MEDICINA RIABILITATIVA
Riabilitazione in neurologia di Maurizio Maria Formica
Sommario: 1. Introduzione. 2. Riabilitazione neurologica. a) II movimento. b) Classificazione. c) La spazialità. d) II substrato anatomico funzionale. e) La plasticità. 3. L'esercizio terapeutico. 4. Tecniche rieducative. 5. Il programma riabilitativo. a) Premessa. b) Danno centrale: emiplegia. c) Danno midollare: paraplegia. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La riabilitazione può essere definita come l'insieme dei mezzi atti a restituire alla comunità individui che per qualsivoglia motivo se ne collochino ai margini o al di fuori; essa assume quindi un particolare significato in campo medico, in quanto fa riferimento agli eventi patologici e traumatici che possono limitare o ridurre le funzioni dell'individuo e le sue capacità di interagire socialmente.
La riabilitazione medica ha due principali campi di applicazione: il primo riguarda le conseguenze psicosociali, economiche e lavorative cui vanno soggetti gli individui che presentano un qualche deficit funzionale; il secondo è quello relativo alle conseguenze a livello motorio - e anche a livello cognitivo - di diverse patologie. Questi due ambiti di applicazione hanno comunque fatto sì che la riabilitazione venga generalmente considerata come un aspetto ‛secondario' della medicina che, esaurito il proprio compito di curare e di guarire l'episodio acuto, affida il trattamento delle conseguenze invalidanti che questo può avere avuto a personale considerato meno qualificato, i cui compiti, peraltro, sono mal delineati e definiti: le responsabilità di tale personale vengono variamente interpretate, e vanno dall'assistenza più o meno caritativa alla ginnastica, all'elaborazione di sussidi, protesi, accorgimenti atti a far funzionare al meglio l'individuo disabile (v. Formica, 1989). Per questi motivi è accaduto che delle disfunzioni causate da eventi inabilitanti venissero presi in considerazione prevalentemente gli aspetti motori, meccanici, e le loro conseguenze sul piano sociale; pertanto l'approccio riabilitativo è stato - e per molti è ancora - un approccio prevalentemente empirico, che frequentemente prescinde da uno studio approfondito dell'eziologia e dell'anatomia patologica della disabilità (v. Shahan e Scheinberg, 1987). Va invece sottolineato come una riabilitazione efficace non può che essere il risultato di un approccio interdisciplinare; essa deve cioè servirsi di tutte quelle specialità mediche e non che possono contribuire a risolvere i numerosi problemi determinati dalla disabilità.
2. Riabilitazione neurologica
Nel corso degli anni la riabilitazione ha trovato il suo principale campo di applicazione nei disturbi della motilità, sia nel caso che questi derivassero da lesioni dell'apparato osteo-articolare e muscolare, sia che dipendessero da lesioni del sistema nervoso periferico o centrale; tuttavia, solo quando Kabat (v., 1940) e Gellhorn (v., 1953) tentarono di dare un'interpretazione neurofisiologica delle tecniche rieducative usate per il recupero dei poliomielitici, il campo delle lesioni neurologiche ha cominciato a destare l'interesse dei riabilitatori. Questo interesse era però limitato - e lo erano quindi anche le possibilità di intervento - dalle convinzioni ancora dominanti sull'irreversibilità di questo tipo di lesioni. Pressappoco dello stesso periodo sono le ricerche di Temple Fay (v., 1946) sulle paralisi cerebrali infantili, che permisero di accertare come qualsiasi disturbo neurologico si traduca in un disturbo del movimento, il quale si complica e si associa a disturbi di altre strutture, neurologiche e non, che possono essere prevenuti, modificati nella loro evoluzione e risolti dal trattamento rieducativo; e anche di chiarire come lesioni di altri organi possano determinare direttamente o indirettamente il coinvolgimento di strutture neurologiche e psichiche, provocando alterazioni che a loro volta inducono modificazioni del comportamento motorio dell'individuo. Una malattia non è mai semplicemente una perdita o un eccesso: c'è sempre una reazione, da parte dell'individuo colpito, volta a ristabilire, a sostituire, a compensare e a conservare la propria identità, per strani che possano essere i mezzi usati (v. Sacks, 1984).
Quindi il sintomo, o ‛segno', nel quale la medicina tradizionale individua la manifestazione clinica di un difetto o di un eccesso, rappresenta anche un ‛segnale' in grado di richiamare l'attenzione dell'osservatore e di guidarne l'intervento (v. Bühler, 1934). Per tale motivo nei ‛segni' o ‛sintomi' neurologici e neuropsichici possiamo cogliere le dimensioni strutturali di una immobilità spazio-temporale per cui essi appaiono - senza una storia o una causa oggettivamente definibili - indicativi dell'esperienza di un diverso modo di ‛esserci' (v. Longhi, 1993).
a) Il movimento
Il movimento è legato all'esistenza di complessi funzionali atti a compiere meccanicamente l'attività motoria e di strutture che modellano e correggono tale attività, adattandola alle condizioni ambientali e alle esigenze proprie dell'organismo e della coscienza.
Secondo Grimm e Nashner (v., 1978) i disturbi del movimento possono essere suddivisi in due categorie: la prima è rappresentata da alterazioni di strutture situate al di sopra del livello delle unità motorie e delle terminazioni centrali delle vie afferenti primarie, così che, pur funzionando normalmente le strutture periferiche che ne sono responsabili, l'esecuzione del movimento è errata a causa di errate istruzioni (disturbi del programma); nella seconda categoria il disturbo è invece localizzato nell'apparato motorio vero e proprio (disturbi non programmatici). Le strutture centrali e quelle periferiche sono comunque strettamente connesse e le loro interazioni e reciproche influenze costituiscono la base della ‛propriocezione', attraverso la quale il corpo conosce se stesso (v. Sherrington, 1948).
Percezione e azione si collegano e integrano tra loro in un ‟circolo funzionale" (v. Uexquell, 1956) o ‟circolo strutturale" (v. Weizsäcker, 1940), riconducendo l'indagine biologica, neurofisiologica e psicologica sul piano del rapporto primario del soggetto con il mondo. Esse divengono, nel rapporto con l'ambiente, uno strumento peculiare di conoscenza da cui dipende la possibilità di un'armonica evoluzione cognitiva permanente nel tempo. D'altronde la necessità di situarsi nello spazio, di organizzarlo, di ritrovare i luoghi riveste un'importanza fondamentale nell'adattamento all'ambiente; ed è proprio attraverso il movimento - che consente sia la conoscenza del proprio corpo, sia l'esplorazione del mondo esterno - che tale adattamento si realizza. Gli stimoli che eccitano le varie aree recettoriali sono in esse codificati e convertiti in impulsi nervosi, quindi raggiungono i centri integrativi corticali dove vengono decodificati. Un oggetto posto nello spazio viene così riprodotto nella coscienza dove i diversi stimoli sono associati in un significato compiuto che consente di distinguere il cigolio del carro, il suono della campana, il crepitio del fuoco. L'ambiente non rappresenta un elemento passivo o contrapposto all'organismo, bensì si integra con esso nel processo di strutturazione (v. Heidegger, 1927).
Il soggetto che esplora un oggetto di cui non conosce la natura, atteggia il proprio corpo e protende la mano secondo una sequenza di atti collegati all'informazione retrograda e volti alla determinazione spazio-temporale del prossimo progetto motorio. Il movimento non nasce allora da una sollecitazione sensitivo-sensoriale, ma dalla prospettiva della possibile attuazione dell'atto motorio; l'informazione retrograda più che controllare istante per istante l'esecuzione motoria, controlla e provoca lo sviluppo della prospettiva stessa. L'oggetto sconosciuto viene afferrato, trasformato in un contenuto della coscienza insieme allo spazio nel quale è situato.
Ora, se il movimento, nel suo più ampio significato che abbraccia anche la sfera psicosensoriale, rappresenta la base del rapporto organismo-ambiente, è chiaro perché una sua alterazione, sia nel corso dell'esecuzione sia nella fase della progettazione, incida sul rapporto in questione. L'esplorazione dello spazio extracorporeo rappresenta il prerequisito affinché qualsiasi compito, anche di natura non strettamente spaziale, ma che implichi comunque la percezione di stimoli provenienti dal mondo esterno, possa essere eseguito correttamente. L'esplorazione è quindi un'attività sensomotoria che può svolgersi solo grazie a un contenuto di coscienza definibile come ‟attenzione spaziale" (v. Luria, 1977).
Nel soggetto normale l'attenzione spaziale presenta un gradiente di simmetria che si modifica nel corso dell'attività motoria, per cui assistiamo a un continuo adeguamento dei vari segmenti corporei al fine di ristabilire lo stato di equilibrio simmetrico. Un'alterazione delle possibilità di movimento o delle capacità percettive modifica le possibilità di attenzione spaziale e limita pertanto le capacità esplorative, gestuali e funzionali. Un soggetto che non può più disporre di una funzione motoria o percettiva è portato a ripristinare il suo equilibrio facendo uso di strategie alternative che escludono l'uso della struttura corporea alterata, ignorando e trascurando tutti quei settori di spazialità intra- ed extracorporea collegati a quel segmento. Ciò provoca una riduzione dello spazio fruibile nel quale viene persa quella posizione di centralità da cui nasce ogni nostro agire, con la possibilità di volgersi in tutte le direzioni. Il venir meno di una delle direzioni crea nel soggetto l'impossibilità di orientarsi correttamente rispetto al proprio corpo e alla spazialità a esso correlata e di organizzare quindi una produzione gestuale significativa per sé e per gli altri.
I metodi tradizionali di osservazione con cui viene di solito descritta la compromissione di una abilità motoria o di una capacità percettiva, basati sulla valutazione del segno neurologico, possono condurre a una diagnosi della sede o dell'entità anatomica della lesione, ma non permettono di esprimere valutazioni sulla compromissione funzionale legata all'interdipendenza e alla dinamicità delle strutture neurologiche.
Quello che viene definito ‛movimento volontario' è analizzato in base a parametri spazio-temporali di tipo fisico - come la forza, la velocità, la coordinazione, l'accelerazione, la frequenza, le caratteristiche elettromiografiche, e così via - ai quali corrispondono la sistemazione anatomica degli apparati neuronici e la loro fisiologia - eccitazione, facilitazione, inibizione, conduzione nervosa. Le alterazioni motorie, le deviazioni dallo schema motorio proprio del corpo umano, schema costruito in analogia a quello del movimento di un qualsiasi oggetto nel tempo e nello spazio fisici, sembrano riferibili ad alterazioni del complesso sistema di strutture (vie nervose, muscoli, segmenti scheletrici) puntualmente corrispondenti ad alterazioni di certe caratteristiche (l'escursione articolare, il tono muscolare, la forza, le informazioni proprio- ed esterocettive, la coordinazione spazio-temporale dei singoli movimenti), che nel loro insieme dovrebbero portare alla normale esecuzione dell'atto motorio complesso. Liepman (v., 1905) sosteneva che il movimento è suddivisibile in una serie di movimenti parziali successivi compiuti dai vari segmenti del corpo, quasi fossero ‟servitori ubbidienti", la cui somma dà come risultato il gesto completo; la successione nel tempo e nello spazio verrebbe prestabilita da un progetto motorio a carattere psichico che predispone, come tessere di un mosaico, i singoli movimenti per costruire il gesto voluto.
Senza dubbio l'indagine neurofisiologica permette un'analisi piuttosto precisa dei meccanismi di regolazione periferica dell'attività muscolare, relativamente ai parametri di tensione e lunghezza del muscolo e di velocità e durata delle loro variazioni (v. Pinelli, 1988). Gli autori anglossassoni indicano come ‛autogenica' questa regolazione in cui le afferenze fusomuscolari tendinee e articolari vengono integrate a livello midollare (linkage alfa-gamma, innervazione reciproca) e nelle strutture sopramidollari del tronco cerebrale, del cervelletto, del sistema extrapiramidale che agiscono sulle afferenze primarie e sugli interneuroni midollari con influssi inibitori pre- e postsinaptici ed eccitatori sinaptici (v. sinapsi, vol. VI; v. sistema piramidale, vol. VI).
Tutte queste informazioni sono di indubbia utilità per l'interpretazione della patologia del movimento nell'ambito dell'impostazione classica cui abbiamo precedentemente accennato. La riabilitazione deve però cogliere il movimento nella sua realtà effettiva, come un modo, cioè, di vivere ed esprimere la propria presenza nel mondo attraverso il proprio corpo. In ciò consiste quella complessa motricità che prepara, sottende, sostiene il movimento volontario finalizzato e che può essere genericamente indicata come ‟motricità di approntamento" (v. Formica e altri, La spazialità..., 1973). Caratteristica fondamentale di tale motricità è che i suoi parametri sono diversi da quelli della motilità volontaria, nella quale il movimento viene analizzato sulla base di rapporti spazio-temporali di tipo fisico-matematico.
b) Classificazione
Da quanto si è detto, il movimento di un essere vivente deve essere inteso come un'attività programmata la cui origine non è esclusivamente individuabile negli apparati anatomo-funzionali che vi sono preposti. Nella percezione, nella manualità e nel movimento espressivo si attua il rapporto fra individuo e ambiente, e si esplica la soggettività degli esseri umani.
Tuttavia una classificazione dei movimenti appare indispensabile per una valutazione sia della loro normalità che delle loro eventuali alterazioni. Riteniamo rispondente alle nostre esigenze una classificazione dei movimenti in base ai seguenti criteri (v. Buytendijk, 1956): 1) dal punto di vista ‛intraempirico', ovvero giudicando i movimenti in base al loro aspetto immediato e alla loro forma; 2) dal punto di vista ‛tipologico', vale a dire in base al rapporto tra la forma del movimento e colui che lo compie; 3) dal punto di vista ‛transempirico' e cioè secondo il grado di libertà o di coazione del movimento, visto come rapporto del soggetto con se stesso; 4) dal punto di vista ‛funzionale', vale a dire secondo il significato del movimento.
Della nostra disponibilità motoria, precisa Buytendijk, noi abbiamo nelle nostre azioni abituali ‟solo una esperienza irriflessa che è peraltro continuamente attiva e che si traduce nella sicurezza nella nostra capacità, ad esempio, di precisione nei movimenti". Considerare la motricità dal punto di vista della disponibilità corporea implica, d'altra parte, l'ipotesi che una sofferenza motoria, qualunque ne sia la causa e il carattere, necessariamente si ripercuota sull'esperienza intima, vissuta, della possibilità motoria e quindi sulla motricità finalizzata di cui costituisce la premessa. Ciò non comporta il superamento o la negazione degli approcci neurofisiologici e chinesiologici allo studio della motricità umana, dei suoi disturbi e delle possibilità di una sua rieducazione, anzi offre a essi nuovi e più vasti campi di ricerca e motivi di riflessione.
Goldstein (v., 1934) sostiene che ogni movimento di un segmento corporeo è accompagnato da modificazioni posturali che determinano a loro volta variazioni del campo percettivo ‟a sostegno della percezione in atto". Da analoghi concetti, espressi da Anokhin e altri (v., 1973), Perfetti ha tratto i punti fondamentali del suo approccio rieducativo, che si basa su uno studio del comportamento inteso come possibilità di produrre sequenze significative e non come manifestazione di contrazioni muscolari: in tal modo la riabilitazione potrebbe essere definita come la ‟scienza che studia l'apprendimento in condizioni patologiche" (v. Perfetti, 1981). Secondo Moore (v., 1980), infatti, il substrato biologico che è alla base dell'apprendimento sarebbe lo stesso che è alla base del recupero funzionale. Vengono così rivoluzionati i tradizionali schemi riabilitativi, che da una ‟riabilitazione cognitiva possono vedere aumentato il corredo professionale a disposizione per combattere le conseguenze di una lesione cerebrale" (v. Trexler, 1982).
Formica e altri (v., 1980) hanno sottolineato come compito della riabilitazione sia quello di ricercare, alla luce delle molteplici possibilità percettive e motorie, l'approccio che caso per caso conduca a un ‟apprendimento operante", con il quale si vuole intendere non tanto e non solo l'acquisizione, o la modificazione, di schemi di movimento o di modelli comportamentali da parte del paziente, quanto la capacità di quest'ultimo di utilizzare tali acquisizioni in modo continuativo, senza le sollecitazioni fornite dall'ambiente terapeutico.
È chiara da questo punto di vista l'importanza assunta dai processi di identificazione e di interiorizzazione che sono alla base dei processi cognitivi e quindi delle progressive prese di coscienza del proprio essere fisico.
c) La spazialità
Secondo Schilder (v., 1935) lo schema corporeo deriva non solo da sensazioni proprio- ed esterocettive, cui si aggiungerebbe una vera e propria sensazione di unità corporea, ma anche da una chiara e netta collocazione del proprio corpo nelle tre dimensioni dello spazio che, per noi, è privo di realtà senza il corpo che vi agisce. Ma questo spazio, che è dentro e fuori dello schema corporeo e dello schema posturale, non è valutabile in termini puramente fisici. La coscienza del proprio corpo si estende nello spazio esterno sino al punto in cui sentiamo ancora di ‟essere uno con noi stessi" (v. Formica e altri, 1979). Questo spazio sensoriale diventa un vero e proprio ampliamento e prolungamento dello spazio del nostro corpo anatomico (guidando una macchina, facendoci strada con un bastone possiamo facilmente renderci conto di questa sensazione); esso è variabile a seconda delle situazioni fisiche ed emotive e sarà molto ridotto in un incontro affettuoso, più esteso e nettamente definito in una situazione di allarme. I continui spostamenti del nostro corpo e dei suoi segmenti ci permettono di situarci nel nostro spazio e di orientarlo secondo le nostre esigenze. Ciò è particolarmente evidente negli invalidi, cui la mancanza di certi schemi motori impedisce questa plasticità di orientamento dello spazio e nello spazio. Così il paraplegico per eliminare la zona ‛dietro' le sue spalle, che non può controllare spostandosi continuamente come farebbe un individuo sano, deve mettersi con la carrozzella con le spalle contro il muro, in modo da avere il suo spazio personale di controllo sempre davanti a sé (v. Pesaresi, 1975).
I limiti di questo spazio non sono definiti da coordinate fisiche, ma vanno ricercati in quel rapporto del soggetto con il mondo da cui scaturiscono i concetti dello spazio abitabile, fruibile, ‛dove' l'azione può indirizzarsi, ‛verso' cui il gesto può rivolgersi. Questa spazialità è presente nella fase di progettazione, nel disporsi al gesto, e costituisce quindi una ‟componente strutturante il fine per cui il gesto si attua" (v. Formica e altri, 1975).
I concetti fin qui enunciati potrebbero giocare a favore di un approccio riabilitativo essenzialmente filosofico, sociale, che conforterebbe le opinioni di coloro che sostengono l'inutilità del trattamento rieducativo nelle lesioni neurologiche (v. Gazzaniga, 1974), o l'agnosticismo, la noncuranza dimostrata, nei confronti delle possibilità riabilitative in neurologia, dalla maggior parte degli autori di trattati di clinica neurologica, o ancora l'atteggiamento di coloro che vedono nel portatore di lesioni neurologiche, soprattutto in età evolutiva, un soggetto da ‛socializzare' e per il quale gli interventi, o certi interventi rieducativi in particolare, sono inutili.
Il superamento del concetto di paralisi dei muscoli, l'identificazione dei meccanismi regolatori del tono muscolare, lo studio dei complessi anatomici e funzionali connessi con l'elaborazione e il controllo dei comportamenti in genere e di quelli motori in particolare hanno rappresentato, insieme a quanto già detto e a quanto diremo sulla plasticità e sulle capacità di riorganizzazione funzionale del sistema nervoso, i punti di partenza per la comprensione di ‛come' sia possibile un recupero funzionale e di quali fattori entrino in gioco in questo recupero. Il trattamento riabilitativo è quindi legato anche a una corretta valutazione e conoscenza dell'entità e della sede delle lesioni, dei suoi tempi di insorgenza, delle doti di plasticità e di riadattamento funzionale, caratteristiche dell'organismo in generale e del sistema nervoso in particolare, nonché delle premesse teoriche su cui si basano le tecniche di trattamento e delle implicazioni che derivano dalla loro applicazione.
La varietà sia dei motivi causali del disturbo della funzione motoria, sia dei possibili collegamenti fra le strutture a essa sottese e delle possibili risposte di adattamento funzionale del sistema nervoso rende quindi necessaria un'esatta valutazione del paziente e della sua personalità e un'accurata analisi quantitativa e qualitativa delle lesioni, in modo da elaborare un programma di intervento rieducativo che, al di fuori di rigidi schemi, si adatti alle necessità e alle possibilità del singolo.
È nell'esperienza di qualsiasi clinico assistere, anche in casi non trattati, a recuperi spontanei pressoché completi (v. Bach-y-Rita, 1980), verosimilmente dovuti a un'altissima motivazione che, facilitata dalle condizioni ambientali, fa sì che il paziente cerchi e trovi nell'attività quotidiana le azioni motorie che agevolano il recupero delle funzioni perdute realizzando quell'ipotesi percettiva e quelle tappe dell'apprendimento che Perfetti descrive come ‟esercizio specifico" (v. Held e Freedman, 1963; v. Perfetti, 1979 e 1981).
In questi casi i pazienti non si pongono il problema di estendere o flettere un braccio o una mano, ma si propongono un compito da svolgere nel modo più economico ed efficace possibile. La ricerca di questo modo costituisce il meccanismo di informazione, di feedback che consente di regolare l'innervazione sia fasica che tonica, di sostituire informazioni propriocettive carenti con altre afferenze sensoriali e di integrare questi meccanismi in un ‟apprendimento operante" (v. Formica, 1957).
d) Il substrato anatomico funzionale
È ormai accettato il principio che i due emisferi cerebrali, anche se specializzati in funzioni diverse, attraverso le connessioni commissurali esistenti a livello sia centrale che midollare condividano in modo pressoché istantaneo i messaggi ricevuti per giungere a una valutazione dell'intero ambiente (v. emisferi cerebrali, vol. II). Questa specializzazione funzionale fornisce all'uomo una capacità di elaborazione che gli consente di rievocare il passato, di regolare l'attività presente e di anticipare il futuro senza che sia annullata l'organizzazione bilaterale dei livelli sottocorticali, responsabili, secondo Moore (v., 1974), della ‟stereocapacità" che gli permette di sopravvivere e di adattarsi all'ambiente tridimensionale e che è legata all'attività dei livelli filogeneticamente più antichi del sistema nervoso.
È su questi livelli che si organizza, nella successiva evoluzione ontogenetica, l'attività dei neosistemi, i cui componenti - attraverso il corpo calloso, le commissure del mesencefalo e del diencefalo, il sistema reticolare - aggiungono una nuova dimensione al sistema nervoso stesso. Attraverso questa strutturazione l'uomo acquisisce la capacità di conoscere l'ambiente, di adeguarsi a esso in una dimensione spazio-temporale pressoché illimitata, di manipolarlo, di cambiarlo non solo nello spazio immediatamente prossimo ma anche oltre l'orizzonte; di ‟adattarsi ai bisogni immediati e a quelli futuri in base alle caratteristiche del territorio e alle necessità individuali come espressione del singolo o di un intero gruppo sociale" (ibid.). Nel manipolare, nel maneggiare gli oggetti, nel muoverci, noi riceviamo informazioni polisensoriali, stereoscopiche, stereoacustiche, stereognosiche, stereogravitazionali che vengono trasmesse non solo dagli organi di senso specifici, ma anche da tutti gli altri recettori situati nelle capsule articolari, negli organi interni, nella pelle (v. recettori, vol. VI).
Una lesione del sistema nervoso distrugge la natura stereomorfologica del sistema e ne altera l'equilibrio, sia per il diretto coinvolgimento delle componenti filogeneticamente più nuove, più vulnerabili per la loro collocazione anatomica e per la maggior complessità delle loro funzioni, sia per l'incapacità di queste componenti di inibire l'attività non necessaria dei più antichi sistemi sottocorticali, del tronco e del midollo. Le strutture sottocorticali, liberate dalle inibizioni, o comunque direttamente colpite dalle lesioni, perdono le loro capacità di regolare il tono di base, gli adattamenti posturali, la coordinazione degli schemi di movimento automatici da cui dipendono i centri superiori per la loro normale funzione. In tal modo la natura tridimensionale del sistema si altera: l'area interessata perde la capacità di decodificare gli stimoli normali dei segmenti ‛non coinvolti', ai quali peraltro trasmette messaggi anormali e non decodificabili. Poiché manca l'esperienza di poter disporre del segmento interessato dal disturbo senso-motorio, la spazialità corrispondente e gli eventi che in essa si verificano vengono esclusi dalle esperienze globali, che ne risultano così distorte e modificate (v. Formica, 1989).
Nel caso di lesioni cerebrali, maggiore è la loro gravità, maggiore sarà la perdita di funzioni del lato opposto del corpo. A causa dell'interruzione dei sistemi di fibre commissurali, di associazione e di integrazione, che consentono al corpo di funzionare come un tutto bilateralmente integrato, anche la parte omolaterale alla lesione sarà però interessata in modo più o meno evidente, spesso documentabile. Il concetto di gravità della lesione non è comunque sinonimo né di estensione né di sede. Finger (v., 1978) indica l'epoca di insorgenza e il ritmo di sviluppo di una lesione come fattori importanti nel determinare la gravità della sintomatologia, fattori che possono spiegare le variabilità individuali in numerosi test comportamentali e neurologici utilizzati per identificare e localizzare il danno cerebrale, e che tuttavia ‟vengono raramente e superficialmente riferiti nella maggior parte dei testi e delle monografie". Una lesione a lenta insorgenza può consentire adattamenti graduali alle variazioni delle diverse funzioni neurologiche, per cui si manifestano meccanismi compensatori che possono spesso nascondere o ritardare il riconoscimento degli aspetti clinici della malattia invalidante. Scheff e altri (v., 1977) ritengono che una lesione evolutiva possa facilitare la riorganizzazione delle strutture non interessate. È esperienza comune rilevare notevoli differenze nella gravità della sintomatologia, non proporzionali alla sede e all'estensione delle lesioni anatomo-patologiche verificabili con i più sofisticati mezzi di indagine a disposizione.
La letteratura è ricca di dati sperimentali che dimostrano la possibilità di ottimi recuperi, anche dopo la distruzione molto estesa di determinate strutture neurologiche; essa non fornisce però ancora informazioni sufficienti e scientificamente probanti sui reali meccanismi neurofisiologici e neuropsicologici sottostanti a questo recupero. Appare chiaro che la riorganizzazione della funzione avviene solo quando rimanga un sufficiente substrato anatomico non interessato dalla lesione, che potrebbe, peraltro, essere sorprendentemente piccolo (v. Lashley, 1939; v. Galambos e altri, 1967). Va sottolineato, inoltre, che questo substrato anatomico non va inteso secondo gli schemi classici della localizzazione delle funzioni neurologiche. Infatti, ogni parte del sistema nervoso, ogni sua struttura, presenta circuiti di riverberazione con le strutture adiacenti, con le aree muscolari prossime e distanti omo- e controlaterali, con i neuroni intercommissurali e con le fibre che da tutte queste formazioni hanno origine. Così, è stato messo in evidenza nell'uomo che ciò che viene rilevato come disturbo della funzione sensoriale e motoria dopo una lesione, non sempre riflette le capacità funzionali residue dell'area lesa, né l'intervento compensatorio di altre zone (v. Granit, 1977; v. Eccles, 1979).
e) La plasticità
La plasticità è una delle due proprietà fondamentali del sistema nervoso. Essa è rappresentata dalla capacità che il sistema ha di modificare la propria organizzazione strumentale e il proprio funzionamento per adattarsi a nuove richieste ambientali: i meccanismi di feedback, di riafferentazione, di controllo a posteriori informano, infatti, se le richieste ambientali sono o meno soddisfatte e se i cambiamenti funzionali così determinatisi sono duraturi. L'altra proprietà del sistema nervoso è l'eccitabilità, che è correlata a cambiamenti rapidi e transitori che non lasciano tracce nella sua struttura.
Bach-y-Rita (v., 1992) fa notare che esistono prove che "lo sviluppo dei dendriti e delle connessioni sinaptiche è in rapporto diretto con la richiesta funzionale", il che farebbe supporre una maggiore estensione degli alberi dendritici nel cervello dell'anziano (età media 79,6), nel quale la degenerazione di un gran numero di neuroni, legata a meccanismi involutivi, determina la richiesta di maggiori prestazioni da parte dei neuroni superstiti, rispetto a quello dell'adulto (età media 52,1). Devor (v., 1994) mette in evidenza come si possa considerare dimostrato che la plasticità del sistema nervoso ha la capacità di determinare nuovi collegamenti sinaptici con possibili effetti funzionali: va però tenuto presente che questi effetti funzionali possono avere in alcuni casi un risultato positivo e favorevole, in altri un esito dannoso. Gemmazione di ramificazioni assonali (sprouting) e proliferazione sinaptica possono infatti condurre a un recupero motorio, ma possono anche provocare, a causa delle connessioni anomale che sovente si verificano, un aumento della spasticità (v. McCouch e altri, 1958), una sindrome comiziale, la comparsa di dolori centrali.
Sono ormai numerose le ricerche che indicano come il recupero funzionale possa essere indotto dall'esercizio di determinate attività ripetute in determinate condizioni e come queste attività possano indurre anche modificazioni strutturali, oltre che di funzione, del sistema nervoso centrale (v. Bethe, 1930; v. Weiss e Brown, 1950; v. Zulch, 1969; v. Chow e Steward, 1972; v. Bach-y-Rita, 1992). Esistono d'altra parte chiare indicazioni di come l'assenza di funzione o di movimento possa indurre modificazioni strutturali e di funzione del sistema nervoso centrale (v. Moore, 1974; v. Knyihár e Csillik, 1976; v. Gorio, 1985).
Non ci sembra giustificata l'attesa ‛messianica' che molti riabilitatori oggi pongono in queste capacità plastiche funzionali, nello sprouting, nelle funzioni cognitive, escludendo dal loro corredo culturale le indispensabili e ineliminabili basi chinesiologiche e neurofisiologiche. Vedere nell'attività motoria una ‛espressione' della personalità non significa che tale ‛espressione' non si manifesti attraverso vie che per funzionare necessitano di una loro integrità e che rispondono a regole precise di funzionamento.
3. L'esercizio terapeutico
Nell'evoluzione della disciplina riabilitativa, i primi tentativi di correzione dei comportamenti motori anomali o inadeguati consistevano in interventi di tipo ‛protesico estetico', cioè in interventi dall'esterno sul corpo dell'individuo che veniva così condizionato e forzato ad assumere un comportamento adeguato. Negli ultimi decenni, come si è detto, è mutata la valutazione del movimento, che è stato inteso come espressione di una corporeità globale, di processi psichici superiori su cui il processo motorio si costruisce e poi si attua in un programma coordinato di attività pratiche o di pensiero. Buscaino (v., 1961) mette in evidenza come anche il ‛pensare' possa essere considerato un'attività motoria, per cui la motricità non viene più studiata solo nelle sue componenti meccaniche e dinamiche, ma anche nelle sue tappe evolutive, come premessa e come conclusione delle tappe di apprendimento (v. Lapierre, 1968-1969; v. Piaget, 1970; v. Wallon, 1970; v. Le Boulch, 1971; v. Formica e altri, 1979).
D'altronde gli studi sull'embriogenesi e sull'evoluzione funzionale del sistema nervoso hanno rilevato come alle tappe dell'evoluzione psicomotoria corrispondano le tappe della sua progressiva organizzazione funzionale e adattativa in base alle premesse filo- e ontogenetiche e alle necessità vitali determinate dall'ambiente. Sono queste ultime che rappresentano la principale motivazione all'apprendimento.
Perché nel sistema nervoso avvenga un processo di apprendimento occorre che ciò che deve essere appreso abbia una certa importanza, sia cioè significativo per l'organismo che sta imparando. In alcune sindromi della età evolutiva, come le distrofie muscolari, il soggetto vive un'esperienza in cui gli apprendimenti motori vengono continuamente frustrati dall'evoluzione della malattia stessa; si altera così il rapporto con la realtà fisica circostante che di giorno in giorno si fa più sfuggente e irraggiungibile per un corpo incapace di attuare i suoi programmi motori, finché l'individuo rinuncia a costruirne, rifugiandosi in una sua vita interiore svincolata e distante dalla realtà esterna (v. Formica e Pastore, 1980). Si comprende, quindi, come, anche nel trattamento rieducativo, quanto più la situazione di apprendimento sarà significativa, tanto maggiori saranno la motivazione e la partecipazione attiva del paziente.
Naturalmente questi concetti vanno commisurati alle condizioni, all'età, al livello cognitivo ed emotivo del paziente e non escludono pertanto la necessità di usare tecniche di trattamento passive. La ‛mobilizzazione passiva', uno dei più antichi e importanti mezzi di trattamento precoce, se correttamente e tempestivamente applicata rappresenta infatti un efficace mezzo di prevenzione delle contratture, delle deformità articolari, dell'osteoporosi e dei decubiti; essa, inoltre, richiama l'attenzione del paziente sui segmenti colpiti, stimola e mantiene le sensazioni propriocettive (v. Rusk, 1958; v. Farneti, 1966; v. Gonzales Mas, 1968; v. Antonini 1973) e rappresenta quindi un importante fattore di disinibizione e di prevenzione della deprivazione sensoriale e funzionale. L'escursione, la rapidità e la direzione nello spazio dei diversi movimenti passivi vanno accuratamente graduate e variate caso per caso, per evitare la comparsa di riflessi di stiramento che possono provocare un indesiderabile aumento del tono in certi gruppi muscolari.
Queste tecniche passive sono d'altronde di particolare efficacia per prevenire la deprivazione funzionale. Con questo nome intendiamo non solo e non tanto il disturbo delle afferenze sensoriali provocate dalle lesioni primarie, quanto quello legato alle modificazioni sia strutturali che emotive e ambientali indotte dal processo patologico. Ogni modificazione dell'ambiente interno ed esterno priva infatti l'organismo dei necessari stimoli senso-motori riafferenti che attivano le funzioni delle strutture più evolute, responsabili della memoria e della conoscenza. Anche il tono emotivo può presentare, in questi casi, significative variazioni a causa dei cambiamenti che avvengono nei sistemi reticolare e limbico (v. Moore, 1980) che, come è generalmente riscontrabile nei reparti di terapia intensiva e di degenza ospedaliera, appaiono particolarmente vulnerabili ai trattamenti con tranquillanti, anestetici, antidolorifici, ai cambiamenti del normale ritmo sonno-veglia, alla perdita degli stimoli regolatori dell'omeostasi.
L'atmosfera isolata, ‛asettica', la separazione dall'ambiente familiare, il cambiamento di orari e quindi dei ritmi di attività e di riposo cui il paziente era abituato, la consapevolezza di essere malato, la mancanza di movimento, la posizione del letto nella stanza e quella del paziente nel letto, che non vengono adeguate alle sue necessità e alle sue ridotte possibilità di movimento, ne riducono la ‛disponibilità motoria' e lo privano degli stimoli indispensabili affinché il confronto del sé con il mondo esterno nei suoi parametri spazio-temporali sia continuamente alimentato e rinnovato. In tali condizioni si verificherebbero nel sistema nervoso, e in particolare nel sistema reticolare, modificazioni funzionali e strutturali (riduzione dell'attività delle sinapsi e successive atrofie neuronali) paragonabili a quelle che si riscontrano nelle atrofie muscolari da non uso (diminuizione graduale del tono e successiva degenerazione della fibra muscolare che perde le sue capacità contrattili), provocando danni irreversibili sia nell'adulto che nell'organismo in via di sviluppo. Si riscontra anche una tendenza all'estensione del danno nelle aree direttamente o indirettamente associate funzionalmente alla sede delle lesioni, che può essere limitata quando si provveda a fornire stimoli adeguati.
È stato dimostrato, con una dettagliata documentazione condotta su modelli animali, come l'esercizio ripetuto in ambiente stimolante ‛arricchito' possa ridurre l'estensione del danno e facilitare il recupero funzionale (v. Will e altri, 1977; v. Rosenzweig, 1980). Da ulteriori esperienze risulta come ‛l'arricchimento sociale' possa modificare le capacità cognitive e le strutture anatomiche solo quando sia associato a un ‛arricchimento' dell'ambiente (v. Walsh, 1981). Molte impostazioni politico-demagogiche odierne, che vedono nella socializzazione, nella cosiddetta ‛integrazione sociale', la soluzione di tutti i problemi riabilitativi, negando o riducendo il valore degli interventi su aree cognitive o funzionali specifiche con mezzi specificamente indirizzati, dovrebbero tener in maggior conto i dati sperimentali ottenuti da modelli animali. Anche se non sono trasferibili integralmente alla situazione umana di un portatore di handicap, per la maggior complessità delle sue funzioni cognitive e sociali, per la sua maggior capacità di dominare e guidare istinti e comportamenti, tali dati meriterebbero più attenzione da parte di chi si occupa dei comportamenti umani e delle strategie per modificarli. ‟Generalizzare i dati sui comportamenti delle diverse specie può essere azzardato, ma è meglio che siano i competenti a generalizzare, onde evitare che gli incompetenti prendano il sopravvento" (v. Harlow e altri, 1972).
Precocità dell'intervento, prevenzione della deprivazione funzionale, arricchimento dell'ambiente, partecipazione attiva, motivazione rappresentano le premesse essenziali per ogni esercizio terapeutico significativo e quindi per tutti coloro che impostano o attuano un programma di trattamento. L'azione terapeutica deve infatti essere sostenuta da una motivazione adeguata e realistica e da una partecipazione attiva anche da parte dell'operatore, per cui il trattamento riabilitativo diviene l'espressione dell'interazione fra terapista e paziente, della loro collaborazione nella realizzazione di un programma del quale sono entrambi partecipi e responsabili.
Nella riabilitazione del malato neurologico è necessario tenere in considerazione alcuni elementi legati alla struttura del sistema nervoso, alla sua evoluzione, alla sua plasticità, che a nostro parere possono far meglio comprendere il significato dell'esercizio terapeutico nelle sue sequenze, far meglio apprezzare il perché dei suoi successi e dei suoi insuccessi. Nella sua evoluzione filogenetica il sistema nervoso si organizza funzionalmente intorno a strutture rappresentate inizialmente da una rete neuronale diffusa che successivamente si segmenta, dando luogo a formazione di masse gangliari, ciascuna con funzioni specifiche, integrate e associate fra loro per mezzo di interneuroni; questi trasformano l'attività motoria primitiva da semplice meccanismo di risposta a uno stimolo in una manifestazione complessa, in cui le componenti puramente motorie perdono via via di importanza rispetto a quelle sensoriali e, soprattutto, a quelle di integrazione. Con la cefalizzazione e la comparsa delle attività delle strutture superiori, i sistemi motori assumono, rispetto al resto del sistema nervoso, un ruolo di ‛servitori', che rispondono o meno in rapporto all'integrità delle vie sensoriali e di associazione.
È ormai convinzione comune che la maggioranza delle vie ascendenti e discendenti sia costituita da interneuroni e non da ‟fasci che iniziano in un'area nucleare e salgono o scendono, senza collateralizzarsi" fino a un'altra area nucleare. Per tale motivo sarebbe saggio abbandonare i concetti classici relativi alle vie nervose ascendenti e discendenti e cominciare a considerarle come sistemi interneurali. ‟Esse non trasportano informazioni specifiche di dolore, tatto, propriocezione o di movimento, ma un messaggio codificato che viene amplificato o ridotto, modificato, trasformato a ogni successiva sinapsi, a seconda delle circostanze del momento, delle prospettive future o degli eventi del passato, dell'eredità genetica correlata alle esperienze ambientali compiute e incorporate nel sistema nervoso. Solo in tal modo si possono comprendere le funzioni integrative di quest'ultimo, specialmente in rapporto alla sua plasticità" (v. Moore, 1974, pp. 22 e 60).
Nell'evoluzione filogenetica, queste strutture interneuronali si formano inzialmente nel rigonfiamento cervicale, per poi estendersi in direzione craniale e successivamente caudale. Nel corso dell'evoluzione filogenetica e ontogenetica, il rigonfiamento cervicale mantiene la sua importanza strutturale e funzionale come zona d'origine o di terminazione della maggioranza delle vie ascendenti o discendenti, costituendo la sede dei principali riflessi tonici e posturali e di raddrizzamento del capo e del tronco, nonché dei riflessi primitivi di evitamento e di afferramento (v. Abrahams e altri, 1975; v. Abrahams, 1977). È nell'area cervicale che si incrocia la maggior parte delle vie lunghe ascendenti e discendenti che collegano encefalo e midollo. In quest'area sono localizzati alcuni centri di controllo della funzione respiratoria, le cui modificazioni si ripercuotono sull'innervazione tonica e sulla postura dei muscoli del tronco e anche degli arti (v. Formica e altri, I parametri..., 1982). Nell'evoluzione motoria, i riflessi posturali sono i primi a comparire e dalla loro trasformazione in attività comportamentali dipende l'acquisizione del controllo del capo e del tronco dal quale deriva la comparsa di un'attività motoria coordinata e finalizzata degli arti superiori prima e degli arti inferiori dopo, partendo dai segmenti prossimali verso i distali.
Un'instabilità assiale - che può essere congenita, come nell'idrocefalo, o comparire tardivamente, come in certe forme di artrosi cervicale o nell'immobilizzazione della gabbia toracica per interventi chirurgici sul polmone o dopo mastectomia - può produrre una più o meno grave compromissione della motricità degli arti superiori e spesso della motricità fine delle dita (v. Zambrini, 1981-1982). D'altra parte, l'instabilità distale, presente ad esempio nelle atetosi, provoca una diminuita fissazione della muscolatura del tronco e del capo, dalla quale dipende la preregolazione dei movimenti degli arti. Ne deriva un circolo vizioso, determinato da anomali meccanismi di feedback e feedforward, che altera la possibilità di una corretta utilizzazione degli stimoli esterocettivi e propriocettivi, anche se hanno origine in zone apparentemente integre. Nel decorso di alcune sindromi neurologiche (malattia di Parkinson, sclerosi multipla, atetosi) assistiamo a una graduale diminuzione della mobilità del tronco, che non è più in grado di compiere determinati movimenti espressivi quali ‛volgersi a' e ‛volgersi da', ‛distendersi', ‛chiudersi', ‛drizzarsi', probabilmente non legata, o quanto meno non solamente, alla patologia, ma anche agli adattamenti che questa patologia rende necessari. La stessa riduzione della mobilità mediana è d'altronde riscontrabile anche nell'evoluzione dell'individuo normale che, con gli anni, si adatta alla diminuzione del suo vigore fisico con una maggiore povertà, e successivamente rigidità, dei movimenti del tronco.
