Mediterraneo e lingua italiana
Si dice spesso che la lingua franca parlata dal X secolo negli ambiti marittimi e mercantili del Mediterraneo avesse una base italiana o spagnola nel bacino occidentale e una base veneziana in quello orientale (➔ lingua franca, italiano come). La lingua franca barbaresca, essendo di natura orale e conosciuta attraverso la letteratura parodistica, risulta difficile da definire, ma se fosse stata «un pidgin a base soprattutto italiana» (Cifoletti 2004: 18) sarebbe significativo, perché rifletterebbe la diffusione delle varietà parlate dai naviganti e dai mercanti italiani che solcavano le rotte del Mediterraneo (➔ marineria, lingua della).
La diffusione del veneziano nel bacino orientale era dovuta alla politica espansionistica della Repubblica di Venezia dal X secolo in poi in Dalmazia, Grecia, Cipro, Rodi, Creta, e nel Peloponneso, soprattutto nei centri cittadini e portuali. Come la lingua franca, questa varietà non dovrebbe essere definita italiana; tuttavia (secondo Cortelazzo 1998: 321) «il primato dell’italiano è indiscusso nel Mediterraneo orientale», tanto che ha arricchito di numerosi termini le lingue di tali territori. Secondo una tesi (SDA 2007-2008) Venezia portò nelle isole Ionie non solo il veneziano ma anche l’italiano del diritto, tanto che nella Corfù britannica le leggi municipali furono pubblicate in italiano nel 1846.
Fondato a Gerusalemme nell’XI secolo per assistere e difendere i pellegrini cristiani, l’Ordine di San Giovanni, religioso, militare e ospedaliero, era inizialmente composto da membri francesi e la sua prima lingua era il francese; poi il numero dei cavalieri di altre nazionalità crebbe e negli statuti e altri strumenti ufficiali fu adottato il latino.
L’Ordine, strutturato in otto ‘Lingue’ (cioè nazioni: Francia, Provenza, Alvernia, Italia, Aragona, Castiglia, Inghilter-ra e Germania), quando si trasferì a Rodi avvertì la necessità di una lingua interetnica meno ostica del latino. Nel 1446 un cavaliere italiano, Giacomo De Soris, aggiunse una nota allo Statuto rivelando che verba faciemus in quo humili stilo et materno quasi sermone utimur («parliamo in stile umile e ci serviamo di una lingua quasi materna»), il che fa pensare all’adozione dell’italiano, sicuramente fra i cavalieri dei sette priorati d’Italia (Lombardia, Venezia, Pisa, Roma, Capua, Barletta e Messina) e probabilmente anche da parte degli altri gruppi etnici.
Sintomatico del tipo di italiano che si scriveva a Rodi nel XV secolo è un codice del 1467 (Biblioteca Nazionale di Malta, Archivio 1700), il cui sommario dice:
Usagi et sguardi et bon costumi della santa Mansione del hospital di San Giovanni battista de hierusalem li quali deno tenir et usare li frati del hospital: Li casi per li quali el fratre perde lhabito et la compagnia della mansione perpetualmente (ff. 189v-196v) […] Li jeiunij della mansione (f. 198v).
L’importanza dell’italiano risulta dal fatto che gli atti dei Capitoli Generali degli anni 1454, 1475, 1495 e 1501, redatti a Rodi, contengono allegati in italiano, che non riguardano solo la Lingua d’Italia, ma anche le altre Lingue.
Dopo che gli Ottomani scacciarono l’Ordine da Rodi, Carlo V offrì le isole di Malta in feudo ai Cavalieri, che vi si stabilirono nel 1530. La vicinanza alla Sicilia, gli stretti rapporti con Roma e l’affermazione del volgare fiorentino in Italia spinsero i Cavalieri ad adottare l’italiano come lingua ufficiale accanto al latino. Gli atti dei Capitoli Generali continuarono a scriversi in latino, ma il primo tenuto a Malta, nel 1532, contiene un lungo brano in italiano sui regolamenti della Marina. Dopo la consueta introduzione in latino si legge:
E primo. Che ’l venerando Capitano e patroni de gallere se debiano constituire et ponere in l’officio per doi anni bene faciendo. Item che sopra cadauna gallera non si debia portare più de ottanta scapuli boni et sufficienti et portandone davantagio che sia sopra el capitano et patroni.
