MAZZEO DI RICCO
Rimatore di Messina appartenente al movimento poetico della Scuola siciliana (v.); la sua attività è da collocarsi nel periodo posteriore alla morte di Federico II (1250), nell'alveo della cosiddetta 'seconda generazione' di verseggiatori.
Per molto tempo è mancata un'adeguata ricostruzione della fisionomia storica e umana di M., in quanto gli unici dati attingibili, trasversali, erano quelli forniti dai manoscritti che lo qualificavano come messinese e che si accompagnavano a un indizio di natura letteraria che consentiva un'approssimativa collocazione temporale: la menzione di "Mazzeo di Rico, / ch'è di fin presgio rico", presente nel secondo congedo (vv. 89-90) della canzone Amor, tant'altamente di Guittone d'Arezzo, nato verso il 1230. Gli sforzi per identificare il rimatore si concentrarono a cavallo dei secc. XIX-XX, ma i diversi tentativi di incrociare gli elementi noti con fatti letterari o storici non fecero registrare che progressi poco rilevanti. Da segnalare nel 1894 le contemporanee ipotesi di Albino Zenatti, che ventilava cautamente e in mancanza di meglio un'omologazione col farmacista regio della corte aragonese ritratto in una novella di Franco Sacchetti, e di Francesco Torraca che metteva in discussione la forma del nome tramandata dai codici, postulando a monte della tradizione manoscritta una grafia "de Riço" e assimilando di conseguenza il rimatore al Matteo de Riso capitano delle navi messinesi armate contro la flotta pisana nel periodo della spedizione di Corradino, e ancora documentato nel 1282. A confermare però la grafia del nome offerta dai canzonieri intervenne nel 1895 Zenatti che individuò un Filippo de Ricco attestato al tempo e nell'ufficio del messinese Guido delle Colonne; ma nel 1900 Francesco Scandone, ispirandosi all'idea di Torraca, suggerì di intendere il nome del poeta come "di Riccio" o "di Rizzo", essendosi imbattuto in personaggi siciliani così denominati in documenti del XIII secolo. Obiezioni al mutamento onomastico e alla tesi da lui stesso in precedenza formulata furono mosse da Torraca nel 1902 sulla base dell'esistenza del casato di Ricco nella seconda metà del XIII sec. provata da Zenatti e dell'indubbia forma "Rico" contenuta nell'invio di Guittone; infine nel 1903 Scandone, sulla scorta di nuovi apporti documentali, abbandonò la precedente posizione e sgombrò il campo dalle congetture denominative confermando la sussistenza della famiglia di Ricco nel XIII secolo. Della persona di M. non si rinvenne comunque alcuna traccia documentaria. Un significativo passo avanti sulla strada dell'identificazione del verseggiatore fu compiuto soltanto nel 1984 per merito di Diego Ciccarelli, che riconobbe nel poeta il "Matheus de Ricco" più volte ricorrente in documenti del Tabulario di S. Maria di Malfinò, da lui stesso pubblicati circa un decennio prima. Tre sono le presenze registrate nel Tabulario, custodito, come altro materiale archivistico di pertinenza messinese, presso l'Archivio di Stato di Palermo: in tutte e tre le pergamene M. appone la sua firma in qualità di testimone. Nelle prime due scritture, redatte a Messina e datate rispettivamente 27 maggio 1252 e giugno 1252, le relative sottoscrizioni di M. ("Ego Matheus de Ricco rogatus testor") fanno legittimamente ipotizzare, per il tipo della grafia, l'impiego del monogramma indicante ego e il signum, un uomo di cultura (Ciccarelli, 1984 e 1986); nel terzo documento, steso a Messina il 12 novembre 1259, la firma si accompagna alla precisazione: "Ego notarius Matheus de Ricco". Un quarto atto pubblico, oggi all'Archivio arcivescovile di Pisa, appare essere stato stilato il 14 aprile 1260, e ancora a Messina, da M. nelle sue funzioni di notaio: "Ego Matheus de Ricco regius puplicus Messane notarius scripsi et testor" (Virgili, 1983; Ciccarelli, 1984 e 1986). Il materiale documentario si rivela prezioso per illuminare da più parti la persona e l'attività del poeta siciliano. Innanzi tutto la precisa datazione permette di collocare il suo operato agli inizi della seconda metà del XIII sec. e avvalora, confermandoli, gli indizi cronologici indiretti che convergono verso la stessa epoca: il riferimento a M. da parte di Guittone è in effetti contenuto in una poesia non databile con sicurezza, ma allogabile con tutta la produzione amorosa dell'Aretino nel decennio 1250-1260 (Guittone, 1994, p. XIV); indicativa e significativa poi la posizione assegnata al poeta dal ms. Vat. Lat. 3793 (V), dall'assetto latamente storiografico: all'inizio del quaderno V (e dunque con indiretta attribuzione di statura di auctoritas), in compagnia di rimatori tardi come re Enzo, morto nel 1272, e Percivalle Doria, morto nel 1264, ma anche di poeti continentali come Compagnetto da Prato e Neri de' Visdomini, a esprimere solidarietà temporale e culturale. L'ufficio di notaio omologa la sua condizione a quella di altri uomini di legge con la passione lirica appartenenti più propriamente all'età fridericiana (basti pensare a Giacomo da Lentini e a Pier della Vigna), operando una saldatura ideologica con l'epoca manfrediana cui il nostro poeta appartenne; pone inoltre automaticamente M. tra le file dell''intellighenzia' italiana del Duecento, giacché vigeva inscindibile nella preparazione scolastica dei giuristi della penisola, e già nell'XI sec., il connubio tra conoscenza giuridica e conoscenza grammaticale e retorica, tanto che frequente era il caso "nelle università che dottori di notaria insegnassero l'arte del dettare, e dottori di grammatica quella del rogare" (Novati, 1908, p. 306). In particolare, era assai grande il prestigio goduto a Messina sin dall'età di Federico II dall'istituto del notariato, i cui membri venivano designati dall'imperatore stesso. Significativo, ancora, che la presenza di M. sia attestata con continuità a Messina, ove conseguentemente è lecito immaginare si esplicasse pure la sua attività poetica. Messina costituì nel corso del Duecento una delle città di maggior rilievo della Sicilia: rilanciata dalla dinastia normanna, sede di un importante porto, di un arsenale e di una zecca, fervente di commerci e aperta ai contatti, aveva assistito a partire dai tempi di Enrico VI al progressivo rafforzamento del ceto burocratico, che finì di consolidarsi sotto Manfredi e costituì il gruppo cittadino fondamentale per circolazione dei beni, per concentrazione di risorse economiche e proprietà terriere, ma anche la classe detentrice del prestigio culturale: la vita intellettuale del centro peloritano nel Duecento, infatti, ebbe notevole sviluppo grazie a notai e giudici (Pispisa, 1996). Per quanto riguarda la Scuola siciliana, ragguardevole risulta la compagine dei rimatori di Messina, in buona parte, ove documentabile, appartenenti per l'appunto ai quadri amministrativi: oltre a M., sicuramente messinesi sono Guido delle Colonne, giudice, e Stefano Protonotaro; definiti di Messina dalle rubriche dei codici sono Odo delle Colonne (presumibilmente facente parte della famiglia di Guido), Tommaso di Sasso (l'esistenza del casato di Sasso a Messina negli anni Settanta del Duecento è attestata documentalmente), un Messer Filippo non meglio specificato in cui qualcuno ha voluto vedere un membro dello stesso casato di M. ‒ teoria ovviamente non dimostrabile in rapporto agli elementi a noi noti anche se non contraria all'evidenza, dato che ancora nel Trecento tra i congiunti di M. si annovera