Ci sembra importante ricordare come lesioni del sistema nervoso provochino, a seconda dell'epoca in cui si producono, l'arresto dell'evoluzione o la perdita delle attività funzionali gerarchicamente più evolute già acquisite e la regressione a comportamenti primitivi superati e soppressi nell'evoluzione filo- e ontogenetica. L'approccio rieducativo deve pertanto tenere conto di questa involuzione e far ripercorrere al paziente la naturale sequenza delle tappe evolutive (v. Temple Fay, 1946; v. Bobath, 1971; v. Castillo Morales, 1978; v. Vojta e Peters, 1992)
I dati sperimentali a disposizione del riabilitatore sono ancora troppo disorganici per fornire sicuri elementi a sostegno delle varie teorie riabilitative. La neurofisiologia può pertanto fornire una base affidabile, e per ora difficilmente sostituibile, per la misurazione di quei parametri esterni utili a definire la ‛logica' usata dal sistema nervoso per organizzare e controllare i movimenti (v. Terzuolo e Viviani, 1979) e quindi per suggerire possibili logiche sulle quali impostare il trattamento rieducativo.
I meccanismi di facilitazione e inibizione modulano la trasmissione dell'impulso a ogni singolo neurone, che a sua volta agisce inibendo o facilitando l'attività di altri neuroni o di fibre muscolari, ghiandole, e così via. Il fondamento di ogni tecnica educativa o rieducativa consiste quindi nel proporre una serie di esercizi atti a facilitare o inibire l'attività di determinate strutture muscolari o neuronali allo scopo di ristabilire l'equilibrio compromesso. Per ottenere questo risultato occorre che l'esercizio venga ripetuto più volte. I processi di apprendimento di qualsiasi prestazione, motoria o intellettiva, richiedono l'iterazione dei singoli atti che la compongono, fino a quando essi non rientrino permanentemente nel corredo delle proprie abilità. Una ‛variazione degli stimoli', sempre nell'ambito delle metodiche usate, e delle ‛tecniche di rinforzo' può quindi essere introdotta nel programma terapeutico per mantenere sempre vigile l'attenzione e attiva la partecipazione del paziente.
Insieme alla ripetizione e al rinforzo, un elemento di particolare significato è rappresentato dall'ambiente. Abbiamo già visto infatti come esso possa essere responsabile dei danni da deprivazione funzionale in caso di monotonia delle situazioni e quindi di riduzione degli stimoli. Numerose ricerche sperimentali dimostrano che le possibilità di apprendimento, sia dell'animale sano che di quello con lesioni neurologiche, migliorano quando venga posto in un ambiente ‟arricchito" (v. Schwartz, 1964; v. Greenough e altri, 1979; v. Walsh, 1981). Le ricerche di Rosenzweig (v., 1980) rilevano che un ambiente arricchito di una maggiore possibilità di socializzazione non determina nei ratti quei recuperi comportamentali e di apprendimento e quelle modificazioni anatomiche che si ottengono invece introducendo gli animali in un ambiente arricchito di stimoli pratici. Un altro dato emerso è che il recupero degli apprendimenti non è direttamente proporzionale al tempo di inserimento dell'animale in tale ambiente. Infatti, una permanenza di oltre due ore al giorno non avrebbe determinato maggiori recuperi funzionali, né maggiori modificazioni anatomiche, di quelli osservabili in animali introdotti in un ambiente arricchito per meno di due ore. Al tempo di permanenza occorre aggiungere l'effetto dell'esercizio fisico compiuto dagli animali stessi nell'ambiente arricchito con stimoli pratici, che determina un aumento delle loro capacità di apprendimento e di conseguenza una maggiore rapidità di recupero (v. Will e Rosenzweig, 1976; v. Will e altri, 1977).
Queste osservazioni, seppure con le riserve già espresse rispetto alla possibilità di trasferire all'uomo dati ottenuti da modelli relativi ad animali, ci pare indichino chiaramente l'inutilità di tecniche rieducative basate sul ‛bombardamento' continuato di stimoli, come quelle proposte per esempio da Doman e altri (v., 1960), nelle quali il soggetto viene sottoposto per molte ore al giorno e da parte di molti operatori, professionisti e non, a stimolazioni psicosensoriali e motorie. Pur partendo da presupposti teorici talvolta accettabili, queste pratiche possono determinare nel paziente e nei familiari reazioni di rifiuto e manifestazioni di tipo nevrotico che investono tutto l'ambiente nel quale egli vive. Questo sistema, come altri consimili che producono l'iterazione ossessiva quotidiana dello stesso stimolo, conduce rapidamente a un ‛plateau dell'apprendimento' e a una robotizzazione del paziente che viene solo ‛ammaestrato' e non ‛educato'. Milani Comparetti rileva l'esistenza di un'interazione competitiva delle condotte motorie nei vari stadi dello sviluppo che, in condizioni normali, conduce alla possibilità di realizzare uno stesso atto motorio secondo schemi e sequenze diversi (v. Milani Comparetti e Gidoni, 1971). Questi fenomeni richiedono di essere ulteriormente studiati e approfonditi, ma indicano la necessità di alternare periodi di riposo a periodi di trattamento intensivo.
Molti autori fissano dei limiti di tempo oltre i quali sarebbe, a loro parere, inutile proseguire i trattamenti (v. Soriani, 1966; v. Albert, 1969; v. Gabriele, 1982). Noi riteniamo che se si accetta il concetto che la riabilitazione sia un processo di apprendimento, non si possano e non si debbano porre limiti di tempo, poiché, come affermava Piaget, possiamo continuare ad apprendere fino all'ultimo giorno della nostra vita. Dissentiamo pertanto dalla tendenza, presente in molti operatori, di considerare la riabilitazione in modo limitativo, riferendola solo a determinate patologie non evolutive e attuandola con tecniche che si basano solo su programmi, fra l'altro non sempre realizzabili, di riorganizzazione strutturale e funzionale legati alle doti di plasticità dell'organismo e del sistema nervoso e che mirano più al recupero delle ‛funzioni' che della ‛capacità a funzionare'.
4. Tecniche rieducative
Sulla base del presupposto che il recupero della funzione, che avvenga sia attraverso la riorganizzazione funzionale (v. Luria, 1969), sia attraverso l'impiego di vie alternative non usate normalmente (v. Kabat, 19652; v. Wall, 1977; v. Illis e altri, 1982), venga prodotto o guidato dall'esercizio terapeutico, negli ultimi cinquant'anni sono state proposte numerose tecniche rieducative che prendono in considerazione gli aspetti dell'organizzazione funzionale del sistema nervoso, le tappe e le sequenze della sua evoluzione, le modalità delle sue risposte agli stimoli, le varie possibilità di somministrazione degli stimoli stessi, fornendo al riabilitatore i mezzi adeguati per svolgere il proprio compito e far raggiungere al paziente un accettabile recupero.
In tutte le tecniche il movimento, visto nelle sue componenti strumentali e meccaniche, ma anche neurofisiologiche, e come integrazione di aspetti psicomotori e psicologici, rappresenta la base dell'esercizio terapeutico. Esporremo sommariamente alcune di queste tecniche, prendendo in esame soprattutto gli elementi che, con diverse terminologie e sulla base di diversi presupposti teorici, sono connessi alle altre proposte terapeutiche.
L. A. Phelps utilizza ‛movimenti condizionati' ottenuti con una ‛mobilizzazione passiva' secondo schemi che ripetono le tappe fisiologiche dell'evoluzione, associati a un motivo musicale diverso per ogni schema, che diventa lo stimolo condizionante per un movimento attivo; egli impiega anche ‛l'apprendimento del rilasciamento', secondo modalità sviluppate da Jacobson, e le confusion techniques mediante le quali, opponendo resistenza alle azioni di un determinato gruppo muscolare, si provoca per irradiazione la contrazione di un altro gruppo (per es., contrastando l'antero-pulsione della spalla si può ottenere l'estensione del polso e l'apertura della mano).
J. F. Pohl suggerisce una tecnica di rilasciamento da ottenersi attraverso la mobilizzazione passiva e la palpazione e il massaggio di determinati gruppi muscolari. Al rilasciamento segue l'attivazione di singole articolazioni, procedendo dalle prossimali alle distali, mediante movimenti alternati sui quali il paziente deve concentrare l'attenzione per raggiungere la ‛cerebrazione del movimento'.
H. E. Hipps (v., 1950) introduce il concetto di ‛terapia motivante': a suo giudizio l'esercizio deve avere un preciso significato funzionale, deve essere praticato individualmente o in piccoli gruppi e nel programma terapeutico debbono essere compresi esercizi di stimolo sia delle capacità intellettive sia di quelle motorie.
F. Steiner e K. Konig sottolineano l'importanza dell'ambiente sulla sfera psichica, emotiva e intellettiva e danno particolare rilievo agli esercizi tendenti a ottenere il controllo della postura e dei movimenti del capo, che debbono, in una prima fase, precedere le attività motorie passive e attive dei singoli arti, e successivamente essere seguiti da movimenti globali.
Temple Fay (v., 1946) propone di partire dall'utilizzazione dei riflessi patologici, intesi come manifestazione dei livelli di integrazione funzionale presentati dal paziente (unlocking reflex), che potrà poi essere avviato gradualmente a condotte motorie di livello superiore in rapporto alle tappe dell'evoluzione filogenetica. Egli descrive una trentina di riflessi diversi per rinforzare singoli muscoli o per ridurre la spasticità; nella posizione prona gli schemi di movimento evocati dai riflessi così indotti riguardano la locomozione e la difesa. A questi stimoli si aggiungono sollecitazioni tattili, visive e uditive che, insieme agli esercizi motori, si ripetono più volte nella giornata.
Dal metodo di Temple Fay può considerarsi direttamente derivato quello di Doman, che ha basato la sua impostazione teorica sul presupposto che l'organizzazione neurologica sia un processo biologico durante il quale, a seconda che la situazione ambientale sia favorevole o sfavorevole, si possono manifestare o meno le potenzialità geneticamente ereditate (v. Doman e altri, 1960). Le interazioni fra il patrimonio ereditario e i fattori ambientali sono ‟responsabili del successo o dell'insuccesso dell'individuo rispetto all'ambiente". Scopo della riabilitazione deve essere quello di trasformare un portatore di handicap non in un individuo efficiente, ma in un essere felice attraverso la massima evocazione dei potenziali residui, per un migliore adattamento dell'individuo a sé e all'ambiente. A queste premesse, purtroppo, fa seguito la proposta di una interminabile serie di esercizi, basati su una valutazione piuttosto rigida delle tappe maturative sia motorie che cognitive, che vanno frequentemente ripetuti durante la giornata, con il concorso di tutte le persone disponibili.
Bobath (v., 1970 e 1971) propone la tecnica di ‛inibizione delle posture riflesse' come mezzo per ridurre l'elevato grado di eccitabilità di determinati gruppi muscolari rispetto ad altri. Una volta ridotti i disturbi del tono si può educare il paziente proponendogli l'apprendimento di schemi tonico-posturali e modelli di movimento potenzialmente normali mediante la stimolazione di ‛punti chiave'. Il terapista non insegna un movimento, ma mette il paziente in condizioni di avere la ‟sensazione di un nuovo movimento".
Kabat (v., 19652) privilegia il valore dell'apporto sensoriale sulle regolazioni e sul controllo delle attività motorie e propone una tecnica di ‛facilitazione neuromuscolare propriocettiva' che si basa su sei principî fondamentali: 1) la ripetizione delle attività delle strutture nervose è indispensabile per l'efficacia del movimento che viene utilizzato come esercizio terapeutico; 2) il movimento volontario di un agonista determina il rilasciamento di un antagonista; 3) l'attività continua è essenziale per mantenere coordinazione, forza muscolare e resistenza allo sforzo; 4) la ripetizione del movimento facilita la sua esecuzione; 5) l'entità dell'attività muscolare dipende dalla quantità di unità motorie eccitate; 6) l'apprendimento di nuovi schemi di movimento dipende dalla formazione di nuove vie funzionali.
M. S. Rood sostiene che tutti i disturbi del movimento vanno considerati come un'alterazione o una perdita di uno o più componenti della coordinazione motoria. Attraverso la stimolazione dei recettori sensoriali cutanei e muscolo-tendinei si può determinare una contrazione o decontrazione di determinati gruppi muscolari e provocare l'acquisizione o la ristrutturazione delle componenti perdute della coordinazione motoria e l'apprendimento di sequenze motorie normali. È da evitare lo stiramento dei muscoli spastici a favore della stimolazione degli antagonisti.
Per Brunnstrom (v., 1970) il sistema migliore per favorire il recupero dell'attività motoria volontaria è quello di evocare le reazioni più primitive e i movimenti riflessi che compaiono progressivamente con il risolversi della diaschisi, cercando di stabilire poi il controllo volontario delle sinergie mediante la ripetizione dei movimenti, associati o meno a facilitazioni.
V. Vojta afferma che nelle lesioni del sistema nervoso viene a mancare la correlazione tra le componenti posturale, di raddrizzamento e fasica dei complessi tonico-coordinati del movimento o complessi locomotori primitivi (v. Vojta e Peters, 1992). La sommazione spaziale e temporale di stimoli applicati su prestabilite zone reflessogene, le cosiddette ‛zone grilletto', provoca l'irradiazione di tali stimoli a tutta la muscolatura sinergica e quindi determina un effetto chinesiologico globale che viene contrastato dal terapista allo scopo di accrescerne l'intensità e la durata. Anche questo autore raccomanda una frequente ripetizione quotidiana del trattamento, al quale occorre conferire una significatività facendo toccare e afferrare oggetti durante l'esercizio. Egli sottolinea inoltre l'importanza della precocità dell'esercizio, proponendo una serie di manovre che consentono di dare una valutazione qualitativa delle risposte fornite dal paziente fin dalle prime settimane di vita (v. Vojta, 19762).
Basato su principi analoghi, ma forse più selettivo e meno traumatizzante, soprattutto per i bambini, è il metodo di Castillo Morales (v., 1978). L'autore descrive una serie di ‟punti motori" che, stimolati isolatamente o in associazione con una pressione digitale, danno luogo a una serie di risposte riflesse: queste, seguendo cronologicamente le stesse tappe dello sviluppo psicomotorio, si integrano fra loro in schemi sempre più complessi che vengono ‟integrati corticalmente" e quindi appresi in modo stabile. Ciò grazie anche alla partecipazione che, con semplici rinforzi di tipo affettivo, può essere sollecitata nel paziente.
H. Petö applica a bambini e adulti il metodo della ‟pedagogia conduttiva", il quale si basa sul presupposto che l'adattamento dell'individuo sia influenzato dalle modificazioni dell'ambiente e dalla capacità di elaborazione e di regolazione ‟reafferentativa" delle informazioni da parte del sistema nervoso centrale. Il movimento viene da Petö preso in considerazione sia nel suo aspetto di primitiva funzione difensiva, sia in quello psicomotorio di transitività ed espressività. Attraverso una facilitazione di origine corticale l'autore si propone di ottenere una ‟organizzazione ortofunzionale del sistema nervoso centrale" con cui l'uomo riesca ad adeguarsi e a rispondere alle richieste biologiche e ambientali. Già le tecniche precedentemente esaminate mettevano in rilievo la necessità di una ‛corticalizzazione' dei comportamenti motori indotti con l'esercizio; per Petö le ‟facilitazioni corticali" rappresentano il punto di partenza del trattamento rieducativo, che mira sia all'apprendimento delle sequenze posturali e motorie e delle attività funzionali secondo le leggi dello sviluppo, sia, contemporaneamente, a sollecitare apprendimenti cognitivi. L'attività in piccoli gruppi e un appropriato uso del linguaggio rappresentano tecniche di rinforzo costantemente usate nel centro di riabilitazione di Budapest (v. Hári e kos, 1971). Poca attenzione viene prestata agli aspetti strettamente chinesiologici.
Secondo Perfetti (v., 1979 e 1981), parametri fondamentali del movimento sono intensità, spazialità e temporalità, che hanno un rapporto costante con la necessaria verifica di ogni ipotesi percettiva. In tal modo il fatto percettivo, che interviene nell'elaborazione dell'ipotesi percettiva ma anche nel controllo della catena cinetica, viene giustamente preso in considerazione con il fatto motorio. Questo controllo può essere globale, simultaneo o sequenziale. Il primo si esercita su tutta la catena cinetica e si verificherebbe solo dopo che i parametri di ogni singolo elemento sono stati appresi e fissati; il secondo medierebbe l'apprendimento attraverso la regolazione simultanea dei singoli movimenti; il terzo riguarderebbe gli elementi della catena cinetica nel loro succedersi. Così l'ipotesi percettiva sembra dividersi in momenti diversi, di cui il più semplice sarebbe quello legato al controllo sequenziale che si eserciterebbe attraverso una successione ordinata di ipotesi percettive relative ai segmenti che vengono mossi e quindi successivamente controllati. Perfetti si preoccupa di chiarire che la sua interpretazione dell'atto motorio non ha nulla a che vedere con una sua parcellizzazione, come nella già citata ipotesi di Liepman (v., 1905), in quanto la catena cinetica è comunque innescata da un'unica generale ipotesi percettiva. La capacità di regolare i parametri del movimento può essere acquisita solo attraverso schemi terapeutici che richiedano di eseguire l'esercizio in maniera ‟sequenziale" rispetto agli elementi della catena cinetica da alterare e ‟progressiva" rispetto alle difficoltà che debbono essere molto graduali, partendo dalle componenti abnormi più semplici per giungere alle più complesse. Vengono privilegiate, a questo scopo, le afferenze tattili e cinestesiche e, in grado minore, quelle visive. Il movimento viene ricostruito in direzione disto-prossimale. L'autore parla di ‟facilitazioni" attribuite a ‟informazioni che provengono dalla corteccia" in base al confronto costante e continuo fra il ‟compito" richiesto al paziente e la sua esecuzione. Il linguaggio viene usato come stimolo e come rinforzo, e la sua funzione principale dovrebbe essere quella di proporre al malato ‟compiti motori suddivisi in sottoprogetti di controllo più facile rispetto al controllo finale". Quindi, in base all'impostazione teorica di Perfetti, l'esercizio è orientato al recupero della motricità attraverso la sollecitazione di una sua motivazione esterocettiva.
Le tecniche di biofeedback intendono sostituire la mancanza di esperienza immediata delle contrazioni muscolari o del movimento da innervare volontariamente con le esperienze del suono o della luce che, attraverso una mediazione esterocettiva, informano che la contrazione o il movimento sono avvenuti nel modo e nella misura richiesti. L'addestramento con biofeedback consiste nel rilevare un segnale elettrico e nell'amplificarlo in segnali visivi, acustici, tattili, vibratori, fornendo al soggetto un'informazione continua sulle sue capacità e sui suoi progressi nel controllare tali segnali. Attraverso questo ‛specchiarsi' nelle proprie risposte il paziente è messo in grado di ‛sentire' e di ‛vedere' la propria attività cerebrale e motoria. H. C. Connolly e H. P. Jones hanno confermato sperimentalmente l'ipotesi di una traduzione intersensoriale tra informazioni visive e informazioni cinestesiche. Il biofeedback forma quindi un circuito esterno in grado di ‛richiudere' l'interruzione di un circuito interno propriocettivo, ristabilendo l'interazione senso-motoria nei sistemi responsabili degli schemi del movimento (v. Luria, 1977; v. Brundy e altri, 1979; v. Formica e Blundo, 1979). Con questa tecnica la partecipazione attiva e la motivazione del paziente verrebbero particolarmente sollecitate e a ciò sarebbero anche dovuti, secondo Bach-y-Rita (v., 1982), molti dei buoni risultati riferiti da vari autori.
Abbiamo già avuto modo di citare le teorie di Trexler (v., 1982) sulla riabilitazione cognitiva, che possono essere assimilate ai criteri di riabilitazione neuropsicologica di Y. Ben-Yishay e di Prigatano (v. Prigatano e Fordyer, 1982), in cui si fondono molti dei concetti fin qui esposti in tema di integrazione corticale, di partecipazione attiva e di apprendimento. Principî analoghi sono rilevabili anche nei concetti e nelle tecniche di psicomotricità che solo da poco tempo trovano applicazione in riabilitazione (v. Le Boulch, 1971; v. Borgogno, 1985).
Con questa sommaria presentazione abbiamo voluto mettere in evidenza gli elementi comuni alle principali tecniche rieducative elaborate in questo secolo, spesso all'insaputa dei lori autori, e rilevare il fatto che la loro evoluzione ha accompagnato lo sviluppo delle conoscenze sulla struttura e le funzioni del sistema nervoso. Non vi è dubbio che ciascuna delle tecniche descritte può dare un'alta percentuale di risultati positivi, ma concordiamo con Bach-y-Rita (v., 1982) quando afferma che in gran parte questi risultati non sono scientificamente documentabili, perché principalmente basati sul rapporto personale, spesso carismatico, che si instaura fra terapista e paziente. Nella nostra esperienza abbiamo avuto modo di verificare che diversi fattori sono comuni alle varie tecniche, in particolare per quanto riguarda i metodi più recenti, nei quali all'insegnamento di schemi posturali e motori secondo l'ordine delle sequenze evolutive si associa una particolare attenzione per gli apprendimenti cognitivi, soprattutto quando vengono collocati fra i principî generali su cui si fonda l'esercizio terapeutico.
