Megalopoli
di Agostino Petrillo
Megalopoli
sommario: 1. Introduzione. 2. Nascita del concetto. 3. Gli anni settanta-ottanta: discussione e crisi del modello. 4. Mega-città, città mondiali e città globali. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Quello di megalopoli è un concetto oggi quantomeno in discussione, se non in parte superato. Malgrado la persistente fortuna del termine nell'ambito artistico e letterario, in cui è diventato sinonimo di insediamento urbano enorme e caotico, le moderne scienze della città esitano nell'utilizzarlo e frequentemente preferiscono impiegare altri termini per indicare le grandi e grandissime concentrazioni urbane contemporanee. Si parla infatti sempre più di 'mega-città', 'città mondiali', 'città globali' e di 'metropolizzazione' per designare grandi agglomerati sempre meno definibili sotto il profilo meramente geografico e demografico, intendendo di volta in volta sottolineare aspetti diversi e differenti situazioni economiche e spaziali, mentre la voce megalopoli suona ormai in certo modo generica, se non desueta. Nel tentativo di mettere ordine in un lessico così variegato, specchio di un dibattito scientifico ancora in corso (e a tratti confuso), procederemo in ordine cronologico, ripercorrendo l'evoluzione storica del concetto a partire dalla sua genesi, passando poi a illustrare il momento di crisi e di radicale messa in discussione che ha conosciuto negli anni ottanta, per giungere infine alla descrizione del suo attuale modificarsi e frammentarsi in una serie di accezioni che vedono gli studiosi non sempre concordi.
2. Nascita del concetto
Verso la fine degli anni cinquanta il geografo Jean Gottmann, nato in Russia ma di formazione francese, introdusse un'idea nuova per gli studi di geografia umana e urbana, quella di megalopoli. Per Gottmann (v., 1961) - che si era stabilito durante la guerra negli Stati Uniti, dove aveva avviato una ricerca durata due decenni sugli sviluppi delle grandi città della costa atlantica - si poteva parlare della nascita di un continuum di tessuto urbano e suburbano che univa insieme cinque grandi insediamenti: Boston, New York, Filadelfia, Baltimora e Washington. Frutto della graduale fusione di ampie aree metropolitane un tempo indipendenti, tale continuum era il risultato dell'aumento costante della popolazione e dell'espandersi dell'abitato verso sobborghi sempre più distanti dai centri delle città. All'entità che si profilava, almeno sulla carta, come un tipo del tutto nuovo di realtà edificata, Gottmann diede il nome di megalopoli, dal greco μεγάλη πόλις, città molto grande.
La prospettiva che si dischiudeva agli occhi dello studioso era quella di un'unica super-metropoli di circa quaranta milioni di abitanti, distribuiti quasi senza soluzione di continuità su di un territorio che solo come estensione in lunghezza superava i 700 km (v. fig. 1). Se l'esistenza di un corridoio urbano costiero era da tempo già stata rilevata, egli intravide nella dinamica in corso i tratti peculiari di un fenomeno del tutto inedito, e parlò a chiare lettere della "nascita di un nuovo ordine nell'organizzazione dello spazio abitato". Nella megalopoli egli vide una svolta radicale nella storia dell'urbanizzazione. Intellettuale profondamente filourbano, Gottmann colse nella nuova realtà da una parte l'inverarsi della profezia di Patrick Geddes (v., 1915) sulla tendenza delle città in crescita a fondersi insieme in 'conurbazioni', dall'altra il concentrarsi di un formidabile laboratorio di energie, conoscenze e capacità produttive. Un fuoco 'prometeico' attraversava la megalopoli secondo la visione, non priva di qualche ingenuità, di Gottmann; in essa egli vedeva incarnata e operante un'energia irresistibile che rappresentava quanto di meglio l'umanità al lavoro potesse produrre. La crescita della megalopoli era tanto continua quanto inarrestabile, dato che richiamava uomini e risorse dall'intera nazione; essa rappresentava il trionfo dell'urbano elevato all'ennesima potenza: servizi efficienti ne raccordavano le diverse parti, ed erano la forma e le funzioni urbane a conferire al suo territorio una significativa unità regionale. In questa concezione si intrecciavano tanto tematiche derivate dallo stesso Geddes, quali l'insistenza sulla componente 'biologica' del costruito, sull'imitazione della natura che anima il crescere della "umana barriera corallina", quanto le suggestioni della lezione della geografia umana di Vidal de la Blache, di cui Gottmann era stato allievo, che aveva messo l'accento nella sua produzione scientifica sulla capacità dell'uomo di plasmare, trasformare l'ambiente naturale nel corso della storia, sfruttandone le risorse secondo le sue necessità.
