Mediterraneo
(XXII, p. 754; App. I, p. 831; II, ii, p. 282; III, ii, p. 52; IV, ii, p. 425; V, iii, p. 382)
Geografia politica ed economica
Il M. ha costituito alternativamente nei millenni tramite di collegamenti, sistema di relazioni intorno a più poli di sviluppo, spazio marittimo tra due continenti e due oceani, ponte tra due continenti, zona di relazione tra regioni a diverso livello di sviluppo, confine, barriera, e addirittura linea di frattura se non di aperta ostilità. A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale il mare aveva assunto un'importanza strategica di valenza planetaria nel confronto tra i paesi capitalisti e quelli socialisti, che trovava una sua rappresentazione immediata nel pattugliamento per il controllo reciproco delle flotte americana e sovietica. Negli anni Novanta tale confronto è venuto attenuandosi in conseguenza del disfacimento dei regimi socialisti e del venir meno della presenza della flotta sovietica.
Nell'ultimo decennio il valore strategico del M. è rimasto intatto, assumendo però valenze di maggiore rilevanza locale ed europea in relazione a quelle aree, come l'Adriatico, il Vicino Oriente e il Maghreb, dove si incontrano e si scontrano culture e interessi tra loro conflittuali. Il diverso tasso di crescita demografico, economico e sociale tra la sponda sud (afro-asiatica) e quella nord (europea) viene inoltre percepito come un rischio per la stabilità e la sicurezza dell'Europa. Alla fine del 20° sec. una successione di eventi, di movimenti religiosi e culturali, di crisi politiche ed economiche ha riportato al centro del dibattito dei paesi europei la regione mediterranea. La definizione di un'area di libero scambio culturale, economico e tecnologico non è più considerata un'ipotesi utopistica, ma l'espressione di una strategia in risposta a una richiesta che emerge da più parti e che ha trovato una sua preliminare realizzazione nella Conferenza di Barcellona (27-28 novembre 1995), cui hanno aderito i 15 Stati dell'Unione Europea e 12 paesi della costa africana e vicino-orientale, e in cui si è decisa la realizzazione entro il 2010 di un'area euromediterranea di libero scambio.
Il concetto di M. inteso non già come elemento di frattura o barriera, ma come sistema socioeconomico che faccia riferimento all'Unione Europea e sia a questa collegato, comincia a ritrovarsi verso la fine del secolo nelle riflessioni e nei rapporti delle maggiori organizzazioni internazionali e nazionali. L'Unione Europea, con l'adesione durante gli anni Ottanta di Spagna e Portogallo, con una sempre più intensa collaborazione con la Turchia e Israele, e con le maggiori responsabilità assunte nei confronti delle crisi della Penisola Balcanica e del Vicino Oriente, potrà orientare verso il M., dopo aver avviato l'allargamento ai paesi dell'Europa centrale e orientale, il baricentro dei propri interessi economici e della propria attività politica.
Durante gli anni Novanta gli squilibri demografici, economici e sociali tra la sponda nord e quella sud sono notevolmente aumentati creando i presupposti per lo sviluppo di nuovi flussi di merci e di persone. Il PIL dei cinque paesi mediterranei appartenenti all'Unione Europea era nel 1995 tredici volte superiore a quello dei paesi della riva sud. In questi ultimi, nel decennio 1985-95, la crescita del PIL era stata pari allo 0,7% l'anno, tre volte inferiore a quella dei cinque Stati dell'Unione Europea.
Nel 1995 la popolazione dei paesi che in questo testo vengono considerati mediterranei (i 20 paesi che si affacciano sul M. oltre alla Giordania e al Portogallo), era poco meno di 430 milioni di unità, pari al 7% della popolazione mondiale. Il 41% della popolazione viveva nei cinque paesi mediterranei dell'Unione Europea, il 7% nel resto della riva europea, il 31% nella riva africana e il 21% in quella asiatica. La popolazione del M. superava di poco i 250 milioni nel 1950, aveva raggiunto i 300 milioni dopo il 1970, era passata a 400 milioni dopo il 1990 ed è previsto che sarà di oltre 500 milioni nel 2010; tra il 1950 e il 1995 essa è aumentata mediamente di circa il 15% l'anno, ma con ritmi di crescita assai diversi nelle diverse componenti regionali. Nei paesi mediterranei membri dell'Unione Europea l'incremento medio annuo, che aveva raggiunto il 10% nell'intervallo 1960-65, è poi sceso al 2,3% tra il 1985 e il 1995 e si prevede che risulterà lievemente inferiore al 2% nel quindicennio successivo. Nella riva sud la crescita annua ha raggiunto il 30% nel periodo 1980-85, è diminuita al 26% tra il 1990 e il 1995 e si prevede che sarà del 22% tra il 1995 e il 2010. Nell'intervallo 1985-95 il tasso globale di crescita della popolazione nei paesi mediterranei appartenenti all'Unione Europea è stato inferiore di nove volte rispetto a quello della riva africana, di otto volte rispetto a quello della riva asiatica e di due volte rispetto a quello del resto della riva nord.
Ritmi di crescita così differenti presuppongono un ancor più ampio differenziale di invecchiamento della popolazione, che maggiormente si evidenzia nel confronto tra i paesi della sponda europea e quelli della sponda afro-asiatica. Nella riva nord la popolazione oltre i 65 anni era il 9% del totale nel 1950, è passata al 13% negli anni Novanta e si prevede che raggiungerà il 24% nel 2030. Nei paesi della riva sud la percentuale degli anziani è rimasta costante intorno al 4% tra il 1950 e il 1990 e si prevede raggiungerà il 9% nel 2030. Speculare è la differenza nella presenza di giovani di età fino a 15 anni. Nella riva nord il numero dei giovani è sceso dal 26% della popolazione nel 1950 al 20% nel 1990, e si prevede scenderà ulteriormente al 15% nel 2030, mentre nella riva sud rappresentava il 40% della popolazione nel 1950 e il 39% nel 1990, e si prevede potrà scendere al 24% nel 2030.