A Malta l’italiano dell’Ordine perse le peculiarità veneziane e assunse un carattere più meridionaleggiante (Brincat 2003: 379-386). Dopo alcuni decenni, lo studio delle grammatiche del Cinquecento (comprovato dalle numerose copie conservate nella Biblioteca Nazionale di Malta, che ha ereditato gran parte dei libri personali dei Cavalieri) portò il livello dell’italiano scritto a Malta dai cavalieri italiani e da alcuni non italiani, e anche dai maltesi colti, a un livello difficilmente distinguibile da quello scritto in Italia. Onofrio Acciaioli, nella presentazione degli Statuti tradotti dal latino in italiano da Paolo Del Rosso e pubblicati a Firenze nel 1567, descrive così la situazione a Malta:
essendo che la maggior parte delle persone de’ nostri tempi hanno poca notizia della Latina, la quale ordinariamente non si usa, et che questa nostra non solamente in Italia, ma ancor in ogni altra Provincia è conosciuta, et si intende, et si parla ancora più che ogni altra lingua, in cotesta isola di Malta dove è la nostra residenza (O. Acciaioli, in Statuti della religione de’ Cavalieri Gierosolomitani)
Nel ricchissimo archivio dell’Ordine, conservato alla Valletta, la maggior parte dei manoscritti e dei libri stampati tra XVII e XVIII secolo sono infatti in lingua italiana.
L’Ordine promosse trattati in vari settori, dalla medicina alla navigazione, e nel Settecento pubblicò in italiano due codici che regolavano non soltanto le faccende dei Cavalieri ma anche l’amministrazione della giustizia nello stato di Malta. Le Leggi e Costituzioni Prammaticali (1724) del Gran Maestro De Vilhena e il Diritto Municipale di Malta (1784) del Gran Maestro De Rohan stabilirono la base italiana del sistema giudiziario maltese, il quale resistette tenacemente all’anglicizzazione più volte tentata dal governo britannico tra il 1813 e il 1936.
All’estremo lembo orientale del Mediterraneo, Cipro cadde presto sotto i Franchi (1192), i Genovesi (1374) e i Veneziani (1474), ma mantenne a lungo la diglossia (➔ bilinguismo e diglossia) con il francese lingua alta e il ciprioto lingua parlata, poiché i Franchi insediati nell’isola erano un quarto della popolazione, ma l’interazione con l’élite francofona era limitata al livello cancelleresco e culturale. Il latino fu usato dai Franchi nonostante il greco rimanesse dominante nel Mediterraneo orientale, mentre il ciprioto assurse a varietà letteraria nel XV e XVI secolo.
L’uso dei volgari italiani (genovese, veneziano, pisano) rimase marginale, limitato alle comunità mercantili italiane, però nel secondo Quattrocento una «scripta italoromanza penetrò nelle cancellerie e fu usata da burocrati non italofoni», ma solo nella comunicazione con italiani (Baglioni 2006: 38). Tuttavia, sebbene nel 1391 i tre quarti della popolazione di Famagosta fossero liguri, i documenti in genovese sono pochi. Dal 1474 diventano più comuni i documenti in italiano di tipo veneziano, scritti inizialmente dai mercanti della Serenissima residenti a Cipro e poi anche dai funzionari di corte, soprattutto nella capitale Nicosia (Baglioni 2006: 52).
Nel tardo Cinquecento e nel Seicento, quando Tunisi era parte dell’impero ottomano, i funzionari turchi, arabi e berberi discutevano e redigevano trattati e accordi con i funzionari francesi in lingua italiana. Inoltre, l’italiano era usato al consolato francese di Tunisi per registrare debiti, vendite, procure e dichiarazioni di ogni tipo. Cremona (1998: 340) osserva che, mentre i trattati formali erano in buon italiano, i documenti del consolato palesano incertezze e gallicismi, tanto che hanno dato l’impressione di essere scritti in lingua franca. Cremona rileva anche che i detti documenti non riguardavano soltanto persone italiane, ma anche individui di varie nazionalità europee, e presenta una tabella che ne mostra la mole: fra il 1582 e il 1702 si contano 3144 atti, di cui 1898 (il 60%) sono in italiano. Un atto tipico, redatto nel 1592, inizia così:
hobligationne per la nationne franceza Contra reuerendo padre sebastianno villaret L’Anno mille cinquo cente nouanta duy & alli vinte sey de hotober auante dy me chanseliere a tunizy stabillittu (e dy testimony infrascripty) constitutu In sua propria personna reuerendo padre sebastiano villaret (in Cremona 1998: 352)
Nel Settecento in Turchia l’italiano faceva da lingua intermediaria fra il russo e il turco e in Egitto l’italiano fu lingua ufficiale dell’amministrazione fino al 1876.
