Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel cinema europeo il riferimento ai due grandi generi letterari e teatrali è forte. Prende la forma dell’adattamento, della messa in scena nel film-opera o nella farsa, ma diventa squisitamente cinematografico in almeno due situazioni: quella della commedia all’italiana, che nell’opera di Dino Risi, Monicelli e molti altri elabora sue proprie invenzioni, scenari, stilemi. L’altra grande elaborazione cinematograficamente originale, cioè davvero non traducibile in alcun altro mezzo d’espressione è quella dell’intera opera di Visconti: il melodramma come matrice, la storia come motore, il cinema come grande arte popolare.
Il cinema europeo deve molto alla storia del teatro e dello spettacolo. Pure in contesti non paragonabili, i maggiori generi di riferimento, quali la commedia e il melodramma, compaiono in ciascuna cinematografia, sia pure con connotazioni diverse. In entrambi i casi, tuttavia, è il testo a costituire il centro gravitazionale del film, sia quando deriva da una precisa fonte letteraria, sia nei casi in cui semplicemente allude a un codice di saperi condivisi dal pubblico (l’amore brillante, contrastato e trionfante della commedia; l’amore straziato e funesto del melodramma). Melodrammi sono da considerarsi film come Assunta Spina (1915) di Gustavo Serena , Lulù (1929) di Georg W. Pabst , L’angelo del male (1938) di Jean Renoir , Noi vivi – Addio, Kira (1942) di Goffredo Alessandrini , o Breve incontro (1945) di David Lean , solo per dare un’idea dell’estensione geografica del fenomeno. Tra le commedie, potremmo certamente ricordare la stagione dei cosiddetti telefoni bianchi (vedi voce "Caratteri del cinema classico") in Italia o quella delle commedie europee di Lubitsch.
Particolare importanza, in quest’ottica, assume il caso italiano. La nostra cinematografia, che per larga parte della storia è stata penalizzata dai suoi stessi spettatori a causa di un presunto provincialismo presente nelle opere, ha assunto come centrali i due poli del farsesco e del melodrammatico. Nel primo caso, dalle comiche di Cretinetti (André Deed, 1879-1940) alle vacanze di Natale passando per l’influenza del varietà, sembra innegabile che vi sia, nella nostra cultura, una predilezione per il comico e per la destrutturazione del simbolico. Il periodo più importante della commedia in Italia è certamente quello che va dalla metà degli anni Cinquanta fino a tutti gli anni Settanta. "Commedia all’italiana" si è chiamata questa variante del macro-genere, identificata dalla presenza non più occultata della morte e dell’infelicità, e frutto dell’impasto unico tra satira dei costumi, critica alla modernità e schietta comicità d’attori. La commedia all’italiana è la risultante di un gruppo di cineasti come Dino Risi, Mario Monicelli, Ettore Scola, Luigi Comencini, di sceneggiatori come Suso Cecchi D’Amico, Age (Agenore Incrocci, 1919-2005) e Scarpelli , Rodolfo Sonego, Ruggero Maccari Sergio Amidei e attori (Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi), in continuo contatto reciproco. Lo spirito di squadra e la circolazione incessante di idee, battute, soggetti, figure hanno fatto sì che all’interno di questo genere i concetti di "autore", "poetica" o "sceneggiatura" nel senso tradizionale del termine vengano sostituiti da una pratica aperta e mai definitiva dell’opera e delle sue componenti. La commedia all’italiana è stato forse l’esperimento più importante di commedia europea, consapevole e responsabile, durante il dopoguerra. Inutile cercare di creare un ordine gerarchico tra opere del valore di Un americano a Roma (1954) di Steno (Stefano Vanzina, 1917-1988), I soliti ignoti (1958) e La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini, I mostri (1961) e Il sorpasso (1962) di Dino Risi, C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola.
In epoca più recente, il modello della commedia all’italiana è servito – e non poco – anche alla commedia impegnata inglese. Opere come Riff Raff (Meglio perderli che trovarli) (1991) di Ken Loach, Grazie, signora Thatcher (1996) di Mark Herman o Full Monty (1997) di Peter Cattaneo sembrano conoscere bene la ricetta italiana, riuscendo a ridere amaro dei problemi dei disoccupati e delle tragicomiche vicende della classe proletaria.
D’altra parte, in una nazione dove ancora ai giorni nostri il ruolo del sacro e della fede gioca una parte fondamentale nella vita politica e sociale della nazione, esiste anche un tipo di discorso giocato sui toni delle passioni e dei sentimenti lirici: è il caso del melodramma, che sfrutta la lunga tradizione teatrale italiana e si ripresenta al cinema in altre vesti. Si sa che in Italia la tradizione tragica e quella gotica sono poco rappresentate, se non del tutto assenti. L’immaginazione melodrammatica, per usare una felice formula di Peter Brooks, è invece preponderante. Nel cinema italiano, il melodramma strettamente inteso è rappresentato senza dubbio dal film-opera, genere molto frequentato almeno in un certo periodo del dopoguerra, anche se operativo dai primi anni del muto sino alla fine degli anni Cinquanta. Opere come Casta diva, nelle sue due versioni del 1935 e del 1954, Tosca (1956) di Carmine Gallone , Lucia di Lammermoor (1946) di Piero Ballerini o Aida (1953), solo per citare le più note, ottengono grandi riscontri di pubblico.
Nell’alveo del melodramma, tuttavia, si pone anche il lavoro, ben più nobile dal punto di vista dei risultati cinematografici, di Luchino Visconti. Il cineasta italiano, di estrazione alto borghese e di cultura assai raffinata, anticipa, come noto, il movimento neorealista grazie a un’opera come Ossessione (1943), storia di un adulterio che finisce nel sangue, tratta dal romanzo nero di James Cain e punto d’incontro essenziale tra narrativa di genere e rinnovamento dello sguardo filmico. La matrice melodrammatica dell’opera di Visconti, sia pure celata dal contesto neorealista, emerge anche nei film più rigorosi, come La terra trema (1947), liberamente ispirato a I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga, e Bellissima (1951) con Anna Magnani. È però con Senso (1954) che il regista italiano fonde la propria formazione lirica e poetica con il melodramma cinematografico. La storia è tratta dal racconto omonimo di Camillo Boito e narra dell’amore fatale tra Livia Serpieri, interpretata da Alida Valli, e il tenente austriaco Mahler, sullo sfondo dell’occupazione austriaca del 1886. Il film si apre con una sequenza celebre, ambientata alla Fenice di Venezia, dove si rappresenta Il Trovatore . È qui, infatti, che i fischi di Mahler – un insulto agli italiani – scatenano l’ira del conte Ussoni, patriota, e l’inspiegabile, sventurata passione di Livia. Senso è il manifesto della poetica viscontiana: il melodramma come matrice, la storia come motore umano, il cinema come arte popolare. Guido Aristarco (1918-1996), critico militante e sostenitore del neorealismo, battezza il film come il passaggio al realismo, inteso come interpretazione critica della realtà. E tuttavia, Senso è anche l’opera della magnificenza spettacolare più nobile, dalle citazioni pittoriche a quelle musicali e letterarie.
Il melodramma nel cinema di Visconti è una specie di forma mentale o di focale narrativa attraverso la quale affrontare i temi più disparati, non di rado provenienti dalla cronaca sociale. Rocco e i suoi fratelli (1960), per esempio, può essere di buon grado interpretato come un melodramma: le disavventure della famiglia Parondi, emigrati dal sud Italia fino a Milano, solo all’apparenza costruiscono un racconto di realistico, quotidiano disagio civile. Sono anche, come da più parti intuito, un melodramma in cui a capitolare, a rimanere schiacciata di fronte alla propria appassionata speranza di vita, è la cultura arcaica italiana, che – attraverso il precipizio cui vanno incontro i fratelli protagonisti – viene simbolicamente annientata dalla modernità. Non bisogna dimenticare Le notti bianche (1957), con Marcello Mastroianni e Maria Schell (1926-2005), Il Gattopardo (1963), magnificamente tratto dal romanzo di Tomasi di Lampedusa e apparentato a Senso per numerose simmetrie interne, fino alle pellicole più tarde, La caduta degli dei (1969), Morte a Venezia (1971), trasposizione della novella di Thomas Mann, Ludwig (1973) e Gruppo di famiglia in un interno (1974), che rappresentano altrettante ipotesi di cinema melodrammatico, ormai compromesso con un’idea dell’umanità pessimista e disgregante, dove il segno della morte è dappertutto e l’atmosfera di decadimento conta più di ogni passione.
Il cinema italiano, oltre al film-opera e ai capolavori di Visconti, è stato attraversato dal melodramma anche in altre occasioni. Va citato il melodramma cosiddetto popolare di Raffaello Matarazzo, per esempio, che grazie a film come Catene (1949) o Tormento (1950) ha sintetizzato il meglio della letteratura d’appendice e, senza ricorrere alla musica in scena, ha girato perfetti "mélo" d’epoca. Più degradato, anche il filone ultrapopolare del film musicale giovanilistico, della romanza napoletana di Mario Merola e Nino D’Angelo (1957-) obbedisce agli stessi stimoli, svilendoli fino alla consunzione.
In epoca successiva, il cinema europeo si è avvicinato al melodramma attraverso una rilettura critica del modello lirico e di quello più noto, hollywoodiano. Prima le Nouvelles vagues, ad esempio Rainer Werner Fassbinder con La paura mangia l’anima, 1974, remake molto libero di Secondo amore di Douglas Sirk o François Truffaut con Adele H. – Una storia d’amore (1975), poi più recentemente Lars von Trier con Le onde del destino (1995), Pedro Almodóvar con Tutto su mia madre (1999), Leos Carax con Gli amanti del Pont-Neuf (1991) e altri stimati registi ne impostano una interpretazione in chiave astratta che non rinuncia tuttavia alla dimensione "larmoyante". Infatti, i film di questi autori ottengono un grande successo di pubblico, oltre che di critica, e in qualche modo – come faceva Visconti – riescono a nobilitare la materia melodrammatica che ancora oggi, a torto, viene considerata disdicevole.