Vedi Messico dell'anno: 2013 - 2014 - 2014 - 2015 - 2016
La collocazione a cavallo tra l’area anglosassone e quella latina dell’emisfero americano rende il Messico il punto nevralgico dei rapporti tra le due Americhe: a volte nel ruolo di ponte e in altri casi di spartiacque. Da un lato, i vincoli politici ed economici (per esempio la comune lotta al narcotraffico o il Nafta) che lo legano a Usa e Canada; dall’altro lato, la storia e la forte identità latina. Tutto ciò rende il Messico un paese in costante trasformazione sia nei rapporti con il mondo esterno, sia negli equilibri interni americani. Anche per questa sua peculiarità, il Messico rimane un punto di riferimento per buona parte dell’America Latina. Un’influenza che in passato è stata più volte in grado di irradiarsi in buona parte della regione, ora sul piano culturale, ora su quello politico o ideologico, soprattutto finché il partito-regime del Pri, il Partido Revolucionario Institucional (Partito rivoluzionario istituzionale), si è dimostrato capace di mantenere la mobilitazione nazionalista della Rivoluzione del 1911 e di agire come custode della sovranità nazionale e latinoamericana. Tale influenza è andata scemando nel corso del secolo scorso in concomitanza all’accentuarsi di tre fattori: la ‘normalizzazione’ del Messico; gli effetti della globalizzazione e l’integrazione con gli Usa. Nel primo caso, quando la tradizione rivoluzionaria è andata affievolendosi il regime ha intrapreso un processo di convergenza verso la democrazia rappresentativa. Congiuntamente al primo, gli eff etti della globalizzazione hanno accelerato l’instaurarsi di nuovi processi di integrazione regionale, dai quali il Messico è rimasto in passato spesso ai margini. Infine, l’insieme di tali processi ha sancito una profonda integrazione e interdipendenza del Messico con gli Usa.
Washington rimane il principale partner politico-economico di Città del Messico. Infatti, le relazioni bilaterali rimangono fortemente condizionate dai problemi sull’immigrazione clandestina e sul narcotraffico. Il rapporto con gli Stati Uniti influenza inevitabilmente anche la direttrice principale di politica estera. Così mentre nella regione si è moltiplicato il numero ed è cresciuta la forza delle organizzazioni sudamericane, perlopiù sorte su impulso brasiliano, la geopolitica messicana si è legata più strettamente a quella nordamericana e, in particolare, a quella statunitense. In tale contesto, tanto il golpe e la crisi costituzionale honduregna del 2009, dinanzi alla quale il Messico è rimasto pressoché inerte, quanto l’annosa questione dei rapporti tra Cuba e Usa, dei quali il paese era stato un tempo il principale fautore, ma su cui non svolge oggi alcuna forma di protagonismo, sono segnali del suo crescente distacco dal resto dell’America Latina.
Tuttavia con il nuovo esecutivo in carica il Messico mira a modificare la sua strategia di politica estera intensificando i rapporti con i paesi dell’America Latina e dell’Asia e perseguendo un protagonismo diplomatico favorito da una politica estera attiva nei principali forum multilaterali ed incentrata sulla promozione della pace globale, dello sviluppo sostenibile, della tutela dei diritti umani e della lotta ai fenomeni criminali transnazionali (narcotraffico, tratta degli esseri umani, eccetera). Tale attivismo politico ha permesso al paese latino di presiedere i grandi appuntamenti internazionali come la Conferenza Cop 16 di Cancun sui cambiamenti climatici (2010) e il vertice dei capi di stato e di governo del G20 di Los Cabos (2012).