5. Il programma riabilitativo
a) Premessa
Nell'impostare il programma riabilitativo di un paziente neurologico, i primi elementi da prendere in considerazione sono l'entità e la sede della lesione, nonché la sua qualità, cioè la misura in cui incide sulle effettive capacità funzionali del paziente. In tutti i trattati e in tutti i centri vengono proposti test e schede di valutazione, ma solo pochi rispondono a requisiti generalmente accettati e confrontabili che permettano la loro applicazione diffusa. La valutazione del paziente dovrebbe inoltre tener conto di quali potranno essere le prospettive e le vie del recupero. Quest'ultimo, infatti, può avvenire mediante meccanismi di adattamento e di plasticità interni allo stesso sistema leso (recupero intrasistemico) oppure deve utilizzare la capacità di altre strutture di sopperire in qualche modo alle perdite funzionali della struttura lesa (recupero intersistemico). È ovvio che il secondo percorso non permetterà di raggiungere la stessa perfezione funzionale ottenibile da un recupero intrasistemico, e anche che la differenza fra i due tipi di recupero potrà condizionare la scelta o indurre a modificare i metodi e i programmi di trattamento.
Sembra opportuno sottolineare comunque l'importanza di un intervento riabilitativo precoce che, pur con i limiti eventualmente imposti dall'evento patologico, dalla sua evoluzione e dalle sue implicazioni, preveda l'opera del riabilitatore già nelle fasi iniziali della patologia. Troppi sono ancora i pediatri che mostrano un atteggiamento attendista di fronte a bambini nati a rischio, con la conseguenza che l'intervento riabilitativo sarà ritardato e agirà su una patologia ormai stabilizzata e quindi più difficilmente suscettibile di un recupero intrasistemico.
Analogalmente, nell'adulto colpito da ictus, sia in reparto di rianimazione sia in terapia intensiva gli interventi di corretto posizionamento, di mobilizzazione passiva, di stimolazione sensoriale o cognitiva vengono generalmente iniziati tardivamente perché gli organigrammi ospedalieri non contemplano la necessità dello specialista in riabilitazione nell'approccio interdisciplinare al paziente acuto. Una corretta e ripetuta valutazione permetterà di aggiornare e di modificare i programmi di trattamento e le tecniche rieducative, in modo da mantenere viva la motivazione del paziente che potrà così continuare ad ‛apprendere' senza limiti di tempo. Nella nostra esperienza abbiamo potuto constatare che qualora le motivazioni, l'interesse dei pazienti con lesioni del sistema nervoso, sia centrale che periferico, fossero conservati o stimolati da situazioni ambientali adeguate, si potrebbero ottenere recuperi di funzioni o di prestazioni anche a distanza di anni dall'instaurarsi della lesione.
Da un punto di vista pratico possiamo distinguere tre tipi di danno anatomico del sistema nervoso, a seconda del livello coinvolto: danno centrale (riguardante l'encefalo), danno midollare, danno periferico.
Il meccanismo lesivo può intervenire in modo rapido o subitaneo, come avviene per esempio nei traumi, nei fenomeni vascolari acuti e in alcune malattie infettive, o in modo lento, come nei tumori o nelle malattie degenerative. Spesso il risultato finale, per quanto si riferisce all'handicap, è simile, ma diversi sono i meccanismi di adattamento funzionale e psicologico che il paziente può mettere in atto nell'uno o nell'altro caso.
Tralasciando il danno periferico, che richiederebbe un'estesa trattazione, prenderemo in esame quelle sindromi, come l'emiplegia e la paraplegia, che si possono considerare paradigmatiche, e che quindi ci sembra possano offrire sufficienti spunti di riflessione al non specialista e significative indicazioni anche riguardo ad altre patologie solo brevemente accennate.
b) Danno centrale: emiplegia
L'emiplegia, che rappresenta circa il 40% delle patologie motorie suscettibili di trattamento rieducativo, nella maggior parte dei casi presenta un'eziopatogenesi vascolare (trombosi 60%, emorragia 20%, embolia 5%; 15% altre cause, fra cui, preponderanti, i traumi). Può essere definita come l'insieme di sintomi focali di varie manifestazioni neurologiche che si traducono nell'alterazione o nella perdita delle funzioni motorie di una metà del corpo a causa di una lesione controlaterale dell'encefalo. Le manifestazioni a livello neuromuscolare sono costanti, perché dovute all'interruzione dell'impulso volontario di origine corticale o alla sua modificazione per interessamento delle strutture che presiedono alla coordinazione e alla regolazione del movimento.
Il termine ‛emiplegia' appare quindi fondamentalmente legato alla lateralità del sistema nervoso, a una specializzazione emisferica delle aree corticali, da cui deriverebbe una contrapposizione fra emicorpo colpito ed emicorpo ‛sano'. In realtà in quest' ultimo si possono manifestare segni, più o meno sfumati, indicativi dell'esistenza, anche da questo lato, di una compromissione funzionale strettamente collegabile al danno primario. Il lato plegico, infatti, perde la possibilità sia di inviare messaggi codificati normali al lato opposto, per mezzo dei neuroni commissurali, sia di decodificare e di interpretare i messaggi trasmessi dal lato sano che, a sua volta, viene a trovarsi in uno stato di deprivazione sensoriale. Vengono infatti a mancare quegli stimoli di feedback da cui dipende la capacità dell'organismo di correlarsi a se stesso e all'ambiente funzionando come un tutto bilateralmente integrato: la particolare vulnerabilità dei sistemi neocorticali prevalentemente crociati è pertanto responsabile di una maggiore o minore compromissione funzionale omolaterale, in rapporto alla maggiore o minore gravità ed estensione della lesione emisferica (v. emisferi cerebrali: Interazioni interemisferiche, vol. II; v. sistema piramidale, vol. VI).
La prognosi relativa al recupero dipende soprattutto dalla tempestività dell'intervento rieducativo che, non sarà mai ripetuto a sufficenza, deve essere precocissimo, in modo da prevenire tutti quei danni secondari che aggravano il quadro dell'handicap e prolungano i tempi di trattamento, limitandone l'efficacia e i risultati. Né i tempi, né l'entità di questi risultati sono comunque prevedibili, data la variabilità individuale dei potenziali di recupero e l'insufficienza dei criteri di valutazione di cui allo stato attuale disponiamo.
Tenendo conto delle complicanze che si possono associare al disturbo primitivo (contratture, osteoporosi, disturbi urinari, piaghe da decubito) e delle sue conseguenze dirette (deprivazione sensoriale, spasticità) un programma di immediato intervento dovrebbe contemplare gli elementi seguenti.
1) La disposizione del letto nella stanza o nella corsia deve in ogni caso essere tale da costringere il paziente a guardare al di là del lato plegico, a superare la linea mediana per raggiungere gli oggetti sul comodino.
2) Il posizionamento del paziente deve essere tale da ridurre i fenomeni di stasi circolatoria a livello del polmone del lato colpito. È generalmente di scarsa efficacia l'impiego di sacchetti di sabbia, tavolette, docce rigide per ottenere il posizionamento degli arti e bloccare il paziente, in fase di diaschisi, in posizioni opposte a quelle che potrebbe assumere alla comparsa dell'ipertono piramidale. Rotoli o spessori di gommapiuma, docce elastiche, manicotti gonfiabili a pressione alternata permettono un posizionamento più ‛dinamico'; i manicotti gonfiabili, in particolare, si dimostrano utili anche per il trattamento dell'edema (v. Johnstone, 1995).
3) Una cauta mobilizzazione passiva bilaterale e la ginnastica respiratoria devono essere praticate per 15-20 minuti almeno tre volte al giorno. La mobilizzazione passiva, fondamentale per la prevenzione delle contratture, mantiene inoltre l'elasticità delle parti molli periarticolari e stimola la circolazione, il cui rallentamento dal lato plegico facilita l'instaurarsi dei processi osteoporotici e dei decubiti. Allo scopo di stimolare la partecipazione attiva del paziente e di sollecitare un'integrazione bilaterale si è dimostrato utile l'uso di carrucole azionate dal paziente stesso che, almeno inizialmente con il controllo del terapista, con gli arti sani può provocare movimenti controllati e molto lenti degli arti plegici (v. Formica, Trattato di..., 1985). Questa tecnica si dimostra molto efficace, per esempio, per prevenire e per trattare la sublussazione della spalla.
L'uso del massaggio - praticato troppo spesso da infermieri, massaggiatori sportivi, educatori fisici - è da proscrivere in quanto rappresenta il più delle volte un incentivo alla spasticità. Il suo impiego come stimolante della circolazione periferica può essere efficacemente sostituito con l'immersione alternata degli arti plegici in acqua fredda e calda, che stimola anche le afferenze esterocettive e propriocettive contribuendo a combattere la deprivazione sensoriale e l'osteoporosi. Per lo stesso motivo è in genere da evitare l'elettroterapia: le stimolazioni elettriche, infatti, si diffondono molto facilmente ai muscoli a più bassa soglia di eccitabilità e accelerano pertanto la comparsa della spasticità e la sua evoluzione in contrattura (v. Soriani, 1966). Essa trova invece un'indicazione abbastanza valida nelle fasi tardive, quando si voglia ottenere un'informazione sulle contrazioni di gruppi muscolari isolati (v. Graçanin, 1972). Analogamente alle docce rigide, il massaggio e l'elettroterapia rientrano nel quadro di quelle stimolazioni sensitive che, potenziando l'attività dei centri midollari, liberati dal controllo corticale, determinano un indesiderabile aumento della spasticità.
4) Il controllo della funzione urinaria è di fondamentale importanza. Nelle giornate immediatamente successive all'evento lesivo può essere presente una ritenzione urinaria da areflessia del detrusore, seguita da iperreflessia con pollachiuria e minzione imperiosa che di solito garantiscono uno svuotamento completo della vescica. Nella prima fase è indicato l'uso del catetere a intermittenza, avendo cura di impiegare calibri molto piccoli. L'uso di farmaci parasimpaticolitici o simpaticomimetici potrà facilitare il rilasciamento del detrusore e la contrazione dello sfintere interno. Il catetere a permanenza, il più diffuso nella maggior parte dei nostri ospedali, rappresenta solo un ‛comodità' per chi deve accudire il paziente, e va quindi proscritto.
5) La terapia farmacologica di stretta pertinenza riabilitativa è realizzabile con alcuni gruppi di medicamenti. Poiché nella zona circostante la sede della lesione si determinerebbe un aumento di concentrazione di colinesterasi, responsabile del blocco della conduzione sinaptica che conduce alla ‛asinapsia funzionale', Kabat e Luria hanno suggerito la somministrazione di farmaci anticolinesterasici (neostigmina o galantamina), con risultati incoraggianti. A nostro parere l'uso generalizzato e indiscriminato di farmaci, spesso solo a vantaggio commerciale, da molti compiuto in tutte le patologie del sistema nervoso, ha tolto credibilità anche alle poche indicazioni fondate. I tranquillanti derivati dalle benzodiazepine sembrano avere un benefico effetto nella spasticità; associati ad antidepressivi come l'amitriptilina vengono usati nel trattamento delle sindromi dolorose centrali e riflesse. I farmaci nootropi sembrano avere un effetto, dimostrato sperimentalmente, sul metabolismo della cellula nervosa (v. Brailowski, 1980; v. Rosenzweig, 1980), ma mancano ancora dati sicuri sulla possibilità che influiscano direttamente sulle funzioni corticali superiori. D. Dolce e altri riferiscono di un significativo miglioramento delle funzioni motorie e dei disturbi cognitivi e affettivi in pazienti trattati a lungo con alte dosi di nicergolina. Dagli insufficienti elementi a disposizione si può comunque supporre che il benefico effetto metabolico si traduca in un effetto funzionale solo quando la terapia farmacologica venga associata a un preciso programma di esercizi terapeutici. I farmaci miorilassanti per il controllo della spasticità non danno sempre risultati soddisfacenti, dato che alla loro azione sul muscolo spastico si associa anche un effetto ‛ipotonizzante' su tutto il resto del sistema muscolare. D'altronde la tossicità relativamente elevata di questi farmaci ne sconsiglia l'uso prolungato (v. Paeslack e Kuhlist, 1972; v. Frankel, 1982).
6) Le complicanze del danno secondario si possono sintetizzare in: atrofia del deltoide e sublussazione della testa dell'omero; osteoporosi; decubiti; contratture; sindrome algodistrofica. Quest'ultima è generalmente provocata dall'esistenza delle altre complicanze, in particolare delle prime due. Tutte potrebbero essere evitate se il trattamento precoce, su cui abbiamo tanto insistito, fosse applicato regolarmente e senza limitazioni fin dal primo giorno dell'evento inabilitante.
7) L'ambiente, come abbiamo ripetutamente sottolineato, ha una grande importanza agli effetti del recupero. Non appena si esaurisce la fase acuta ed è superato il rischio di altre patologie, se le condizioni familiari e ambientali lo consentono, il paziente dovrebbe tornare a casa propria, continuando il trattamento rieducativo in regime ambulatoriale o al massimo di day hospital. L'attuale legislazione consente, nel caso di particolari difficoltà logistiche, anche il trattamento domiciliare a carico della struttura sanitaria di compentenza. Si dovrebbe, in questi casi, prevedere, oltre all'intervento regolare del terapista della riabilitazione, anche quello eventuale di altri specialisti, dello psicologo e dell'assistente sociale. Prima del ritorno nell'ambiente familiare si dovrà provvedere a dotare il paziente di sussidi tecnici che possano facilitare la sua autonomia e la sua autosufficienza senza provocare ‛adagiamenti' psicologici che arresterebbero il processo di recupero. Tali sussidi, dalla carrozzella ortopedica al bastone, vanno prescritti dallo specialista, dopo un'accurata e attenta valutazione da parte di tutta l'équipe riabilitativa.
8) Le tecniche rieducative, nelle loro diverse modalità di applicazione (v. Kabat, 1940; v. Perfetti e altri, 1963; v. Bobath, 1970; v. Vojta, 19762), devono basarsi su un approccio globale, bilaterale, che fornisca quella esperienza psico-senso-motoria sulla quale è basato tutto l'apprendimento. Tenendo presente che il recupero dell'emiplegico segue, grosso modo, le stesse fasi dell'evoluzione psicomotoria del bambino, che acquisisce prima il controllo del capo, poi quello del tronco e la manualità e, solo alla fine del primo anno di vita, la stazione eretta e la deambulazione, si possono schematizzare tre fasi di intervento: nella prima fase si dovranno sollecitare attività di rotolamento nel letto, di raddrizamento del capo o del tronco; nella seconda, attività di spostamento nel letto e dal letto alla sedia; infine, nella terza fase, esercizi di equilibrio, di trasferimento di carico e di deambulazione.
L'asimmetria del disturbo neurologico interferisce ovviamente sull'evoluzione di questa acquisizione e sarà compito del rieducatore adattare i metodi di trattamento e gli stimoli alle necessità del singolo paziente, evitando qualsiasi rigido schematismo teorico. Si potranno così ottenere ottimi recuperi di funzionalità, se non proprio di specifiche funzioni, anche molto tempo dopo l'evento inabilitante.
Non condividiamo l'opinione di alcuni autori (v. Soriani, 1966; v. Albert, 1969; v. Cash, 1974; v. Gabriele, 1982) che stabiliscono limiti di tempo oltre i quali il recupero non sarebbe più possibile. Il nostro sistema nervoso conserva, infatti, le capacità di apprendimento e di integrazione delle informazioni grazie alle strategie dell'adattamento, molto variabili da un individuo all'altro. Queste capacità resistono ai processi involutivi fisiologici e sembrano poter persistere anche dopo eventi distruttivi abbastanza estesi, manifestandosi con caratteristiche diverse da caso a caso, in rapporto alle istanze dell'organismo e dell'ambiente. Per questo motivo l'indicazione al trattamento precoce deve prescindere da valutazioni puramente semeiologiche e da prognosi non documentabili allo stato attuale delle nostre conoscenze. L'attendismo di molti medici nella speranza di un recupero spontaneo o nella certezza di un'evoluzione infausta ritarda interventi terapeutici che sicuramente non sono nocivi e che possono concorrere con le risorse naturali a ridurre l'entità dell'handicap residuo.
c) Danno midollare: paraplegia
Il danno midollare è essenzialmente rappresentato dalla ‛paraplegia', termine con cui si indica la paralisi determinata da una lesione trasversa del midollo. In Italia se ne riscontrano circa 1.000 casi all'anno: il 65% è di origine traumatica, il restante 35% deriva da cause infiammatorie (mieliti), degenerative (sclerosi a placche), malformative (spina bifida), neoplastiche e iatrogene (chirurgia vertebrale, toracica, aortica, da manipolazione, da irradiazione); le manifestazioni cliniche interessano le funzioni motorie, sensitive, neurovegetative al di sotto della lesione.
A differenza delle lesioni cerebrali, per le quali è presumibile un processo di ristrutturazione funzionale, e delle lesioni periferiche, nelle quali è possibile un processo di rigenerazione assonale, le paraplegie determinano un deficit permamente per cui possono solo organizzarsi meccanismi di automatismo sottolesionale, non più modulati e integrati a livello corticale e del tronco encefalico. È opportuno ricordare che in clinica la sezione traversa del midollo non è sempre completa (e non ripete quindi il paradigma classico della lesione sperimentale), consentendo il mantenimento di alcune funzioni di controllo, a seconda dell'area e del livello midollare interessato.
I principî del trattamento delle paraplegie, in sintesi, consistono: 1) in una adeguata azione di soccorso e di trasporto in reparti specializzati (unità spinali); 2) nell'immediatezza dell'intervento terapeutico; 3) nell'unitarietà e globalità del trattamento ospedaliero, inteso come azione contemporanea e coordinata volta a fronteggiare le numerose e complesse istanze che si presentano di volta in volta, e nello sviluppo di questo intervento fino al reinserimento familiare e lavorativo; 4) nella prevenzione delle complicanze che possono insorgere sia nella fase acuta, sia successivamente, anche quando sia completato il trattamento rieducativo; 5) nella rieducazione intesa a conseguire l'utilizzazione finalizzata degli automatismi midollari e il potenziamento dei gruppi muscolari rimasti integri e di quelli comunque recuperabili; 6) in una adeguata assistenza socio-sanitaria anche in fase di ricovero.
I primi due punti assumono particolare rilevanza per le forme traumatiche, in quanto l'omissione di determinate cautele durante il trasporto può addirittura rappresentare la causa della lesione o quanto meno produrne un aggravamento, mentre i possibili errori di valutazione e di trattamento delle manifestazioni direttamente dipendenti dalla lesione possono provocare l'insorgenza di complicanze (frequentissimo l'idrocefalo nella spina bifida, per cui si dovrebbe sempre provvedere, contemporaneamente all'intervento di ricostruzione plastica, ad applicare una valvola di derivazione liquorale).
Le manifestazioni cliniche direttamente dipendenti dalla lesione (cioè le implicazioni) sono rappresentate da deficit che riguardano il movimento, la sensibilità, il controllo vasomotorio, le funzioni urinarie e intestinali e la funzione sessuale. I deficit di movimento possono produrre piaghe da decubito o da pressione; osteoporosi; contratture muscolari; blocchi articolari e paraosteoartropatia; deficit circolatorio; insufficienza respiratoria (nelle lesioni dorsali alte e nelle tetraplegie) per compromissione dei muscoli respiratori, con conseguente ristagno delle secrezioni e quindi polmonite da stasi e infezioni broncopolmonari; spasticità. Al deficit della sensibilità sono correlabili piaghe da decubito; ischemia; alterazioni dello schema corporeo. I deficit del controllo vasomotorio possono provocare labilità della regolazione della pressione arteriosa, con fenomeni di ipotensione posturale e di ipertensione parossistica e disturbi dell'equilibrio idrosalino; alterazione della termoregolazione; ipersudorazione sottolesionale, che può facilitare l'instaursi dei decubiti; trombosi delle vene profonde con possibilità del distacco di emboli. I deficit delle funzioni urinarie e intestinali sono causa di incontinenza o ritenzione urinaria; ristagno e reflusso vescico-uretrale; calcolosi vescicale o renale; cistiti, pielonefriti e idronefrosi; alvo neurogeno; alterazioni della funzionalità gastrointestinale; disturbi psichici. Al deficit della funzione sessuale, infine, sono correlati disturbi psichici.
I danni secondari (cioè le complicanze) derivanti da questi deficit non sono inevitabili e, quando si verificano, sono strettamente correlabili a insufficienze o errori nel trattamento di ciascuno dei deficit sopra elencati.
Ci sembra comunque utile soffermarci su alcune di tali implicazioni, soprattutto per quanto riguarda l'aspetto preventivo, sottolineando ancora una volta come la tempestività del trattamento permetta di evitarle nella maggior parte dei casi.
Nelle lesioni midollari al di sopra di T5, soprattutto nelle fasi iniziali, sono frequenti i disturbi della termoregolazione, per cui è consigliabile che questi pazienti vengano tenuti in ambiente climatizzato a 18-21 °C. In questi casi sono frequenti crisi di ipertensione parossistica per vasocostrizione del territorio paralizzato, scatenate generalmente dalla sovradistensione della vescica o dell'intestino e facilitate dalla somministrazione di purganti o di supposte. La somministrazione di farmaci anticolinergici e la regolarizzazione della funzione vescicale e intestinale possono prevenire queste crisi.
Se non diagnosticata, la trombosi delle vene profonde può provocare il distacco di emboli ai primi tentativi di mobilizzazione del paziente: un trattamento preventivo a base di anticoagulanti, salvo controindicazioni particolari e seguendo le abituali cautele, è pertanto indicato sin dalla fase acuta.
Disturbi dell'equilibrio idrosalino e dell'equilibrio acido-base possono essere causati da iperinfusioni di sangue, plasma, soluzioni isotoniche prescritte per bilanciare una oligoemia chirurgica o traumatica che maschera l'ipotensione propria dello shock spinale. È necessario pertanto il controllo e la correzione degli squilibri elettrolitici, il soddisfacimento delle richieste caloriche mediante somministrazione di amminoacidi sintetici, di fruttosio e sorbitolo cui si debbono associare adeguate dosi di insulina, poiché questi zuccheri stimolano una minore secrezione di insulina rispetto al glucosio (che non dovrebbe essere usato, data la sua azione trombizzante).