Nella riva nord i problemi da affrontare sono relativi a tre delle componenti più importanti della spesa pubblica: la previdenza, la sanità e la scuola. Il nuovo rapporto tra occupati e pensionati rischia di deteriorare gli equilibri finanziari dei sistemi pensionistici; analogamente il progressivo invecchiamento della popolazione inciderà sulla spesa sanitaria, mentre non è certo che potrà ridursi in modo significativo la spesa per l'istruzione. Nei paesi della sponda sud il problema sarà soprattutto la disoccupazione, a causa del forte aumento della popolazione in età lavorativa, compresa tra 15 e 64 anni, che cresce al ritmo di circa 4 milioni l'anno, cioè a un ritmo talmente alto da rendere difficile, se non impossibile, mantenere l'attuale tasso di occupazione, a meno di attuare politiche di sviluppo straordinarie realizzate con consistenti appoggi internazionali.
Migrazioni nazionali e internazionali
Le cospicue masse di probabili disoccupati andranno a incrementare le file di chi sarà costretto a emigrare sia all'interno del proprio paese (trasferendosi nelle aree urbane dove maggiore è lo sviluppo economico), sia all'estero. Nei paesi della riva sud il numero degli occupati in agricoltura è rimasto stabile o addirittura è cresciuto in valori assoluti negli ultimi decenni, sebbene il loro peso percentuale sia diminuito per la più intensa crescita degli occupati negli altri settori. Nel 1950 gli occupati in agricoltura rappresentavano oltre il 70% della popolazione attiva in Turchia, Algeria, Albania, Libia e Marocco, e circa il 60% in Egitto. All'inizio degli anni Novanta gli occupati in agricoltura erano ancora oltre il 50% in quasi tutti i paesi suddetti. L'analisi degli occupati per settore economico nella maggior parte dei paesi della sponda sud mette inoltre in evidenza il notevole contrasto tra le aree rurali, dove le opportunità di lavoro sono limitate a un'agricoltura ancora sottosviluppata, e le grandi aree metropolitane dove è concentrata l'offerta di lavoro, ufficiale e sommersa, nell'industria e nei servizi. Tali differenze fanno prevedere che nei prossimi anni alla notevole diminuzione degli addetti all'agricoltura farà seguito la formazione di vasti flussi migratori che dalle campagne si dirigeranno verso le aree urbane.
Gli abitanti delle aree urbane dei paesi della sponda sud, che nel 1970 erano 50 milioni, sono passati a 108 milioni nel 1990 e si prevede arriveranno a 199 milioni nel 2010; tra il 1990 e il 2010 l'aumento della popolazione nella riva sud sarà quindi pressoché totalmente concentrato in tali aree. Nel 1990 le città dei paesi mediterranei con oltre un milione di abitanti erano 26, equamente ripartite tra la sponda nord, con un totale di 21 milioni di abitanti, e la sponda sud, con un totale di 39 milioni di abitanti. Nelle 13 città della sponda nord risiedevano 19 milioni di abitanti nel 1970 e si prevede che ve ne risiederanno 22 milioni nel 2010; nelle 13 città della sponda sud risiedevano ugualmente 19 milioni di persone nel 1970, ma nel 2010 ve ne risiederanno presumibilmente 68 milioni. Tra il 1970 e il 2010 nelle grandi città della riva nord la popolazione rimarrà sostanzialmente invariata, mentre nello stesso periodo nelle città della riva sud la popolazione sarà più che triplicata.
Per comprendere i fenomeni migratori internazionali in atto nel M. bisogna considerare le diverse situazioni in cui si trovano sia i paesi della sponda nord sia quelli della sponda sud.
Nel 1995 nei cinque Stati mediterranei dell'Unione Europea risiedevano legalmente 5,4 milioni di stranieri, di cui 3,5 milioni extracomunitari, e tra questi 2,1 milioni provenivano da paesi del Mediterraneo. La comunità più consistente era quella proveniente dal Marocco (740.000 unità), seguita da quella algerina (620.000), dalla tunisina (250.000) e dalla turca (200.000). In Francia, considerata tra i paesi mondiali di costante immigrazione come la Germania, il Canada, l'Australia e gli Stati Uniti, il numero degli extracomunitari residenti è stato negli ultimi vent'anni costantemente superiore ai 2 milioni. Fino agli anni Settanta, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna sono stati esportatori netti di manodopera, e solo a partire dagli anni Ottanta sono divenuti paesi di immigrazione. A parte il Portogallo, in cui la presenza di cittadini dei paesi mediterranei è trascurabile, negli altri tre stati questa assomma a circa 400.000 unità, di cui il 75% in Italia. Turchia e Iugoslavia hanno indirizzato i propri flussi migratori prevalentemente verso la Germania, dove nel 1995 risiedevano 2,8 milioni di cittadini di queste due nazionalità, mentre i cittadini dei paesi del Maghreb si sono diretti soprattutto verso la Francia.
Inizialmente le migrazioni Sud-Nord furono attivate da accordi bilaterali sollecitati dalla Rep. Fed. di Germania e dalla Francia. L'accordo fra Germania e Turchia fu siglato nel 1961, quello fra Germania e Iugoslavia nel 1968. Nel periodo 1961-73 emigrarono dalla Turchia circa 800.000 persone, per lo più dirette in Germania. Nel 1971 per la prima volta la comunità straniera più numerosa in Germania risultò quella turca (653.000 unità), seguita da quella iugoslava. Dopo la crisi petrolifera del 1973 il numero degli emigranti turchi si ridusse drasticamente per poi riprendere a crescere a partire dal 1976, ma verso altre destinazioni come la Libia e l'Arabia Saudita. Alquanto diverso è il caso dei paesi del Vicino Oriente (Siria, Libano, Giordania ed Egitto), da cui i flussi migratori si sono diretti inizialmente verso i paesi del Golfo e la Libia, dove all'inizio degli anni Ottanta avevano superato il milione di unità.
Particolarmente significativa è la presenza di cittadini dei paesi mediterranei nell'Unione Europea (fig. 1). Nel 1986 gli extracomunitari residenti negli attuali 15 paesi appartenenti all'Unione Europea erano 8,1 milioni, di cui il 60% proveniente dai paesi mediterranei. In Austria i residenti provenienti da paesi del M. rappresentavano quasi il 90% della popolazione extracomunitaria; nei Paesi Bassi, in Germania e in Belgio questa percentuale era compresa tra il 70 e l'80%; nel 1991 i residenti extracomunitari erano 9,7 milioni, di cui il 61% proveniente dai paesi mediterranei; nel 1995 gli extracomunitari residenti erano 12,3 milioni, le comunità più consistenti erano quella turca (2,6 milioni), la marocchina (1,1 milioni), la iugoslava (800.000), l'algerina (700.000), la bosniaca (400.000), la tunisina e la croata (300.000). Tra il 1986 e il 1991 i cittadini di nazionalità dei paesi del M. residenti nell'Unione Europea sono aumentati del 26%, mentre nel periodo 1991-95 l'aumento è stato del 6%. Dopo il 1992 i flussi migratori hanno cominciato a stabilizzarsi, sia per l'inevitabile rallentamento che ha fatto seguito alla grande accelerazione del periodo precedente, sia per le misure restrittive adottate dai paesi dell'Unione Europea. In particolare, a partire dal 1995, una serie di attentati e di turbolenze riconducibili alle comunità maghrebine residenti in Francia, e la pressione dell'immigrazione clandestina in Germania, Regno Unito, Italia, Spagna e Grecia, hanno accelerato la reintroduzione di misure di vigilanza e di controllo che hanno costituito una barriera contro l'immigrazione.
Il turismo
Molto consistente è il flusso turistico, che nei paesi del M. è passato da 24 milioni di arrivi nel 1960, a 86 milioni nel 1975 e a oltre 200 milioni negli anni Novanta. La domanda di turismo si dirige però soprattutto verso tre paesi (Francia, Spagna e Italia), è caratterizzata da una stagione limitata ed è concentrata prevalentemente lungo la costa. Anche in questo vi è una netta distinzione tra i paesi della riva nord e quelli della riva sud. Nei cinque paesi dell'Unione Europea, l'offerta turistica è più differenziata, e più differenziata è anche la domanda (al turismo internazionale si aggiunge una notevole presenza di turismo interno), e il fenomeno è meglio distribuito sul territorio. Nei paesi della riva sud i flussi turistici, quantitativamente ridotti, non riescono a raggiungere un soddisfacente sviluppo in quanto fortemente condizionati dall'instabilità politica, dal terrorismo islamico e dai conflitti regionali (fig. 2). Nei paesi ex iugoslavi la crisi del turismo è cominciata già nel 1989 con una riduzione degli arrivi a causa delle radicali trasformazioni politiche che hanno interessato i paesi dell'Europa centrale e orientale. Dal 1991, a seguito della dissoluzione dello Stato iugoslavo e della guerra civile, si è avuto un collasso del turismo, la cui crescita in futuro dovrà interessare soprattutto i paesi della riva sud anche al fine di condizionare positivamente l'insieme dello sviluppo economico. Ciò dovrà avvenire sia nei paesi che già propongono una consistente offerta turistica come la Turchia, la Tunisia, il Marocco e l'Egitto, sia quelli che devono ancora organizzare questo settore economico come la Siria e il Libano. Inoltre, sebbene inizialmente l'offerta del turismo mediterraneo si sia limitata al sole, al mare e alla spiaggia, e quindi abbia cercato essenzialmente di soddisfare una domanda soprattutto balneare, in termini di potenzialità di sviluppo non si potrà fare riferimento unicamente alle aree costiere.
In questa situazione di crisi o di grande squilibrio l'intesa raggiunta a Barcellona nel 1995 per la costituzione di un'area comune euromediterranea, che non potrà essere esclusivamente basata sul libero mercato, appare l'unica vera novità per i prossimi anni. L'impegno è di trasformare la regione in un'area di scambio e cooperazione tramite il rafforzamento del dialogo politico e lo sviluppo della cooperazione economica e finanziaria.
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Realtà culturale e storica
di Robert Ilbert
Il M. non è soltanto un mare, un clima una vegetazione, degli uomini e una storia. Alla fine del 20° secolo costituisce, infatti, una complessa realtà storica che continua a muovere interessi strategici, politici ed economici planetari. Sulle sue sponde i conflitti si vanno moltiplicando: dall'Algeria alla Turchia e dai paesi balcanici alle frontiere israeliane. Allo stesso tempo aumentano gli scambi fra le popolazioni. Le frammentazioni si uniscono alla globalizzazione nel tracciare una carta geografica sempre più complessa. In Francia la questione 'immigrati' è divenuta una costante del dibattito politico; e anche la Spagna e l'Italia devono affrontare i problemi dell'immigrazione. Questi paesi, da cui in passato si muovevano numerosi gli emigranti, si trovano ora a dover accogliere flussi di immigrati che pongono problemi sociali e giuridici nuovi. Agli occhi degli Albanesi, dei Maghrebini o dei Curdi, l'Italia rappresenta la porta di un 'paradiso' immaginario e l'isola di Pantelleria ha ritrovato la sua antica funzione strategica.