A Malta e in Corsica l’italiano ha giocato un ruolo molto intenso e duraturo per motivi di vicinanza geografica, etnica, religiosa e culturale. Le due isole hanno affrontato vicende storico-politiche parallele, che tra XIX e XX secolo le hanno portate fuori dall’orbita politica italiana e, fino a un certo punto, anche da quella linguistica.
Dopo la liberazione dagli Arabi, la Corsica passò a Pisa e poi a Genova, mentre Malta tornò alla Sicilia (in realtà era governa-ta dalla Sicilia anche nel periodo arabo). La differenza sta nel fatto che Malta era stata linguisticamente arabizzata mentre in Corsica la latinità non fu interrotta, anzi i rapporti con la Tosca-na e con Roma ostacolarono l’influenza genovese sui dialetti corsi, che rientrano, comunque, nell’area italiana centromeridionale (➔ corsi, dialetti). Al contrario, a Malta, Svevi, Aragonesi, Castigliani e lo stesso Ordine internazionale dei Cavalieri non pensarono mai di cambiare la parlata locale di base araba.
Tuttavia la lingua dell’amministrazione e della cultura in entrambe le isole fu l’italiano, fino alla cessione alla Francia dell’una (1769) e all’Inghilterra dell’altra (1800). Sembra però che la francesizzazione in Corsica fosse più pesante che non l’anglicizzazione a Malta, perché i maltesi conservarono l’uso dell’italiano come lingua ufficiale accanto all’inglese fino al 1936 (Brincat 2003: 249-330). In entrambe le isole l’italiano fu difeso dalla classe colta, che era ovviamente la minoranza (circa l’11%), ma a Malta l’abolizione dell’italiano fu compiuta soltanto in cambio del conferimento dello status ufficiale al maltese, che era stato standardizzato durante l’Ottocento. In entrambe le isole la causa dell’italiano fu favorita dagli esuli risorgimentali e complicata dalle rivendicazioni irredentiste.
Oggi a Malta l’italiano rimane la lingua moderna più studiata (inglese e maltese sono materie obbligatorie) ed è conosciuta dal 57% della popolazione (censimento del 2005), grazie soprattutto all’ascolto di programmi televisivi italiani, che in prima serata hanno un’audience del 25% (Caruana 2003; Brincat 2003: 334-338).
Se Venezia stabilì delle colonie a est, Genova impiantò alcuni insediamenti nel Mediterraneo occidentale, dal Principato di Monaco (ripopolato dai Grimaldi dal 1297) a sette borghi in Provenza (ripopolati tra il 1468 e il 1501). Benché non sia lingua ufficiale, il monegascu è ancora parlato dai cittadini anziani e insegnato a scuola, mentre nei borghi del Var il ligure si estinse nel XX secolo (Toso 2003).
Il genovese si estinse pure a Gibilterra e all’isola di Tabarca, quando la colonia si trasferì in Sardegna dove si parla ancora a San Pietro e Sant’Antioco (➔ tabarchina, comunità). Nizza appartenne ai Savoia per alcuni secoli e dette vita a una discreta letteratura in lingua italiana, anche dopo l’annessione alla Francia (1860).
Più compatte erano le colonie italiane che si stabilirono nell’Africa del Nord tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, quando l’esodo di operai e contadini italiani (soprattutto siciliani, sardi e calabresi) fu massiccio. Tra il 1949 e il 1956 in Tunisia vivevano 120.000 italiani, in Egitto erano 10.000 nel 1849 e 55.000 nel 1940, e in Marocco il migliaio del 1911 si decuplicò nel 1935. Anche se erano generalmente dialettofoni, gli italiani diedero vita a varie attività culturali, promossero la pubblicazione di giornali e libri e crearono scuole italiane. Le scuole regie ebbero fortune diverse; i rapporti ufficiali dal 1922 al 1927 firmati dal direttore delle scuole italiane all’estero affermano che le più floride erano quelle in Tunisia, che avevano una media di 500 alunni; ma si osserva anche che già allora subivano la concorrenza delle scuole francesi, dove molti italiani preferivano mandare i loro figli. In Egitto, come in Palestina, erano invece più attraenti le scuole inglesi (Trabalza 2008: 321-415).