Le implicazioni respiratorie possono essere prevenute assicurando uno scambio gassoso ottimale nei polmoni, evitando il riempimento eccessivo dello stomaco, somministrando cibi e liquidi in piccole quantità e a brevi intervalli, applicando in permanenza un sondino naso-gastrico nel caso si verifichi una dilatazione acuta dello stomaco, praticando infine manovre di ginnastica respiratoria due o tre volte al giorno per garantire l'eliminazione dei secreti attraverso efficaci colpi di tosse. L'accentuazione del deficit neurologico con coinvolgimento del diaframma, la comparsa di complicazioni polmonari acute, la necessità di ricorrere alla broncoscopia per l'aspirazione dell'escreato rappresentano le uniche indicazioni a una tracheotomia.
Il recupero della funzione vescicale è a nostro parere uno dei punti fondamentali della riabilitazione del paraplegico, che può così superare i problemi psicologici e sociali indotti dall'incontinenza. A seconda della completezza o meno della lesione, del suo livello e del tempo trascorso dalla sua insorgenza si potranno verificare comportamenti diversi di questa funzione. Dopo un primo periodo di 24-36 ore (durante il quale la vescica è generalmente atonica), se la lesione è situata al di sopra del centro di Budge (S2 S3 S4) la conservazione dell'arco riflesso consente l'instaurarsi di un automatismo della vescica che può svuotarsi adeguatamente, poiché una sufficiente distensione della sua parete provoca la contrazione del detrusore e la decontrazione degli sfinteri. Sensazioni di bruciore o di dolore, spasmi muscolari, brividi, piloerezione, arrossamenti a chiazze, sudorazione, cefalea possono costituire segni indiretti che informano il paziente dello stato di pienezza della vescica. Manovre specifiche possono facilitare la comparsa del riflesso di svuotamento, che può essere integrato dalla contrazione del torchio addominale e dalla spremitura sovrapubica (quest'ultima, specie nelle spine bifide, può peraltro facilitare fenomeni di riflusso vescico-ureterale); l'esatta utilizzazione di queste informazioni e di queste manovre può molto spesso condurre a un'adeguata gestione dell'attività riflessa che restituisce autonomia e sicurezza al paziente, non più umiliato da perdite improvvise e continue di urine, né costretto all'uso del catetere. Quest'ultimo dovrebbe essere evitato nelle prime 24-36 ore e impiegato successivamente solo come cateterismo intermittente, da praticarsi con diversa frequenza, da plurigiornaliera a settimanale, in rapporto all'entità del residuo urinario e all'efficacia degli esercizi di ricondizionamento. Un trattamento così impostato può prevenire la sovradistensione vescicale e le conseguenti infezioni, conservare o ricostruire una soddisfacente capacità vescicale, raggiungere una condizione di vescica riflessa con svuotamento totale o che comunque non lasci un residuo superiore al 15-20% della capacità vescicale. Mediante svuotamenti intervallati in rapporto alla diuresi, evitando che il contenuto vescicale superi i 400-500 cm3 di urina, si può assicurare una mobilizzazione passiva della vescica in modo che, alla ricomparsa della motricità attiva e riflessa, non ne risultino ridotte la capacità e l'elasticità. È opportuno mantenere il pH delle urine intorno a 5-5,5 somministrando acidificanti; praticare frequentemente l'esame delle urine e l'urinocoltura; usare con parsimonia gli antibiotici.
Molte volte con il ricondizionamento si può solo raggiungere il risultato di una vescica capace di svuotarsi, ma incontinente. L'incontinenza in una vescica sovradistesa perché non svuotata a intervalli regolari può essere provocata da colpi di tosse, da meteorismo addominale, da sforzi, ed è legata a un'ipostenia dei muscoli del pavimento pelvico e dello sfintere uretrale esterno. Oppure l'incontinenza può avere la sua origine in un riflesso di svuotamento attivato dalla distensione della parete in vesciche con capacità ridotta, come spesso avviene nei pazienti che abbiano portato a lungo il catetere in permanenza, anche in casi di sindromi non neurologiche. Un'adeguata ginnastica dei muscoli perineali, l'applicazione di stimolatori elettronici sul midollo o sulla loggia vescicale, che agiscano a seconda dei casi sugli sfinteri o sul detrusore, possono a volte consentire il controllo di questa disfunzione (v. Bourcier e altri, 1989).
Nessuna terapia chirurgica per diminuire l'ostruzione funzionale a livello degli sfinteri dovrebbe essere effettuata prima di avere tentato di ripristinare l'equilibrio tra detrusore e sfinteri con una terapia farmacologica. Tenendo presenti gli effetti collaterali dei parasimpaticolitici (secchezza delle fauci, disturbi visivi, vertigini, cefalea), dei parasimpaticomimetici (sensazione di calore, sudorazione, scialorrea, nausea), dei simpaticolitici alfa-bloccanti (ipotensione posturale) si può suggerire lo schema riportato nella tab. I (v. Formica, Trattato di..., 1985). La vescica può recuperare la sua funzione, sia pure solo parzialmente, se la sua ripresa non viene ostacolata con terapie male impostate. Il paziente fin dall'inizio deve essere messo a conoscenza delle numerose possibilità di controllare la sua disfunzione e del fatto che la vescica è un organo a funzione essenzialmente automatica, le cui attività fondamentali si esercitano attraverso una serie di riflessi, molti dei quali si verificano lungo i plessi esistenti nella stessa parete. Scopo del trattamento è quello di sfruttare la stessa tendenza della vescica alla ripresa funzionale: la presenza di piaghe da decubito, un cattivo controllo della spasticità, un decadimento delle condizioni generali, la presenza di infezioni intercorrenti, anche di altri organi e apparati, possono ostacolare questa tendenza.
La peristalsi intestinale, abolita nella fase di shock spinale, ricompare di solito nella prima settimana. Va evitata in questo primo periodo la somministrazione di liquidi per via orale e di alimenti ad alto contenuto di scorie; si dovrà somministrare prostigmina e provvedere allo svuotamento digitale del retto. Nel periodo successivo si instaura un alvo neurogeno caratterizzato da stipsi ostinata e falsa incontinenza fecale; una dieta equilibrata, ricca di fibre, e una stimolazione appropriata sono di solito sufficienti per regolarizzare l'alvo.
Le paraosteoartropatie, oltre che nella paraplegia, possono riscontrarsi nella sclerosi a placche, nelle emiplegie, nel coma prolungato, nel tetano, e sono caratterizzate da ossificazioni periarticolari e muscolari. Compaiono due o tre mesi dopo l'evento acuto a livello delle articolazioni coxofemorali e del ginocchio, determinando tumefazioni di consistenza ossea ricoperte da cute più calda che nelle zone circostanti; può essere presente dilatazione venosa e limitazione dell'escursione articolare. La prevenzione si basa sulla mobilizzazione passiva, durante la quale vanno evitate le manovre di iperestensione, e sulla terapia anticoagulante, dato che i microtraumi e le alterazioni circolatorie vengono indicati come i più probabili fattori causali. Una volta posta la diagnosi, la mobilizzazione passiva deve essere sospesa fino a quando non si sia certi che il processo di ossificazione sia stabilizzato. Non esistono terapie farmacologiche. La terapia chirurgica, da riservarsi ai casi di ossificazione cospicua, è spesso causa di recidive.
L'osteoporosi, frequente causa di fratture a seguito di traumi o di manovre terapeutiche o di crisi di ipertonia, è legata alla mancanza di carico e al deficit della funzione di controllo vasomotorio e di fattori ormonali. La terapia preventiva è basata sulla mobilizzazione attiva e passiva, sulle rotazioni su letti automatici, sul precoce ortostatismo sul tavolo di statica. L'osteopatia può passare inosservata nelle prime fasi, data la mancanza del sintomo dolore; può farne sospettare l'esistenza lo stato degli arti, che si presentano generalmente edematosi, di colore livido. In questa fase è efficace il trattamento con bagni caldi e freddi e la somministrazione di calcitonina.
I decubiti rappresentano un grave e prolungato ostacolo al trattamento rieducativo in qualsiasi patologia. La loro prevenzione, sicuramente meno costosa della loro terapia per le strutture assistenziali, si attua: cambiando frequentemente di posizione il paziente, in modo da variare le aree di pressione e di stasi circolatoria; con l'uso di materassi ad acqua e ad aria, di letti rotanti, di velli protettivi, di cuscini al silicone; evitando la presenza di oggetti o corpi estranei nel letto (penne, bottoni, cuscini, briciole, cuciture o rammendi nelle lenzuola o nella biancheria); con una dieta adeguata, integrata con ferro o vitamine; controllando frequentemente l'emoglobinemia; mantenendo la cute pulita e asciutta, senza ricorrere a pomate che riducono la permeabilità della pelle e alle frizioni con alcool che ne favoriscono la cheratinizzazione; evitando le evenienze settiche febbrili, specie urinarie. Va ricordato che un decubito può comparire in poche ore, ma che richiede periodi lunghissimi per essere curato. Le prime manifestazioni sono caratterizzate dalla comparsa di aree di arrossamento e di edema nelle zone cutanee sottoposte a maggiore pressione o a macerazione, alla quale segue l'ulcerazione necrotica e torpida della cute e dei tessuti sottostanti, che anzi sono interessati dal processo necrotico in misura tre volte superiore rispetto alla cute. Oltre alle misure precedentemente elencate, nelle fasi iniziali si dimostrano utili le trasfusioni di sangue, la somministrazione di estratti placentari per via generale, le applicazioni di creme (non di pomate) anabolizzanti, l'esposizione delle piaghe a una corrente di ossigeno per una ventina di minuti due o tre volte al giorno, la somministrazione di calcitonina (v. Castellano, 1985). Nelle forme più avanzate la terapia è chirugica.
I disturbi psicologici consistono principalmente in alterazioni dello schema corporeo, caratterizzate da sensazioni statiche o cinetiche e da parestesie localizzate agli arti inferiori con carattere talvolta episodico. Questi fenomeni alimentano spesso nel paziente, nei familiari e talvolta nei sanitari, l'illusione di possibili recuperi. D'altra parte la constatazione della propria incapacità motoria determina nel paraplegico l'instaurarsi di processi depressivi reattivi che ne limitano notevolmente la motivazione e la partecipazione attiva. Ad aggravare la situazione, specie nella fase successiva, interviene la constatazione di una incapacità sessuale, non sempre sostenuta da una effettiva impotenza, spesso superabile con un'adeguata informazione e un opportuno sostegno psicologico (v. Zeitlin e altri, 1957; v. Talbot, 1971; v. Bregman, 1975; v. Nordqvist, 1976; v. Formica e Fanelli, 1978; v. Formica, Trattato di..., 1985).
La spasticità può essere presente in grado maggiore o minore, a seconda del livello e del carattere incompleto o completo della lesione. Nelle lesioni incomplete essa è di solito più intensa e pertanto più inabilitante che nelle lesioni complete. Non dovrebbe essere trattata, se non quando rappresenti un impedimento all'autonomia e all'autosufficienza del paziente. Un modesto grado di spasticità può anzi essere vantaggioso perché stimola la circolazione e il trofismo cutaneo nei segmenti interessati (v. Frankel, 1982) e può facilitare reazioni di appoggio e di raddrizzamento assumendo il carattere di una ‟protesi miotatica" (v. Bergamini, 1974): in questi casi è importante che il paziente ne comprenda il significato e la possibile utilità. Per il trattamento farmacologico, valgono le stesse indicazioni fornite per l'emiplegia. Interventi chirurgici di allungamento degli achillei o degli adduttori e infiltrazioni di alcool in alcuni muscoli possono essere utili in molti casi.
Da quanto abbiamo fin qui esposto appare evidente come il mantenimento di un corretto atteggiamento posturale, la metodica variazione della posizione a letto, la mobilizzazione dolce, cauta, delle articolazioni, la corretta impostazione iniziale delle misure per controllare le turbe sfinteriche, la meticolosa cura dell'integrità della cute, l'adeguato sostegno psicologico rappresentino gli elementi fondamentali del trattamento iniziale.
Nelle fasi successive il trattamento rieducativo dovrà mirare al poteziamento delle capacità rimaste integre in modo che possano compensare i deficit irreversibili determinati dalla lesione. Questi ultimi saranno diversi a seconda del livello e potranno interessare la minzione, la posizione seduta, la deambulazione nelle lesioni più basse; la prensione e la possibilità di comunicazione nelle lesioni più alte. Perché il paziente possa raggiungere una completa autonomia dovranno quindi essere prescritti adeguati ausili tecnici, che in Italia sono forniti gratuitamente dietro prescrizione di uno specialista. Anche l'uso di questi meccanismi di compenso o di questi congegni richiede un esercizio ripetuto, una motivazione e processi di interiorizzazione e di apprendimento che vanno correlati alle possibilità presenti e a quelle prevedibili per il futuro di ogni singolo paziente, seguendo lo stesso schema dei principî generali dell'esercizio terapeutico già indicati che, peraltro, con opportune variazioni e integrazioni, trovano applicazione in tutte le principali sindromi neurologiche.
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Riabilitazione respiratoria e cardiologica di Renato Corsico, Roberto Tramarin
Sommario: 1. Introduzione. 2. Cenni storici. a) Riabilitazione respiratoria. b) Riabilitazione cardiologica. 3. Finalità. a) L'intervento riabilitativo respiratorio. b) L'intervento riabilitativo cardiologico. 4. Indicazioni. a) Patologie respiratorie. b) Patologie cardiache. 5. Criteri di inserimento. a) Riabilitazione respiratoria. b) Riabilitazione cardiologica. 6. Criteri di esclusione. a) Caratteristiche individuali. b) Quadro clinico. 7. L'organizzazione dell'intervento riabilitativo. a) riabilitazione respiratoria; b) riabilitazione cardiologica. 8. Programmi e tecniche di riabilitazione respiratoria: a) disostruzione bronchiale; b) allenamento dei Muscoli respiratori. c) Allenamento all'attività fisica generale. d) Ossigenoterapia. e) Ventilazione meccanica. 9. Programmi e tecniche di riabilitazione cardiologica. a) Stratificazione prognostica. b) Programmi di esercizio fisico. c) Modificazione dei fattori di rischio. d) Supporto psicosociale. 10. Reinserimento sociale. 11. Modalità operative. a) day hospital. b) Collegamenti. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La riabilitazione è generalmente intesa come la ‛terza fase' dell'intervento medico, che segue quella preventiva e quella diagnostico-curativa. Benché questi tre momenti siano distinguibili sulla base dei contenuti, non è in realtà possibile operare una separazione netta fra di loro né, tantomeno, prevederne una rigida successione cronologica; è tuttavia chiaro che tra di essi vi è una reciproca integrazione. La medicina riabilitativa non si propone come un'ennesima specializzazione medica, né rappresenta un'alternativa all'intervento medico che caratterizza il trattamento della fase acuta della malattia - finalizzato a garantire le funzioni vitali e a risolvere o stabilizzare la malattia - ma afferma il proprio ruolo mirante a far recuperare a ogni soggetto le più complete potenzialità fisiche, mentali, sociali e lavorative, compatibilmente con il grado e il tipo di deficit funzionale di cui l'individuo è portatore. In altri termini, la medicina riabilitativa deve potenziare al massimo le capacità di un individuo e ridurre il più possibile l'impatto della malattia - e dell'eventuale progressivo deterioramento funzionale - non solo sulla persona malata, ma anche sulla sua famiglia e sulla comunità a cui appartiene (v. Katz, 1987; v. Ries, 1990).
Considerando la scala degli eventi biologici che caratterizzano un processo morboso è possibile seguire la successione delle tappe attraverso cui si genera la disabilità, e quindi valutare il differente significato degli interventi medici nei confronti delle possibilità evolutive dell'evento morboso iniziale, così come definite dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization, WHO) nel 1980 (v. tab. I; v. WHO, 1980).
Non vi è dubbio che il ruolo della riabilitazione nell'ambito delle discipline mediche sia destinato a crescere, perché i notevoli progressi ultimamente conseguiti nel settore degli interventi terapeutici hanno consentito a soggetti con esiti di eventi acuti di superare la fase dell'intervento rianimatorio (v. rianimazione, vol. VI) e a pazienti affetti da patologie croniche ingravescenti di sopravvivere, pur non avendo conseguito la completa risoluzione della malattia o annullato il danno funzionale.
2. Cenni storici
a) Riabilitazione respiratoria
In ambito respiratorio, l'impiego di interventi riabilitativi, se pur semplici, può essere fatto risalire alla fine del secolo scorso, quando ai soggetti affetti da tubercolosi polmonare cronica furono prescritti esercizi respiratori associati a una buona alimentazione con lo scopo di ridurre le recidive e di migliorare il deficit respiratorio. Probabilmente questo interesse nei riguardi dell'infezione tubercolare era dovuto al fatto che spesso i pazienti vivevano a lungo isolati, in strutture specializzate, seguiti da sanitari che non di rado avevano scelto tale attività in quanto essi stessi già colpiti dall'infezione e quindi attenti alle necessità dei loro pazienti.
Esercizi di fisiochinesiterapia respiratoria - che in questa fase iniziale costituivano gli unici presidi della riabilitazione - vennero prescritti anche ai soggetti sottoposti a interventi chirurgici di toracoplastica per patologia tubercolare; un importante contributo alla messa a punto di tali interventi fu apportato dai fisiatri che già avevano verificato l'efficacia della fisiochinesiterapia nel recupero dei pazienti affetti da patologie motorie.
La fisiochinesiterapia respiratoria fu attuata soprattutto nelle sedi in cui si praticava la chirurgia toracica: in Italia, a Torino, Orlando Orlandi (v. Orlandi e altri, 1965) la utilizzò sia nella preparazione agli interventi chirurgici che nella fase post-operatoria, estendendola poi ad altre patologie respiratorie.
Dopo gli anni sessanta cominciò a essere praticata la terapia ventilatoria ed ebbero inizio gli studi sull'ossigenoterapia nelle broncopneumopatie croniche ostruttive (BPCO). Il nuovo apporto tecnologico consentì di trattare soggetti affetti da patologie sempre più impegnative e consolidò l'acquisizione del concetto secondo cui il trattamento riabilitativo è tale se ha come scopo principale il reinserimento sociale del soggetto malato.
Più tardi, sempre in Italia, Anton Luigi Maccagno (v., 1982) mise a punto un lettino appositamente concepito per il potenziamento dell'attività diaframmatica che, se pure talvolta con l'apporto di alcune modifiche, fu diffusamente impiegato.
b) Riabilitazione cardiologica
La nascita e lo sviluppo della riabilitazione cardiologica sono connessi a una serie di circostanze peculiari del XX secolo; tra queste, la più importante è rappresentata dall'aumentata frequenza, nei paesi occidentali, della cardiopatia ischemica, talché l'infarto del miocardio, che ne è l'espressione più rilevante, è diventato la principale causa di morte e di disabilità negli uomini di età compresa tra i 35 e i 65 anni. Per i soggetti sopravvissuti a un attacco cardiaco, tipicamente maschi di mezza età nel pieno della vita produttiva, la ripresa lavorativa è spesso problematica: l'atteggiamento della famiglia, degli amici, dei colleghi e talvolta anche quello del medico contribuisce a farne degli invalidi cronici.
Negli anni cinquanta Levine e Lown (v., 1952) hanno introdotto il concetto della ‛mobilizzazione precoce' dopo un attacco cardiaco, il cosiddetto ‛trattamento-poltrona', che traeva origine dall'osservazione che la prolungata mancanza di movimento dovuta all'allettamento era associata a un grave indebolimento muscolare, alla perdita di tessuto osseo, alla riduzione della prestazione cardiovascolare e all'aumento della frequenza di episodi tromboembolici. Negli anni sessanta, in occasione delle prime avventure dell'uomo nello spazio, si osservò che l'esposizione prolungata a condizioni di assenza di gravità aveva sul corpo umano un effetto decondizionante simile all'allettamento prolungato e che tale effetto poteva essere adeguatamente prevenuto con opportuni programmi di esercizio fisico.
A partire dal 1930 si sono accumulate molte osservazioni scientifiche che evidenziano come l'inattività fisica e la sedentarietà rappresentino uno dei principali fattori di rischio di cardiopatia ischemica e come, al contrario, l'esercizio fisico regolare svolga un ruolo protettivo.
I numerosi dati scientifici accumulati dall'inizio degli anni sessanta sugli effetti positivi sul sistema cardiovascolare dell'allenamento fisico, in grado non solo di indurre una riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa a riposo e dopo sforzo e, conseguentemente, di diminuire il fabbisogno di ossigeno a qualsiasi livello di intensità di attività fisica, ma anche di aumentare direttamente l'efficienza cardiaca in termini di gittata e di portata, sono stati confermati verso la fine degli anni ottanta: è risultato, infatti, che l'attività fisica è inversamente e causalmente correlata alla incidenza di cardiopatia ischemica, e che il rischio relativo della sedentarietà è di un ordine di grandezza pari a quello dell'ipertensione arteriosa, dell'ipercolesterolemia e del fumo (v. Powell e altri, 1987).