più di un Filippo esercitante attività giuridica (Salvo, 1997, in partic. p. 117). Forse di origine messinese sono poi Ruggero de Amicis e Jacopo Mostacci. Se arduo riesce, per la difficile calettatura nel tempo dei prodotti lirici e per l'effettivo addossarsi delle generazioni di rimatori, stabilire una cronologia del movimento poetico siciliano nella città dello Stretto, rimangono nondimeno significative da un lato proprio la consistenza del numero di verseggiatori, caso singolare nello sfilacciato panorama della Scuola ‒ e che pare autorizzare, se non l'ipotesi avanzata da Panvini (1994, p. 26) che il movimento poetico siciliano abbia visto la luce proprio a Messina, sicuramente l'idea di un "laboratorio messinese" (Poeti del Duecento, 1960, I, p. 46) ‒, dall'altro la persistenza del fenomeno in una temperie storica segnata da instabilità politica (la turbolenta reggenza di Manfredi per conto di Corrado e la conseguente anarchia, il regno di Corrado IV, la parentesi comunale, il regno di Manfredi) che lo qualifica come profondamente radicato e oramai autonomo rispetto alla volontà dei sovrani. Ma lo svolgersi dell'attività di M. a partire dalla metà del Duecento rende la sua esperienza poetica contemporanea a quella toscana di eredità siciliana, il cui trapianto sembra sia da collocare, pur con dubbi e cautele, proprio a quell'altezza cronologica. A suggerire una precisa iunctura tra le due realtà culturali interviene la già citata allogazione di M. nel disegno storiografico del canzoniere (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3793): è verosimile guardare alla figura del Messinese come a un elemento di raccordo e forse come a uno dei vettori materiali dei modi della poesia della Magna Curia negli ambienti toscani. In quest'ottica acquistano valore i suoi contatti con Guittone testimoniati, caso eccezionale e isolato nel quadro letterario toscano, dalla citazione esplicita nella poesia dell'Aretino; non bisogna sottovalutare che la canzone guittoniana che polemizza con le posizioni in tema d'amore espresse liricamente dal Siciliano ricalca lo schema metrico di un componimento di Giacomo da Lentini, Madonna dir vo voglio: il contrasto è ideologico e coinvolge tutta la Scuola, richiamata da una trama sottile e pluridirezionale di allusioni (Leonardi, 1995), e quindi avvertita dal Toscano come proprio retroterra culturale, base per un confronto dialettico, ineludibile punto di partenza per il necessario superamento. L'invio a M., non solo nominato ma evocato con citazioni da diversi suoi testi (Ciccuto, 1979 [1985, pp. 185-188]; Leonardi, 1995, pp. 153-155), lo indica esponente eccellente, rappresentante e simbolo della Scuola, testimoniando altresì l'esistenza di un dibattito intellettuale in corso ‒ aperto forse dallo stesso M. (Rossi, 1995, p. 27) ‒ e conferendo a M. un ruolo fattivo nella delicata fase formativa dell'esperienza lirica in Toscana. A confermare questa direzione concorre pure la fortuna incontrata da M. presso altri rimatori toscani.
M. si configura quindi come elemento nevralgico di una speciale situazione culturale, avendo maturato la sua vicenda ai confini di due realtà: da un lato il tramonto di un'epoca e di un fenomeno letterario destinato a dissolversi nella terra d'origine, dall'altro l'attecchimento negli ambienti continentali nel quale non è difficile individuare sue precise responsabilità. Tale condizione di trait d'union lo fa talvolta etichettare dalla critica, nella mutevole griglia di catalogazione di uno scenario lirico, quello toscano del Duecento, la cui delimitazione cronologica e tassinomica pone tutt'oggi seri problemi (Coluccia, 1999; Spampinato Beretta, 1999), come un poeta siculo-toscano.
Il canzoniere di M. è trasmesso in unico corpo e quasi per intero (con una sola assenza) dal principale codice relatore della lirica antico-italiana, il ms. Vat. Lat. 3793 (V); gli altri manoscritti tramandano sotto il suo nome un numero inferiore di testi: due il ms. L (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Redi 9), cinque il P (ivi, Banco Rari 217, già Palatino 418), tre il Ch (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig. L. VIII. 305), tre il V2 (ivi, Vat. Lat. 3214); il ms. M (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magliabechi VII. 1208) e il Vall (Valladolid, Biblioteca Histórica de Santa Cruz, ms. 332) conservano solo una lirica, La ben aventurosa innamoranza, che è la più rappresentata nei codici; tra i primi testimoni a stampa, la Poetica di Gian Giorgio Trissino (1529) riporta frammenti di tre testi. Due componimenti si configurano come unica di V: Sei anni ho travagliato e Madonna, de lo meo 'namoramento.
Sono tre gli elaborati rimici che la tradizione manoscritta non attribuisce in maniera univoca a M.: di questi, Gioiosamente canto va sicuramente restituito al contendente Guido delle Colonne sulla base di considerazioni sia ecdotiche che formali e stilistiche (Contini, 1952; Id., 1954, p. 178; Panvini, 1953, pp. 123 s.; Id., 1962, p. XLIV; Latella, Mazzeo, 2000); Amore, avendo interamente voglia viene ascritto a Ranieri da Palermo dal codice P e dalla Poetica del Trissino, contro la testimonianza di V e L che designano come autore M.; Lo gran valore e lo presio amoroso, su indicazione ancora di P (contro V), a Rosso da Messina.
Questi due fantomatici rimatori, peraltro sconosciuti sul fronte poetico, acquistarono corpo in alcuni studi di pieno Ottocento-inizi Novecento. Ranieri in particolare acquisì, grazie a una serie di equivoci e misinterpretazioni, un piccolo canzoniere: Nannucci nel 1843 riunì sotto tale nome Amore, avendo (II, p. 21), D'un amoroso foco e Allegramente eo canto (II, pp. 226 ss.); Palermo (1860, p. 92) Amor, da cui avendo (secondo la lezione di P) e Allegramente eo canto; De Bartholomaeis (1943, p. 138) Amor, da cui avendo e D'un amoroso foco, informando di una rubrica indicante Ranieri a proposito di Allegramente eo canto. Alla base delle inesattezze sta probabilmente l'immediata successione, nel codice P, di Amore, avendo con attribuzione a Ranieri e di Allegramente eo canto anepigrafa, che ha causato l'estensione della paternità, estensione esplicitata dal ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chig. L. IV. 131, descriptus di P per la parte riguardante le rime siciliane, in cui ad Allegramente eo canto è premessa una rubrica che attribuisce la canzone a Ranieri da Palermo. Dopo Allegramente nel manoscritto chigiano segue, anonima ma, ancora, facilmente collegabile al nome apposto in capo alla filza, D'un amoroso foco. Sul versante invece dell'individuazione storica di Ranieri non si registrò nulla di significativo (Scandone, 1904-1906, pp. 152 s.). Diverso il caso del secondo personaggio additato come rimatore, Rosso da Messina: i Rosso costituirono una delle dinastie più importanti e potenti della Messina due-trecentesca, e i suoi membri si distinsero per la sempre accorta e sagace politica che mantenne la famiglia costantemente ai vertici della vita pubblica dell'epoca. La documentazione sui Rosso, copiosa e circostanziata (Galluppi, 1877; Torraca, 1902, pp. 101 s.; Scandone, 1903, pp. 255-257; Russo, 1967; Pispisa, 1980; Sciascia, 1993), tace però completamente dell'esistenza tra le sue file di un verseggiatore: è lecito dunque immaginare che alla base dell'indicazione di P (tra l'altro notoriamente poco affidabile nelle attribuzioni) o, meglio, del suo antigrafo di ambiente pisano-lucchese, vi sia un errore di trascrizione e/o un'assimilazione, voluta o incosciente, con una famiglia di Messina posta in primo piano nelle vicende della cronaca e, in particolare, detentrice di contatti con pisani (Latella, Mazzeo, 2000). Né l'una né l'altra delle liriche controverse sembrano in realtà prodotte da autori diversi da M.: per Amore, avendo soccorre anzitutto il criterio ecdotico (Contini, 1952, p. 392; Panvini, 1953, p. 120; Id., 1962, p. XLVII), ma anche tema, modalità metriche, scrittura, apparato retorico si rivelano congruenti al macrotesto mazzeiano; per Lo gran valore è possibile invocare l'evidenza interna, dato che per impianto strutturale, caratteristiche metriche, elementi stilistici e capillari clichés espressivi la canzone si dimostra in tutto omologabile all'usus scribendi di M. (Latella, Mazzeo, 2000).
Il corpus di M. è dunque formato da sette componimenti: le sei canzoni toccano l'unica corda del rapporto amoroso, considerato nel versante positivo della concordia sentimentale ma anche in quello negativo della disarmonia e della risoluzione, affrontate nei due commiati Amore, avendo interamente voglia e Sei anni ho travagliato. Un contrasto è Lo core innamorato, ove il dipanarsi del sentimento è espresso dalle due voci maschile e femminile alternate e il dialogo amoroso è avviato, evenienza minoritaria nella prassi letteraria cortese, dalla donna (Arveda, 1992). Il sonetto Chi conoscesse è invece costruito su un tema etico, il malcostume di pensare e dir male del prossimo senza avvedersi delle proprie mancanze, e condotto sul filo del ragionamento filosofico.
Nel canzoniere di M. preponderante si manifesta l'influenza occitanica: il richiamo alla letteratura trobadorica, matrice e modello di quella siciliana, è vastamente rilevabile presso tutti i verseggiatori della Magna Curia, in quantità e modalità variabili che investono tanto il tessuto formale e linguistico quanto il livello dei costituenti sostanziali (temi, immagini, percorsi ragionativi), ma arriva in un ristretto e significativo gruppo, aperto da Giacomo da Lentini e annoverante Rinaldo d'Aquino, Jacopo Mostacci e M., all'estremo della traduzione d'arte da intere unità testuali. M. si avvale in due occasioni (come, prima di lui, il Notaro) del procedimento della trasposizione da una fonte occitanica: l'esempio più eclatante è Sei anni ho travagliato, che utilizza un componimento di Folchetto da Marsiglia, Sitot mi soi a tart aperceubutz. L'accostamento al modello è apprezzabile sin dall'aspetto della struttura esterna nell'uso delle coblas unissonans impiegate dal prototesto (anziché delle più consuete per M. coblas singulars) e delle uscite rimiche, di cui due su quattro sono identiche a quelle di Sitot, ed è condotto con perizia sul fronte contenutistico, con la ripresa di nuclei tematici, di immagini, di paragoni e di sintagmi significativi e riconoscibili del dettato originario, il tutto attuato sul terreno della contaminazione con altre fonti (secondo un uso tipico della Scuola e risalente a Giacomo da Lentini) ma anche delle innovazioni e degli apporti personali. Il secondo esercizio traslativo riguarda la canzone Lo core innamorato, il cui antecedente si ravvisa nel salut di Arnaut de Marueil Domna, genser que no sai dir; qui la tecnica traspositiva è però meno evidente, di carattere più allusivo e raramente puntuale nel richiamo lessicale (Latella, 1998-1999).
Il tributo pagato da M. alla lirica in lingua d'oc si esplica anche nel recupero dei generi poetici; le già citate Amore, avendo e Sei anni si inscrivono così nel filone, tematicamente dissonante rispetto allo standard cortese, del commiato erotico, sottogenere ben attestato presso i trovatori e poggiante su un ristretto numero di cardini argomentativi che vanno dall'annuncio da parte del poeta-innamorato della scissione della relazione per manchevolezze della donna all'eventuale ingresso nella propria vita amorosa di un'altra dama. La categoria, pur sfuggita alla codificazione dei generi nei trattati medievali, risulta coltivata in gran parte delle letterature germinate da quella trobadorica, compresa la lirica italiana prestilnovistica che, more solito, screma e personalizza gli schemi provenienti dai modelli d'Oltralpe realizzando un prodotto dalla facies individuale. Le canzoni di M. si inseriscono a pieno titolo nel gruppo, confermando l'adesione del rimatore tanto ai moduli lirici trobadorici, con competenza ripresi, ricalcati e adattati, quanto alla realtà poetica contemporanea e conterranea.
Considerando nell'insieme le formule metriche utilizzate da M. si rinvengono delle costanti che consentono di delineare un abito comportamentale. Se la misura sillabica delle poesie è quella consueta del binomio endecasillabo più settenario, meno ordinario è invece il collegamento rimico a strofe unisonanti impiegato in Sei anni, poco rappresentato nel panorama complessivo della Scuola che predilige le più comode stanze singulars. Quello però che contraddistingue nettamente le canzoni di M. è la frequenza delle sirme variabili (sirme cioè in cui viene ripetuta una rima già presente nella fronte, con scompaginazione dell'impianto strofico generale), artificio osservabile con regolarità nel complesso della produzione siciliana, ma perseguito da M. con tale assiduità da costituire suo tratto peculiare (Antonelli, 1978, pp. 181-183): risulta infatti applicato, anche se in misura diversa, a tutte le canzoni costruite con strofi singulars. Ancora in campo formale va rilevato un suo tic stilistico, l'abitudine a imbastire le testure poetiche con elementi che si ripetono. Il fenomeno è riscontrabile a più livelli: per quanto riguarda le uscite rimiche, tutte le canzoni (eccetto Sei anni, a strofe unissonans) sono caratterizzate dal ritorno in più stanze di una stessa rima e, nel loro insieme, tutte condividono con altre canzoni più terminazioni rimiche; la stessa tecnica iterativa è messa in atto con i singoli rimanti, che non di rado vengono ripetuti all'interno di ciascuna unità testuale e che disegnano una precisa costellazione ove si consideri l'intero corpus mazzeiano, percorso da un reticolo di parole-rima più volte utilizzate (Latella, Mazzeo, 2000). La pratica della ripetizione si ritrova ancora a livello lessicale sintagmatico e contrassegna in modo deciso il dettato: il pensiero viene precisato grazie al ritorno di elementi chiave, di Leitwörter, che vengono riproposti con martellante cadenza sia in aspetto identico che in variazione morfemica o sinonimica (Ciccuto, 1979 [1985, pp. 181 s.]; Latella, Mazzeo, 2000).
Forte l'influenza transalpina a livello lessicale: in particolare, se il fondo ideologico-espressivo è occitanico, lo strumento linguistico non manca di denunciare ascendenze anche oitaniche. Tra i numerosi gallicismi adoperati da M. alcuni si segnalano per la loro unicità nel panorama terminologico della Scuola: "'ntrasatto" 'immediatamente', "gialata" 'gelata' (Amore, avendo), "affetamente" 'adornamenti' (Sei anni), "aver sogna" 'aver voglia' (Chi conoscesse).
