Vedi Messico dell'anno: 2013 - 2014 - 2014 - 2015 - 2016
Popolazione, risorse e collocazione geografica fanno del Messico sia una rilevante potenza del mondo latinoamericano, sia una nazione chiave per la sicurezza e le relazioni internazionali degli Stati Uniti, paese col quale non solo condivide un confine di oltre 3000 chilometri, ma dove vivono, lavorano e votano vari milioni di cittadini messicani. Proprio la collocazione a cavallo tra l’area latina e quella anglosassone dell’emisfero americano ha fatto in passato e continua a fare oggi del Messico un delicato punto nevralgico dei rapporti tra le due Americhe, fungendo talvolta da ponte e in altri casi da netto spartiacque. Da un lato, infatti, dalla Seconda guerra mondiale in poi gli Stati Uniti hanno sempre potuto contare sulla collaborazione del Messico, finché la nascita del Nafta, nel 1994, ossia dell’area di libero commercio che lega il Messico a Stati Uniti e Canada, ha sancito la progressiva integrazione messicana al Nord America. Dall’altro lato, tuttavia, fin dalla traumatica guerra che a metà del 19° secolo vide gli Stati Uniti strappare al vicino meridionale oltre un terzo del suo territorio, il Messico è stato un costante laboratorio del nazionalismo latinoamericano, che nella viscerale contrapposizione agli Stati Uniti e alla loro civiltà ha il suo ingrediente chiave. In tal senso il Messico rimane un punto di riferimento ineludibile per buona parte dell’America Latina.
Dalla fine della Guerra fredda in poi, i mutamenti intervenuti sulla scena internazionale hanno causato un’impercettibile ma non meno profonda trasformazione dei rapporti messicani col mondo circostante. Da un lato stanno i vincoli economici e geopolitici che legano il Messico all’America settentrionale; dall’altro lato vi sono quelli di natura perlopiù storica e culturale, che hanno sempre fatto del Messico una delle maggiori potenze latinoamericane.
A tale proposito, si può dire che la tendenza sia ormai tale da imporre al Messico gli imperativi della geopolitica a scapito della vocazione storica e culturale. Ancor più e prima che alle scelte dei governi messicani, tale evoluzione è il frutto delle profonde trasformazioni in atto nei rapporti del Messico col mondo esterno e negli equilibri interni all’emisfero americano.
Da un lato, a rendere il Messico sempre più integrato alla parte settentrionale dell’emisfero americano sono i milioni di messicani che vi emigrano e lavorano, il peso elettorale che sempre più vi esercitano, i modi di vita che vi assorbono e poi diffondono in patria allorché vi tornano, le rimesse che inviano per il sostegno delle famiglie, gli studi che gran parte della classe dirigente vi realizza. E naturalmente il Nafta e i suoi effetti economici, a partire dalla progressiva crescita del reddito in varie zone del Messico settentrionale, tali da renderlo sia economicamente che culturalmente sempre più prossimo agli stati meridionali degli Stati Uniti. Dall’altro lato, scomparso il maggiore elemento di coesione dell’emisfero americano intorno agli Stati Uniti, ossia la minaccia sovietica, le sue diverse aree geografiche hanno sempre più teso a formare gruppi più coesi e autonomi.
A tale proposito, così come hanno perso peso le istituzioni panamericane, a cominciare dall’Organizzazione degli stati americani (Oas), e ne ha acquisito in misura senza precedenti la leadership del Brasile e la sua capacità di riunire intorno a sé i paesi del Sud America, al Messico non è rimasto che adattarsi al nuovo contesto. Ciò non gli ha impedito di coltivare la cooperazione con altre potenze mondiali medie, né di cercare di conservare la tradizionale influenza esercitata storicamente in America centrale, o perfino di ricavarsi un nuovo ruolo nel più vasto scacchiere latinoamericano. In genere, però, senza grandi risultati.
Diversi fattori hanno tuttavia causato, da vari anni a questa parte, la progressiva erosione dell’influenza messicana nell’area latinoamericana. Un’influenza che in passato è stata più volte in grado di irradiarsi in buona parte della regione, ora sul piano culturale, ora su quello politico o ideologico, ora su quello della politica estera, specie finché il regime del Pri, il Partido Revolucionario Institucional, si è dimostrato capace di mantenere viva almeno in parte la fiamma nazionalista della Rivoluzione e di agire come geloso custode della sovranità nazionale e latinoamericana al cospetto degli Stati Uniti, da cui tanto aveva storicamente diviso il Messico.
Tra tali fattori, alcuni spiccano sugli altri: innanzitutto la ‘normalizzazione’ del Messico, mano a mano che la tradizione rivoluzionaria si scoloriva e il suo regime convergeva con quelli del resto dell’America Latina verso la democrazia rappresentativa; in secondo luogo il fatto che sia la democratizzazione della regione, sia gli effetti della globalizzazione, hanno sempre più indotto nell’area latinoamericana dei processi di integrazione regionale tra paesi vicini, dai quali il Messico è rimasto nella maggior parte dei casi ai margini; infine, perché l’insieme di tali processi ha sancito come mai prima la profonda integrazione del Messico agli Stati Uniti, quando proprio la sua autonomia al loro cospetto era stata per lungo tempo il pegno della sua influenza in America Latina.
Sta di fatto che mentre nella regione si è moltiplicato il numero e la forza delle organizzazioni cresciute in ambito sudamericano, perlopiù sorte su impulso brasiliano, la geopolitica messicana si è sempre più trovata intimamente legata a quella del Nord America, e in particolare a quella statunitense. In tale contesto, tanto la crisi honduregna del 2009, dinanzi alla quale il Messico è rimasto pressoché inerte, quanto l’annosa questione dei rapporti con Cuba, dei quali il Messico era stato un tempo il principale fautore, ma su cui non svolge oggi alcuna forma di protagonismo, sono segnali del suo crescente distacco dal resto dell’America Latina.
Il Messico è una repubblica federale, composta da 31 stati più il Distretto federale della capitale. Alla base della sua organizzazione politica rimane ancora oggi, benché in parte emendata, la Costituzione con cui nel 1917 culminò la Rivoluzione messicana, sulla cui eredità si è fondato il regime politico del paese per l’intero 20° secolo.
Mentre però quello che predominò allora fu un regime politico non democratico né competitivo, dominato dal partito sorto per custodire l’eredità rivoluzionaria, cioè il Pri, con l’elezione, nel 2000, di un presidente candidato da un partito prima di allora all’opposizione, il Partido Acción Nacional (Pan), si può dire giunto a termine il lungo processo di liberalizzazione politica messicana e la trasformazione di quello che era in sostanza stato un regime a partito unico in una democrazia pluralista e rappresentativa.
Cardine di tale sistema, sia in passato sia oggi, è la figura presidenziale, investita di enormi poteri e status, limitata però dal dogma costituzionale del divieto di rielezione una volta terminato il mandato di sei anni. Al Pan, in origine partito di ispirazione cattolica, legatosi col tempo agli industriali e ai ceti medi, specie del nord del paese, e al Pri, cui la perdita del potere ha sottratto buona parte delle risorse clientelari e del radicamento corporativo cui aveva tanto attinto in passato, si affianca come terza forza il Prd, Partido de la Revolución Democrática, nato nel 1989 da una scissione del Pri e determinato a imporsi quale unico erede della tradizione sociale e nazionalista della Rivoluzione. Mentre alle elezioni parlamentari e presidenziali del 2006 il Pan ha avuto la maggioranza ed è stato eletto come presidente Felipe de Jesús Calderón, alle ultime elezioni del 2009 della Camera bassa ha vinto il Pri.
Sul piano costituzionale, infine, merita un breve cenno la peculiare storia religiosa messicana. Paese dove la devozione cattolica è fervente come in pochi altri al mondo e dove l’influenza della Chiesa negli affari politici ha avuto un peso storico eccezionale, il Messico è stato al tempo stesso scenario di violente reazioni anticlericali, approdate a una rigida separazione costituzionale tra stato e chiesa che ha generato una lunga e solida tradizione di laicità dello stato e impedito l’esistenza di rapporti diplomatici con la Santa Sede fino al 1992. Da allora, però, un emendamento costituzionale ha consentito di normalizzare la situazione e lo stato messicano attuale, pur fedele alla sua tradizione laica, ha perlopiù buoni rapporti con la Chiesa cattolica e con le confessioni religiose minoritarie.
Paese meticcio per eccellenza, ossia frutto della secolare mescolanza dei colonizzatori e dei loro discendenti con le popolazioni indiane autoctone, il Messico ha fatto di tale caratteristica un elemento chiave della sua identità. Ciò non toglie però, date le sue ragguardevoli dimensioni e la sua spiccata eterogeneità, che sotto la patina di omogeneità meticcia la popolazione messicana conservi vaste e diffuse sacche di vera e propria ‘indianità’. Ciò vale in buona misura per le sue propaggini più meridionali, dove il Chiapas rimane per molti aspetti uno stato a maggioranza indiana, etnicamente assai più simile al vicino Guatemala che al resto del Messico; ma ciò vale anche per altre aree del paese, dallo stato di Guerrero a quello di Sinaloa. Il quadro complessivo della popolazione del Messico risulterebbe tuttavia monco se non tenesse conto dei 13 milioni di messicani immigrati, in parte legalmente e in parte in forma clandestina, negli Stati Uniti. Questa comunità, che si è triplicata nel corso degli ultimi vent’anni, costituisce sempre più un fattore chiave per l’economia messicana, cui contribuisce con ingenti rimesse, per la politica statunitense, visto il crescente peso che vi esercita il voto latino, così come per il rapporto tra Messico e Stati Uniti, nel quale il tema migratorio occupa inevitabilmente buona parte dell’agenda.
I contrasti etnici, uniti alle gravi forme di emarginazione sociale che ancora prevalgono in molte zone, sono talvolta causa di violenti sommovimenti, come accadde in Chiapas nel 1994 quando il movimento zapatista si alzò in armi. Nel complesso, al di là della questione etnica, la società messicana rimane soprattutto solcata da profonde disuguaglianze sociali e territoriali, nonostante la crescita economica e la significativa riduzione del tasso di povertà avvenuta nell’ultimo decennio.
Tale riduzione, infatti, è stata in grande misura effetto della crescita, mentre lo è stata assai meno di efficaci politiche distributive, benché le misure fiscali adottate assicurino ai governi le risorse necessarie per renderle più incisive. A tale proposito, i piani di assistenza condizionata lanciati dal governo, ossia di aiuto alle famiglie marginali in cambio del loro impegno a garantire la frequenza scolastica dei figli, stanno dando risultati incoraggianti.
La lunga frontiera tra Messico e Stati Uniti è da sempre una delicata cerniera tra mondi assai diversi tra loro, che si attraggono ma al tempo stesso si respingono: quello latino e quello anglosassone, quello opulento del nord e quello in via di sviluppo del sud.
Non a caso, essa rimane tuttora il più delicato crocevia delle relazioni internazionali messicane, il luogo sia materiale sia simbolico dove convergono problematiche in grado non solo di far tremare i pilastri del sistema politico in Messico, ma anche di incrinare i rapporti tra due vicini ormai legati da una vera e propria relazione strategica: l’emigrazione clandestina, il narcotraffico, il commercio clandestino di armi, perfino i potenziali flussi del terrorismo internazionale.
Quanto all’emigrazione, non sono solo messicani i milioni di individui che varcano la frontiera alla ricerca di fortuna negli Stati Uniti, ma anche cittadini delle repubbliche centroamericane o di taluni paesi andini. Tale immenso flusso di persone, spesso oggetto di violenze e ricatti da parte delle organizzazioni criminali che le usano per trasportare droga oltreconfine e realizzano un vero e proprio mercato di esseri umani, genera da un lato reazioni xenofobe nel sud degli Stati Uniti, e dall’altro obbliga il governo messicano a intervenire a tutela dei loro diritti una volta passata la frontiera.
La retorica spesso infuocata e i grandi investimenti annunciati nel corso degli anni dalle amministrazioni statunitensi per rendere impermeabile la frontiera sono risultati nel complesso vacue promesse o misure inefficaci.
Benché la fase della lotta armata sia da tempo alle spalle, l’insurrezione scoppiata in Chiapas nel 1994 ha lasciato significative tracce nella vita politica e sociale messicana, di cui ha incarnato e in parte ancora incarna taluni nodi irrisolti, suscettibili di ripresentarsi in diverse forme e luoghi.
Il primo di tali nodi è l’arretratezza in cui ancora versano, nonostante i grandi progressi economici del Messico, talune sue regioni, specie meridionali, e le relazioni sociali arcaiche che vi permangono.
Il secondo nodo riguarda la questione indiana, che il Messico meticcio ha teso a lungo a trascurare o a ritenere un mero retaggio del passato, ma che proprio la levata in armi guidata dall’Ejército zapatista de liberación nacional (Ezln) nel Chiapas, stato indiano come nessun altro nel paese, ha riportato in auge in forma drammatica.
A tali nodi si aggiunge la questione nazionale, intesa sia come il ricorrente contrasto tra autorità centrali e realtà locali, sia come ciclico rigurgito di nazionalismo; due elementi espressi, nel caso del Chiapas, dalla esplicita e voluta coincidenza tra lo scoppio del sollevamento armato e l’entrata in funzione del Nafta. Il tutto si manifestò allora attraverso un impasto ideologico dove si fondevano impulsi socialisti e cristianesimo radicale, in aperta sfida alla via liberale seguita dalla globalizzazione.
La figura del caudillo, ossia del leader capace di guidare il popolo nella lotta contro l’ingiustizia, contro un minaccioso e potente nemico esterno e il suo alleato interno, incarnato in forma peculiare dalla figura del subcomandante Marcos, coronò infine quella ‘rivoluzione’ in cui trovarono espressione così tanti elementi del Messico profondo.
Col tempo, tuttavia, il focolaio del Chiapas si è ridimensionato, confermando la sua sostanziale perifericità in un paese in via di rapida trasformazione. I suoi effetti sul piano nazionale non hanno però cessato di farsi sentire, sia inducendo i successivi governi ad adottare riforme per alleviare le condizioni di ingiustizia patite dagli indiani del Chiapas, al fine di prevenire il ripetersi di simili episodi, sia perché molte delle istanze zapatiste hanno trovato accoglienza, seppur in modi diversi, in vasti settori della società civile, schieratisi nelle elezioni del 2006 a sostegno della candidatura di Andrés López Obrador, candidato del Prd.
La lunga, graduale e nel complesso virtuosa transizione del Messico da un regime autoritario, dove stato e partito di governo erano strettamente uniti e monopolizzavano il potere, a una democrazia rappresentativa e pluralista fa sì che il paese possa essere inserito a pieno a titolo tra quelli che rispettano le libertà politiche e civili. Il fatto che la delicata crisi politica scoppiata durante le elezioni presidenziali del 2006, quando l’opposizione del Prd addebitò a frodi elettorali la vittoria su misura del Pan, si sia conclusa senza violenze e in accordo con le procedure costituzionali, rappresenta in tal senso un chiaro segno di consolidamento democratico. Nella realtà, tuttavia, il Messico rimane un paese afflitto da gravi problemi, specie nel campo del rispetto dei diritti umani e civili. La corruzione rimane per esempio una diffusa piaga nella vita economica e nella pubblica amministrazione del paese. Le proteste sociali scoppiate in questo o quello stato sono più volte sfociate in violenti scontri e repressioni costate diverse vite.
Ma la maggior causa di violenza e corruzione è ormai da tempo la proliferazione di potenti cartelli della droga nel paese, specie al confine con gli Stati Uniti. Da quando, in particolare, il presidente Felipe Calderón ha deciso di affrontarli in una vera e propria guerra a viso aperto, tale problema è emerso in superficie in tutta la sua virulenza. Da allora gli omicidi negli stati settentrionali sono cresciuti a ritmi esponenziali, ora colpendo gli stessi narcotrafficanti in lotta tra loro, ora la popolazione civile inerme, ora le vittime di abusi da parte delle forze di sicurezza, ora, infine, un crescente numero di giornalisti, sempre più oggetto di minacce e intimidazioni. Su questi crimini, il potere giudiziario non s’è ancora mostrato in grado di operare con sufficiente efficacia.
L’economia messicana, la tredicesima al mondo in termini assoluti, ha subito nell’ultimo quarto di secolo profonde trasformazioni, accantonando il modello dirigista e protezionista rivolto all’industrializzazione e al mercato interno, prevalso per gran parte del 20° secolo, per aprirsi al mercato internazionale. Tale apertura ha avuto il suo momento chiave nella nascita dell’Area di libero commercio del Nord America, il Nafta, che dal 1994 lega i mercati di Messico, Stati Uniti e Canada.
Nel frattempo il Messico ha coronato questo indirizzo, firmando decine di accordi di libero commercio con partner di tutto il mondo e riducendo drasticamente la presenza dello stato nella sfera economica. In proposito fa eccezione il settore petrolifero, che rimane un simbolo nazionalista dell’era rivoluzionaria e che, pur fornendo ormai una quota assai ridotta del prodotto nazionale, porta comunque valuta pregiata nelle casse pubbliche. Come il resto dell’America Latina, anche il Messico ha visto crescere a ritmi costanti il proprio prodotto nel primo decennio del 21°, salvo però soffrire più degli altri paesi gli effetti recessivi della crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti nel 2008, in quanto nessun altro paese della regione è altrettanto legato all’economia del grande vicino. Ben presto, però, l’economia messicana ha ripreso il cammino della crescita, a testimonianza non solo del permanere di condizioni favorevoli per le esportazioni messicane nei mercati internazionali, ma anche dei progressi realizzati dalla struttura produttiva e nella gestione dei principali indicatori macroeconomici. Nella struttura economica messicana rimangono tuttavia profondi squilibri, a loro volta riflesso di non meno profonde faglie territoriali. Spicca infatti il divario tra il nord industrializzato, e dal tenore di vita in genere più elevato, e il sud rurale e più arretrato, dove le sacche di miseria e l’estrema polarizzazione sociale sono ancora tratti frequenti.
La firma, nel 1992, e l’entrata in vigore, nel 1994, dell’area di libero commercio che unisce il Messico a Stati Uniti e Canada hanno impresso profondi segni nella geopolitica messicana, ancorandola assai più che in precedenza all’emisfero settentrionale delle Americhe e allontanandola in ugual misura da quello meridionale. Fin dalla sua nascita, tuttavia, il Nafta è stato oggetto di aspri dibattiti, sia nei paesi partner sia in Messico, dove i suoi fautori e i suoi denigratori non hanno mai cessato di ribadire i propri argomen;ti a favore o contro di esso. Tra i fattori che il Nafta vanta a proprio favore spiccano, nel caso del Messico, la vera e propria lievitazione del commercio tra i paesi membri, il balzo in avanti degli investimenti realizzati dai partner in territorio messicano (specie nell’industria di assemblaggio, cresciuta a dismisura nel nord del paese), il robusto contributo che ne è derivato alla crescita economica e all’occupazione. Tra quelli, invece, contro i quali si concentrano gli strali degli oppositori al Nafta si distinguono la tendenza di talune industrie trapiantate in Messico a comprimere i diritti dei lavoratori e a non rispettare le norme di tutela ambientale, i danni sofferti da taluni settori produttivi locali a causa della competizione dei produttori canadesi o statunitensi, e la peculiare vulnerabilità dell’economia messicana ai cicli economici del grande vicino settentrionale.
Essendo il settimo produttore di petrolio al mondo, non sorprende che il Messico lo impieghi per coprire oltre metà del suo fabbisogno energetico. Pemex (Petróleos Mexicanos), la grande compagnia di stato che ne conserva tutt’oggi il monopolio produttivo, è non solo una delle più grandi imprese petrolifere al mondo, ma anche un contribuente chiave del bilancio pubblico. In anni recenti, però, la produzione petrolifera è andata diminuendo man mano che si esaurivano taluni ricchi pozzi, mentre cresceva il consumo di gas naturale, di cui il Messico è tuttavia importatore netto. In tali circostanze, preoccupa il fatto che le fonti rinnovabili abbiano un peso pressoché insignificante nella matrice energetica messicana. Per contrastare la tendenza al ribasso della produzione e incentivare la prospezione e lo sfruttamento di nuovi pozzi, nel 2008 Pemex è stata oggetto di una riforma che le conferisce maggiore autonomia e ne facilita la cooperazione con le compagnie private.
Sul piano della protezione ambientale, il Messico presenta sia grandi problemi, sia importanti progressi. I problemi sono soprattutto legati al ritardo nel campo delle energie rinnovabili, alla deforestazione e al grave inquinamento della capitale, città tra le più popolose e dall’aria più irrespirabile al mondo. I progressi si notano nelle posizioni che da tempo il Messico viene risalendo nelle graduatorie mondiali di protezione ambientale e hanno trovato un deciso impulso dalla firma del Nafta in poi. Peraltro, proprio il timore che le imprese statunitensi si trasferissero in Messico, confidando di riuscire a evitarvi gli ingenti costi sostenuti in patria per ridurre le emissioni nocive, era stato più volte sollevato dagli oppositori del Nafta. Fatto sta che, dalla nascita dell’area di libero commercio, in Messico sono cresciuti in forma costante gli investimenti nelle energie alternative, nello smaltimento dei rifiuti e nella protezione delle aree boschive, con risultati incoraggianti.
Paese in pace con i vicini, coi quali non ha gravi contenziosi, il Messico mantiene un basso livello di spese per la difesa. L’integrazione con gli Stati Uniti per mezzo del Nafta ne ha tra l’altro accresciuto la sicurezza, consentendogli di mantenere pressoché stabili le risorse dedicate alla difesa delle frontiere. I problemi per la sicurezza messicana derivano semmai dal crescente peso, sia criminale sia economico, del narcotraffico, tale da indurre vari osservatori a tracciare un parallelo tra il Messico odierno e la Colombia di vent’anni fa. Il problema della lotta al narcotraffico si pone a diversi livelli: quello degli armamenti più adeguati, quello del controllo del territorio da parte della forza pubblica, quello delle azioni repressive contro l’impero economico eretto dai cartelli. In tal senso, risultano cruciali sia le operazioni di intelligence, sia la cooperazione internazionale. Benché il Messico abbia raggiunto importanti accordi in proposito con gli Stati Uniti, in particolare il Piano Mérida, avviato nel 2007 per combattere le organizzazioni criminali salvaguardando i diritti umani e rafforzando le istituzioni democratiche, le profonde epurazioni che di tanto in tanto coinvolgono la polizia messicana sono un chiaro indicatore delle difficoltà che ancora sussistono nel farne un corpo professionale esente da abusi e impermeabile alla corruzione.