Più recentemente sono stati documentati altri numerosi vantaggi dell'esercizio fisico regolare, quali, a livello periferico, l'aumento della frazione HDL (High Density Lipoproteins) del colesterolo, la riduzione della secrezione di catecolammine, l'aumento della sensibilità all'insulina e della tolleranza al glucosio, l'incremento dell'attività fibrinolitica e la riduzione dell'aggregabilità piastrinica. Si è osservato infine che una strategia di trattamento comprendente la mobilizzazione precoce e un'attività fisica controllata risulta efficace nell'alleviare lo stato depressivo, ripristinando la fiducia in se stessi, e nel ridurre lo stato di ansia successivi all'infarto del miocardio (v. WHO, 1969; v. Kavanagh, 1992).
3. Finalità
a) L'intervento riabilitativo respiratorio
L'intervento riabilitativo respiratorio, pur essendo finalizzato al recupero della funzione o a rallentarne il deterioramento, va inteso anche come approccio terapeutico globale nei confronti della patologia respiratoria.
Le finalità dell'intervento riabilitativo sono (secondo il punto di vista dello European Respiratory Society Rehabilitation and Chronic Care Scientific Group): 1) la riduzione del danno organico e psicosociale dovuto alla malattia; 2) l'incremento delle prestazioni fisiche e psichiche; 3) la migliore reintegrazione sociale dell'individuo, per ridurre l'entità dello svantaggio (v. Donner e Howard, 1992).
Per conseguire tali scopi sono stati messi a punto programmi che integrano diverse strategie, quali: l'informazione e l'educazione dei pazienti e dei loro familiari; esercizi di fisioterapia respiratoria per la detersione delle vie aeree, per il potenziamento e la coordinazione della muscolatura respiratoria, per l'incremento della attività fisica generale; nei casi di insufficienza respiratoria, ossigenoterapia a lungo termine ed eventuale messa a riposo dei muscoli respiratori. Occorre cioè agire su quelle componenti variabili su cui l'evento patologico (a volte prolungato nel tempo) ha esercitato la propria influenza determinando un deficit funzionale respiratorio, talvolta con conseguenze negative anche sul piano psichico e sociale.
Recentemente il trattamento riabilitativo ha assunto una primaria importanza nei trapianti di polmone, sia nella fase di preparazione, sia in quella di recupero post-trapianto (v. Estenne e altri, 1987; v. Dear e altri, 1989; v. Craven e altri, 1990; v. Williams e altri, 1990; v. Otulana e altri, 1992; v. Biggar e altri, 1993; v. Biortuft e altri, 1993; v. Kass e altri, 1993; v. chirurgia: Chirurgia dei trapianti, vol. VIII). La riabilitazione respiratoria rappresenta quindi un capitolo relativamente recente della terapia delle malattie respiratorie che, ben lungi dall'avere esaurito le proprie potenzialità, è suscettibile di ulteriori sviluppi e progressi. Il trattamento riabilitativo, in quanto coinvolge il malato e i suoi familiari nella gestione della malattia, presenta aspetti di grande interesse anche per quanto riguarda i costi sociali (v. Rampulla e Ambrosino, 1993).
b) L'intervento riabilitativo cardiologico
La riabilitazione dei pazienti con patologie cardiovascolari è stata definita dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come ‟l'insieme delle attività necessarie ad assicurar loro le migliori condizioni fisiche, psichiche e sociali, in modo che possano riacquistare con i loro stessi mezzi una posizione il più possibile normale nella vita della comunità". Questa definizione rimane ancora valida, quantunque limitata a pazienti che abbiano sofferto di un evento acuto.
Attualmente, il concetto di riabilitazione dei cardiopatici sta subendo rapide trasformazioni in relazione a una serie di fattori. Il miglioramento della terapia medica dell'infarto acuto del miocardio, unitamente all'aumento delle procedure di rivascolarizzazione (by-pass aorto-coronarici, angioplastica coronarica), ha ridotto sensibilmente la mortalità per malattie cardiovascolari in numerose nazioni (v. chirurgia: Cardiochirurgia, vol. VIII; v. trombosi coronarica, vol. VII): tuttavia, l'aumento della sopravvivenza dopo eventi acuti e il sostanziale incremento della speranza di vita nei paesi occidentali hanno determinato una maggiore incidenza, nella popolazione adulta, delle malattie cardiovascolari (v. morbilità, vol. VIII).
L'evidenza che l'aterosclerosi coronarica, che rappresenta il substrato anatomo-patologico della cardiopatia ischemica, evolve con velocità variabile e che il verificarsi dei gravi eventi clinici a essa conseguenti è per lo più inaspettato, ha rinforzato la convinzione che l'approccio più realistico ed efficace ad affrontarla sia la prevenzione.
Lo scompenso cardiaco, considerato fino a pochi anni fa lo stadio finale di molte malattie cardiache inevitabilmente progressive, è ora, per molteplici ragioni, diversamente interpretato: una più approfondita conoscenza della fisiopatologia ha mostrato che la sua progressione si può evitare, almeno parzialmente, controllando una serie di circoli viziosi, innescati dal deficit di pompa cardiaca, che a loro volta generano un ulteriore peggioramento della stessa funzione di pompa (attivazione adrenergica, attivazione del sistema renina-angiotensina, squilibri di alcuni mediatori vasoattivi). Il trapianto cardiaco è ora in grado di prolungare la vita di pazienti altrimenti condannati: questa opzione terapeutica comporta da una parte la valutazione di un numero sempre crescente di potenziali candidati al trapianto, e dall'altra la necessità di individuare strategie terapeutiche in grado di mantenere, nei pazienti in attesa di trapianto, condizioni cliniche accettabili, talvolta per molti anni.
Come ultima considerazione vale la pena di ricordare che la mancanza di conoscenze precise in riferimento alle cause della maggior parte delle malattie cardiovascolari (per esempio coronaropatia, cardiomiopatie, ipertensione arteriosa) rappresenta ancora oggi un ostacolo a ogni tentativo di eradicare tali malattie, il cui decorso è cronico e per lo più di lunga durata. Per questi motivi è sempre più evidente che l'oggetto dell'assistenza cardiologica è, e continuerà a essere, il paziente cronico, e che per ogni caso dovrebbe essere individuato un ragionevole compromesso, diverso da paziente a paziente, tra le aspettative del soggetto in termini di qualità di vita ed evoluzione della malattia.
L'insieme degli interventi riabilitativi - che comprende l'esercizio fisico, il controllo delle dislipidemie e dell'ipertensione e l'astinenza dal fumo - si propone i seguenti obiettivi: ridurre la mortalità per cause cardiovascolari, aumentare la capacità funzionale riducendo i sintomi connessi all'attività fisica e la disabilità in generale, ritardare la progressione e anzi favorire la regressione dell'aterosclerosi coronarica riducendo in tal modo anche il rischio di ulteriori manifestazioni di ischemia cardiaca o di nuovi infarti (v. Multiple Risk Factor Intervention Trial Research Group, 1982).
4. Indicazioni
a) Patologie respiratorie
Il programma riabilitativo ha efficacia quando è attuato in soggetti affetti da broncopneumopatie croniche ostruttive (anche con insufficienza respiratoria), asma bronchiale, bronchiectasie, malattie neuromuscolari con interessamento della muscolatura della gabbia toracica, postumi respiratori di interventi chirurgici, fibrosi polmonare, alterazioni strutturali della gabbia toracica, patologie congenite o acquisite in fase preparatoria al trapianto polmonare o di post-trapianto.
Le malattie respiratorie croniche costituiscono la causa principale di disabilità e di riduzione della produttività negli adulti in età lavorativa, e in un elevato numero di casi determinano l'impossibilità di riprendere il lavoro.
Se nella prima metà del secolo la tubercolosi ha rappresentato la patologia su cui maggiormente si è concentrato l'impegno riabilitativo in ambito pneumologico, è indubbio che tale ruolo è stato successivamente assunto dalle broncopneumopatie croniche ostruttive e dall'asma bronchiale, a causa della loro grande diffusione nei paesi a maggiore sviluppo industriale (v. Christensen e altri,1990). Solo più recentemente i programmi di riabilitazione sono stati attuati anche nei casi di insufficienze respiratorie dovute a deficit della pompa ventilatoria, di pneumopatie restrittive, di apnee notturne, di patologie post-rianimatorie e in pazienti in fase sia pre- che post-trapianto (v. Foster e Thomas, 1990). È da tenere presente che la patologia respiratoria ad andamento cronico presenta, in genere, segni di deficit respiratorio che, dopo un inizio in sordina, vanno progressivamente accentuandosi sino a condizionare in modo rilevante l'attività motoria. La riduzione dell'attività motoria è inizialmente motivata dall'incapacità di adeguare la ventilazione all'aumentata richiesta di ossigeno durante carico di lavoro, ma la situazione tende a un ulteriore peggioramento a causa della progressiva mancanza di allenamento della muscolatura scheletrica e dell'apparato cardiovascolare. Possono inoltre svilupparsi importanti condizionamenti psicologici che concorrono a determinare la condizione di disabilità, anche in modo non correlato al danno ipossico tissutale. È provato che un corretto trattamento riabilitativo è in grado di determinare un miglioramento della qualità di vita e che tale risultato non dipende solo dal miglioramento della funzione respiratoria o dall'incrementata tolleranza allo sforzo, ma è invece il frutto dell'intero programma riabilitativo che non può essere valutato in modo settoriale (v. Wijkstra e altri, 1994).
b) Patologie cardiache
La riabilitazione costituisce attualmente un elemento importante della moderna strategia di assistenza integrata di molti pazienti con malattie cardiache (v. tab. II).
Sebbene non siano disponibili molti dati relativi al rapporto costi-benefici, i programmi di riabilitazione sono sicuramente in grado di ridurre il numero di nuovi ricoveri e l'impiego di farmaci, come pure di aumentare il numero di soggetti che ritornano al lavoro dopo un evento cardiaco acuto. Dovrebbero essere inseriti in un programma di riabilitazione pazienti con cardiopatia nota e, in particolare, quelli con fattori di rischio coronarico multipli e modificabili, con tolleranza allo sforzo fisico inadeguata alle esigenze delle attività domestiche o lavorative, con ischemia da sforzo, con scompenso cardiaco cronico, con esiti di infarto miocardico, o portatori di by-pass aorto-coronarico, oppure soggetti sottoposti a intervento di angioplastica percutanea transluminale o a trapianto cardiaco. Per gli ultimi quattro gruppi di pazienti la riabilitazione cardiologica dovrebbe essere iniziata durante la fase del ricovero ospedaliero e proseguita, dopo la dimissione, in regime ambulatoriale.
5. Criteri di inserimento
a) Riabilitazione respiratoria
In sede di selezione dei pazienti occorre valutare se essi rispondano ai criteri di inserimento nel trattamento riabilitativo e che non vi siano motivi, permanenti o provvisori, di esclusione (v. cap. 6). Tali criteri-guida sono stati sintetizzati nella tab. III seguendo un criterio sintomatologico-funzionale, piuttosto che diagnostico. Le valutazioni di danno respiratorio, di disabilità e di handicap vanno effettuate seguendo le definizioni proposte dall'OMS nel 1980 e illustrate nella tab. I, ma per una corretta selezione dei pazienti da avviare al trattamento riabilitativo occorre che la valutazione clinico-funzionale sia suffragata dallo studio dell'efficacia del sistema di pompa.
La necessità di quantificare la sintomatologia soggettiva dispnoica ha richiesto la realizzazione di scale di gravità, come quella di Borg (v. tab. IV), o di analoghe scale visive, che costituiscono uno strumento agile, di rapida utilizzazione, indicativo della gravità della sindrome respiratoria e quindi efficace per selezionare i pazienti, ma utile anche in fase di monitoraggio dei risultati conseguiti in corso di trattamento riabilitativo respiratorio.
È anche possibile integrare la valutazione con appositi questionari finalizzati a determinare vari aspetti dell'impatto della malattia sulla vita quotidiana, così come è necessario disporre di indici di valutazione della forza e della resistenza dei muscoli respiratori. La scelta delle più adatte metodiche di fisioterapia respiratoria può essere guidata dal monitoraggio delle modalità respiratorie, effettuato utilizzando tecniche non invasive che registrano i movimenti del torace e dell'addome. La valutazione dell'efficienza fisica globale richiede invece l'esecuzione di un test ergometrico. Per valutare se esista una condizione di insufficienza respiratoria e quali siano gli interventi da effettuare ai fini riabilitativi va inoltre eseguito il monitoraggio dei gas ematici mediante elettrodi transcutanei.
b) Riabilitazione cardiologica
L'evoluzione del concetto di riabilitazione cardiologica verificatasi negli ultimi anni, e recepita dalle principali società scientifiche europee e americane (v. cap. 3, § b), ha determinato anche l'evoluzione dei criteri adottati per l'inserimento dei pazienti nei programmi riabilitativi. La molteplicità delle condizioni cardiache nelle quali è possibile intervenire e soprattutto la complessità dei programmi finalizzati al trattamento di alcune patologie hanno fatto sì che le variabili di inclusione più rilevanti siano quelle connesse all'organizzazione diagnostica e assistenziale del centro riabilitativo, alla disponibilità di figure professionali di supporto (nutrizionista, psicologo, ergonomista, medico del lavoro, ecc.) e, non ultimo, all'esperienza clinica in specifici ambiti di patologie cardiache.
6. Criteri di esclusione
Esiste una serie di fattori che potrebbero pregiudicare il buon esito di un trattamento riabilitativo; tuttavia, poiché tali fattori col tempo possono modificarsi, il giudizio di esclusione dai programmi di riabilitazione in genere non deve essere considerato definitivo.
a) Caratteristiche individuali
Innanzi tutto occorre che il paziente sia adeguatamente motivato e che abbia coscienza della propria disabilità e delle limitazioni che questa comporta rispetto alle esigenze della vita quotidiana. Da qui deve nascere la volontà di ottenere un miglioramento della qualità della vita e conseguentemente la volontà di collaborare con l'équipe riabilitativa nell'attuazione dei programmi concordati. La perdurante mancanza di collaborazione del paziente rappresenta la sola controindicazione assoluta al trattamento riabilitativo.
Una pregiudiziale importante, poi, è costituita dall'abitudine al fumo, che deve essere abbandonata prima dell'inserimento in un programma riabilitativo, in quanto la sua mancata sospensione rappresenta motivo pressoché costante di fallimento.
L'età del paziente, infine, non rappresenta di per sé un fattore limitante, anche se nella stesura del programma di trattamento riabilitativo occorre che se ne tenga conto, unitamente a una serie di valutazioni cliniche.
b) Quadro clinico
È di grande importanza che la forma morbosa sia clinicamente stabile, dal momento che una sua riacutizzazione, pur se non comporta necessariamente il trasferimento in un reparto di terapia per acuti, rappresenta comunque una transitoria controindicazione al trattamento riabilitativo.
Esiste una certa uniformità di vedute circa le condizioni che sconsigliano l'inserimento del paziente nei programmi di allenamento fisico, che è assolutamente controindicato nei casi di angina a riposo, tachicardia ventricolare, stenosi aortica severa, eventi tromboembolici recenti e ipertensione arteriosa di grado elevato. Le aritmie extrasistoliche ventricolari, l'aneurisma ventricolare sinistro, la stenosi aortica moderata, la cardiomegalia, l'ipertensione arteriosa lieve e il diabete mellito non controllato, come pure le anemie gravi, le patologie neuromuscolari e muscoloscheletriche rappresentano invece controindicazioni relative: in questi casi la prescrizione del programma di esercizio fisico deve essere valutata dallo specialista di volta in volta.
7. L'organizzazione dell'intervento riabilitativo
a) Riabilitazione respiratoria
L'organizzazione dei programmi di riabilitazione respiratoria prevede la collaborazione di più figure professionali e il risultato migliore si ottiene quando tutte le persone coinvolte operano in stretto contatto, in un unico centro (v. Hodgkin e Petthy, 1987; v. Tiep, Pulmonary..., 1993).
La composizione di una équipe riabilitativa ottimale prevede, oltre alla componente medica, l'infermiere professionale, il terapista della riabilitazione, lo psicologo, il terapista occupazionale, il dietista, i tecnici di fisiopatologia respiratoria e l'assistente sociale. È indispensabile che le funzioni di coordinatore siano svolte da un medico pneumologo, che periodicamente deve concordare con gli altri componenti gli interventi riabilitativi finalizzati al conseguimento dell'obiettivo.
Un ruolo di fondamentale importanza è quello dello psicologo, al quale spetta il compito di valutare l'eventuale esistenza di problemi psicologici concomitanti o conseguenti all'evento morboso, e cercar di ottenere la maggiore collaborazione possibile. In modo particolare, l'intervento deve far sì che il paziente corregga una eventuale erronea valutazione di sé e della propria malattia; quando necessario, lo psicologo deve estendere il proprio intervento agli altri componenti del nucleo familiare o, comunque, dell'ambiente sociale del paziente.
Per conseguire gli obiettivi che il trattamento riabilitativo si prefigge (v. tab. V), occorre che siano rispettate alcune condizioni: in particolare, devono essere considerate le caratteristiche individuali dei pazienti e stabiliti i criteri più opportuni circa l'impostazione e le modalità di attuazione del programma riabilitativo. È necessario che le mete del trattamento riabilitativo siano realisticamente adeguate alle caratteristiche del paziente, in modo che non si creino aspettative non realizzabili; la perdita di fiducia da parte del malato, infatti, riduce l'efficacia dell'intervento riabilitativo. Occorre infine tenere conto dell'ambiente di vita del paziente e del grado e tipologia di inquinamento ambientale, dell'esistenza di barriere architettoniche, dell'assistenza da parte di familiari e, eventualmente, del tipo di inserimento lavorativo e dei rischi a esso connessi (v. Ambrosino e altri, 1989).
b) Riabilitazione cardiologica
L'organizzazione della riabilitazione cardiologica in relazione alla stratificazione prognostica e all'assistenza a lungo termine differisce da paese a paese a seconda delle diverse realtà socioeconomiche, dell'organizzazione sanitaria e delle diverse tradizioni. Nei paesi europei le strutture di riabilitazione cardiologica sono in genere organizzate in modo da fornire programmi per pazienti ospedalizzati e ambulatoriali, nonché per erogare servizi di mantenimento. Il personale e i programmi riabilitativi sono strutturati in modo da soddisfare le esigenze di un approccio diagnostico e terapeutico completo (v. tab. VI). A seconda del livello di rischio di accidenti cardiaci e della storia clinica del singolo paziente dovrebbe essere facile trasferire il paziente da una unità all'altra.
Convenzionalmente dopo un evento cardiaco acuto vengono identificate tre fasi sequenziali di riabilitazione: la fase 1, intraospedaliera, che comprende il periodo di acuzie della malattia; la fase 2, ancora intraospedaliera, di solito in una struttura riabilitativa, ambulatoriale o in regime di ricovero diurno (day hospital), nel corso della quale si procede alla stratificazione prognostica, alla valutazione e al recupero funzionale e della prestazione fisica; e la fase 3, di mantenimento, che dura per il resto della vita.
I pazienti con scompenso cardiaco di grado elevato e in attesa di trapianto dovrebbero essere assistiti presso strutture di degenza semi-intensive nelle quali sia possibile un monitoraggio clinico molto accurato e un supporto terapeutico avanzato, in un ambiente aperto ai familiari e dotato di un adeguato supporto psicologico. Al fine di rendere la degenza ospedaliera più breve possibile, in alcuni centri sono state organizzate forme di assistenza domiciliare (home care) fornita dallo stesso personale specialistico della struttura ospedaliera in collaborazione con il medico di famiglia (v. Balady e altri, 1994).
8. Programmi e tecniche di riabilitazione respiratoria
Le tecniche utilizzate in riabilitazione respiratoria comprendono fisiochinesiterapia (disostruzione bronchiale, rieducazione respiratoria, allenamento all'attività fisica, aerosolterapia), ossigeno-terapia a lungo termine (OTLT), ventiloterapia, educazione igienico-sanitaria.
Il trattamento riabilitativo va programmato tenendo conto delle esigenze derivanti dal tipo di vita condotta dal paziente, il quale deve conoscere le linee guida e gli scopi del programma. In una serie di incontri vanno illustrate al malato le cause della sua malattia, le conseguenze sull'apparato respiratorio, le mete perseguibili con il trattamento riabilitativo e le modalità utilizzabili per il conseguimento dello scopo.
La riabilitazione utilizza diversi metodi specifici per intervenire sui sistemi respiratori - il sistema di pompa (l'insieme della cassa toracica e del complesso diaframma-addome) e il sistema di scambio (l'insieme del polmone e delle vie aeree) - presi singolarmente o anche integrati fra loro.
a) Disostruzione bronchiale
La detersione delle vie aeree rappresenta il più importante intervento sul sistema di scambio, oltre che l'indispensabile preliminare per la realizzazione di tutti gli altri esercizi di fisiochinesiterapia respiratoria. I metodi necessari per raggiungere una efficace disostruzione bronchiale sono: drenaggio posturale; manovre assistite (percussione, vibrazione, succussione); ELTGOL (Expiration Lente Totale Glotte Ouverte en Décubitus Latérale); espirazione mediante apparecchio Flutter; assistenza alla tosse.