Questo in estrema sintesi il quadro tracciato da Gottmann: la megalopoli nasce sulla costa, favorita da un contesto territoriale che rappresenta una cerniera geografica e naturale privilegiata, dato che essa abbraccia e incorpora città situate all'incontro tra il continente e il mare. Gli uomini hanno approfittato di una collocazione favorevole per costruire strutture portuali, per sviluppare commerci, per organizzare una rete di fittissime relazioni economiche e commerciali, sia con l'Europa sia verso l'interno del continente. La nebulosa urbana che costituisce la megalopoli ha vistosi punti di addensamento, rappresentati dalle città portuali legate all'entroterra da un intreccio di trasporti viari e ferroviari. Si tratta di una successione ininterrotta di aree metropolitane nei cui interstizi sopravvive la natura, limitata a qualche distesa boschiva e confinata a un'agricoltura di orti e piccoli appezzamenti, un'economia rurale suburbana il cui ruolo è comunque ridotto. Ma la megalopoli è anche potenza industriale, luogo di concentrazione di forze produttive senza pari sul pianeta. Ed è, soprattutto, organizzazione, direzione e amministrazione. In essa prosperano gli impiegati, i colletti bianchi. La vita finanziaria, intellettuale, amministrativa e culturale dipende da questi grandi centri: le funzioni di comando e di direzione, che estendono la loro influenza ben oltre i limiti della megalopoli, hanno in essa saldamente la loro sede. Grandissime dimensioni urbane e importanza crescente del settore terziario appaiono perciò strettamente legate, tanto da prefigurare un livello di organizzazione urbana assai elevato.
Qualche decennio dopo l'uscita del suo volume, Gottmann osserverà che "il concetto di megalopoli non descrive soltanto un nuovo modo di ordinarsi dello spazio abitato, più ancora esso esprime una profonda trasformazione della società" (v. Gottmann, 1983, p. 21). La megalopoli americana non è l'unica creatura della sua specie. Gottmann ne ha individuate negli anni settanta altre in formazione, anzitutto quella di Tokaido, che unisce in un'unica cintura urbana le città giapponesi disposte lungo l'asse del Mare Interno: Tokyo, Nagoya, Kyoto, Osaka; poi quella che da Londra giunge fino alla grande conurbazione centro-europea; e ancora la megalopoli brasiliana Rio de Janeiro-San Paolo-Campinas. Anche per l'Italia sono state avanzate delle ipotesi di megalopoli, basate sul triangolo industriale Milano-Torino-Genova, e su di una più ampia prospettiva mediterranea che coinvolgerebbe il tessuto urbano delle città costiere nord-occidentali (v. Muscarà, 1978). Si è parlato anche di una megalopoli padana, di città diffusa e di un 'urbanoide' in formazione per il Veneto (v. Indovina, 1990). Il numero delle potenziali megalopoli in grado di replicare quella originaria nordamericana è tuttavia ancora più elevato, tanto da far pensare a un lontano futuro in cui più megalopoli, fondendosi insieme, potrebbero condurre alla totale urbanizzazione del pianeta (v. Gottmann e Harper, 1990). Con ironia forse involontaria, Emrys Jones (v., 1990), commentando a distanza di alcuni anni queste riflessioni di Gottmann, vi ha visto un'anticipazione della fantascientifica Trantor, la città-pianeta creata dalla fantasia di Isaac Asimov.
Se l'idea di megalopoli poteva sembrare, quando fu proposta, un'intuizione non sufficientemente corredata dai fatti - dato che, al di là della mera evidenza geografica della tendenza a una continuità del costruito, non esistevano probabilmente tra i vari centri che la componevano quelle strette connessioni sociali ed economiche che avrebbero potuto suffragare l'ipotesi (e le critiche sotto questo profilo furono tanto aspre, quanto in buona parte giustificate) - non si può però negare che essa contenesse delle osservazioni 'anticipatrici' (v. Gottmann, 1987). La proposta di Gottmann rappresentava un modello euristico della nuova scala raggiunta dalla crescita urbana, individuava un tipo di iper-espansione dell'abitato e di enorme concentrazione di uomini che nel giro di pochi anni si sarebbe affermato, anche se in ben diverse condizioni complessive, come una realtà indiscutibile dello sviluppo urbano. In questo senso è giusto affermare, come ha fatto Jones (v., 1990), che il risultato più significativo raggiunto dall'opera di Gottmann è stato il dibattito sulla realtà della megalopoli innescato dalla pubblicazione della sua ricerca.