Eppure si continua a parlare del M. come di un'unità, giustificando l'uso di questa nozione con la sua dimensione storica e culturale, come se una storia comune potesse permettere di dimenticare i conflitti e come se tutti condividessero la stessa concezione del passato. Senza contare il fatto che il futuro si scriverà forse in termini opposti rispetto a quelli validi per il passato, che a sua volta è certamente più complesso di quanto possa apparire.
'Mediterranei'
Si consideri il presente: è sufficiente osservare una carta geografica per comprendere che lo spazio mediterraneo è attraversato da più linee di frattura. La prima è segnata dai conflitti locali, in continuo aumento e dalle origini molto diverse: questione curda in Turchia, emergere del fondamentalismo islamico in Egitto e nel Maghreb, problemi di identità nazionali (etniche o religiose) nella ex Iugoslavia, conflitti territoriali in Palestina e in Libano. La seconda, forse più visibile, contrappone due Mediterranei: quello occidentale e quello orientale. Un'antica frattura che ci riporta alle origini dell'Impero ottomano, allorché il M. venne a trovarsi diviso da una linea che andava grosso modo da O a E, da Gibilterra ai Balcani passando a sud delle Baleari, della Sardegna e della Sicilia per poi risalire verso le coste della Grecia. Ancora oggi Cipro sta a dimostrare questa spaccatura: l'isola rimane divisa. Questa seconda frattura separa il M. dei 'ricchi' da quello dei 'poveri', fa del mare una sorta di frontiera dell'Europa che bisogna varcare, quando si proviene dal Sud, per raggiungere il mondo della prosperità. Inoltre questa linea di demarcazione si è recentemente complicata in seguito all'implosione del blocco sovietico. Il caso iugoslavo lo testimonia appieno: la caduta del muro di Berlino e la crisi dei regimi comunisti hanno fatto riemergere questioni che si credevano definitivamente chiuse, come la vicenda bosniaca, quella croata, le aspirazioni egemoniche della Serbia e gli interessi russi nel Mediterraneo.
Associate, queste due linee di frattura permettono di definire quattro sottoinsiemi. Il primo è fortemente legato all'Europa del Nord per via dell'Unione Europea. Se i suoi interessi mediterranei sono rilevanti, il gioco fondamentale si sviluppa comunque al Nord dopo la conclusione dell'unificazione economica europea che ha permesso alla Spagna, al Portogallo, ma anche al Sud italiano e francese, di compiere straordinari progressi negli ultimi vent'anni del secolo. Il secondo, 'balcanico', ha risentito del collasso del sistema sovietico e coinvolge, malgrado la solidarietà dell'Unione Europea, la Grecia. La questione macedone, i conflitti latenti o esplosivi nell'ex Iugoslavia sono altrettanti segnali dei nuovi problemi posti da queste zone. Il terzo è costituito essenzialmente dai paesi arabi. Nota regione di sconvolgimenti, questo sottoinsieme è anche segnato da un triplo insuccesso: nella costruzione dello Stato, nel coordinamento interregionale (Lega araba, Grande Maghreb) e nelle politiche di sviluppo (fallimento del socialismo arabo). Questi fallimenti spiegano l'esistenza del fenomeno islamico, movimento di rivendicazione politica espressa in termini religiosi. È un dato oggettivo il fatto che tutti gli estremismi si nutrono quotidianamente dell'ineguaglianza e della disperazione. L'ultimo si limita alla Turchia, che peraltro appartiene per diversi aspetti ai precedenti tre. Aperta ai mutamenti occidentali, perturbata dalle tentazioni fondamentaliste, la Turchia, nata dalle ceneri dell'Impero ottomano che fu l'epicentro del M. per secoli, rinvia l'immagine di tutte le contraddizioni dell'atteggiamento occidentale, confermate dalle recenti posizioni dell'Unione Europea critiche su un possibile ingresso della Turchia nell'ambito dell'Unione stessa.
Parlare, in queste condizioni, del M. come unità può apparire utopistico se non ingenuo. Il M., per un europeo del Nord, testimonia l'eredità della cultura ellenistica e rappresenta la culla delle tre religioni monoteiste. Ma si identifica - in eguale misura - con la violenza, il ritardo economico, le vendette e la mafia, i blocchi dello sviluppo industriale sempre riconfermati. Ed è, soprattutto, uno spazio a rischio che impone continuamente ai responsabili dell'Unione Europea problemi complessi ai quali si risponde in alcuni casi con rimedi temporanei o in ambito locale. Gli interventi destinati ai paesi più deboli del M. assumono nomi diversi a seconda degli anni. Mirano in primo luogo a limitare gli effetti indotti dai crescenti divari e a rendere più sopportabili le frontiere.
I paesi rivieraschi del Sud non concepiscono il M. allo stesso modo. Per la maggior parte dei paesi arabi la politica mediterranea sviluppata dall'Unione Europea cerca di soffocare i dialoghi bilaterali diretti, facendo in tal modo regredire i legami tradizionalmente privilegiati. Per la Turchia, sarebbe impensabile confondere mondo arabo e mondo turco, rigidezze del Sud e difficoltà del Nord-Est, ovvero della Turchia stessa. Per quasi tutti, il termine Mediterraneo è un'invenzione europea.