Con il drenaggio posturale ci si propone di favorire, per gravità, la progressione delle secrezioni verso i bronchi di maggior calibro mediante l'adozione di posture più opportune. Al fine di agevolare il distacco delle secrezioni dalle pareti bronchiali e la loro progressione verso la trachea, al drenaggio posturale ‛semplice' possono essere associate manovre vibratorie, percussorie e succussorie. Le vibrazioni possono essere eseguite manualmente o mediante vibratori meccanici la cui efficacia non risulta però superiore alla manovra manuale. La percussione viene effettuata portando colpi leggeri in rapida successione, con il palmo della mano semichiusa (clapping) o utilizzando la mano, anche in questo caso semichiusa, ma di taglio (beating). Per la succussione si imprimono ampi e lenti movimenti in direzione trasversale all'asse longitudinale toracico con le mani poste simmetricamente sulle varie zone del torace. La scelta del tipo di tecnica dipende dalle caratteristiche delle secrezioni bronchiali e dalla loro localizzazione. Quando le secrezioni sono particolarmente abbondanti e vischiose è consigliabile attuare una terapia farmacologica fluidificante o idratante prima di sottoporre il paziente alle sedute posturali (v. Sutton e altri, 1985; v. Mazzocco e altri, 1985; v. Sackner e Kim, 1987; v. Shi-Chuan e altri, 1993).
Un efficace metodo di disostruzione bronchiale, l'ELTGOL, consiste in manovre di espirazione prolungata, eseguite a glottide costantemente aperta, in decubito laterale; tale metodo è ben tollerato dalla maggior parte dei malati in quanto non richiede posture disagevoli e consente la mobilizzazione delle secrezioni che possono successivamente essere allontanate con la tosse (v. Postiaux e altri, 1987).
Inoltre, per facilitare la mobilizzazione delle secrezioni bronchiali è stato proposto l'impiego di un apparecchio, denominato Flutter, di uso molto semplice. Il flusso d'aria espirato attraverso il boccaglio dell'apparecchio fa oscillare una biglia metallica, producendo vibrazioni che si trasmettono dalle vie aeree superiori alle vie bronchiali più prossimali e facilitando in tal modo la mobilizzazione delle secrezioni, con conseguente incremento dell'espettorato analogo a quello ottenibile con il drenaggio posturale.
La detersione delle vie aeree è indicata in caso di fibrosi cistica e di gran parte delle patologie croniche polmonari a impronta ipersecretiva, soprattutto in fase di riacutizzazione, allorché l'ingombro di secreti determina un notevole incremento delle resistenze al flusso aereo e può contribuire all'insorgenza di insufficienza respiratoria acuta.
b) Allenamento dei muscoli respiratori
L'intervento riabilitativo dei pazienti con patologia della pompa respiratoria si basa principalmente sull'allenamento dei muscoli respiratori, che può essere indirizzato alla forza, alla resistenza, o alla coordinazione.
Con l'allenamento dei muscoli respiratori alla forza ci si propone di conseguire un aumento della massa muscolare: gli esercizi consistono nell'esecuzione di manovre inspiratorie ed espiratorie di numero ridotto, ma di intensità massimale, contro resistenze. Poiché l'affaticamento dei muscoli respiratori può essere responsabile di ipercapnia, con l'allenamento della muscolatura inspiratoria ci si propone di ridurre la dispnea, aumentando la soglia di fatica: è indicato nei pazienti che presentano una riduzione della forza inspiratoria a livello della bocca o una ridotta pressione transdiaframmatica e che quindi, per respirare a volume corrente, applicano una forza vicina alla soglia di fatica.
L'allenamento dei muscoli respiratori può essere finalizzato anche a incrementare la resistenza, così da tollerare carichi di lavoro più elevati.
Le tecniche di coordinazione respiratoria, utilizzate per ottenere la riduzione della dispnea e l'incremento di efficienza dei muscoli respiratori, sono rappresentate dalla respirazione a bassa frequenza con espirazione attiva, dalla respirazione a labbra socchiuse, dal rilassamento muscolare, dai cambiamenti di postura e dal biofeedback; esse vengono spesso impiegate in modo combinato.
La tecnica di respirazione a bassa frequenza, proposta da Gimenez (v., 1983), ha come obiettivi la correzione dei movimenti paradossi e delle asinergie ventilatorie, l'adozione di una ventilazione di tipo ‛diaframmatico e addominale' controllabile dal paziente stesso, l'acquisizione di una nuova modalità ventilatoria permanente con ridotta frequenza respiratoria e aumentato volume corrente, in modo da migliorare la ventilazione alveolare e quindi ridurre la pressione parziale arteriosa di anidride carbonica (PaCO2). In generale, nella prima fase, che dura 2-3 settimane, si insegnano gli esercizi ventilatori finalizzati alla riduzione della frequenza respiratoria, mentre nella seconda fase, la cui durata è variabile e spesso prolungata, si impara a mantenere la nuova modalità respiratoria non solo a riposo, ma anche durante l'esecuzione delle abituali attività quotidiane (v. Ambrosino e altri, 1981).
La ‛respirazione a labbra socchiuse' viene spesso attuata spontaneamente dai pazienti con pneumopatie croniche ostruttive. I pazienti respirano attraverso il naso per alcuni secondi a bocca chiusa, successivamente espirano per 4-6 secondi ponendo le labbra come per emettere un fischio o per soffiare sulla fiamma di una candela. Si determina in tal modo una involontaria elevazione del palato molle che occlude totalmente l'entrata del naso-faringe (v. Mueller e altri, 1970; v. Roa e altri, 1991).
La scelta della postura durante l'esecuzione degli esercizi di rieducazione respiratoria ha molta importanza in quanto, al variare della posizione del corpo, il peso dei visceri addominali e del mediastino modifica la configurazione spaziale del sistema torace/addome e i muscoli respiratori cambiano la loro configurazione geometrica e quindi lunghezza e curvatura. Spesso le tecniche di respirazione a bassa frequenza vengono utilizzate in combinazione con la respirazione ‛a labbra socchiuse' e con la posizione a tronco flesso in avanti, per attenuare al massimo la dispnea.
Nell'asma bronchiale vengono inoltre utilizzate tecniche di rilassamento finalizzate a diminuire la tensione muscolare e psichica; infatti, è stato dimostrato che è possibile ottenere in tal modo il miglioramento del picco di flusso espiratorio in bambini affetti da asma (v. Alexander, 1972).
Poiché una delle mete della riabilitazione è che il paziente riesca ad avere il controllo sulla malattia, è stato proposto l'uso delle tecniche di biofeedback. Queste consistono nel monitorizzare alcune funzioni biologiche dell'organismo, rendendole direttamente visualizzabili da parte del paziente, che ha così modo di influire su di esse (feedback). Alcuni pazienti particolarmente motivati riescono a modificare i parametri respiratori, anche se spesso non sanno spiegare come esercitino il controllo e procedano necessariamente per tentativi (v. Reybrouck e altri, 1987). Il biofeedback è stato utilizzato in pazienti con asma, enfisema e fibrosi polmonare per migliorare gli scambi gassosi e ridurre il lavoro respiratorio (v. Tiep, Biofeedback..., 1993).
c) Allenamento all'attività fisica generale
L'allenamento all'attività fisica generale si attua secondo protocolli che, pur essendo mutuati dalla riabilitazione cardiologica, si differenziano da quelli in uso in tale ambito. Con l'allenamento si può ottenere un miglioramento sia sul piano psicologico, incrementando l'autostima - soprattutto nei giovani, allorché riescono a intraprendere un'attività sportiva - sia sul piano della qualità della vita in generale, come risultato della ridotta dispnea da sforzo.
L'allenamento all'esercizio fisico è utilizzato nei pazienti con BPCO, che spesso, nelle fasi più avanzate della malattia, presentano una ridotta capacità a eseguire attività fisica, a causa della comparsa di dispnea. Si innesca in tal modo un circolo vizioso, poiché la sedentarietà determina una riduzione della massa muscolare scheletrica, responsabile a sua volta della comparsa di dispnea per carichi lavorativi sempre meno elevati. L'efficacia dell'allenamento all'esercizio fisico generale è verosimilmente attribuibile a un potenziamento della capacità fisica globale piuttosto che a un incremento funzionale dei muscoli respiratori. Il programma di riallenamento allo sforzo può essere attuato da soggetti con manifestazioni cliniche stabilizzate o controllate da un'adeguata terapia farmacologica, con esclusione dei pazienti con storia recente di infarto miocardico, angina instabile, gravi aritmie cardiache, disturbi circolatori quali tromboflebiti degli arti inferiori e disturbi metabolici scompensati, o che presentino patologie dell'apparato locomotore tali da rendere difficoltosa la deambulazione.
In genere l'allenamento viene programmato per una durata di 4-8 settimane, a cadenza di 3-5 giorni alla settimana. Purtroppo i benefici non perdurano oltre i 60-90 giorni se l'esercizio non è mantenuto regolarmente ed è quindi necessario programmarne la prosecuzione anche domiciliarmente (v. Robinson e Kjeldgaard, 1982).
d) Ossigenoterapia
L'ossigenoterapia a lungo termine (OTLT) è intesa come somministrazione continuativa di ossigeno supplementare così da riportare più vicini alla norma i valori emogasanalitici, e rappresenta il trattamento elettivo nell'insufficienza respiratoria del paziente affetto da BPCO. Come per tutti i farmaci, il suo impiego deve essere disciplinato da precise regole riguardanti le indicazioni, la posologia, gli effetti collaterali e le modalità di somministrazione. Si possono ottenere benefici in termini sia di incremento della sopravvivenza, sia di miglioramento della qualità della vita, sia di riduzione della spesa ospedaliera. Le indicazioni sono rappresentate da: 1) ipossiemia importante, con valori di pressione parziale arteriosa di ossigeno (PaO2) inferiori a 55 mm Hg, in situazione di stabilizzazione clinica (almeno 2-3 mesi da uno scompenso respiratorio acuto); 2) valori di pressione parziale di ossigeno nel sangue compresi fra 55-60 mm Hg, se associati a: segni elettrocardiografici e/o ecocardiografici di cuore polmonare cronico; riscontro di ipertensione arteriosa polmonare a riposo (pressione arteriosa polmonare > 25 mm Hg); segni elettrocardiografici di ischemia cardiaca; valore di ematocrito stabilmente superiore al 55% (v. Majani e altri, 1995). Essa è inoltre indicata nei casi che, pur essendo caratterizzati da valori emogasanalitici leggermente migliori, siano associati a episodi di desaturazione notturna o sotto sforzo.
Nel prescrivere la OTLT si deve tenere conto del fatto che la risposta a tale terapia presenta una notevole variabilità individuale ed è quindi necessario che venga sempre controllata la tolleranza all'assunzione di ossigeno, in particolare quando sia presente una ipercapnia (PaCO2 > 60 mm Hg).
e) Ventilazione meccanica
Se l'ossigenoterapia rappresenta la terapia d'elezione nelle patologie respiratorie da insufficienza di scambio, occorre tuttavia tenere presente che, in determinate situazioni acute, può verificarsi un concomitante incremento della CO2 e quindi una insufficienza respiratoria ipercapnica quale conseguenza di alterazione funzionale dei muscoli respiratori. Allo scopo di sopperire al difetto di ventilazione autonoma del paziente, si deve attuare la ventilazione meccanica, il cui impiego può anche essere protratto a lungo termine in condizioni di ipercapnia cronica. Le tecniche utilizzate sono fondamentalmente rappresentate dalla ventilazione a pressione negativa esterna (VPNE) o dalla ventilazione a pressione positiva intermittente (IPPV).
La VPNE riproduce il meccanismo fisiologico della respirazione e consiste nella realizzazione di una pressione negativa esternamente al torace o a tutto il corpo: può prevedere l'utilizzo del polmone d'acciaio o di ventilatori ‛a poncho' o ‛a corazza'. Il polmone d'acciaio è stato molto usato negli anni cinquanta nei casi di insufficienza ventilatoria acuta da poliomielite ed è tuttora un presidio molto efficace, soprattutto nei casi di insufficienza ventilatoria acuta. Alcuni inconvenienti quali il peso, l'ingombro e la rumorosità ne hanno limitato la diffusione e hanno stimolato l'impiego di ventilatori a corazza o a poncho che, anche se meno validi, risultano più pratici e utilizzabili a lungo termine, anche domiciliarmente, per periodi limitati della giornata o durante il riposo notturno.
La ventilazione a pressione positiva può essere attuata adottando tecniche di tipo sia ‛invasivo', che prevedono la tracheostomia o l'intubazione endotracheale, sia, quando possibile, ‛non invasivo', realizzabili mediante l'impiego di maschere facciali o nasali. La ventilazione a pressione positiva continua delle vie aeree, effettuata tramite l'impiego di maschera nasale, è usata frequentemente nel trattamento delle apnee notturne.
La IPPV consiste nella insufflazione di aria a pressione superiore a quella atmosferica impiegando ventilatori che possono essere ciclati a volume o a pressione; tali strumenti possono effettuare una ventilazione controllata, e cioè automatica e indipendente dal ciclo respiratorio del paziente, o assistita, quando il ventilatore interviene a completare l'atto respiratorio iniziato spontaneamente dal paziente. Una più recente tecnica, che aiuta a raggiungere una pressione inspiratoria prefissata (pressure support), consente al paziente di determinare l'inizio dell'inspirazione e della successiva espirazione. Sia la ventilazione controllata che la pressure support permettono la messa a riposo dei muscoli respiratori e trovano quindi indicazione qualora questi presentino segni di fatica.
9. Programmi e tecniche di riabilitazione cardiologica
I programmi di riabilitazione cardiologica prevedono in genere: a) un momento valutativo della patologia cardiaca che consenta una stratificazione prognostica; b) la prescrizione di esercizi fisici e di attività di allenamento; c) l'intervento diretto alla modificazione dei fattori di rischio; d) il supporto psicosociale volto a facilitare il reinserimento nella vita lavorativa, familiare e sociale.
a) Stratificazione prognostica
L'evoluzione della cardiopatia ischemica avviene in genere secondo due diverse modalità. In un gran numero di pazienti gli eventi cardiaci acuti (infarto, aritmie, scompenso, ecc.) si verificano senza alcun disturbo premonitore, in altri l'evoluzione della malattia è graduale e si manifesta con un progressivo peggioramento di alcuni sintomi, quali il dolore anginoso o la dispnea. Il primo tipo di evoluzione è riferibile in genere a rottura di una placca ateromasica coronarica, a spasmo, o a trombosi acuta, complicanti una placca di per sé non significativa sul piano della riduzione del flusso ematico. Il secondo modello di evoluzione della cardiopatia ischemica riflette invece un processo più graduale di progressivo restringimento di un vaso coronarico.
Nel contesto del primo modello clinico di evoluzione, sicuramente il più frequente, ogni tentativo di stratificazione prognostica, cioè di previsione della progressione della malattia, basato sulla semplice misura degli effetti sul miocardio di alterazioni di flusso connesse a stenosi coronariche emodinamicamente significative, è fondamentalmente inutile: in questi pazienti non si possono rilevare segni di ischemia miocardica e nulla può essere di ausilio alla predizione di un evento acuto. È invece possibile procedere a una stratificazione del rischio basata sulla gravità del danno miocardico (ischemico o necrotico), assumendo che la malattia coronarica sia stabile o lentamente progressiva. In questa situazione è ragionevole prevedere l'evoluzione della malattia e prendere le decisioni terapeutiche che gli strumenti di valutazione clinica disponibili fanno ritenere più opportune.
Le determinanti quantificabili della prognosi dei pazienti con cardiopatia ischemica nota sono: 1) il grado di disfunzione ventricolare sinistra, in genere connesso a un antecedente infarto; 2) la gravità dell'ischemia miocardica; 3) la presenza di aritmie minacciose; 4) la coesistenza di condizioni cliniche associate, in grado di favorire l'espressione dei pericoli potenziali della cardiopatia ischemica.
1. Disfunzione ventricolare sinistra. - La riduzione della funzione contrattile del cuore può essere conseguenza di un'ischemia miocardica o di un precedente episodio infartuale. È possibile valutare l'entità della disfunzione ventricolare sia clinicamente sia sulla base di dati strumentali acquisiti in condizioni di riposo o sotto sforzo. La valutazione clinica fa riferimento di solito alla classe funzionale, ossia alla fenomenologia clinica: nonostante questo approccio sia poco affidabile quando applicato al singolo paziente, esiste uniformità di vedute nel ritenere che i sintomi e i segni di scompenso cardiaco (documentazione radiologica di congestione polmonare, cardiomegalia, ecc.) siano indicativi, soprattutto nella fase acuta e subacuta dell'infarto, di una prognosi peggiore. Molti studi hanno individuato nella frazione di eiezione del ventricolo sinistro a riposo (che rappresenta la frazione di sangue espulsa a ogni sistole dal ventricolo rispetto al volume totale di sangue in esso contenuto al momento del massimo riempimento) un importante indice prognostico: la mortalità aumenta esponenzialmente con la riduzione della frazione di eiezione, passando dal 5% nei soggetti con frazione di eiezione normale o solo lievemente ridotta (> 40%), al 50% in quelli con frazione di eiezione gravemente ridotta (〈 20%). La funzione ventricolare sinistra viene valutata con l'ecocardiografia o con la ventricolografia radioisotopica: entrambe sono tecniche non invasive largamente disponibili e relativamente poco costose; le più importanti variabili rilevabili con queste tecniche sono riportate nella tab. VII.
Nei pazienti con cardiopatia ischemica le alterazioni di contrattilità a riposo possono essere parzialmente reversibili: lo studio della reversibilità, eseguito con metodiche scintigrafiche e con esami ecocardiografici dopo stimoli farmacologici, consente di distinguere il tessuto cicatriziale dal tessuto miocardico vitale e perciò recuperabile mediante un intervento di rivascolarizzazione.
2. Ischemia miocardica. - Un aumento della frequenza, della intensità e della durata del dolore anginoso o la riduzione della soglia di comparsa dei sintomi sono indicativi di un aumentato rischio di eventi cardiaci. Particolarmente grave è la presenza di un'angina instabile resistente alla terapia medica: questa situazione clinica comporta un'incidenza del 20-30% di infarto o di morte nei successivi 2-3 anni. Va comunque tenuto presente che eventi cardiaci occorrono frequentemente in completa assenza di dolore toracico, che il 15% degli infarti avviene in modo ‛silente', in assenza di sintomi, e che l'incidenza di ischemia ‛silente' è, nei pazienti con esiti di infarto o di intervento di by-pass aorto-coronarico, superiore rispetto a quella dell'ischemia sintomatica. Nei pazienti con esiti di infarto è invece simile la frequenza di ischemia o di nuovo infarto.
L'indagine diagnostica fondamentale per l'acquisizione di informazioni prognostiche sul rilievo, sull'estensione e sulla gravità dell'ischemia miocardica inducibile è rappresentata dal test da sforzo, i cui parametri, correlati con la prognosi, sono riportati nella tab. VIII. La soglia ischemica è sicuramente il più importante di questi parametri. Purtroppo le alterazioni elettrocardiografiche rilevabili al test da sforzo forniscono informazioni relativamente approssimative in relazione all'estensione e alla severità dell'ischemia. Le tecniche di diagnostica per immagini, quali la scintigrafia miocardica perfusoria e la ventricolografia radioisotopica ed ecocardiografica, forniscono elementi più accurati, e il loro valore prognostico risulta più affidabile. Sono pertanto più indicate nei pazienti con esiti di infarto, piuttosto che in quelli con cardiopatia ischemica cronica, poiché nei primi l'accuratezza dell'ECG da sforzo nella individuazione dell'ischemia residua è molto ridotta.
Il contributo dell'elettrocardiografia ambulatoriale (Holter), pur limitato nella valutazione dell'ischemia miocardica, fornisce in ogni modo utili informazioni sulla frequenza e sulla durata di episodi ischemici nel corso della vita quotidiana; la documentazione di ischemia inducibile nel corso di un test da sforzo e di ischemia durante un esame Holter sembrerebbe associarsi a una prognosi particolarmente sfavorevole.
3. Aritmie. - Sebbene sia noto che il meccanismo più frequente di morte improvvisa nei pazienti con cardiopatia ischemica è rappresentato dalla fibrillazione ventricolare, gli eventi che danno origine a questa aritmia non sono ancora del tutto chiari. Possibili fattori causali comprendono l'abbassamento della soglia di fibrillazione concomitante all'ischemia miocardica transitoria, foci di instabilità elettrica entro un miocardio a rischio, alterazioni dell'attività neuronale e neuro-ormonale.
Una patologia coronarica estesa, sia sintomatica che asintomatica, indica comunque la presenza di un rischio di morte improvvisa; il rischio è maggiore se coesistono disfunzione ventricolare sinistra, aneurisma o aritmie extrasistoliche. Le aritmie ventricolari sostenute e le forme ripetitive di extrasistoli ventricolari, documentate durante la fase tardiva di ospedalizzazione dopo infarto, sono (al contrario di quelle che si verificano nella fase acuta) indicatori indipendenti di un aumentato rischio di mortalità cardiaca totale e di morte improvvisa. Il monitoraggio elettrocardiografico ambulatoriale (Holter) è l'esame di riferimento nei soggetti con aritmie complesse a riposo o da sforzo, con aritmie sintomatiche e con funzione ventricolare sinistra depressa: lo scopo di questo esame è quello di documentare la presenza di tachicardie ventricolari, che necessitano di speciali provvedimenti terapeutici. Anche lo studio invasivo elettrofisiologico è stato proposto per la stratificazione prognostica dei soggetti con aritmie postinfartuali, ma il suo significato predittivo è ancora in discussione. L'elettrocardiografia ad alta risoluzione (signal averaged ECG) è un'altra tecnica promettente per la definizione dei soggetti ad alto rischio di aritmie maligne.
4. Presenza di condizioni cliniche associate. - È necessario stabilire l'eventuale presenza di condizioni in grado di interagire in senso negativo sulle manifestazioni cliniche della cardiopatia di base e, di conseguenza, potenzialmente in grado di modificare la prognosi: in genere, si tratta di individuare patologie sistemiche il cui denominatore comune è rappresentato da alterazioni della riserva coronarica e della riserva funzionale cardiaca (anemie, malattie metaboliche o endocrine, neoplasie, patologie neuromuscolari).
b) Programmi di esercizio fisico
La prescrizione del programma di esercizio fisico tiene conto, oltre che della capacità funzionale del soggetto, anche della valutazione dei presupposti delle attività occupazionali, relazionali e ricreative del singolo paziente. Tali programmi sono in grado di aumentare la capacità lavorativa dei pazienti del 15-25%.
I migliori risultati si ottengono quando il paziente viene sottoposto a esercizi di tipo aerobico prossimi alla sua soglia anaerobica (di solito attorno al 50-60% della capacità massima raggiunta nel corso della prova da sforzo). Intensità, durata e progressione degli esercizi devono pertanto essere stabilite su base individuale e periodicamente aggiornate. Il valore medio dell'intensità dell'esercizio può essere raggiunto alternando esercizi di intensità elevata con esercizi a minore dispendio energetico (interval training), oppure mantenendo per un certo periodo di tempo lo stesso carico di lavoro (endurance training). La combinazione di fasi di esercizio relativamente intenso con fasi di riposo o di attività leggere è consigliabile nei pazienti con problemi di disfunzione di pompa e di ischemia miocardica. Dal momento che brevi carichi fisici sono in grado di indurre una stimolazione adrenergica (che rappresenta un fondamentale determinante del condizionamento fisico), l'interval training risulta più efficace nell'indurre effetti periferici, mentre l'endurance training è più adatto al mantenimento nel tempo dell'effetto del programma di allenamento. Il carico allenante deve essere individuato come una percentuale (non inferiore al 60%) della massima capacità funzionale o come una percentuale della frequenza cardiaca massima raggiunta durante la prova da sforzo (70-85%) o, infine, come carico della soglia anaerobica.
Per ottenere un adeguato condizionamento periferico la durata dei programmi di training fisico è in genere di almeno quattro settimane. Miglioramenti diretti della prestazione cardiaca possono rilevarsi invece solo in soggetti molto motivati nel corso di programmi di training a lungo termine (12 mesi) e di elevata intensità.
La supervisione da parte di personale specializzato durante le sedute è necessaria in tutti i pazienti a rischio medio o elevato. Il monitoraggio elettrocardiografico è raccomandabile nel corso delle prime sedute e in occasione di ogni incremento di livello di esercizio, soprattutto nei pazienti con ischemia da sforzo, con aritmie e con funzione ventricolare depressa (v. O'Connor e altri, 1989; v. Todd e Ballantyne, 1990; v. Pezzagno e Capodaglio, 1991; v. European Society of Cardiology, 1992).
Il rischio di morte improvvisa durante esercizio fisico nei cardiopatici è relativamente basso e risulta di poco superiore a quello rilevato durante attività fisiche e ricreative nella popolazione apparentemente sana (v. Van Camp e Peterson, 1986).
c) Modificazione dei fattori di rischio
1. Ipercolesterolemia. - È ampiamente accettato che il miglioramento dell'assetto dei lipidi e delle lipoproteine plasmatiche, ottenuto attraverso diete appropriate, attività fisica ed eventuale terapia farmacologica, abbia nei pazienti con cardiopatia ischemica effetti positivi, in termini di riduzione della frequenza di eventi clinici successivi e di riduzione della velocità di progressione delle lesioni aterosclerotiche coronariche. I benefici dei vari interventi terapeutici dipendono in genere dal loro effetto ipolipemizzante. Meta-analisi di numerose prove di prevenzione primaria e secondaria hanno dimostrato che la riduzione dei livelli di colesterolo previene effettivamente le morti connesse a cardiopatie, ma non è in grado di aumentare la sopravvivenza totale a causa dell'incremento di mortalità per altri motivi. Ciò non di meno, l'analisi dei dati disponibili sugli effetti della riduzione del colesterolo indica una riduzione del 12-13% degli eventi terminali primari, rappresentati dalla morte cardiaca e dall'infarto miocardico non fatale.
I soggetti con cardiopatia ischemica nota sono da considerarsi a rischio di eventi cardiaci successivi: in questi pazienti sono raccomandabili valori di colesterolo inferiori a 200 mg/dl-1, mentre i soggetti con livelli superiori a questo valore necessitano di una attenta valutazione del profilo lipoproteico completo.
I soggetti con livelli di colesterolo totale compresi tra 200 e 239 mg/dl-1 costituiscono il gruppo dei borderline solo nel caso abbiano un altro fattore di rischio coronarico o siano cardiopatici ischemici noti. In questi casi, il soggetto è da definirsi a rischio maggiore e pertanto l'obiettivo terapeutico è lo stesso di quello dei soggetti con livelli di colesterolo superiori a 240 mg/dl-1, vale a dire il raggiungimento di valori di colesterolo LDL (Low Density Lipoproteins) inferiori a 130 mg/dl-1 indipendentemente dall'età e dal sesso.
Le diete a basso contenuto di grassi saturi e di colesterolo, strutturate in modo da consentire il raggiungimento e il mantenimento di un peso corporeo entro limiti di normalità, rappresentano una componente fondamentale dei programmi riabilitativi di controllo delle dislipidemie. Occorre ricordare che anche l'esercizio fisico regolare contribuisce di per sé al controllo del peso corporeo, alla riduzione dei livelli di trigliceridi plasmatici e all'aumento della frazione HDL (High Density Lipoproteins) del colesterolo.
È stata dimostrata una variabilità individuale nella risposta al trattamento dietetico, che dipende dall'efficacia individuale dei meccanismi di assorbimento del colesterolo e della sua conversione in acidi biliari. Nel caso in cui dopo un periodo compreso tra i 3 e 6 mesi di trattamento dietetico i valori di colesterolo LDL rimangano al di sopra dei 130 mg/dl-1, occorre prendere in considerazione un trattamento farmacologico. Esistono attualmente numerosi farmaci ipolipemizzanti in grado di ridurre il colesterolo totale e LDL e, in alcuni casi, di aumentare il colesterolo HDL. Alcuni farmaci (niacina, lovastatina, simavastatina e resine) si sono dimostrati sicuri anche nell'ambito di un trattamento a lungo termine e hanno evidenziato un rapporto rischi-benefici positivo (v. Lipid Research Clinics Program, 1984; v. Report of..., 1988; v. Kane e altri, 1990; v. Schuler e altri, 1992).
2. Ipertrigliceridemia; apolipoproteine. - Il ruolo dei trigliceridi e delle lipoproteine a densità molto bassa (VLDL, Very Low Density Lipoproteins) nello sviluppo e nella progressione dell'aterosclerosi è stato per molti anni controverso. Recenti prove hanno dimostrato che i trigliceridi sono un fattore di rischio di coronaropatia indipendente soprattutto nel sesso femminile; il valore predittivo dell'ipertrigliceridemia risulta aumentato, inoltre, quando associato a livelli bassi di colesterolo HDL.
Nei pazienti con cardiopatia ischemica si nota con una certa frequenza una riduzione dei livelli di apolipoproteina A-I e un aumento della apolipoproteina B. La mancanza di studi epidemiologici prospettici sul loro ruolo nella aterogenesi e sul loro valore clinico, rende inopportuna, almeno per ora, la misurazione routinaria delle apolipoproteine.
3. Emostasi e fattori della coagulazione. - I livelli di fattore VII della coagulazione risultano essere, nei soggetti di sesso maschile di mezza età, dei predittori indipendenti di cardiopatia ischemica. L'intervento farmacologico a lungo termine diretto alla riduzione dell'attività del fattore VII mediante anticoagulanti dicumarolici non risulta tuttavia in grado di ridurre la frequenza di morte e di reinfarto in pazienti con esiti di infarto.
Anche livelli elevati di fibrinogeno e di fattore VIII sono correlati alla cardiopatia ischemica: il ruolo di questi due componenti è verosimilmente indiretto, poiché esiste una relazione positiva tra la loro concentrazione plasmatica e altri fattori di rischio, quali il fumo, l'età, il peso.
Le piastrine hanno un ruolo importante nella genesi e nelle complicanze dell'aterosclerosi. La tendenza all'iperaggregabilità piastrinica è associata a un rischio più elevato di mortalità e di eventi cardiaci acuti nei pazienti con esiti di infarto. Questa nozione ha condotto a utilizzare farmaci dotati di attività antiaggregante piastrinica che, nei soggetti affetti da vasculopatia cerebrale sintomatica, angina pectoris instabile o esiti di infarto, sono in grado di ridurre fino al 25% l'incidenza di eventi vascolari. In un recente studio l'aspirina utilizzata come antiaggregante piastrinico a partire dalle prime ore dall'esordio dell'infarto è risultata in grado di ridurre del 20% la mortalità a cinque settimane.
In sintesi, sulla base di numerosi studi clinici, sia gli anticoagulanti che gli antiaggreganti piastrinici rivestono un ruolo importante nella prevenzione secondaria della cardiopatia ischemica. Dal momento che tra i vari antiaggreganti l'aspirina è il farmaco sul quale esiste la maggiore e più consistente quantità di dati prospettici, si ritiene attualmente che essa debba essere considerata, anche in virtù della buona tollerabilità e del suo basso costo, il farmaco di prima scelta in questo ambito di intervento (v. Antiplatelet trialists' collaboration, 1988; v. ISIS-2, 1988; v. Smith e altri, 1990).
4. Ipertensione. - Numerosi dati epidemiologici confermano la correlazione tra l'ipertensione arteriosa e la comparsa e la progressione dell'aterosclerosi coronarica, cerebrale e dei vasi periferici. In alcuni studi si è osservato un aumento fino al 50% della frequenza di cardiopatia ischemica nei soggetti ipertesi. Benché la relazione tra ipertensione arteriosa e cardiopatia ischemica sia certa, l'efficacia del trattamento anti-ipertensivo nel ridurre la mortalità per cardiopatia ischemica e gli infarti non fatali non è ancora stata dimostrata, mentre è accertata per quanto riguarda la riduzione della frequenza di ictus, di scompenso cardiaco congestizio e di insufficienza renale.
I risultati di numerosi studi prospettici farmacologici pongono attualmente il problema relativo ai reali benefici del trattamento a lungo termine dell'ipertensione, soprattutto negli ipertesi lievi nei quali l'incidenza di cardiopatia ischemica è da tre a cinque volte più elevata di quella dell'ictus. Negli ultimi anni si è andata delineando una strategia più articolata di trattamento dell'ipertensione, orientata soprattutto a interventi di tipo non farmacologico: l'intervento di prima scelta nei soggetti con ipertensione lieve dovrebbe essere rappresentato dall'incoraggiamento a ridurre il peso corporeo, a diminuire l'assunzione di alcool e di sale e a praticare regolarmente esercizi fisici e training di rilassamento (v. ipertensione arteriosa, vol. III).
5. Sedentarietà. - Lo scopo dell'attività fisica nei soggetti con cardiopatia ischemica nota è essenzialmente quello di aumentare la loro capacità funzionale, di migliorare la loro condizione psicosociale e di ridurre la morbilità e la mortalità.
6. Fumo. - I rapporti tra fumo di sigaretta e cardiopatia ischemica sono noti da tempo. Il fumo agisce a livello cardiaco favorendo l'instaurarsi e successivamente la progressione dell'aterosclerosi e inoltre attraverso l'attivazione di fattori ematici in grado di aumentare il tono coronarico o di provocare trombosi intravasali. La nicotina e il monossido di carbonio sono i fattori più tossici dal punto di vista cardiovascolare: sono in grado di determinare lesioni endoteliali cui consegue l'adesione di piastrine, l'infiltrazione lipidica e l'ispessimento della parete vasale per proliferazione delle cellule muscolari lisce. La componente dinamica del danno vascolare da fumo dipende invece dal tono coronarico modulato dal sistema adrenergico e da fattori vasoattivi (serotonina, trombossano, ecc.) rilasciati dalle piastrine (v. tono vasale, vol. XI).
Nei fumatori con cardiopatia ischemica nota è stato documentato un aumento del tono coronarico in grado di determinare una riduzione del flusso miocardico regionale proprio a livello delle lesioni aterosclerotiche. In effetti nei fumatori con angina pectoris si rileva, allo studio con ECG dinamico, la presenza di un numero maggiore di episodi di ischemia miocardica rispetto ai pazienti non fumatori.
Nei soggetti cardiopatici, tuttavia, la sospensione del fumo, pur riducendo il rischio di eventi successivi, può portare a valori simili a quelli dei non fumatori solo dopo parecchi anni. Studi prospettici hanno evidenziato che nell'ambito della prevenzione secondaria la mortalità si dimezza nei soggetti che hanno smesso di fumare e che si ottiene un vantaggio in termini di sopravvivenza circa 3 anni dopo la sospensione del fumo.
L'astensione dal fumo rappresenta un fenomeno complicato che coinvolge meccanismi di dipendenza psicologica e fisiologica. Sono state sviluppate numerose tecniche volte a favorire l'interruzione del fumo; numerosi studi indicano come il personale sanitario abbia un ruolo importante nel modificare i comportamenti del fumatore, mentre la terapia farmacologica con cerotti o con gomme da masticare a base di nicotina sia efficace solo se associata a interventi e consigli educativi (v. Hallstrom e altri, 1986; v. Shah e Helfant, 1988).
7. Eccesso ponderale. - L'eccesso di peso è strettamente correlato con altri fattori di rischio coronarico, quali l'ipertensione arteriosa, le dislipidemie e il diabete; il suo ruolo come fattore di rischio indipendente è ancora oggetto di studio (v. Bjorntorp, 1985).
8. Diabete. - Il diabete mellito aumenta la probabilità di cardiopatia ischemica in misura proporzionale alla durata della malattia. Il diabete, sia nella forma insulino-dipendente che in quella non insulino-dipendente, agisce soprattutto sulla progressione delle lesioni piuttosto che sul loro instaurarsi. I meccanismi responsabili dell'azione aterogenetica del diabete sono rappresentati in parte dall'effetto tossico del glucosio sulle cellule endoteliali, in parte dallo stimolo proliferativo esercitato sulle cellule muscolari lisce delle pareti dei vasi dalla iperinsulinemia presente in alcune forme.
d) Supporto psicosociale
Il cardiologo deve farsi carico di individuare precocemente i problemi psicologici del cardiopatico, come pure le situazioni comportamentali che è consigliabile valutare e trattare in modo più specifico. In ambito riabilitativo, si riscontra la presenza di disturbi psichici maggiori in non più del 15% dei pazienti, e in genere dopo un evento cardiaco maggiore non si verificano situazioni di instabilità emotiva prolungata. Tuttavia, l'ansietà e la depressione devono essere prese in considerazione, in quanto possono influenzare negativamente la fase di guarigione e il ritorno al lavoro. Uno stato depressivo di grado da medio a severo è documentabile nel 10-20 % dei pazienti con esiti di infarto, e l'esistenza di sintomi di ansia nel 5-10%.
Circa un quarto dei pazienti con esiti di infarto del miocardio non riprende l'attività sessuale e la metà solo in modo ridotto; problemi coniugali, familiari e sociali sono comuni. La valutazione psicologica accurata di questi pazienti è importante, perché i sintomi e i disordini depressivi possono compromettere significativamente la qualità della loro vita riducendone la funzione fisica e sociale e peggiorando la loro percezione dello stato di malattia. Tra i vari sintomi della depressione, l'affaticabilità e i disturbi del sonno risultano talvolta preludere a recidive infartuali, a episodi ischemici o a scompenso cardiaco.
L'intervento psicologico in ambito riabilitativo non deve limitarsi a individuare e trattare i disturbi psicologici di tipo depressivo e ansioso, ma deve anche valutare e correggere le disfunzioni della sfera sessuale, intervenire sull'educazione sanitaria e sulle tecniche di mantenimento della riduzione dei fattori di rischio nonché provvedere all'insegnamento di tecniche di rilassamento.
Nei soggetti con esiti di infarto l'educazione sanitaria, aumentando la conoscenza della malattia, ha ripercussioni positive a breve termine, in quanto modifica i comportamenti a rischio e consente di ridurre a livello psicosociale l'impatto dell'evento cardiaco sul paziente. Nella pianificazione dell'intervento educativo occorre tenere presente che la maggior parte dei pazienti dimentica quasi subito buona parte delle raccomandazioni fornite oralmente dal medico e che pertanto il supporto di materiale educativo scritto è estremamente utile.
L'inserimento di sedute di rilassamento e di ginnastica respiratoria nei programmi di riabilitazione migliora significativamente i risultati dell'esercizio fisico e, secondo alcuni ricercatori, riduce l'incidenza di eventi cardiaci successivi (v. Ruberman e altri, 1984).
10. Reinserimento sociale
Perché il reinserimento sociale dei malati sottoposti a intervento riabilitativo risulti agevole, è necessario verificare che il soggetto sia in grado di sostenere senza rischi quanto è richiesto dalla propria attività. Per una corretta valutazione della capacità funzionale, oltre ai più comuni esami funzionali, risulta indispensabile effettuare una simulazione il più fedele possibile delle attività lavorative.
In accordo con Haas e altri (v., 1979), le indagini proposte per determinare la capacità lavorativa sono le seguenti: test di funzionalità polmonare (capacità vitale, massima capacità respiratoria, volume espiratorio forzato); test di metabolismo energetico (massimo consumo di ossigeno, debito di ossigeno, tempo di recupero dopo esercizio fisico, emogasanalisi); test di funzionalità cardiaca (ECG, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, tempo di recupero dopo esercizio). Le misurazioni obiettive delle funzioni ventilatorie e delle funzioni di scambio gassoso possono essere eseguite a riposo o durante l'attività fisica. Per quantificare le abilità residue dei soggetti avviati al reinserimento sociale e lavorativo, occorre effettuare il monitoraggio dei principali parametri cardiorespiratori obiettivi: frequenza cardiaca, pressione arteriosa, frequenza respiratoria, saturazione di O2, consumo di O2, a cui si deve aggiungere l'uso della scala di Borg e dell'analogo visivo per la quantificazione dei sintomi soggettivi, come la dispnea.
Benché numerosi sforzi siano stati compiuti allo scopo di individuare nei pazienti con BPCO indici idonei a formulare una previsione di recupero, non sono molti gli studi sui programmi di riabilitazione polmonare e occupazionale che abbiano seguito i pazienti per periodi superiori a pochi mesi ed è molto difficile, quindi, valutarne i risultati a lungo termine.
11. Modalità operative
L'intervento riabilitativo può essere attuato, oltre che in regime di degenza ospedaliera di tipo continuativo, anche in regime di degenza di tipo parziale, limitata alle ore diurne (day hospital), o anche in regime di assistenza ambulatoriale o persino come assistenza domiciliare (home care).
a) Day hospital
Il day hospital rappresenta una risposta razionale all'esigenza di estendere il trattamento riabilitativo al maggior numero di persone che ne necessitino, perseguendo contemporaneamente lo scopo di mantenere il malato inserito nel proprio ambiente di appartenenza. Le caratteristiche fondamentali del day hospital sono schematizzate nella tab. IX.
Le indicazioni al trattamento riabilitativo in regime di day hospital sono rappresentate da interventi assistenziali che devono articolarsi per una durata di 6-8 ore giornaliere. Le limitazioni al ricovero diurno sono rappresentate dai problemi connessi ai ripetuti trasporti quotidiani del paziente dal domicilio alla sede del trattamento. Una seconda limitazione è rappresentata dalle condizioni dell'ambiente domiciliare, nel quale possono essere presenti fattori (condizioni igieniche, conflitti interfamiliari, carenza di sorveglianza o di minima assistenza) che possono influenzare negativamente in modo sia diretto che indiretto.
b) Collegamenti
Alla struttura di trattamento riabilitativo hanno accesso: 1) pazienti provenienti da reparti ospedalieri di assistenza in fase acuta; 2) pazienti incorsi in un peggioramento della patologia, con indicazione già riconosciuta al trattamento riabilitativo; 3) pazienti già in trattamento ambulatoriale, per i quali si rilevi l'opportunità di un intervento più articolato e completo. L'accesso al trattamento riabilitativo, e quindi anche alle modalità di attuazione, deve essere vagliato dagli specialisti, sulla scorta di un'adeguata documentazione o di verifica clinica diretta in sede ambulatoriale.
La struttura di ricovero diurno deve essere strettamente collegata a una struttura di degenza continuativa, sia pure di dimensioni ridotte, ma comunque capace di accogliere i casi le cui esigenze assistenziali non possano essere completamente soddisfatte nel ricovero diurno. Deve, ancora, essere collegata con la rete di erogazione del trattamento ambulatoriale.
La scelta tra trattamento riabilitativo in regime degenziale o ambulatoriale deve essere effettuata sulla base della condizione del paziente e delle ore di assistenza che gli sono necessarie nell'arco della giornata. Vanno inoltre tenute presenti le modalità e i tempi con cui è effettuabile il trasferimento quotidiano alla struttura che eroga il trattamento ambulatoriale, affinché questi non richiedano un impegno troppo elevato, né pregiudichino la salute del malato. Deve quindi essere sempre osservato il principio secondo cui i trattamenti riabilitativi debbano realizzarsi secondo modalità che tengano conto del tipo di danno e del livello di autosufficienza residua del malato, rispettando al contempo i più corretti criteri di unitarietà e di continuità dell'intervento.
Inoltre, le strutture che erogano il trattamento riabilitativo devono essere collegate con il territorio, e quindi prevedere l'applicazione in regime di assistenza domiciliare di protocolli predisposti dal medico specialista riabilitatore, al quale deve anche essere affidato il compito di valutare i risultati conseguiti nel tempo.
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