3. Gli anni settanta-ottanta: discussione e crisi del modello
Il dibattito ha assunto nei decenni successivi aspetti di critica serrata alle concezioni di Gottmann. Già negli anni settanta si è rilevato che la regione megalopolitana individuata dal geografo, compresa tra il New Hampshire e la Virginia settentrionale, non solo non cresceva più, ma era entrata in una vera e propria stagnazione sotto il profilo demografico; il dato è stato confermato dal censimento del 1980, che ha mostrato chiaramente la fine della tendenza alla concentrazione della popolazione in aree metropolitane. Una parte degli abitanti si spostava fuori dai centri delle città e dai sobborghi tradizionali, verso nuovi insediamenti di tipo suburbano ai margini delle aree metropolitane (v. Fox, 1985). Cominciava quella tendenza alla dispersione della popolazione verso la nuova frontiera degli insediamenti suburbani e delle cosiddette edge cities, 'città del margine', che avrebbe caratterizzato la vicenda urbana degli Stati Uniti fino ai giorni nostri (v. Garreau, 1991). Baltimora ha iniziato proprio nel 1961 - anno nel quale uscì il libro di Gottmann - a perdere abitanti, mentre New York ha conosciuto negli anni settanta un lungo periodo di stagnazione demografica e di crisi economica e finanziaria. Gottmann aveva in realtà colto un fenomeno nella sua fase culminante, subito prima che ne cominciasse il declino. Egli stesso ha dovuto riconoscere che vi erano forze che minavano la megalopoli, e ha in seguito sottolineato l'affermarsi di storiche tendenze anti-urbane profondamente radicate nella cultura degli Stati Uniti, pur insistendo nel ribadire la validità generale della sua visione (v. Gottmann, 1983). Ma la crisi del modello di megalopoli è stata legata, più che a fattori di tipo culturale, alle trasformazioni della società statunitense nel suo complesso, ai mutamenti nel mondo del lavoro e della produzione, agli sviluppi dell'informatica e delle comunicazioni, nonché all'insieme di processi di intensificazione dei rapporti internazionali che va oggi sotto il nome di globalizzazione. La megalopoli nasceva all'interno di un contesto nazionale ben individuato, era ancorata al fordismo come modo di produzione e di organizzazione della società e ne era in fondo l'espressione geograficamente più appariscente. La sua crescita e, più in generale, il suo dinamismo erano dovuti anche a due grandi correnti migratorie interne: la suburbanizzazione della classe operaia bianca e l'esodo dei neri dagli Stati del Sud rurale verso i centri metropolitani del Nord. Essa rappresentava quindi anche il risultato di un processo che era cominciato fin dagli anni quaranta, la ricaduta di una lunga vicenda di emancipazione e di lotta sociale. Con la deindustrializzazione - e come conseguenza dei suoi effetti strutturali e spaziali - si è assistito al venir meno delle forze che avevano determinato lo sviluppo della regione megalopolitana. Il rapido precipitare della prosperità dei grandi insediamenti centrali e il diminuire della loro influenza rivelavano il declino della forza di attrazione della megalopoli, della sua capacità di orientare i flussi migratori interni ed esterni, disattendendo così completamente la previsione di Gottmann di una crescita urbana ininterrotta. Veniva inoltre messo in crisi il primato della centralità. Già all'inizio degli anni settanta, più che come un insieme interconnesso saldamente diretto dalle sue zone centrali, la megalopoli nordamericana si presentava piuttosto come "una vasta distesa suburbana in cui le città persistono come storici punti focali di attività specializzate che favoriscono l'alta densità. Le città non vi esercitano alcun dominio" (v. Fox, 1985, p. 229).
In questo senso il passaggio a un'epoca diversa della produzione e della divisione internazionale del lavoro aveva già rimescolato completamente le carte, conducendo a una situazione di difficile definizione. La trama delle nuove forme spaziali che cominciavano a profilarsi era molto più complessa e multinodale rispetto al modello che subordinava i sobborghi al distretto centrale degli affari tipico degli anni cinquanta. La situazione delle città sarebbe stata sempre più caratterizzata dalla perdita di popolazione, dal deteriorarsi delle condizioni abitative, della produzione e dei commerci e dalla concentrazione di minoranze nei vecchi centri urbani. La popolazione più abbiente e più influente lasciava i centri delle città, dove rimanevano i poveri e gruppi etnicamente segregati (v. Beauregard, 1993). Anche a livello nazionale, nel contesto statunitense, la megalopoli costiera vedeva scemare la sua importanza a favore di altri centri di dimensioni più ridotte e dotati di un maggiore dinamismo economico e demografico.
Non si è trattato di una vicenda che ha riguardato soltanto gli Stati Uniti: anche in altri paesi sviluppati si è assistito a una relativa stagnazione della crescita della popolazione nelle grandi concentrazioni urbane e in Europa si è parlato addirittura di un loro possibile declino causato dal calo demografico (v. Van den Berg, 1982). Si sono altresì manifestati potenti fenomeni di controurbanizzazione (v. Berry, 1976), vale a dire processi di deconcentrazione della popolazione, che tende a spostarsi verso aree periferiche o comunque fuori dai confini metropolitani.
Le caratteristiche della nuova epoca urbana hanno cominciato a delinearsi già durante gli anni ottanta, per definirsi più nettamente nel decennio successivo, e sono in estrema sintesi legate all'informatizzazione (v. Castells, 1989), allo sviluppo delle telecomunicazioni e dei trasporti, alla disarticolazione della struttura delle localizzazioni industriali, non più necessariamente insediate nei pressi delle grandi concentrazioni urbane. La produzione materiale viene realizzata nei siti più svariati, si ha una delocalizzazione delle attività verso le periferie, mentre nei centri urbani si accentrano le funzioni di controllo e coordinamento (v. Hall, 1996). L'esemplificazione più clamorosa di queste tendenze è la rapida crescita, in controtendenza rispetto alla stagnazione della megalopoli costiera, di una metropoli 'eccentrica' e 'policentrica' come Los Angeles. Metropoli frammentata fin dall'inizio della sua storia, pur essendo una delle aree metropolitane maggiormente abitate del pianeta e una di quelle con il maggior peso economico e finanziario, Los Angeles rappresenta una sorta di rovesciamento del modello centro-periferia. È infatti la megalopoli diffusa, disseminata, il prototipo dello sparpagliamento (sprawl) dell'abitato su di un territorio enorme, della mancanza di una centralità chiaramente definita. È una non-città in cui svaniscono le coordinate tradizionali dell'urbano, cancellate da una "rivolta contro la densità" (v. Davis, 1990). Già oltre la policentricità (v. Gordon e Richardson, 1996), essa è una nebulosa di abitato priva di un nucleo, composta da un tessuto che non è più urbano ma non è nemmeno rurale. Se ne è parlato come di una 'exopoli', una megalopoli rovesciata all'esterno (v. Soja, 1996), come del simbolo del post-urbano, anticipazione di un futuro degli insediamenti umani in cui la città e la sua centralità diventeranno solo un ricordo. Al di là delle analisi più estreme e degli elogi acritici, certo è che i problemi non mancano. Da una parte, Los Angeles è sull'orlo di processi di secessione e frammentazione in unità amministrative di minori dimensioni; dall'altra, è interessata da crescenti tensioni, da cui è scaturita, nel 1992, una delle più violente rivolte urbane della storia del Novecento. Nell'apparente indifferenza dei luoghi passano infatti potenti linee di separazione etnica e sociale. È una città divisa in due: la scintillante metropoli d'importanza mondiale e la "capitale del Terzo Mondo" (v. Rieff, 1991), della povertà crescente e dei senza tetto. Gli interessi contrapposti e la crescente polarizzazione rafforzano la formazione di nuclei di comuni autonomi. I comuni più ricchi, i nuovi insediamenti, cintati e protetti da polizie private, cercano un'indipendenza finanziaria dalla città e una completa autonomia amministrativa (v. Davis, 1998).
Il caso di Los Angeles non è isolato: negli Stati Uniti si è parlato negli anni novanta della necessità di una ridefinizione delle metropoli, della nascita di "città esterne", di "megalopoli liberate dalle catene" che cominciano a delinearsi, alludendo appunto a questi potenti processi di decomposizione dei grandi centri urbani e di dispersione dell'abitato, e alla ricomposizione di nuove configurazioni spaziali, legate a centralità unicamente virtuali (v. Fishman, 1995). In Europa si è invece messo l'accento su una più generica 'metropolizzazione', individuando con questo termine processi e dinamiche di urbanizzazione massiccia del territorio legati alla globalizzazione e non necessariamente alla scala megalopolitana (v. Lacour e Puissant, 1995).
Un ultimo punto di crisi dell'idea di Gottmann che è andato emergendo con forza negli anni ottanta è il nesso tra grandi dimensioni urbane, industrializzazione e sviluppo. Si è constatato che, considerato da un punto di vista meramente morfologico - e svuotato perciò del contenuto economico e sociale che originariamente gli era stato attribuito - il modello megalopolitano si è affermato massicciamente, ma nei paesi meno sviluppati. Si è parlato di megalopoli terzomondiali per indicare, almeno dal punto di vista della fenomenologia demografica e territoriale, una crescita senza precedenti. Così si è utilizzato il vecchio termine come mero contenitore di realtà sotto molti aspetti del tutto nuove e inesplorate (v. Bairoch, 1985).
4. Mega-città, città mondiali e città globali
Tra il 1980 e il 2000 il numero degli esseri umani che vivono in città è aumentato di oltre un miliardo. La popolazione urbana è oramai più di metà dell'umanità: il terzo millennio si prospetta quindi come un'epoca di enorme urbanizzazione e di gigantesche agglomerazioni.
Delle 'metropoli' di inizio Novecento solo quattro avevano più di un milione di abitanti: Londra, Parigi, Berlino e New York; oggi nel mondo 372 aree metropolitane contano oltre un milione di persone e 45 più di 5 milioni. Più di quanto non dicano da soli questi dati impressionanti, una urbanizzazione su questa scala costituisce non solo un fenomeno complesso e di difficile valutazione, ma la manifestazione di potenti forze che stanno ridisegnando il volto del pianeta. I grandi e grandissimi centri che si stanno sviluppando, chiamati mega-città quando superano i 5 milioni di abitanti, costituiscono un elemento sempre più decisivo nell'organizzazione spaziale e nell'evoluzione sociale complessiva, e al tempo stesso rimangono delle realtà in gran parte enigmatiche. Negli anni in cui fu concepita l'idea di megalopoli c'erano al mondo solo due città con più di 10 milioni di abitanti. Oggi ben una quindicina hanno superato questa soglia, e nemmeno una è in Europa, solo due sono negli Stati Uniti, mentre tutte le altre sono in Asia e in America Latina (v. tab. I). Le più grandi di queste super-giganti, tra i 20 e i 25 milioni di abitanti, rappresentano una nuova dimensione dell'urbano e al tempo stesso una potenziale minaccia, considerati gli enormi problemi ambientali, amministrativi e sociali che la loro esistenza implica. La conferenza Habitat II, tenutasi a Istanbul nel 1996, ha diagnosticato in termini piuttosto allarmati "un mondo che si urbanizza" (v. UN, 1997). Ma anche se il grado di urbanizzazione continua a crescere tanto in Europa quanto negli Stati Uniti e in Giappone, nelle grandi città del Nord l'incremento del numero degli abitanti è sempre più rallentato o soggetto a un'espansione regionale selettiva (v. Guglielmo, 1996). Nel Terzo Mondo, invece, fino al 1950 c'erano solo tre città con più di quattro milioni di abitanti, nel 1985 erano salite a 28, e alle soglie del 2000 se ne contavano una quarantina (v. Husa e altri, 1997). In questo completo rovesciamento delle prospettive che avevano aperto il secolo si valuta che nel 2025 i quattro quinti delle più grandi agglomerazioni mondiali dovrebbero essere collocati nel Terzo Mondo. Perfino nell'Africa subsahariana, in una zona del pianeta finora scarsamente urbanizzata, ci si aspetta per il 2010 lo sviluppo di città giganti da 10 milioni di abitanti (v. UN, 2002).
Gottmann non poteva immaginare che alcune sue intuizioni avrebbero trovato significative conferme in parti del mondo lontanissime da quella costa orientale degli Stati Uniti in cui avevano originariamente preso forma e soprattutto che avrebbero sovente assunto aspetti molto meno rassicuranti dell'ottimistica prospettiva 'prometeica' nella quale erano state concepite. Quando pubblicò il suo studio, egli aveva sì percepito che la megalopoli poteva essere l'incubatrice di un nuovo ciclo dell'urbanizzazione e di una nuova forma urbana, che un passo decisivo era stato compiuto sulla via del 'farsi città' dell'umanità, ma era rimasto vincolato all'idea che uno sviluppo di questo genere dovesse essere comunque connesso a benessere e crescita economica. La diffusione del modello di megalopoli avrebbe dovuto in questa ottica equivalere all'esportazione di una "filosofia dell'abbondanza" (v. Gottmann, 1961). Tra le diverse regioni urbane oggi in rapida espansione, i ritmi più impressionanti sono quelli delle città del Terzo Mondo, la cui esplosione non è certo riconducibile prioritariamente a fenomeni di industrializzazione o di sviluppo economico. La teoria tradizionale ha difficoltà a comprendere quanto sta avvenendo, dato che gli eventi degli ultimi decenni hanno messo in crisi il paradigma - condiviso non solo da Gottmann, ma da tutta la teoria della modernizzazione - che legava a doppio filo sviluppo urbano e industrializzazione, grandi centri e progresso. È perlomeno dubbio che si stia assistendo nei paesi del Sud del mondo a una replica della rivoluzione urbana conosciuta dai paesi del Nord tra Ottocento e Novecento. Lo stesso concetto di sviluppo viene sottoposto a una severa critica (v. Polèse e Wolfe, 1995).
L'analisi urbana più recente è inoltre concorde nel sostenere che un approccio unicamente demografico, o comunque basato sulle singole realtà nazionali, non sia più quello che può dare conto delle trasformazioni metropolitane nel loro complesso. Pare infatti profilarsi una dinamica dello sviluppo urbano ancora in parte sconosciuta, in stretta connessione con le modificazioni dell'economia mondiale degli ultimi decenni e con il tramonto delle vecchie centralità. Nell'interpretazione tradizionale, le città, le metropoli e le megalopoli assumevano un profilo e un carattere specifico principalmente come risultati di processi economici e sociali che operavano all'interno dei confini nazionali. La globalizzazione della produzione, l'enorme ampliamento e internazionalizzazione dei mercati finanziari, nonché la rivoluzione intervenuta nelle tecnologie delle comunicazioni e dei trasporti, disegnano invece una nuova geografia del capitalismo, in cui vengono superate consolidate gerarchie locali e regionali, mentre si tessono nuove reti di potere e di relazioni a livello planetario, che pongono problemi inediti sotto il profilo politico e sociale (v. Perulli, 2000). Si può avanzare perciò l'ipotesi di un cambiamento di natura dell'urbano, di un mutamento profondo del senso delle città, abbozzando un quadro in cui le mega-città giocano un ruolo sempre più importante in quanto punti di cristallizzazione di una rete globale. In un intreccio strettissimo la società e l'economia del pianeta appaiono sempre più legate al crescente numero di mega-città, che vengono a loro volta plasmate da dinamiche globali oltre che da forze locali. Nel loro specifico territorio nazionale esse concentrano infatti le funzioni di direzione, produzione e gestione, il controllo dei mezzi di comunicazione, la capacità di riproduzione e di creazione-diffusione dei messaggi dominanti, la propagazione delle culture che si impongono a livello planetario (v. Castells, 1996).