L'amore, tema dominante delle canzoni di M., non sfugge al canonico inquadramento cortese e si presenta quindi intriso di sensi feudali nella concezione, poggiante sugli imprescindibili capisaldi del servizio maschile supportato dalla fiduciosa attesa, della lealtà, della fedeltà, del rispetto reciproci; la forza del sentimento è spesso rappresentata come tiranna e soverchiatrice della volontà umana, la fenomenologia dell'innamoramento è descritta in Madonna, de lo meo con ricorso al lessico della costrizione e lo stato amoroso è accostato in La ben aventurosa alla perdita della misura e a un comportamento privo di saggezza; anche la pienezza dell'amore ricambiato non è esente da dubbi e gelosie e viene espressa in Lo core innamorato nella separazione del cuore dal corpo, emblema usuale nella poesia occitanica già recepito da Giacomo da Lentini; parimenti di ascendenza lentiniana è il motivo della 'figura' della donna dipinta nel cuore dell'innamorato che si trova nella chiusa di La ben aventurosa, a simboleggiare l'amore introiettato e produttivo di miglioramento in chi lo possiede.
Del tutto congruente alle linee poetiche della Scuola è il ricorso di M. a topoi in buona parte attinti al repertorio trobadorico ma ormai fatti propri dalla tradizione siciliana: il rapporto diretto tra occhi e cuore, l'amore che brucia l'innamorato, la condizione di gioia dolorosa in cui versa chi ama, l'angelicità della donna, l'ineluttabilità dell'attrazione amorosa che agisce come una calamita; parallelo e costante l'impiego di metafore, similitudini e paragoni che intervengono a esemplificare i concetti traducendoli in immagini di forte pregnanza e immediatezza: il sereno dopo il maltempo che dà speranza all'innamorato, il ghiaccio che non può tornare allo stato originario di neve che raffigura l'irreversibilità dell'innamoramento, il fanciullo attratto e bruciato dalla fiamma della candela come l'uomo che l'amore inganna, il giocatore perdente, il creditore non soddisfatto, il cigno che innalza morendo il suo ultimo canto.
Non è difficile rinvenire nei testi di M. connessioni intertestuali con altre realizzazioni rimiche uscite dalla Magna Curia, a conferma di quella circolazione interna, di quel contatto continuo e di tipo personale e di natura culturale sviluppatosi tra i produttori e concretizzatosi nei prodotti lirici lungo tutto l'arco esistenziale della Scuola: in prima linea tra le auctoritates presenti tra le pieghe del dettato lirico Giacomo da Lentini, ispiratore di temi, snodi concettuali, formule, sequenze di rimanti; analogie e coincidenze espressive si rinvengono in varia misura con Federico II, Pier della Vigna, Rinaldo d'Aquino, Tommaso di Sasso, Guido delle Colonne.
L'opera di M. appare in gran parte conosciuta da rimatori contemporanei e posteriori soprattutto di area toscana, presso i quali si riscontra la ripresa di idee, di immagini, di espressioni e di sintagmi del Messinese. Un caso estremo è costituito da Bonagiunta Orbicciani, il cui sonetto Chi va cherendo guerra e lassa pace manifesta un netto rapporto di dipendenza dal sonetto Chi conoscesse di M., di cui riprende l'argomento morale della maldicenza e con cui lascia intravedere una possibile relazione dialogica attraverso una rete di segni formali; la connessione fra i due componimenti ha una spia codicologica nel canzoniere V2, che li tramanda in allogazione contigua (Santangelo, 1951, p. 29; Id., 1928, p. 67; Giunta, 1998, pp. 265 s.). Parimenti forte la presenza di M. in Inghilfredi e in Chiaro Davanzati; a lui si richiama in più modi Guittone d'Arezzo; lo citano Panuccio del Bagno, Terino da Castelfiorentino e Monte Andrea; echeggiamenti a volte distinti, a volte coperti, si colgono in Dante da Maiano, Guido Cavalcanti e Guido Guinizzelli.
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Perrin, Genève 2000, pp. 201-217. È in corso di stampa una nuova edizione critica delle rime di M. a cura di F. Latella, condotta nell'ambito del progetto di rivisitazione e ripubblicazione dell'intero corpus dei Siciliani promosso dal Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani.