il 1315 Marco sottrasse loro Tortona e Alessandria e occupò Vercelli; nello stesso 1315 Stefano entrò a Pavia, cacciandone la dinastia guelfa dei Langosco e imponendo al potere i ghibellini Beccaria, mentre Galeazzo si impadroniva di Piacenza proclamandosene signore.
Matteo costruì un asse privilegiato con l’altra grande potenza ghibellina del Settentrione, quella dei Della Scala, che avevano promosso in prima persona la concessione del vicariato imperiale a Visconti e con i quali vi fu una stretta collaborazione, soprattutto dal punto di vista militare. Il rapporto fu rafforzato da legami matrimoniali: Caterina, figlia di Matteo, aveva sposato nel 1298 Alboino I Della Scala e la sorella Agnese prese in seguito come marito Francesco Della Scala. Le forze congiunte di Milano e di Verona si impegnarono assieme nel lungo assedio di Genova, che nel 1318 si era sottomessa a Roberto d’Angiò. Le operazioni belliche durarono fino al 1320, ma si conclusero con un nulla di fatto per le forze filoimperiali.
Data la rassegnazione dei Della Torre e il modesto impegno di Roberto d’Angiò, fu papa Giovanni XXII ad assumere la guida nella lotta contro Matteo.
Giovanni XXII, pur residente ad Avignone, non intendeva perdere il controllo dell’Italia e voleva contrastare con le armi spirituali e temporali a sua disposizione l’affermazione di Matteo, che assieme a Cangrande Della Scala era il punto di riferimento per il fronte ghibellino nell’Italia settentrionale e aveva esteso – direttamente o indirettamente – la sua egemonia su un gran numero di città: oltre a Milano stessa, infatti, erano governate da esponenti della dinastia viscontea o da suoi stretti alleati Milano, Piacenza, Alessandria, Tortona, Vercelli, Novara, Como, Pavia, Bergamo, Lodi, Parma e molti borghi minori.
Nei primi mesi del 1317, una delegazione apostolica aveva svolto una missione di pace in Lombardia, ma Matteo, pur accettando di rinunciare al vicariato imperiale, non aveva fatto altre concessioni. I rapporti fra Milano e Avignone degenerarono rapidamente: in estate Cassone Della Torre abbandonò la cattedra ambrosiana per il patriarcato di Aquileia e il capitolo cattedrale di Milano elesse quale nuovo arcivescovo il figlio di Matteo, Giovanni Visconti. Il pontefice si rifiutò di ratificare la scelta e nominò invece Aicardo Antimiani, a cui però Matteo vietò l’ingresso in città. Il 6 aprile 1318, fallita ogni trattativa, Giovanni XXII scomunicò solennemente Matteo, assieme agli altri leader ghibellini, Cangrande Della Scala e Passerino Bonaccolsi. Il pontefice fece seguire la pressione militare alle sanzioni spirituali: nel 1319 il cardinale Bertrand du Pouget (noto in Italia come Bertrando del Poggetto) fu nominato plenipotenziario per estirpare il ghibellinismo – ormai equiparato all’eresia – dall’Italia settentrionale. Nell’estate del 1320, il papa e Roberto d’Angiò promossero una spedizione armata francese a questo scopo, guidata da Filippo di Valois. Questi, però, dopo aver fronteggiato le truppe viscontee, sulle sponde della Sesia, si ritirò senza combattere, non si sa se perché conscio della propria inferiorità militare oppure perché corrotto da Matteo e Galeazzo.
Al fallimento dell’opzione militare fecero seguito mesi di dure schermaglie verbali, durante i quali la scomunica fu rinnovata: Matteo era accusato di usurpare poteri che non gli spettavano, ma replicava sottolineando il fatto che le sue cariche gli erano state legalmente attribuite dal Consiglio del Comune di Milano. Nella tarda primavera del 1321 un nuovo esercito al soldo pontificio si radunò ad Asti agli ordini di Raimondo di Cardona e riuscì a strappare Alessandria e altri borghi vicini al controllo visconteo. La Lombardia era percorsa dai legati pontifici e dai frati minori e predicatori che rilanciavano in pubblico le accuse contro Matteo e citavano complici e testimoni per allestire un grande processo per eresia contro i Visconti.
Le prime settimane del 1322 trascorsero in schermaglie giuridiche, mentre il papa definiva progressivamente le accuse contro Matteo, cui si attribuivano vicinanza agli eretici, pratiche negromantiche e, con molto più fondamento, la sistematica spoliazione dei beni dell’arcidiocesi e le pesanti tasse imposte agli enti ecclesiastici di Milano e del contado. La città venne colpita da interdetto e il 2 febbraio fu bandita la crociata. A Milano la situazione era sempre più tesa, sia per la pressione spirituale esercitata dal papa, sia per l’ostilità suscitata fra la popolazione dalle continue richieste di denaro effettuate da Matteo per mantenere un esercito sufficiente a difendersi. La cittadinanza tumultuava per le strade, a stento tenuta a bada dai rinforzi ghibellini giunti dalle città vicine.
In questa situazione, Matteo, ultrasettantenne, stanco e malato, proclamò solennemente nella cattedrale la propria ortodossia e poi, dopo aver ceduto il potere a suo figlio Galeazzo, si ritirò nei sobborghi, nella canonica di Crescenzago, dove morì il 24 giugno 1322.
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