In questo orizzonte complessivo va comunque tenuta presente anche tutta una fenomenologia di altri fattori: per la formazione delle mega-città del Sud hanno avuto un ruolo determinante in una prima fase le migrazioni interne dalle campagne verso le città, poi la crescita endogena, dovuta al permanere di strategie riproduttive tipiche del mondo rurale anche dopo l'inurbamento. Le grandi città del Terzo Mondo sono cresciute a dismisura anche per effetto di vicende politiche, di guerre, di migrazioni forzate. L'aumento della popolazione si è inoltre realizzato in tempi estremamente serrati, rendendo pressoché impossibile la creazione di posti di lavoro per tutti (v. Oberai, 1993). La combinazione dei due fattori, crescita endogena e flussi migratori, ha prodotto una situazione del mercato del lavoro caratterizzata da disoccupazione di massa e sottoccupazione endemica. Prosperano economie informali e marginali, mentre i livelli di industrializzazione si mantengono deboli. L'abitato è caratterizzato da un nucleo edificato di tipo tradizionale circondato da un oceano di dimore precarie, autocostruite, prive dei servizi essenziali (v. Guidicini e Scidà, 1986). La grande dimensione e l'elevata concentrazione di esseri umani si separa in molti casi dall'idea di potenza economica: alcune di queste mega-città sono 'solo' grandi, e la rapidità della crescita mette a dura prova la capacità delle pubbliche amministrazioni di fornire infrastrutture adeguate. Se anche questi centri hanno un ruolo nell'organizzare e nell'orientare i flussi finanziari mondiali, la ricaduta delle ricchezze sulla grande maggioranza degli abitanti è ridottissima. La povertà urbana è in continuo aumento e le disuguaglianze all'interno delle città sono esacerbate dalle crescenti differenze quanto a reddito, opportunità di impiego e mobilità sociale. Recenti ricerche segnalano inoltre che l'effetto delle crisi economiche sulla povertà urbana del Terzo Mondo è di lunga durata, dato che una volta introdotti fattori di instabilità, la ripresa è lentissima, anche quando le performances macroeconomiche appaiono positive (v. Cohen, 2001). Il paradosso è che al di là delle difficilissime condizioni di vita che esse offrono e della loro ingovernabilità, in realtà solo le città giganti sono capaci di offrire i servizi tecnici, giuridici, commerciali di cui il sistema economico mondiale ha bisogno. Inoltre, con tutti i limiti e le manchevolezze già segnalate, nei paesi del Terzo Mondo le grandi città sono i soli luoghi in cui tutti i ceti della popolazione possono teoricamente beneficiare dei servizi: scuola, sanità, trasporti.
L'altra faccia della medaglia della crescita grande-metropolitana contemporanea è rappresentata da alcune città che fanno segnare un'evoluzione in direzione completamente diversa. Sono tra le prime al mondo non solo per popolazione, ma anche per reddito pro capite e prodotto lordo, un numero ristretto di mega-città che divengono i punti nodali delle nuove reti del potere economico e finanziario. Si tratta delle cosiddette world cities, le 'città mondiali'. Se ne è cominciato a parlare in Europa già intorno alla fine dell'Ottocento, quando si è intravisto, in modo ancora molto embrionale, un particolare ruolo giocato da alcune città nell'economia internazionale. Città mondiale ante litteram è la Grande Londra della tarda età vittoriana, che concentra le filiali di imprese che operano in tutto il mondo, che organizza e coordina spostamenti di merci che provengono dalle parti più disparate dell'Impero britannico (v. King, 1990). Il termine è stato però coniato da Patrick Geddes (v., 1915) per indicare quelle località in cui si concentrava una quantità sproporzionata di ricchezze e di affari mondiali, e ha poi trovato una sua piena formulazione, una maggiore precisazione e una 'nobilitazione' dal punto di vista storico nell'opera di Fernand Braudel (v., 1977), che investigando le radici del capitalismo moderno ha mostrato come Anversa, Venezia e Amsterdam rappresentino, a partire dal XVI secolo, il cuore di altrettante 'economie-mondo' che si susseguono nella storia, i punti focali attorno a cui ruotano sistemi di scambi, i luoghi in cui vengono strutturati e organizzati i traffici, i retroterra logistici di intere civiltà.
Ma il lavoro che inaugura la ricerca contemporanea è quello di Peter Hall (v., 1966), che per primo ha richiamato l'attenzione degli studiosi sul ruolo che alcune grandi città rivestono a livello planetario, come espressione di agenzie e di istituzioni internazionali, come luoghi privilegiati in cui si organizza la circolazione delle merci e se ne definiscono i prezzi, in cui viene creato un determinato tipo di valori e di orientamenti politici e culturali. La sua analisi è stata il punto di partenza per la nascita di un ambito di studi che ha cercato di cogliere nel corso degli anni ottanta i mutamenti delle relazioni tra Stati nazionali e grandi città e i rapporti gerarchici che tra esse si instaurano su scala globale. È questo un approccio che ha acquistato sempre maggiore influenza, nel contesto più generale di quell'insieme di fenomeni che hanno fatto parlare di un 'nuovo spirito del capitalismo': il passaggio da un'economia industriale a un'economa di servizi, l'indebolirsi del potere degli Stati-nazione, la nascita di una nuova divisione internazionale del lavoro (v. Boltanski e Chiapello, 1999). Si è postulato lo sviluppo di un nuovo tipo di grande città, che svolge una funzione specifica nell'economia mondiale più complessa di quelle su cui si era soffermato il pionieristico studio di Hall. L'accelerazione dei processi di globalizzazione ha mutato radicalmente le condizioni in cui si svolge l'attività economica. L'intero sistema degli scambi, un tempo saldamente controllato dagli Stati nazionali, viene soppiantato da una nuova realtà e lo spazio mondiale si trasforma in un unico spazio di relazione, in cui l'elemento locale gioca un ruolo fondamentale. Le città mondiali forniscono proprio l'indispensabile collegamento tra dimensione globale e locale.
Oggi il commercio internazionale tradizionale, da cui un tempo dipendevano principalmente la circolazione di materie prime e prodotti lavorati, viene eclissato dalla circolazione di flussi di capitali, beni e informazioni che hanno luogo tra compagnie multinazionali (v. Castells, 1996). In questo senso si è sostenuto - anche se questa concezione è molto discussa - che le città mondiali sono "particolari luoghi di produzione postindustriale" (v. Sassen, 1991), che hanno saputo rinnovarsi completamente in termini di servizi e di finanza per adattarsi alle grandi trasformazioni intervenute. A grandi linee si può dire che esse sono caratterizzate sia da indicatori di tipo demografico - estrema densità e diversità della popolazione - sia di tipo economico - intenso commercio estero, potere esercitato attraverso sedi centrali di imprese multinazionali, presenza di borse, di mercati internazionali e di investimenti transnazionali (v. Friedmann, 1986). Sono comunque riconoscibili per la posizione privilegiata che occupano, che non è più attribuibile a quel che producono, ma ai servizi che offrono e al fatto che in esse vengono prese decisioni che riguardano importanti operazioni internazionali. Di questo gruppo di mega-città, non necessariamente le più grandi per popolazione, fanno parte quelle che hanno le maggiori capacità in termini di innovazione e di disponibilità di capitali, economici e culturali. L'aspetto forse più interessante dell'ipotesi delle città mondiali non consiste comunque nelle caratteristiche specifiche delle città di per se stesse, ma nelle conseguenze che derivano dal fatto che tali città sono a tal punto integrate nel sistema-mondo da esercitare su di esso un vero e proprio dominio. Nelle città mondiali vengono infatti consapevolmente accentrate funzioni di produzione di sapere e di controllo indispensabili per l'economia attuale, di cui vengono gelosamente gestiti gli aspetti finanziari. A partire da queste considerazioni si è tentato di definire una gerarchia delle città mondiali, ma con esiti dubbi, non perché non sia evidente che alcune mega-città sono più importanti di altre, ma per la difficoltà di definire criteri oggettivi che ne stabiliscano il primato. Se ne è comunque tracciata una tassonomia che le ordina per specializzazione e importanza (v. Knox e Taylor, 1995).
Negli anni novanta si è poi progressivamente affermato il concetto di città globale, che accentua e conduce alle estreme conseguenze alcuni aspetti del filone di ricerca delle città mondiali. L'idea è che nello spazio transnazionale dell'economia globalizzata si formi una rete di città in cui vengono organizzate e controllate le operazioni decisive per il funzionamento del sistema. Le città offrono servizi che vanno dall'aspetto finanziario a quello tecnico-pratico di supporto alle transazioni. Funzioni di controllo e management finiscono per concentrarsi in pochissime città che fungono da punti di raccordo essenziale. Si tratta delle global cities, le 'città globali', i luoghi in cui viene materialmente realizzata la globalizzazione. Una volta che hanno concentrato in sé attività finanziarie e servizi, queste città assumono un'importanza strategica del tutto nuova, dominando la gerarchia internazionale. La loro esistenza e la loro potenza implicano quindi il ritorno a forme di quella centralità che sembrava universalmente in crisi. Esse funzionano come cuore di un capitalismo in apparenza senza più cuore. La crisi urbana, finanziaria ed economica, cui fanno seguito i processi di spopolamento e suburbanizzazione precedentemente descritti, colpirebbe solo le città che non riescono a inserirsi in questa nuova rete transnazionale (v. Sassen, 1991). È una prospettiva secondo la quale le città divengono 'nodi geografici' di primaria importanza di un capitalismo sempre più basato sulla circolazione e sul governo di flussi di informazioni (v. Castells, 1996). Mentre l'economia mondiale si finanziarizza, divenendo dato immateriale, gioco economico apparentemente svincolato dalla produzione, si profila un nuovo ruolo proprio per le città che concentrano in sé i luoghi in cui risiedono le istituzioni che guidano l'economia stessa, per i centri ove sorgono le sedi delle grandi imprese e delle più importanti banche. In particolare, alcune città globali appaiono sempre più autonome non solo rispetto al loro retroterra produttivo, come si è andato storicamente configurando, ma anche nei confronti delle regioni e delle stesse nazioni in cui sono situate. Queste città verrebbero sostanzialmente ad assumere decisive funzioni di management finanziario, di orientamento del commercio internazionale. Ai vertici della gerarchia ci sono New York, Tokyo, Londra, ma anche altre città mondiali come San Paolo, Los Angeles, Montreal, Sydney e Miami si starebbero trasformando in "spazi di mercato transnazionali", in cui vengono operate le scelte determinanti per l'economia mondiale (v. Sassen, 1994). Non che non esistano più città che fanno capo a strutture economiche di tipo tradizionale, come città-guida di economie nazionali, ma appare sempre più convincente l'ipotesi che alcune delle grandi città possano essere meglio comprese se considerate sotto il profilo dei loro legami transnazionali, inquadrandole in una rete di portata planetaria. D'altro canto, le vicende di rapida ascesa o declino di alcuni centri rimangono altrimenti incomprensibili, se lette nelle chiavi esplicative proposte dalla tradizione. È certo che le disuguaglianze tra le città si accentuano e che sistemi di città un tempo equilibrati tendono a disgregarsi.
Questo tipo di analisi si sofferma anche sugli effetti urbani della globalizzazione dei servizi e sui processi di omogeneizzazione planetaria delle culture, mettendo in luce al contempo la cancellazione di un universo di differenze e le conseguenze economiche e sociali del diffondersi dei nuovi media comunicativi (v. Canclini, 1999). Proprio in questa prospettiva è stata sostenuta la tesi che la combinazione della dispersione spaziale delle attività economiche e della loro integrazione in un sistema ha contribuito ad attribuire un ruolo strategico alle grandi città, assegnando loro una centralità di tipo nuovo e generando così "nuove forme di concentrazione" (v. Sassen, 1994). Si è parlato addirittura di città che tendono a sfuggire al controllo degli Stati nazionali, dell'emergere di capitali planetarie ferocemente egoiste che prefigurerebbero una nuova epoca del capitalismo, contraddistinta dalla concorrenza tra città-Stato indipendenti (v. Keil, 1998). Le città globali sono state esplorate come luoghi non solo della concentrazione di nuovi poteri direzionali, economici e finanziari, ma anche come centri in cui nascono nuove disuguaglianze e al cui interno si disegnano nuove linee di conflitto. Esse sono infatti socialmente molto differenziate e divise. Se si mostrano apparentemente come unità, se sembrano inseguire un modello di integrazione totale, di 'città corporata' alla Singapore, conoscono però al tempo stesso profonde divisioni che le attraversano. Si è insistito sulla formazione in esse di nuove élites, legate alle professioni di importanza centrale per il nuovo assetto della produzione (esperti finanziari, informatici, designer e creatori di moda), alle quali si contrappone una massa di lavoratori temporanei, irregolari e immigrati (v. Sassen, 1991). Di tale fenomeno ha cercato di dare conto la teoria delle divided cities, delle città duali (v. Fainstein e altri, 1992), che ha tracciato la mappa della crescente divisione sociale nelle capitali planetarie. Si è parlato di separazione e di polarizzazione sociale per indicare una trasformazione della struttura sociale delle grandi metropoli occidentali dovuta alla modificazione della struttura economica, alla deregolamentazione dell'economia, all'abbattimento del Welfare State e ai flussi migratori. Le capitali planetarie fungono infatti da catalizzatrici non solo di flussi comunicativi, finanziari e commerciali, ma anche di correnti migratorie. Avviene una profonda trasformazione interna nella composizione delle società cittadine, che procede di pari passo con l'inasprimento dei processi di differenziazione sociale e spaziale all'interno delle città. Al tempo stesso si riducono fino quasi a scomparire gli sforzi in direzione di una maggiore uguaglianza sociale. Città come New York vedono il dilagare del lavoro nero e l'economia informale superare come fatturato l'economia normale (v. Häussermann e Siebel, 1993). Immigrazione, terziarizzazione e industria dei servizi sono un fattore essenziale di uno sviluppo basato su salari ridottissimi. Si diffondono fenomeni di pauperizzazione, entrano in crisi i servizi pubblici, si verifica un peggioramento generalizzato delle condizioni abitative (v. Guglielmo, 1996). Essere ai vertici della gerarchia mondiale non significa necessariamente garantire un migliore standard di vita a tutti i cittadini. Nello stesso tempo, sotto il profilo dell'organizzazione territoriale di questi grandi centri si assiste all'operare di una contraddittoria dialettica di centralizzazione-decentralizzazione, per cui le città globali da una parte continuano a fungere da polo di attrazione per i migranti a livello internazionale, dall'altra sono soggette a potenti spinte verso la suburbanizzazione, spinte che creano una serie di centri satellite gravitanti attorno a esse (v. Castells, 1996).
Quello che viene da chiedersi è se si possa veramente discutere oggi delle città globali come di un fenomeno nuovo, se esse rappresentino o meno il momento di passaggio a un capitalismo diverso, dominato, come si sono spinti ad affermare alcuni studiosi, da un "arcipelago di isole del benessere" (v. Wilheim, 1996). Isole, cioè, in cui si concentrerebbe il potere economico, finanziario e decisionale, circondate da oceani di povertà e marginalità. Questa spiegazione, sia pure interessante, sembra però avere validità limitata. È stato sottolineato che forse l'enfasi eccessiva messa su Tokyo, New York e Londra ha fatto passare in secondo piano il fatto che in parti del mondo altamente urbanizzate questi mega-poli abbiano un'importanza limitata nel paesaggio urbano (v. Bagnasco e Le Galès, 2000). Altri studiosi affermano che è difficile immaginare che una 'lega di città' dotate di strutture sociali e di caratteristiche analoghe possa elevarsi al di sopra degli Stati nazionali, così come è difficile pensare che questi grandissimi centri possano rendersi completamente autonomi rispetto al loro retroterra (v. Häussermann, 1998).
La situazione attuale costituisce un completo novum, come aveva intuito Gottmann, anche se nella forma di un 'nuovo disordine', più che un nuovo ordine, e i sostenitori dell'ipotesi delle città globali hanno forse eccessivamente accentuato alcuni aspetti particolari, in parte transitori. Essi hanno colto i segni di una crisi generale, il risultato del dissolversi dell'ordine economico precedente, ma non sono ancora riusciti a costruire nel complesso un nuovo quadro di riferimento del tutto convincente. Nonostante le dimensioni assunte, la fase che attraversano oggi le città potrebbe in fondo non delineare per esse un ruolo particolarmente distinto da quello che hanno già rivestito in altre epoche del capitalismo, e le grandi trasformazioni che le investono dovrebbero allora trovare più consueti e 'tradizionali' strumenti di interpretazione e di lettura.
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