Dopo la seconda guerra mondiale il risveglio nazionalistico arabo costrinse al rimpatrio quasi tutti i coloni. Basti ricordare che gli italiani espulsi dalla Libia nel 1970 furono 20.000, e che in Tunisia ne rimasero soltanto circa 8000 dopo il 1967, ridotti a circa 4000 oggi.
La perdita dell’uso dell’italiano nei paesi mediterranei è stata chiamata (F. Bruni in SDA 2007-2008) «l’italiano sommerso», perché il ruolo dell’italiano si è trasformato drasticamente: dove una volta era una lingua viva, parlata e scritta nelle comunità coloniali e nella burocrazia, oggi le sue sorti dipendono dall’apprendimento formale e dall’ascolto televisivo. A parte il caso di Malta e della Corsica, che è particolare perché storicamente coinvolgeva la popolazione locale (Brincat 2003), la domanda dell’italiano nelle ex colonie mediterranee rimane significativa (➔ emigrazione, italiano dell’) ed è legata soprattutto alle università, alle scuole secondarie e ai corsi organizzati dagli Istituti italiani di cultura e dalla Società Dante Alighieri. Tutto sommato, però, «la tendenza alla diminuzione riguarda indistintamente l’area mediterranea orientale e quella occidentale» (De Mauro et al. 2002: 146-147). Si ritiene che in Albania l’italiano sia compreso dall’80% della popolazione e parlato dal 50%, ma il suo apprendimento a scuola è basso perché alle scuole superiori solo il 5% lo sceglie come prima lingua straniera e il 50% lo sceglie come seconda lingua. Migliore è la situazione in Tunisia, dove i corsi universitari d’italianistica attirano circa 4000 studenti e sopravvive una pubblicazione bimensile in italiano con una tiratura di circa 5000 copie (si vedano gli articoli di F. Bruni, R.Y. Catalano, R. Demiryan, A. Fawky, A. Lakhous in SDA 2007-2008, e di C.A. Bosio, N. Piepoli, M. Russo Spena, S. Sabatini in SDA 2005).
Attualmente è debole il peso linguistico delle imprese italiane operanti all’estero, sebbene siano centinaia nei paesi del Mediterraneo (800 in Tunisia, 450 in Turchia, ecc.), come pure quello del corpo diplomatico, perché il personale adopera volentieri, e senza l’impaccio di una volta, l’inglese, che ormai domina in tutti i campi specialistici. Nel Mediterraneo il futuro dell’italiano sembra legato, almeno come esposizione, soprattutto alla televisione, dato che l’ascolto dei canali italiani è relativamente alto a Malta, in Albania, in Tunisia e in Marocco, e all’accessibilità dei siti italiani in Internet.
Alfieri, Gabriella & Cassola, Arnold (a cura di) (1998), La lingua d’Italia. Usi pubblici e istituzionali. Atti del XXIX congresso della Società di Linguistica Italiana (Malta, 3-5 novembre 1995), Roma, Bulzoni.
Baglioni, Daniele (a cura di) (2006), La scripta italoromanza del regno di Cipro. Edizione e commento di testi di scriventi ciprioti del Quattrocento, Roma, Aracne.
Brincat, Giuseppe (2003), Malta, una storia linguistica, presentazione di F. Bruni, Genova, Le mani.
Caruana, Sandro (2003), Mezzi di comunicazione e input linguistico. L’acquisizione dell’italiano L2 a Malta, Milano, Franco Angeli.
Cifoletti, Guido (2004), La Lingua franca barbaresca, Roma, Il Calamo.
Cortelazzo, Manlio (1998), Usi linguistici fuori d’Italia nel Medioevo: le Repubbliche marinare in Levante, in Alfieri & Cassola 1998, pp. 315-323.
Cremona, Joseph (1998), La lingua d’Italia nell’Africa settentrionale: usi cancellereschi francesi nel tardo cinquecento e nel seicento, in Alfieri & Cassola 1998, pp. 340-356.
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Toso, Fiorenzo (2003), Da Monaco a Gibilterra. Storia, lingua e cultura di villaggi e città-stato genovesi verso Occidente, Recco, Le mani.
Trabalza, Maria Raffaella (2008), Ciro Trabalza. La coscienza dell’identità nazionale come cultura nella storia delle regioni, Foligno, Edizioni dell’Arquata.