Storia di una rappresentazione
Effettivamente il termine Mediterraneo non ha lo stesso senso, né lo stesso valore, su tutte le sue rive. Il Mare nostrum era quello dei Romani: mare che riuniva delle terre in un unico impero. Le conquiste arabe prima, poi quelle turche, ne hanno fatto una frontiera fra un mondo civilizzato (nel senso di urbanizzato e diretto erede di Bisanzio) e un mondo in formazione, quello degli Stati-nazione dell'Europa moderna.
I centri di gravità si sono dunque spostati lentamente da O a E, e successivamente da E a O. Ma soltanto alla fine del 18° secolo i cartografi e i geografi hanno permesso di ripensare quest'insieme come un 'tutto geografico', quello della frontiera dell'ulivo e di un clima detto appunto mediterraneo. Il termine Mediterraneo ha acquisito un'iniziale maiuscola e l'aggettivo è divenuto un nome proprio, e si è perciò potuto identificarlo come unicum, mentre viaggiatori, storici, filosofi e politici trasformavano a loro volta questo dato geografico in un valore culturale. Alla metà del 19° secolo risale infine la percezione del M. come unità. La visione si è ribaltata nel vero senso del termine: si è passati da una percezione del M. come spazio liquido a una percezione del M. come l'insieme delle "terre emerse abitate dall'uomo" che racchiudono tale spazio. Fondamentale non era più il mare ma l'insieme delle rive che venivano a formare allora una "proprietà comune", come la definì il geografo E. Reclus.
Un processo di conoscenza specificamente europeo ha permesso l'emergere della rappresentazione del M. quale luogo di nascita delle religioni del Libro e come crogiolo culturale delle grandi civiltà occidentali. Questa rappresentazione non è falsa, ma semplicemente un prodotto costruito recentemente. Proprio come il movimento nazionale ellenico si è avvalso negli anni 1820-60 della fascinazione esercitata sulla borghesia europea da una democrazia ateniese ampiamente reinventata dalla cultura borghese stessa, il progredire delle conoscenze geografiche e storiche ha nutrito la rappresentazione storica del M., rispondendo in tal modo a bisogni che non avevano nulla di culturale. Il movimento è stato particolarmente forte in Francia; in Germania l'ellenismo ha per lungo tempo messo in ombra il M., così come in Italia la latinità e l'eredità romana hanno dominato a lungo. In alcuni paesi, per es. Israele o la Spagna, l'apparizione di questo concetto è addirittura molto recente.
Tutto ciò va tenuto presente in quanto consente di comprendere le reticenze degli intellettuali arabi o di altra provenienza di fronte alla maniera occidentale di utilizzare quella che, per loro, è una semplice definizione geografica, e che invece per altri è molto di più. Il M. non è uno 'spazio qualsiasi'. Per gli eredi di Reclus, dietro la denominazione di questo mare interno vi è un postulato di unità che spiega le politiche mediterranee dell'Unione Europea, così come spiega l'umanesimo mediterraneo predicato da A. Suarès o da A. Camus. Spiega anche numerose derive ideologiche, poiché del concetto di M. come luogo carico di implicazioni storico-politiche si sono impadroniti i fascisti italiani come pure la destra francese, G. D'Annunzio e L. Bertrand quando, negli anni Trenta e Quaranta, entrambi cercavano di far rivivere i simboli degli imperi scomparsi.
Questa definizione del M. come 'formazione discorsiva' - o, più semplicemente, come rappresentazione - è fondamentale. Essa non vieta alcuna analisi globale del M., bensì ne limita la portata. Pensare in termini mediterranei è una necessità poiché le rive del Nord e quelle del Sud sono fra loro legate in maniera inestricabile. Ma non si può farlo in nome di una presunta unità storica o antropologica. Vi sono, naturalmente, dei punti in comune (dalle forme dell'habitat ai modi di sociabilità), ma questi sono molto tenui se posti a confronto con gli elementi di divisione e frammentazione. L'unità affermata è un'invenzione del pensiero occidentale moderno.
Un Mediterraneo storico
Nonostante tutto, per lo studioso, il M. rappresenta anche un 'oggetto storico' concreto. Vi sono state, infatti, delle epoche innegabilmente mediterranee: quelle in cui un medesimo impero ne inglobava l'insieme dello spazio geografico (epoca ellenistica e romana) e quelle in cui più imperi, che venivano a morire sulle sue rive, davano i natali a sistemi protetti, in contatto gli uni con gli altri (Cordova, le isole Baleari, la Sicilia di Federico ii). In quei periodi, il M. è effettivamente esistito come denominatore comune, culla dei contatti e degli scambi, alma mater di civiltà nuove. Al di là dell'immaginario e dei miti, l'Italia di Federico ii è esistita: i richiami alla preghiera si alternavano al suono delle campane e le tracce architettoniche non sono le sole a conservarne la testimonianza.
D'altra parte, è proprio sulle rive di questo mare che si è sviluppata, all'alba della storia dell'uomo, una civiltà che ha lasciato i propri segni nelle formazioni urbane e nelle organizzazioni sociali. La storia della cultura non può scriversi senza tener conto dei movimenti di scambio che hanno animato il mondo mediterraneo, assicurando la trasmissione di testi capitali dal mondo greco antico ed ellenistico al mondo bizantino, e poi al mondo arabo e al Medioevo latino. Anche sul piano delle strutture sociali vi sono legami fra i più diversi fenomeni associativi che non possono essere circoscritti in un'unica regione. E parimenti esistono formazioni sociali specifiche che non sono proprie di un'unica regione, e vanno dalla solidarietà fra giovani fino alle reti mafiose. È questo straordinario passato, immerso nelle radici più profonde del nostro tempo, che dà un senso ai moderni interrogativi. Tuttavia, intorno al 16° secolo, il M. ha smesso di svolgere questo ruolo centrale. Con la scoperta delle Americhe si sono spostati i centri di gravità: il M. è allora divenuto uno degli elementi del sistema mondiale in corso di elaborazione. Esso ha ritrovato una qualche unità nel corso del 19° secolo, allorché la colonizzazione europea ha permesso la nascita di quella serie di città di cui Beirut e Alessandria furono simbolo e modello. Città mediterranee, in quanto traevano forza da popolazioni locali e incrociate, esse hanno potuto far credere che ancora una volta il M. funzionasse come sistema chiuso. Ma l'illusione fu di breve durata: l'esilio delle comunità religiose minoritarie, la chiusura delle frontiere, l'accrescersi del potere degli Stati hanno portato, negli anni Cinquanta, alla conclusione di questa fase storica.
E allora, è necessario chiedersi che cosa rappresenti il M. alla fine del 20° secolo. Esso è al tempo stesso un fondamento (che spiega la necessità di un confronto per comprendere le evoluzioni), un insieme di realtà storiche ben determinate (Roma, l'Andalusia e le città del 19° secolo) e una formazione discorsiva che assume i moduli di un postulato (il M. può allora essere compreso in termini politici). Stando così le cose, la questione che emerge è se il M. sia, al presente, qualcosa di più e di diverso di un'ideologia, scudo di discorsi politici non completamente palesabili. La risposta è insieme semplice e prudente. Il M. contemporaneo è troppo segnato dai conflitti perché si possa considerarlo come unità. Al tempo stesso, su scala mondiale, esso si presenta ancora e sempre come un luogo privilegiato di contatti e di scambi. L'attualità della questione mediterranea non sta tanto nella realtà misurabile degli scambi economici quanto nell'impossibilità di ragionare in termini di compartimenti stagni. Per il solo fatto che sussistono i contatti, per il solo fatto che il futuro del Sud e quello del Nord sono fra loro legati in maniera indissolubile, il Mediterraneo esiste. In ogni caso esso è, perlomeno, una buona scala di analisi dei problemi.
Il Mediterraneo alla fine del 20° secolo
L'analisi su scala mediterranea va comunque effettuata con una certa precauzione, soprattutto per il fatto che non vi è accordo, tra i vari studiosi o tra i vari enti nazionali o internazionali che se ne occupano, sui limiti e sulla possibile suddivisione della regione mediterranea. Se, come si fa di solito, vi si includono Giordania e paesi balcanici, il M. deborda in aree limitrofe, ma diverse, come il Vicino e Medio Oriente e l'Europa centro-orientale. Il progetto italiano di una Banca mediterranea per lo sviluppo è venuto a scontrarsi con la difficoltà di intendersi su una precisa area geografica. Viceversa, se il Piano blu, creato nel 1995 nell'ambito dell'ONU, ha funzionato, ciò è dovuto al fatto che la sua ambizione era esplicitamente quella di sensibilizzare i paesi rivieraschi ai diversi problemi della gestione del litorale e delle acque.
Un secondo genere di cautele riguarda le estrapolazioni dei dati in cifre. Così, non si può opporre con troppa facilità la demografia delle rive del Nord a quella delle rive del Sud. Gli indici di fecondità degli anni Novanta, per il Nord, sono molto più deboli di quelli previsti. Quanto al Sud, esso assiste ai mutamenti dei suoi comportamenti demografici: l'esodo rurale tende al rallentamento, lo stesso avviene per la crescita urbana e la crescita del livello di vita si traduce anche nella diminuzione della fecondità delle donne. Certo, le grandi tendenze attuali non saranno rovesciate, ma ragionando in termini troppo nettamente macrogeografici ci si espone a gravi errori di prospettiva. Le differenze regionali sono spesso essenziali. Un grande demografo francese, H. Le Bras, è giunto recentemente ad affermare che si dovrebbe piuttosto temere un'assenza di migrazione, la quale rafforzerebbe la spaccatura Nord-Sud, piuttosto che il dilagare del Sud nel Nord. Effettivamente, le condizioni necessarie per suscitare un grande fenomeno migratorio non sembrano al giorno d'oggi presenti sulle due rive del Mediterraneo.
Non si possono cancellare, infine, gli elementi politici. E questi sono quasi imprevedibili. Se le tensioni intorno alle frontiere d'Israele sono destinate a rimanere forti, specie con il rallentamento del processo di pace, non era facile prevedere le drammatiche conseguenze dell'implosione iugoslava e nessuno sa in quale maniera si orienterà il fondamentalismo islamico in Egitto, in Turchia o in Algeria. La nostra conoscenza di questo fenomeno ha certamente fatto progressi da quindici anni a questa parte: oggi sappiamo che non è possibile ridurlo a un semplice 'ritorno dell'Islam', a un qualsiasi integralismo foriero di un ritorno millenaristico delle divinità. I fondamentalismi islamici (fr. islamismes) sono forme 'moderne' di rivendicazione politica costruite sulle difficoltà economiche e politiche dei giovani Stati-nazione del mondo arabo. Tuttavia si scontrano analisi diverse, i cui scenari variano notevolmente. Per gli uni i movimenti islamici sono di due tipi: i primi si fondano su una società civile 'modernizzante' e sono dunque forme di rivendicazione identitarie controllabili (sarebbe questo il caso della Turchia); i secondi si fondano invece su una rivendicazione popolare priva di basi e sono dunque destinati a scivolare verso tutte le forme possibili di fanatismo (come nel caso dell'Egitto o dell'Algeria). Ma una diversa interpretazione privilegia - nei movimenti islamici - l'espressione di una rivincita da parte del Sud sul Nord, legittimando gli eccessi degli uni con la violenza repressiva degli altri, facendo dunque appello a un sostegno, se non esplicito almeno silenzioso, da parte delle comunità corrispondenti nell'Europa del Nord.
Il dibattito è importante poiché condiziona tutta la visione che si ha del mondo mediterraneo. Certo, esso non è il campo dell'operatore industriale o finanziario. Ma deve essere comunque considerato nell'ambito di un'analisi seria dei rischi. La posizione delle grandi istituzioni finanziarie internazionali è rivelatrice di queste esitazioni. Per la Banca mondiale i prestiti di aggiustamento strutturale sono lo strumento operativo privilegiato per sostenere le riforme economiche; tuttavia, le tensioni sociali hanno convinto le autorità a un nuovo orientamento indirizzato a consentire lo sviluppo dell'industria, dell'educazione e della sanità, mentre continuano le sovvenzioni pubbliche per i beni di prima necessità. Quanto alle banche miste euro-arabe, esse sono ormai in agonia: il progetto dell'integrazione nel mercato europeo ha fatto un passo indietro. Al tempo stesso i banchieri sono, per lo più, tornati alla loro vocazione naturale: non finanziano più il rischio, non investono che nelle risorse stabili, intervengono solo nei progetti che garantiscono il proprio finanziamento (per es. gli alberghi), svolgendo, all'occorrenza, il ruolo di consiglieri.
Altrettanti sono gli elementi che inducono alla prudenza dinanzi a qualsiasi analisi globale del 'sistema mediterraneo'. Non esiste oggi un sistema. Esiste un insieme mondiale nel quale al M. spetta un posto particolare per i suoi legami diretti e storici con l'Europa. E sono proprio questi legami a legittimare una visione mediterranea.
È perciò necessario, senza isolare il M., misurarne l'importanza in termini d'interdipendenza; la quale interdipendenza, tuttavia, è un fattore complesso.
Se ci si limita ad accumulare delle cifre, si può affermare che la popolazione dei paesi rivieraschi (quasi 430 milioni di abitanti a metà degli anni Novanta) è più consistente di quella dell'Unione Europea (370 milioni) e che il PIL realizzato (2800 miliardi di dollari) è pari a quello del Giappone. Tuttavia queste cifre complessive non offrono un quadro significativo della realtà: la Francia, l'Italia e la Spagna insieme realizzano l'80% del totale del PIL dei paesi rivieraschi del Mediterraneo. Quanto all'indice di fecondità, esso varia fra l'1,18÷1,20 dell'Italia e il 6,7 della Libia. L'eterogeneità - ovvero l'asimmetria - ha la meglio: i paesi dell'Unione Europea si aggregano tra loro ma abbandonano i loro vicini del Sud. E così il Marocco, primo paese beneficiario degli investimenti francesi, non ospita che il 2% di questi investimenti. Quanto alle importazioni (esclusi gli idrocarburi) dell'Unione Europea, nel 1990 erano paragonabili per l'insieme dei paesi arabi (200 milioni di abitanti) a quelle da Taiwan (20 milioni di abitanti).
Queste disparità tuttavia non impediscono relazioni essenziali in termini sia sociali sia economici. Il caso delle migrazioni è, su questo punto, esemplare, e riguarda sia il turismo sia l'immigrazione. Per quanto concerne il turismo, i paesi delle rive del Nord traggono da esso la gran parte degli introiti (80%), ma, al contempo, gli introiti del turismo coprono dal 60 al 70% del deficit commerciale dei paesi a bilancia commerciale fortemente deficitaria (come la Turchia, Israele, la Tunisia, il Marocco, l'Egitto). L'economia egiziana, per es., è strettamente legata all'andamento del flusso di visitatori, che risulta comunque condizionato da ogni minima crisi. Quanto all'immigrazione in senso stretto, si rivela anch'essa molto difficile da quantificare. Anche il suo impatto economico in Europa rimane discusso, ma l'importanza dei flussi finanziari in tal modo generati è enorme per numerosi paesi del Sud del Mediterraneo. Le rimesse dei lavoratori all'estero rappresentano (rapportate alle esportazioni di merci) il 26% in Portogallo, il 16,5% in Tunisia e il 166% in Egitto. In quest'ultimo paese, la sola minaccia di un ritorno massiccio degli immigrati basterebbe a far esplodere il sistema politico ed economico.
La prospettiva naturalmente cambia a seconda del punto di vista prescelto per l'analisi. Considerato globalmente, il M. rappresenta il 15% del PIL e delle esportazioni mondiali. Con il 25% della totalità degli scambi commerciali con i paesi rivieraschi, il mercato intramediterraneo esiste, senza alcun dubbio, in gran parte per il fatto che i paesi della riva sud ne dipendono per il 40%. Il futuro si giocherà dunque sulla capacità della riva nord di mantenere i suoi rapporti di prossimità con la riva sud. Questa capacità non è certa, poiché le disparità tendono ad aggravarsi. Il PIL è una volta e mezzo più elevato in Francia che in Spagna e due volte più che in Grecia. Tuttavia esso è, in Grecia, due volte più elevato che nella ex Iugoslavia, che disponeva nel 1988 di un PIL pro capite doppio rispetto alla Turchia e tre volte più elevato che in Marocco o in Egitto. Ma gli squilibri potranno anche rivelarsi fattori positivi soprattutto se l'Europa saprà trarre vantaggio dai legami storici e culturali creatisi nei secoli e valorizzare le grandi possibilità di scambio e integrazione, a più livelli, tra le regioni del Nord e quelle del Sud.
Una tale potenzialità può appartenere anche alle regioni dell'Europa meridionale. Mentre si va strutturando una formidabile regione industriale che si estende da Milano a Londra, passando per Francoforte, Amsterdam e Parigi, le città cosiddette dell'arco latino (da Valencia a Genova) possono sperare di trovare nuovi elementi di forza nell'interdipendenza con le rive meridionali del Mediterraneo.
È dunque a livello regionale che si svolgono i fenomeni essenziali per il futuro. Qui ritroviamo la storia. F. Braudel ha già rilevato che lo spazio mediterraneo ha conosciuto, fin dall'età moderna, una strutturazione contrastata, in cui coesistono microregioni e ampie aperture. Le frontiere contemporanee si sono sovrapposte alle dinamiche locali senza farle scomparire. Queste ultime vengono spesso poste al servizio di strategie locali che permettono di riflettere in termini differenti: transnazionali o infranazionali.
Sono numerosi gli esempi di questa forte implicazione regionale. Essi portano a pensare al M. come a un sottoinsieme molto frammentato ma al tempo stesso molto aperto. Dalla Catalogna al Mezzogiorno, da Atene a Beirut, tutto avviene come se si dovesse uscire dall'ambito imposto dalla costruzione degli Stati-nazione per afferrare le dinamiche in atto. Attenendosi al confronto Unione Europea-mondo arabo le interdipendenze mediterranee non sono che un'illusione che cela uno "spazio di crescente disgiunzione", secondo l'espressione dell'economista francese H. Regnault. Se si considerano la vitalità delle diverse regioni e le strategie locali (per la maggior parte transfrontaliere), le interdipendenze accettate diventano un investimento per il futuro. Non fosse altro che per il fatto che il M., data la sua prossimità, è un elemento chiave per la costruzione del 'grande mercato' europeo.
È dunque tenendo conto della composizione dell'Europa che il M. recupera tutto il suo significato come scala necessaria nell'analisi dei fenomeni politici ed economici contemporanei. Se il M. non è un sottospazio operativo in seno all'economia mondiale, esso comunque esiste. Quest'affermazione non è una semplice petizione di principio. L'Europa è dinamica, ma fragile. Solo l'associazione delle sue zone di prossimità (a cominciare dall'Est e dal Sud del M.) può permetterle di resistere alla concorrenza mondiale sistemando al tempo stesso i suoi problemi di sicurezza. Il M. non può essere una 'entità'; può divenirlo grazie ai suoi legami privilegiati con l'Europa.
La questione mediterranea non si pone dunque in termini di utopia o di ideologia e neppure soltanto in termini geopolitici e storici. La storia interviene a dimostrare la possibilità di 'vivere insieme'; permette di relativizzare il dibattito sull'immigrazione e di valutare le tentazioni comunitarie; permette, soprattutto, di chiarire certe costanti o certe particolarità. Diviene così possibile reinterpretare l'apparente assenza di tradizione industriale e comprendere meglio la vitalità delle formazioni regionali.
Ma il dibattito non è esattamente a questo punto. È racchiuso nella semplice domanda se il M. verrà a consolidare o al contrario a destabilizzare la costruzione europea. I fattori di crisi sono così numerosi che ci si può interrogare sulla capacità degli uomini politici di dominare le tentazioni alla chiusura che non cessano di rafforzarsi. Dalla Lega lombarda (ora Lega Nord, in Italia) al Fronte nazionale (in Francia), passando per le diverse correnti islamiche, sulle rive settentrionali come su quelle meridionali, i richiami alla separazione si moltiplicano. Nondimeno i vincoli economici e sociali saranno forse più forti e ciascuno avrebbe effettivamente tutto da perdere dalla divisione in blocchi contrapposti. È in gioco, infatti, l'avvenire di tutto il Mediterraneo: dal turismo alla ristrutturazione interregionale, dai flussi finanziari indotti dall'immigrazione alle nuove forme di co-sviluppo possibile nella complementarità dei sistemi economici.
In ogni caso, la popolazione del perimetro mediterraneo che ammontava a 200 milioni nel 1950 dovrebbe continuare ad accrescersi per giungere a 550 milioni verso il 2025. L'aumento della popolazione sarà innanzitutto urbano e, anche con una crescita del livello di vita quasi nulla, questa progressione dovrebbe accompagnare una forte domanda, un mercato. Questo dovrebbe espandersi, entro il 2025, dal 300 al 500%.
Gli appelli sempre più frequenti in favore della creazione volontaria di un vero e proprio 'spazio economico mediterraneo' o di una 'zona di libero scambio mediterraneo' rispondono a quest'obiettivo che è ovviamente possibile ritenere utopistico. Tuttavia lo è soltanto se ci si attiene alle ideologie o anche a una generica analisi dei conflitti che vanno moltiplicandosi. In un quadro coerente della nuova divisione internazionale del lavoro, così come si profila sotto i nostri occhi, le cose stanno altrimenti. In questo senso i tre Mediterranei del geografo Y. Lacoste, quello messicano, quello euroafricano (il nostro) e quello asiatico, potranno avere nuovamente un posto essenziale.
bibliografia
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