Il Messico è una repubblica federale composta da 31 stati e dal distretto della capitale. Alla base della sua organizzazione politica rimane ancora oggi, benché in parte emendata, la Costituzione del 1917, con la quale culminò la Rivoluzione. Sulla sua eredità si è fondato il regime politico del Pri che ha guidato il paese per l’intero Ventesimo secolo. Nel 2000, con l’elezione a presidente della Repubblica del candidato di opposizione Vicente Fox si può definire quasi concluso il lungo processo di democratizzazione in senso pluralista e rappresentativo della società messicana. Cardine di tale sistema è la figura presidenziale, investita di enormi poteri e con uno status altissimo ma limitata dal divieto di rielezione terminato il mandato sesennale. Oltre al Pri, depositario dell’eredità rivoluzionaria, si affiancano nell’amministrazione dello stato il Partido Acción Nacional (Pan, Partito azione nazionale), in origine partito di ispirazione cattolica e vicino agli industriali e ai ceti medi del nord del paese, e il Partido de la Revolución Democrática (Prd, Partito della rivoluzione democratica), nato nel 1989 da una scissione del Pri e determinato a imporsi, a sinistra, quale unico erede della tradizione sociale e nazionalista della Rivoluzione. Il successo elettorale del 2012 ha permesso al Pri di riconquistare la presidenza del paese dopo il doppio mandato (2000-12) del Pan di Fox, appunto, e di Felipe Calderón. Ciononostante, il Pri non dispone di una maggioranza assoluta e di qui la necessità del voto di sostegno dei parlamentari appartenenti al Pan o al Prd ai diversi progetti di legge in corso di realizzazione. Questo precario equilibrio si è riproposto nella votazione delle riforme previste dall’accordo non vincolante firmato nel dicembre 2012 dal presidente Peña Nieto e dai leader di Pan e di Prd e noto come ‘Pacto por México’. Si tratta di un piano di riforme istituzionali e strutturali in senso liberista riassunte in 95 impegni che riguardano principalmente i settori dell’energia, della formazione, delle telecomunicazioni, del fisco e della sicurezza. Tale accordo trasversale dovrebbe garantire governabilità istituzionale e ultimare una transizione democratica considerata ancora inconclusa. Al momento il piano riformista sta incontrando alcune resistenze parlamentari e dunque si trova in una fase politica di arenamento. Per provare a superare tale impasse e favorire una rapida approvazione delle riforme, il Pri si è posto come obiettivo di raggiungere nelle prossime elezioni di mid-term nel corso del 2015 la maggioranza assoluta nella Camera bassa del parlamento messicano
Paese meticcio per eccellenza, il Messico ha fatto di tale caratteristica un elemento chiave della sua identità. Ciò non toglie, date le sue grandi dimensioni e la sua spiccata eterogeneità, che sotto la patina di omogeneità meticcia la popolazione messicana conservi vaste e diffuse sacche di vera e propria ‘indianità’. Ciò vale in buona misura per le sue propaggini più meridionali come il Chiapas, che rimane per molti aspetti una regione a maggioranza indiana, etnicamente assai più simile al vicino Guatemala che al resto messicana. Questo vale anche per altre aree del paese, dallo stato di Guerrero a quello di Sinaloa.
Il Messico vive al suo interno importanti contrasti etnici, che sono talvolta causa di moti violenti, soprattutto là dove si saldano a una grave emarginazione sociale, come accaduto in Chiapas nel 1994, quando il movimento zapatista si sollevò in armi. Nel complesso, al di là della questione etnica, la società messicana rimane solcata da profonde disuguaglianze sociali e territoriali, nonostante lo sviluppo economico e la significativa riduzione del tasso di povertà avvenuti nell’ultimo decennio. La contrazione della miseria è stata in grande misura effetto della crescita, mentre le politiche distributive sono state assai meno efficaci, benché le misure fiscali adottate assicurino ai governi notevoli risorse. Ciononostante, si sono anche registrati parziali successi, come nel caso dei piani di assistenza condizionata, ossia di aiuto alle famiglie in cambio del loro impegno a garantire la frequenza scolastica dei figli.
Merita, infine, un breve cenno la peculiare storia religiosa messicana. Nel paese la devozione cattolica è particolarmente viva e l’influenza della Chiesa negli affari politici ha avuto un peso storico eccezionale. Al tempo stesso, il Messico è stato scenario di violente reazioni anticlericali, approdate a una rigida separazione costituzionale tra stato e chiesa. Questa separazione ha creato una lunga e solida tradizione di laicità dello stato e ha impedito l’esistenza di rapporti diplomatici con la Santa Sede fino al 1992. Da allora, però, un emendamento costituzionale ha consentito allo stato messicano di normalizzare i rapporti con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose.
