Vedi Messico dell'anno: 2013 - 2014 - 2014 - 2015 - 2016
La collocazione a cavallo tra l’area anglosassone e quella latina dell’emisfero americano rende il Messico il punto nevralgico dei rapporti tra le due Americhe: a volte nel ruolo di ponte e in altri casi di spartiacque. Da un lato, i vincoli politici ed economici (per esempio la comune lotta al narcotraffico o il Nafta) che lo legano a Usa e Canada; dall’altro lato, la storia e la forte identità latina. Tutto ciò rende il Messico un paese in costante trasformazione sia nei rapporti con il mondo esterno, sia negli equilibri interni americani. Anche per questa sua peculiarità, il Messico rimane un punto di riferimento per buona parte dell’America Latina. Un’influenza che in passato è stata più volte in grado di irradiarsi in buona parte della regione, ora sul piano culturale, ora su quello politico o ideologico, soprattutto finché il partito-regime del Pri, il Partido Revolucionario Institucional (Partito rivoluzionario istituzionale), si è dimostrato capace di mantenere la mobilitazione nazionalista della Rivoluzione del 1911 e di agire come custode della sovranità nazionale e latinoamericana.
Tale influenza è andata scemando nel corso del secolo scorso in concomitanza all’accentuarsi di tre fattori: la ‘normalizzazione’ del Messico sotto il profilo politico e sociale; gli effetti della globalizzazione; l’integrazione con gli Usa. Nel primo caso, quando la tradizione rivoluzionaria è andata affievolendosi il regime ha intrapreso un processo di convergenza verso la democrazia rappresentativa. Congiuntamente al primo, gli effetti della globalizzazione hanno accelerato l’instaurarsi di nuovi processi di integrazione regionale, dai quali il Messico era rimasto in passato spesso ai margini. Infine, l’insieme di tali processi ha sancito una profonda integrazione e interdipendenza del Messico con gli Usa. Washington rimane il principale partner politico-economico di Città del Messico. Infatti, le relazioni bilaterali rimangono fortemente condizionate dai problemi dell’immigrazione clandestina e del narcotraffico, ma sono anche improntate nell’ottica di una crescente integrazione commerciale e produttiva. Il rapporto con gli Stati Uniti influenza inevitabilmente anche la direttrice principale di politica estera. Così mentre nella regione si è moltiplicato il numero ed è cresciuta la forza delle organizzazioni sudamericane, perlopiù sorte su impulso brasiliano e venezuelano, la geopolitica messicana si è legata più strettamente a quella nordamericana e, in particolare, a quella statunitense. In tale contesto, tanto il golpe e la crisi costituzionale honduregna del 2009, dinanzi alla quale il Messico è rimasto pressoché inerte, quanto l’annosa questione dei rapporti tra Cuba e Usa, dei quali il paese era stato un tempo il principale fautore, oggi in via di normalizzazione ma su cui non ha svolto recentemente alcuna forma di protagonismo, sono segnali del suo crescente distacco dal resto dell’America Latina.
Tuttavia con l’esecutivo di Enrique Peña Nieto, in carica dal dicembre 2012, il Messico sta consolidando il cambiamento della sua strategia in politica estera, intensificando i rapporti con i paesi dell’America Latina e dell’Asia-Pacifico e perseguendo un protagonismo diplomatico, favorito da una politica estera attiva nei principali forum multilaterali ed incentrata sulla promozione della pace globale, dello sviluppo sostenibile, della tutela dei diritti umani e della lotta ai fenomeni criminali transnazionali (narcotraffico, tratta degli esseri umani, eccetera). Tale attivismo politico ha permesso al paese latino di presiedere grandi appuntamenti internazionali come la Conferenza Cop 16 di Cancun sui cambiamenti climatici (2010) e come il vertice dei capi di stato e di governo del G20 di Los Cabos (2012).
Il Messico è una repubblica federale composta da 31 stati e dal distretto della capitale. Alla base della sua organizzazione politica rimane ancora oggi, benché in parte emendata, la Costituzione del 1917, che fu il culmine della Rivoluzione. Sulla sua eredità si è fondato il regime politico del Pri che ha guidato il paese per l’intero Ventesimo secolo. Nel 2000, con l’elezione a presidente della repubblica del candidato di opposizione Vicente Fox si può definire quasi concluso il lungo processo di democratizzazione in senso pluralista e rappresentativo della società messicana. Cardine di tale sistema è la figura presidenziale, investita di enormi poteri e con uno status altissimo, ma limitata dal divieto di rielezione terminato il mandato sessennale. Oltre al Pri, depositario dell’eredità rivoluzionaria, si affiancano nell’amministrazione dello stato il Partido Acción Nacional (Pan, Partito azione nazionale), in origine partito di ispirazione cattolica e vicino agli industriali e ai ceti medi del nord del paese, e il Partido de la Revolución Democrática (Prd, Partito della rivoluzione democratica), nato nel 1989 da una scissione del Pri e determinato a imporsi, a sinistra, quale unico erede della tradizione sociale e nazionalista della Rivoluzione. Il successo elettorale del 2012 ha permesso al Pri di riconquistare la presidenza del paese dopo il doppio mandato (2000-12) del Pan di Fox, appunto, e di Felipe Calderón. Ciononostante, il Pri non dispone di una maggioranza assoluta e di qui la necessità del voto di sostegno dei parlamentari appartenenti al Pan o al Prd per i diversi progetti di legge in corso di realizzazione. Questo precario equilibrio si è riproposto nella votazione delle riforme previste dall’accordo non vincolante firmato nel dicembre 2012 dal presidente Peña Nieto e dai leader di Pan e di Prd (a cui poco dopo si aggiunse anche il Partido Verde Ecologista de México) e noto come ‘Pacto por México’. Si tratta di un piano di riforme istituzionali e strutturali in senso liberista riassunte in 95 impegni che riguardano principalmente i settori dell’energia, della formazione, delle telecomunicazioni, del fisco e della sicurezza. La finalità di tale accordo trasversale dovrebbe garantire governabilità istituzionale e ultimare una transizione democratica considerata ancora inconclusa. Il piano riformista ha incontrato alcune resistenze parlamentari, ma il governo ha raggiunto gli obiettivi prioritari (lavoro, fisco, energia, telcomunicazioni, istruzione).
Allo stato attuale mancano ancora da approvare la riforma della giustizia civile e i provvedimenti anti-corruzione, la riforma delle pensioni, quella della salute e dell’agricoltura. Per provare a superare tale impasse e favorire una rapida approvazione delle riforme, il Pri si era posto come obiettivo di raggiungere nelle elezioni di mid-term, tenutesi il 7 giugno 2015, la maggioranza assoluta nella Camera bassa del parlamento messicano. Il Pri non è riuscito in questo intento, confermandosi il partito di maggioranza relativa con il 29,2% dei voti ma occupando solo 204 seggi su 500. Tuttavia Peña Nieto ha potuto continuare a contare sull’appoggio del Partito Verde e di Nueva Alianza, aumentando il proprio vantaggio nei confronti degli altri grandi partiti: solo il Pan ha superato il 20%, mentre il Prd si è fermato al 10,83%. Il 2 settembre 2015 il presidente del Messico, nel suo resoconto annuale di governo, ha riconosciuto le difficoltà dovute alla situazione interna e ad una complessa congiuntura macroeconomica globale, difendendo e rilanciando però le riforme varate, in un’ottica di contenimento della spesa pubblica.
Paese meticcio per eccellenza, il Messico ha fatto di tale caratteristica un elemento chiave della sua identità. Ciò non toglie, date le sue grandi dimensioni e la sua spiccata eterogeneità, che sotto la patina di omogeneità meticcia la popolazione messicana conservi vaste e diffuse sacche di vera e propria ‘indianità’. Ciò vale in buona misura per le sue propaggini più meridionali come il Chiapas, che rimane per molti aspetti una regione a maggioranza indiana, etnicamente assai più simile al vicino Guatemala che al resto messicana. Questo vale anche per altre aree del paese, dallo stato di Guerrero a quello di Sinaloa.
Il Messico vive al suo interno importanti contrasti etnici, che sono talvolta causa di moti violenti, soprattutto là dove si saldano a una grave emarginazione sociale, come accaduto in Chiapas nel 1994, quando il movimento zapatista si sollevò in armi. Nel complesso, al di là della questione etnica, la società messicana rimane solcata da profonde disuguaglianze sociali e territoriali, nonostante lo sviluppo economico avvenuto nell’ultimo decennio. La contrazione della miseria è stata in grande misura effetto della crescita, mentre le politiche distributive sono state assai meno efficaci, benché le misure fiscali adottate assicurino ai governi notevoli risorse. Ciononostante, si sono anche registrati parziali successi, come nel caso dei piani di assistenza condizionata, ossia di aiuto alle famiglie in cambio del loro impegno a garantire la frequenza scolastica dei figli.
Merita, infine, un breve cenno la peculiare storia religiosa messicana. Nel paese la devozione cattolica è particolarmente viva e l’influenza della Chiesa negli affari politici ha avuto un peso storico eccezionale. Al tempo stesso, il Messico è stato scenario di violente reazioni anticlericali, approdate a una rigida separazione costituzionale tra stato e chiesa. Questa separazione ha creato una lunga e solida tradizione di laicità dello stato e ha impedito l’esistenza di rapporti diplomatici con la Santa Sede fino al 1992. Da allora, però, un emendamento costituzionale ha consentito allo stato messicano di normalizzare i rapporti con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose.
Il Messico può essere inserito tra quegli stati che rispettano le libertà politiche e civili, nonostante nei fatti rimanga un paese afflitto da gravi carenze nel rispetto dei diritti umani e civili.
La corruzione rimane una piaga ancora diffusa nella vita economica e nella pubblica amministrazione nazionale. Le proteste sociali sono frequenti e spesso caratterizzate in passato da violenze e repressioni, culminate in alcuni casi con un alto numero di vittime, come avvenuto nel caso della strage di Iguala (settembre 2014), in occasione della quale 43 studenti scomparvero nel nulla dopo essere stati fermati dalla polizia mentre partecipavano ad una protesta contro le politiche del Governo sull’istruzione.
Ad alimentare queste violenze sono state in passato l’arretratezza socio-economica in cui versano le regioni meridionali rispetto a quelle più sviluppate del centro-nord e la questione indigena, che il Messico meticcio ha teso a lungo a trascurare o a ritenere un mero retaggio del passato.
Tuttavia la maggior causa di violenza è legata alla proliferazione dei potenti cartelli della droga, radicati lungo il confine settentrionale (secondo il dipartimento di Giustizia Usa il giro d’affari derivante dal traffico di stupefacenti è quantificabile in oltre 23 miliardi di dollari l’anno). Un fenomeno esploso in tutta la sua veemenza nell’ultimo decennio ma che ha trovato una svolta nel 2006 quando l’allora presidente Calderón decise di affrontare i cartelli del narcotraffico attraverso la militarizzazione del territorio. Da allora gli omicidi negli stati settentrionali sono cresciuti a ritmi esponenziali, ora ai danni degli stessi narcotrafficanti in lotta tra loro, ora a quelli della popolazione civile inerme. Non sono mancate le vittime di abusi da parte delle forze di sicurezza. In più, un crescente numero di giornalisti e di politici locali attivamente impegnati contro la criminalità organizzata ha pagato con la vita questo impegno. Secondo i dati pubblicati annualmente dall’Instituto Nacional de Estadística y Geografía (Inegi) nel 2014 si sono registrati poco meno di 20.000 omicidi (trend in calo rispetto al picco registrato nel 2011). Per quanto riguarda sparizioni e rapimenti, invece, secondo l’Encuesta Nacional de Victimización y Percepción sobre Seguridad Publica, nel 2012 (ultimo dato disponibile) se ne sono registrati rispettivamente circa 4000 e oltre 105.000. Per quanto riguarda i rapimenti, la Coordinación Nacional Antisecuestro ha annunciato a marzo 2015 che nei primi 27 mesi del Governo di Peña Nieto si sono verificati 5389 casi, con un aumento del 52,7% rispetto ai 27 mesi precedenti (fase finale del Governo Calderón). Su questi crimini, il potere giudiziario non s’è ancora mostrato efficace.
Infine, direttamente collegato al problema del narcotraffico è anche quello delle armi e della loro libera circolazione sul territorio, a seguito della questione dei vigilantes. Questi sono gruppi di autodifesa regolarizzati che l’esercito ha provveduto a registrare concedendo loro le armi per combattere i cartelli nelle zone maggiormente coinvolte. Il rischio, però, è che un patto del genere senza l’adeguato controllo delle autorità porti a una libera circolazione delle armi permettendo la formazione di cellule paramilitari autonome difficilmente gestibili dallo stato.
L’economia messicana, la quindicesima al mondo in termini assoluti, ha subito nell’ultimo quarto di secolo profonde trasformazioni: ha accantonato il modello dirigista a difesa dell’industrializzazione e del mercato interno, per abbracciare il libero mercato internazionale. Il momento chiave è legato alla stipula di 43 trattati di libero commercio, come il Nafta (entrato in vigore nel 1994) e l’Alleanza del Pacifico (costituita a dicembre 2011 ma entrata in vigore il 20 luglio del 2015). Il Messico vanta, inoltre, trattati di libero scambio con l’Eu e prende parte ai negoziati del Trans Pacific Partnership (Tpp), la zona di libero scambio che coinvolge 12 paesi della regione del Pacifico (Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti, Vietnam e, appunto, Messico). Grazie a questi accordi con partner di tutto il mondo e alla sua apertura costante al commercio internazionale e agli investimenti diretti esteri (seppur con una flessione piuttosto netta nel 2014 rispetto al 2013, con 22,5 miliardi di dollari contro 38,2), lo stato messicano ha potuto ridurre drasticamente la propria presenza nella sfera economica. Fa eccezione il settore petrolifero, che rimane espressione del nazionalismo dell’era rivoluzionaria e costituisce una quota rilevante del prodotto nazionale, portando comunque valuta pregiata nelle casse pubbliche (nel 2013 il valore delle rendite petrolifere sul pil è stato del 6,3%) nonostante la riforma epocale approvata a dicembre 2013 che apre il settore al capitale internazionale, consentendo a compagnie petrolifere straniere di investire in esplorazione e sviluppo di giacimenti di idrocarburi. Come il resto dell’America Latina, anche il Messico ha visto il proprio pil crescere a ritmi costanti nel primo decennio del Ventunesimo secolo salvo però soffrire più degli altri paesi gli effetti recessivi della crisi finanziaria scoppiata negli Usa nel 2008. A pesare è stato soprattutto lo stretto legame commerciale con il vicino settentrionale, che assorbe quasi l’80% delle esportazioni, rappresentando il secondo mercato dell’export americano. Dopo la brusca contrazione del 2009 (-6%), l’economia messicana ha tuttavia conosciuto una rapida ripresa: nel 2014 la crescita del pil si è attestata al 2,4% per continuare a crescere nel 2015 intorno al 2,3% per l’Imf e al 2,2% per il Banco de México, con prospettive in miglioramento per il 2016 (3,3% per Imf e 3,4% per l’Oecd). Una ripresa favorita dall’avvio dei grandi progetti infrastrutturali nazionali e da una fase congiunturale più favorevole. Nella struttura economica messicana rimangono tuttavia profondi squilibri, a loro volta riflesso di non meno profonde faglie territoriali, tra il nord più ricco e industrializzato e il sud rurale e più arretrato. I settori di punta dell’economia messicana sono rappresentati dal manifatturiero (la principale voce dell’export messicano), dal petrolifero (che fornisce circa il 7% del pil) e dal bancario. Infine, le ingenti rimesse degli immigrati che vivono negli Stati Uniti (più di 24 miliardi di dollari l’anno) costituiscono un fattore rilevante dell’economia messicana (circa il 2% del pil). Gli analisti concordano nel ritenere che la crescita dell’economia messicana sarà stabilmente elevata se l’attuale esecutivo Peña Nieto riuscirà a portare a buon fine l’ondata riformatrice ancora in corso di attuazione.
Il Messico è il decimo produttore di petrolio al mondo e un esportatore netto di greggio sui mercati internazionali. Grazie al controllo monopolistico da parte dello stato, il settore energetico ha contribuito attivamente nei decenni scorsi a finanziare il bilancio pubblico. Infatti la Pemex (Petróleos Mexicanos), la compagnia statale dell’energia, non solo è una delle più grandi imprese petrolifere al mondo ma anche un contribuente chiave per l’economia nazionale (da sola contribuisce al 34% delle entrate statali). Il declino della produzione interna ha tuttavia ridotto i volumi di esportazione nel corso dell’ultimo decennio. Inoltre, il grande peso del petrolio nel mix energetico messicano (51%) fa sì che i consumi domestici assorbano oltre due terzi della produzione, privando gli operatori e le casse dello stato di importanti introiti. A gravare sui costi della bolletta incide oggi la scarsa diversificazione, anche se gli attuali bassi prezzi del petrolio hanno contribuito a calmierare i costi elevati. Attualmente, la diversificazione sta avvenendo soprattutto in favore del gas naturale, sempre più utilizzato per la generazione elettrica e di cui il Messico è un importatore netto dagli Usa. Per contrastare la tendenza al ribasso della produzione, colmare le gravi lacune tecniche accumulate negli anni, favorire gli investimenti e il know how necessario per la prospezione e lo sfruttamento di nuovi pozzi, dal 2008 Pemex è stata al centro di riforme di settore, ma solo il ‘Pacto por México’ ha permesso di portare a compimento quei cambiamenti necessari anche nel campo dell’energia. Questa riforma dovrebbe conferire maggiore autonomia, consentire un’introduzione di immissione di capitali privati e stranieri e, allo stesso tempo, permettere alle autorità pubbliche un controllo più serrato sulle attività e sulla gestione finanziaria efficiente da parte dei suoi dirigenti. Inoltre, la riforma della Pemex dovrebbe rilanciare la produttività e la competitività dell’azienda, alimentando al contempo una crescita economica annuale del pil pari al 2,4%.
Sul piano della protezione ambientale, la situazione messicana è contraddittoria. I problemi sono soprattutto legati al ritardo nel campo delle energie rinnovabili, alla deforestazione e al grave inquinamento della capitale, città tra le più popolose e dall’aria più irrespirabile al mondo. Si notano invece progressi nelle posizioni che da tempo il Messico viene risalendo nelle graduatorie mondiali di protezione ambientale, e che poi hanno trovato un deciso impulso dalla firma del Nafta in poi. In vista della 21a Conferenza delle parti sul cambiamento climatico, che si è svolta a Parigi a fine 2015, il Messico ha presentato come contributo nazionale l’impegno a ridurre del 50% entro il 2050 le proprie emissioni di CO2, in linea con le aspettative della comunità internazionale. Peraltro, proprio il timore che le imprese statunitensi si trasferissero in Messico, confidando di riuscire a evitare gli ingenti costi sostenuti in patria per ridurre le emissioni nocive, era stato più volte sollevato dagli oppositori del Nafta. In realtà, dalla nascita dell’area di libero commercio, in Messico sono cresciuti in forma costante gli investimenti nelle energie alternative, nello smaltimento dei rifiuti e nella protezione delle aree boschive, con risultati incoraggianti.
Paese in pace con i vicini, coi quali non ha gravi contenziosi, il Messico mantiene un basso livello di spese per la difesa. L’integrazione con gli Usa per mezzo del Nafta ne ha tra l’altro accresciuto la sicurezza, consentendogli di mantenere pressoché stabili le risorse dedicate alla difesa delle frontiere. I problemi per la sicurezza messicana derivano semmai dal crescente peso del narcotraffico e dell’immigrazione clandestina negli Usa. Questa comunità, che si è triplicata nel corso degli ultimi vent’anni, costituisce sempre più un attore determinante nella politica statunitense, visto il crescente peso demografico e politico che vi esercita il voto latino, soprattutto nel sud del paese. Inevitabilmente, il rapporto tra Messico e Usa è fortemente influenzato dal tema migratorio, accanto a quello del contrasto al narcotraffico. Per cercare di contenere le minacce comuni i due paesi hanno elevato i rapporti di collaborazione in materia di anti-terrorismo e di lotta all’immigrazione clandestina. Un primo passo è stato l’accordo sul genere di informazioni che entrambi gli stati condivideranno per condurre le inchieste sul riciclaggio di denaro e su altri traffici illeciti firmato nell’aprile 2014 a Washington dal segretario al Tesoro, Jacob Lew, e dal ministro dell’Economia e delle Finanze, Luis Videgaray. Continua inoltre l’implementazione, congiuntamente agli Usa, del Plan Merida, che ha consentito al Messico di ricevere dal 2008 ad oggi 2,5 miliardi di dollari per contrastare il narcotraffico. Questi problemi hanno infatti una dimensione regionale, riguardando l’intera America Centrale e in particolare Guatemala, Salvador e Honduras, i quali poco hanno fatto nella lotta e nel contrasto dei traffici illeciti del crimine organizzato. Infatti, i principali gruppi criminali di questi paesi hanno stretto alleanze strategiche con le gang messicane che in cambio di armi e denaro per poter finanziare le proprie attività, hanno ottenuto il controllo dei cosiddetti puntos ciegos, territori fuori dall’autorità statale utilizzati dalle bande armate messicane per la propria formazione e per il reclutamento sul campo. Parallelamente i gruppi centroamericani sono riusciti a infiltrarsi nelle fila dell’esercito e dello stato seguendo un modus operandi analogo a quello dei cartelli messicani negli anni Novanta. In questo modo il problema dei traffici criminali non diventa più solo un affaire tra Usa e Messico ma riguarda in senso più ampio la sicurezza dell’intera regione, nonostante il Messico continui ad avere problemi di sicurezza al proprio interno. La lotta contro il narcotraffico portata avanti dal governo, già una delle questioni più controverse nel dibattito interno messicano, ha subito nel 2015 un duro colpo, soprattutto in termini di immagine, con l’evasione di Joaquin ‘el Chapo’ Guzmán (poi ricatturato nel gennaio 2016), capo del cartello di Sinaloa, dal carcere di massima sicurezza dell’Altiplano.
Nell’ultimo trentennio il Messico è stato protagonista di un’intensa fase di liberalizzazione commerciale che, dopo la firma del Gatt/Wto nel 1986, ha portato il paese a firmare nel 1994 il Nafta, un trattato di libero commercio che vede coinvolti anche Usa e Canada. Con la partecipazione al Nafta, l’economia messicana si è profondamente modificata, trasformando il paese in uno dei maggiori partner commerciali degli Usa e diventando quello con la più grande rete di accordi di libero scambio a livello mondiale. Un successo che ha lasciato il segno sulla geopolitica messicana, ancorandola assai più che in passato all’emisfero settentrionale delle Americhe e allontanandola in ugual misura da quello meridionale. Le possibilità di aprirsi ulteriormente ai mercati orientali e, allo stesso tempo, la necessità di riallacciare i contatti con il mondo latino limitando la leadership regionale – politica ed economica – di Brasile e Venezuela nel subcontinente, hanno permesso al Messico di esplorare nuove forme di regionalismo. Il Messico, insieme a Colombia, Perù e Cile, ha dato vita nel giugno 2012 all’Alleanza del Pacifico (Ap), un progetto di area di libero scambio mirato all’integrazione e al commercio con i mercati dell’Asia. L’Ap è un’organizzazione regionale dall’alto potenziale geopolitico che nel breve e medio periodo potrebbe ridefinire gli attuali equilibri latino-americani che vedono in Mercosur e Alba – rispettivamente guidate da Brasile e Venezuela –, le due organizzazioni leader del continente.
La lunga frontiera di 3145 km che separa Messico e Usa è da sempre una delicata cerniera tra il mondo latino a sud e quello anglosassone a nord. Da anni il confine è interessato da un incessante flusso di immigrati clandestini che ogni anno cercano di attraversarlo, spesso senza fortuna e andando anche incontro alla morte (quasi 5513 vittime negli ultimi 15 anni). Questa situazione ha alimentato dibattiti politici nei due paesi sull’opportunità o meno di erigere una barriera lungo il confine. La barriera, in costruzione dal 1994, è diventata il simbolo del complesso rapporto tra i due stati perché si è rivelata un filtro poco efficace al traffico di esseri umani, al narcotraffico e al commercio internazionale di armi. All’aumento delle regole e dei controlli per impedire l’immigrazione illegale sul suolo statunitense è coinciso, paradossalmente, anche un incremento di figure specializzate nel traffico di uomini da un lato all’altro del confine. Questi noti come ‘coyotes’ o ‘polleros’ sono dei carovanieri del deserto che operano con chiunque voglia attraversare il confine fra il Messico e gli Stati Uniti. Negli ultimi anni, però, la loro attività si è sempre più spesso intrecciata a quella delle reti criminali internazionali. Non è un caso che i cartelli della droga usino i ‘coyotes’ per permettere l’ingresso degli stupefacenti negli Usa. I migranti sono spesso vittime di violenze e ricatti da parte delle organizzazioni criminali che li sfruttano per il traffico di droga, di esseri umani e della prostituzione. Negli ultimi anni tuttavia il Messico si sta caratterizzando come luogo di transito dei clandestini, provenienti soprattutto da Honduras, Guatemala e Salvador. Le misure e i grandi investimenti sinora annunciati da ambo le parti per rendere impermeabile la frontiera si sono rivelati inefficaci tanto che la frontiera a nord del Messico è considerata la terza più pericolosa al mondo dopo il Golfo del Bengala e il Mediterraneo secondo le cifre emanate dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni.
Approfondimento
I mezzi di comunicazione internazionali, nel riferirsi al contesto messicano, ricorrono sempre più spesso all’associazione tra violenza politica e narcotraffico. Altrettanto avviene negli ultimi rapporti di organismi del calibro della Commissione inter-americana di diritti umani, Human Rights Watch e Amnesty International, o di istituzioni quali il Congresso nordamericano e il parlamento europeo. In tutti questi casi è evidente come la percezione della violenza in Messico, prima circoscritta ai cartelli della droga, comincia ad abbracciare le istituzioni dello stato incaricate di combatterla. Se già da tempo la comunità internazionale ha espresso preoccupazione per l’aumento delle cosiddette ‘vittime collaterali’, quali sono ora i fattori che spingono sempre più ad interpretare come politica una violenza che potrebbe continuare ad essere letta e trattata – rifacendosi alla versione ufficiale del governo messicano – come problema di pubblica sicurezza?
La feroce competizione per il controllo del mercato illegale tra i principali raggruppamenti criminali viene richiamata comunemente come causa degli omicidi (130.000), delle sparizioni (26.000) e dell’esodo massivo di persone (circa un milione) a partire dal 2006, anno in cui l’ex presidente della repubblica federale, Felipe Calderón Hinojosa, del Partido de Acción Nacional (PAN) rappresentante la destra messicana, dichiarò guerra al narcotraffico. Tuttavia, le numerose prove dell’infiltrazione del crimine organizzato negli apparati dello stato, e il coinvolgimento di membri delle forze armate e della polizia in pratiche di tortura, assassinio e sparizione forzata di presunti delinquenti (ma anche di attivisti politici, difensori di diritti umani e giornalisti), ha minato seriamente la credibilità di una versione politica ufficiale basata sulla chiara e definita separazione tra governo e criminalità.
L’attuale governo si è riproposto fin dall’inizio del suo mandato di fronteggiare il problema dimostrando la solidità istituzionale e rimuovendo dall’agenda politica il tema della violenza, per concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle riforme strutturali concordate con il resto delle forze politiche nel segno del ‘Patto per il Messico’. Tuttavia, l’incremento della violenza e il sospetto di nuovi scandali di corruzione, che vedono implicati tanto il presidente quanto il suo gabinetto, hanno reso opaca la sua strategia.
In generale, si potrebbe affermare che la violenza politica, nel contesto messicano attuale, è il prodotto sia della crescente criminalizzazione della povertà e del dissenso sociale, sia della ferrea volontà dei cartelli della droga di garantire e proteggere direttamente i propri interessi, agendo dall’interno degli apparati statali. Sono tragicamente numerosi gli episodi a dimostrazione di quanto detto ed alcuni di questi meritano di essere citati per il modo in cui palesano a livello internazionale la questione della violenza politica nel contesto della lotta al narcotraffico. La sparizione il 26 settembre 2014 degli studenti della scuola normale rurale di Ayotzinapa, Guerrero (sud-est del Messico) è senza dubbio, uno di questi.
A distanza di quasi dieci anni dalla dichiarazione ufficiale di guerra ai cartelli della droga, si sono registrati numerosi episodi di violenza quali sequestri, stragi e inumazioni clandestine di centinaia di cadaveri non identificati, come nel caso del sequestro e assassinio di 72 migranti centroamericani a san Fernando, Tamaulipas (nord del Messico), nell’agosto del 2010. Tuttavia, l’attacco, il sequestro e la successiva sparizione dei 43 studenti di Ayotzinapa mostra – forse come nessun altro episodio – il grado di infiltrazione mafiosa che esiste in alcuni stati della repubblica federale messicana. I reati in questione, infatti, non sono stati commessi da elementi deviati delle forze dell’ordine, ma rivelano l’azione coordinata delle autorità civili, della polizia municipale e del cartello ‘Guerreros Unidos’.
Recentemente il gruppo inter-disciplinare di esperti indipendenti – istituito dalla Commissione inter-americana di diritti umani, per fare chiarezza sull’accaduto e capire dove sono stati occultati gli studenti scomparsi – ha provato che l’ex governatore dello stato di Guerrero, Ángel Aguirre, e il gabinetto di sicurezza nazionale, che include i ministri di interni e difesa, era venuto a conoscenza di ciò che stava accadendo. Questo fatto non implica necessariamente che le collusioni raggiungano livelli così alti, però alimenta seriamente il dubbio sulla capacità dello stato di garantire sicurezza ai propri cittadini. Dubbio ancor più legittimo considerato che le prime reazioni ufficiali si sono avute non prima di un mese dall’accaduto e solo in seguito a numerose manifestazioni in Messico e in altri paesi.
Nel 2010 il governo statunitense concesse asilo politico ad un giornalista messicano, Jorge Luis Aguirre, quando fu dimostrato che le minacce di morte, dirette a lui e alla famiglia, provenivano direttamente dal governo dello stato di Chihuahua. Il giornalista affermò, dinnanzi al Comitato di giustizia del Senato nordamericano, che in Messico, quando giornalisti o cittadini criticano un cartello della droga in realtà criticano il governo locale e quando denunciano il governo locale stanno, generalmente a loro insaputa, criticando un cartello. I casi degli studenti di Ayotzinapa e delle decine di giornalisti esiliati (come Aguirre) o uccisi (55 dal 2010), sono le nefaste ma immediate ripercussioni che la situazione di violenza politica generalizzata ha sull’esercizio delle libertà democratiche fondamentali di espressione e di manifestazione pacifica del dissenso.
di Miguel Alejandro Gonzàles Ledesma