Il Messico può essere inserito tra quegli stati che rispettano le libertà politiche e civili, nonostante nei fatti rimanga un paese afflitto da gravi carenze nel rispetto dei diritti umani e civili.
La corruzione rimane una piaga ancora diffusa nella vita economica e nella pubblica amministrazione nazionale. Le proteste sociali sono frequenti e spesso caratterizzate in passato da violenze e repressioni, culminate il alcuni casi con un alto numero di vittime, come avvenuto nel caso della strage di Iguala Ad alimentare queste violenze sono state in passato l’arretratezza socio-economica in cui versano le regioni meridionali rispetto a quelle più sviluppate del centro-nord e la questione indigena, che il Messico meticcio ha teso a lungo a trascurare o a ritenere un mero retaggio del passato.
Tuttavia la maggior causa di violenza è legata alla proliferazione dei potenti cartelli della droga, radicati lungo il confine settentrionale (secondo il dipartimento di Giustizia Usa il giro d’affari derivante dal traffico di stupefacenti è quantificabile in oltre 23 miliardi di dollari l’anno). Un fenomeno esploso in tutta la sua veemenza nell’ultimo decennio ma che ha trovato una svolta nel 2006 quando l’allora presidente Calderón decise di affrontare i cartelli del narcotraffico attraverso la militarizzazione del territorio. Da allora gli omicidi negli stati settentrionali sono cresciuti a ritmi esponenziali, ora ai danni degli stessi narcotrafficanti in lotta tra loro, ora a quelli della popolazione civile inerme. Non sono mancate le vittime di abusi da parte delle forze di sicurezza. In più, un crescente numero di giornalisti e di politici locali attivamente impegnati contro la criminalità organizzata ha pagato con la vita questo impegno. Secondo l’Encuesta Nacional de Victimización y Percepción Sobre Seguridad Pública (Envipe) – sondaggio nazionale sulle vittime e sulla percezione della pubblica sicurezza redatto dall’Instituto Nacional de Estadística y Geografía (Inegi) – nel 2012 si sono registrati quasi 26.000 omicidi, circa 4000 sparizioni e oltre 105.000 rapimenti. Su questi crimini, il potere giudiziario non s’è ancora mostrato efficace.
Infine, direttamente collegato al problema del narcotraffico è anche quello delle armi e della loro libera circolazione sul territorio, a seguito della questione dei vigilantes. Questi sono gruppi di autodifesa regolarizzati che l’esercito ha provveduto a registrare concedendo loro le armi per combattere i cartelli nelle zone maggiormente coinvolte. Il rischio, però, è che un patto del genere senza l’adeguato controllo delle autorità porti a una libera circolazione delle armi permettendo la formazione di cellule paramilitari autonome difficilmente gestibili dallo stato.
L’economia messicana, la tredicesima al mondo in termini assoluti, ha subito nell’ultimo quarto di secolo profonde trasformazioni: ha accantonato il modello dirigista e protezionista creato a difesa dell’industrializzazione e del mercato interno, per abbracciare il libero mercato internazionale. Il momento chiave è legato alla stipula di 43 trattati di libero commercio, come il Nafta e l’Alleanza del Pacifico. Il Messico vanta, inoltre, trattati di libero scambio con l’Eu e prende parte ai negoziati del Trans Pacific Partnership (Tpp), la zona di libero scambio che coinvolge 12 paesi della regione del Pacifico (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti, Vietnam e, appunto, Messico). Grazie a questi accordi con partner di tutto il mondo e alla sua apertura costante al commercio internazionale e agli investimenti diretti esteri (39 miliardi di dollari attratti solo nel 2013), lo stato messicano ha potuto ridurre drasticamente la propria presenza nella sfera economica. Fa eccezione il settore petrolifero che, nonostante le volontà di privatizzazione parziale del comparto dell’attuale governo, rimane espressione del nazionalismo dell’era rivoluzionaria e che rimane una quota rilevante del prodotto nazionale, portando comunque valuta pregiata nelle casse pubbliche. Come il resto dell’America Latina, anche il Messico ha visto il proprio pil crescere a ritmi costanti nel primo decennio del Ventunesimo secolo salvo però soffrire più degli altri paesi gli effetti recessivi della crisi finanziaria scoppiata negli Usa nel 2008. Per l’economia messicana, a pesare è stato soprattutto lo stretto legame commerciale con il vicino settentrionale, che assorbe quasi per l’80% delle esportazioni, rappresentando il secondo mercato dell’export americano. Dopo la brusca contrazione del 2009 (-6%), l’economia messicana ha tuttavia conosciuto una rapida ripresa: nel 2014 la crescita del pil si è attestata al 2,4% per continuare a crescere nel 2015 intorno al 3% per l’Imf e al 3,5% per il Banco de México. Una ripresa favorita dall’avvio dei grandi progetti infrastrutturali nazionali e da una fase congiunturale più favorevole sia negli Usa sia nei paesi Eu. Nella struttura economica messicana rimangono tuttavia profondi squilibri, a loro volta riflesso di non meno profonde faglie territoriali, tra il nord più ricco e industrializzato e il sud rurale e più arretrato. I settori di punta dell’economia messicana sono rappresentati dal manifatturiero (la principale voce dell’export messicano), dal petrolifero (che fornisce circa il 7% del pil) e dal bancario. Infine, le ingenti rimesse degli immigrati che vivono negli Stati Uniti (più di 23 miliardi di dollari l’anno) costituiscono un fattore rilevante dell’economia messicana (circa il 2% del pil). Più in generale, gli analisti concordano nel ritenere che la crescita dell’economia messicana sarà stabilmente elevata se l’attuale esecutivo Peña Nieto riuscirà a portare a buon fine l’ondata riformatrice ancora in corso di attuazione.
Il Messico è il nono produttore di petrolio al mondo e un esportatore netto di greggio sui mercati internazionali. Grazie al controllo monopolistico da parte dello stato, il settore energetico ha contribuito attivamente nei decenni scorsi a finanziare il bilancio pubblico messicano. Infatti la PeMex (Petróleos Mexicanos), la compagnia statale dell’energia, non solo è una delle più grandi imprese petrolifere al mondo ma anche un contribuente chiave per l’economia nazionale (da sola contribuisce al 34% delle entrate statali). Il declino della produzione interna ha tuttavia ridotto i volumi di esportazione nel corso dell’ultimo decennio. Inoltre, il grande peso del petrolio nel mix energetico messicano (53,7%) fa sì che i consumi domestici assorbano oltre due terzi della produzione, privando gli operatori e le casse dello stato di importanti introiti. A gravare sui costi della bolletta energetica nazionale incidono le alte quotazioni del petrolio e la scarsa diversificazione del mix energetico. Attualmente, la diversificazione sta avvenendo soprattutto in favore del gas naturale, sempre più utilizzato per la generazione elettrica e di cui il Messico è un importatore netto dagli Usa. Per contrastare la tendenza al ribasso della produzione, colmare le gravi lacune tecniche accumulate negli anni, favorire gli investimenti e il know how necessario per la prospezione e lo sfruttamento di nuovi pozzi, dal 2008 PeMex è stata al centro di riforme di settore, ma solo il ‘Pacto por México’ ha permesso di portare a compimento quei cambiamenti necessari anche nel campo dell’energia. Questa riforma dovrebbe conferire maggiore autonomia, consentire un’introduzione di immissione di capitali privati e stranieri e, allo stesso tempo, permettere alle autorità pubbliche un controllo più serrato sulle attività e sulla gestione finanziaria efficiente da parte dei suoi dirigenti. Inoltre, la riforma della PeMex dovrebbe rilanciare la produttività e la competitività dell’azienda, alimentando al contempo, secondo le previsioni governative, una crescita economica annuale del pil pari al 2,4%.
Sul piano della protezione ambientale, la situazione messicana è contraddittoria. I problemi sono soprattutto legati al ritardo nel campo delle energie rinnovabili, alla deforestazione e al grave inquinamento della capitale, città tra le più popolose e dall’aria più irrespirabile al mondo. Si notano invece progressi nelle posizioni che da tempo il Messico viene risalendo nelle graduatorie mondiali di protezione ambientale, e che poi hanno trovato un deciso impulso dalla firma del Nafta in poi. Peraltro, proprio il timore che le imprese statunitensi si trasferissero in Messico, confidando di riuscire a evitarvi gli ingenti costi sostenuti in patria per ridurre le emissioni nocive, era stato più volte sollevato dagli oppositori del Nafta. In realtà, dalla nascita dell’area di libero commercio, in Messico sono cresciuti in forma costante gli investimenti nelle energie alternative, nello smaltimento dei rifiuti e nella protezione delle aree boschive, con risultati incoraggianti.
Paese in pace con i vicini, coi quali non ha gravi contenziosi, il Messico mantiene un basso livello di spese per la difesa. L’integrazione con gli Usa per mezzo del Nafta ne ha tra l’altro accresciuto la sicurezza, consentendogli di mantenere pressoché stabili le risorse dedicate alla difesa delle frontiere. I problemi per la sicurezza messicana derivano semmai dal crescente peso del narcotraffico e dell’immigrazione clandestina negli Usa. Questa comunità, che si è triplicata nel corso degli ultimi vent’anni, costituisce sempre più un attore determinante nella politica statunitense, visto il crescente peso demografico e politico che vi esercita il voto latino, soprattutto nel sud del paese. Inevitabilmente, il rapporto tra Messico e Usa è fortemente influenzato dal tema migratorio, che occupa buona parte dell’agenda bilaterale, accanto a quello del contrasto al narcotraffico. Per cercare di contenere le minacce comuni i due paesi hanno elevato i rapporti di collaborazione in materia di anti-terrorismo e di lotta all’immigrazione clandestina. Un primo passo è stato l’accordo sul genere di informazioni che entrambi gli stati condivideranno per condurre le inchieste sul riciclaggio di denaro e su altri traffici illeciti firmato nell’aprile 2014 a Washington dal segretario al Tesoro, Jacob Lew, e dal ministro dell’Economia e delle Finanze, Luis Videgaray. Tuttavia questi problemi riguardano più in generale l’intera America Centrale e in particolare Guatemala, Salvador e Honduras, i quali poco hanno fatto nella lotta e nel contrasto dei traffici illeciti del crimine organizzato. Infatti, i principali gruppi criminali di questi paesi hanno stretto alleanze strategiche con le gang messicane che in cambio di armi e denaro per poter finanziare le proprie attività, hanno ottenuto il controllo dei cosiddetti puntos ciegos, territori fuori dall’autorità statale utilizzati dalle bande armate messicane per la propria formazione e per il reclutamento sul campo. Parallelamente i gruppi centroamericani sono riusciti, in alcuni casi, a infiltrarsi nelle fila dell’esercito e dello stato seguendo un modus operandi analogo a quello dei cartelli messicani negli anni Novanta. In questo modo il problema dei traffici criminali non diventa più solo un affaire tra Usa e Messico ma riguarda in senso più ampio la sicurezza dell’intera regione, nonostante il Messico rimanga uno dei paesi con il più alto tasso di omicidi al mondo e continui quindi ad avere problemi di sicurezza al proprio interno.
La ‘guerra messicana alla droga’ – questo il nome coniato dai media e dai think tank Usa – è un conflitto armato a bassa intensità che vede contrapposti i cartelli messicani della droga e le forze armate del governo federale. All’origine delle violenze – che secondo i dati ufficiali del governo, tra il 2006 e 2011, avrebbe provocato oltre 50.000 vittime – ci sarebbero i ricavi annuali per oltre 23 miliardi di dollari derivanti dal commercio della cocaina. I cartelli della droga come Sinaloa, gli Zetas, il Golfo, la Famiglia Michoacàna o i Beltran Leyva (tra le organizzazioni più potenti del paese) possono contare su formazioni paramilitari create ad hoc in grado di combattere le bande rivali, le forze di polizia e l’esercito federale. Per arginare lo strapotere delle bande criminali e per smantellare l’ampia rete di complicità – evidentemente politica – di cui godono a vario livello, il governo ha approvato una riforma dei corpi di polizia e creato un’agenzia federale unica, sullo stile della Fbi, per rendere duratura ed efficace l’azione di contrasto ai narcos. Anche se la violenza tra i cartelli si era manifestata già molto tempo prima dell’inizio della ‘guerra’ nel 2006, il governo ha sempre tenuto un atteggiamento generalmente cauto e passivo negli anni Novanta e nei primi anni Duemila. La svolta è arrivata appunto nel 2006 quando il governo Caldéron ha impiegato durante il suo mandato all’incirca 45.000 soldati, dispiegati soprattutto nel nord e lungo il confine con gli Usa, raccogliendo tuttavia modesti risultati e favorendo, invece, un’escalation militare nella lotta ai narcos. In parziale discontinuità con il recente passato, la strategia di lotta alla criminalità promossa dal presidente Peña Nieto ha favorito un’azione basata su tre fronti: minore militarizzazione del territorio, maggiori incentivi economici allo sviluppo nelle aree disagiate e creazione di una gendarmeria specializzata, ossia una forza militare con funzioni di polizia (anche se per il momento questo progetto è stato accantonato). Parallelamente il presidente ha lanciato il ‘Plan Michoacàn’, un programma in cinque punti basato su aiuti allo sviluppo nelle zone maggiormente interessate dai tali fenomeni per combattere il narcotraffico e la cultura criminale grazie alla quale è riuscita a radicarsi e a proliferare. Nel concreto il piano si sostanzia in un sostegno alle piccole e medie imprese attraverso l’erogazione di nuovo credito, corsi di formazione e istruzione per i giovani a cui verranno date 350.000 borse di studio, incentivi all’allevamento e all’agricoltura, mutui per più di 24.000 famiglie, costruzione di scuole, sviluppo dell’edilizia abitativa e apertura di quattrocento mense pubbliche in una trentina di comuni. Grazie a questo nuovo indirizzo, le forze di sicurezza messicane hanno potuto catturare alcuni tra i criminali più ricercati come Miguel Angel Treviño, Joaquim ‘el Chapo’ Guzman e Mario Cardenas Guillen, rispettivi leader dei cartelli dei Los Zetas, di Sinaloa e del Golfo. Al di là degli arresti eccellenti, gli effetti positivi della strategia Peña Nieto tardano ad arrivare. Il numero di omicidi, estorsioni e sequestri di persona resta ancora molto elevato ma soprattutto all’arresto dei leader dei cartelli non fa seguito né il congelamento dei loro patrimoni (passaggio fondamentale, considerato che la vera forza dei narcos è il loro potere economico) né l’arresto di quei funzionari di polizia e di quei politici compromessi con la criminalità organizzata che sinora hanno permesso ai criminali di proliferare nei territori del nord del paese
Dopo settimane di ricerche in tutto lo stato di Guerrero, una regione povera nel sud del paese, il 6 novembre 2014 sono stati ritrovati i resti di 43 studenti scomparsi misteriosamente il 26 settembre in una fossa comune nei pressi di Iguala. Il ritrovamento è avvenuto a Colula dopo che tre sicari del gruppo del narcotraffico locale Guerreros Unidos avevano iniziato a collaborare con le forze di polizia fornendo i particolari macabri degli omicidi. Dopo gli arresti del sindaco della città, Josè Luis Abarca, considerato il mandante della strage insieme alla moglie, Angeles Pineda Villa, e al suo responsabile della sicurezza pubblica, tuttora latitante, si sono moltiplicate le manifestazioni di denuncia in tutto il paese contro quella che è considerata una delle principali piaghe del Messico, ossia la collusione fra stato e criminalità organizzata. I maggiori incidenti si sono registrati a Città del Messico, Acapulco e Chilpancingo, queste ultime due località sono rispettivamente il principale centro economico e la capitale dello stato di Guerrero. Proprio a Chilpancingo i manifestanti sono giunti ad assaltare la sede del parlamento locale per protestare contro i governi locale e centrale, ritenuti incapaci di assicurare sicurezza ai cittadini messicani e di combattere efficacemente la violenza dei narcotrafficanti. Alla base della strage vi sarebbe un futile motivo: Abarca avrebbe richiesto l’aiuto dei narcos per sbarazzarsi di tutti coloro che sarebbero intervenuti a contestare la signora Pineda Villa impegnata in quei giorni in un comizio politico pubblico
Nell’ultimo trentennio il Messico è stato protagonista di un’intensa fase di liberalizzazione commerciale che, dopo la firma del Gatt/Wto nel 1986, ha portato il paese a firmare nel 1994 il Nafta, un trattato di libero commercio che vede coinvolti anche Usa e Canada. Con la partecipazione al Nafta, l’economia messicana si è profondamente modificata, trasformando il paese in uno dei maggiori partner commerciali degli Usa e diventando quello con la più grande rete di accordi di libero scambio a livello mondiale. Un successo che ha lasciato il segno sulla geopolitica messicana, ancorandola assai più che in passato all’emisfero settentrionale delle Americhe e allontanandola in ugual misura da quello meridionale. Le possibilità di aprirsi ulteriormente ai mercati orientali e, allo stesso tempo, la necessità di riallacciare i contatti con il mondo latino limitando la leadership regionale – politica ed economica – di Brasile e Venezuela nel subcontinente, hanno permesso al Messico di esplorare nuove forme di regionalismo. Il Messico, insieme a Colombia, Perù e Cile, ha dato vita nel giugno 2012 all’Alleanza del Pacifico (Ap), un progetto di area di libero scambio mirato all’integrazione e al commercio con i mercati dell’Asia. L’Ap è un’organizzazione regionale dall’alto potenziale geopolitico che nel breve e medio periodo potrebbe ridefinire gli attuali equilibri latino-americani che vedono in Mercosur e Alba – rispettivamente guidate da Brasile e Venezuela –, le due organizzazioni leader del continente
La lunga frontiera di 3145 km che separa Messico e Usa è da sempre una delicata cerniera tra il mondo latino a sud e quello anglosassone a nord. Da anni il confine è interessato da un incessante flusso di immigrati clandestini che ogni anno cercano di attraversarlo, spesso senza fortuna e andando anche incontro alla morte (quasi 5513 vittime negli ultimi 15 anni). Questa situazione ha alimentato dibattiti politici nei due paesi sull’opportunità o meno di erigere una barriera lungo il confine. La barriera, in costruzione dal 1994, è diventata il simbolo del complesso rapporto tra i due stati perché si è rivelata un filtro poco efficace al traffico di esseri umani, al narcotraffico e al commercio internazionale di armi. All’aumento delle regole e dei controlli per impedire l’immigrazione illegale sul suolo statunitense è coinciso, paradossalmente, anche un incremento di figure specializzate nel traffico di uomini da un lato all’altro del confine. Questi noti come ‘coyotes’ o ‘polleros’ sono dei carovanieri del deserto che operano con chiunque voglia attraversare il confine fra il Messico e gli Stati Uniti. Negli ultimi anni, però, la loro attività si è sempre più spesso intrecciata a quella delle reti criminali internazionali. Non è un caso che i cartelli della droga usino i ‘coyotes’ per permettere l’ingresso degli stupefacenti negli Usa. I migranti sono spesso vittime di violenze e ricatti da parte delle organizzazioni criminali che le sfruttano per il traffico di droga, di esseri umani e della prostituzione. Negli ultimi anni tuttavia il Messico si sta caratterizzando come luogo di transito dei clandestini, provenienti soprattutto da Honduras, Guatemala e Salvador. Le misure e i grandi investimenti sinora annunciati da ambo le parti per rendere impermeabile la frontiera si sono rivelati inefficaci tanto che la frontiera a nord del Messico è considerata la terza più pericolosa al mondo dopo il Golfo del Bengala e il Mediterraneo secondo le cifre emanate dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni