MESSINA
(gr. Ζάγϰλη, Μεσσήνη; lat. Mesana)
Città della Sicilia nordorientale, capoluogo di provincia, posta sulla costa occidentale dello stretto che proprio da essa prende il nome.
Il principio dell'insediamento urbano è la naturale 'falce' portuale su cui esso prospetta, che diede nome Ζάγϰλη alla colonia greca. Con una trama ruotata rispetto alla medievale, la città si era sviluppata nella piana alluvionale stretta tra mare Ionio e pendici peloritane, solcata dai torrenti Portalegni e Boccetta, che, come documentano le necropoli in riva destra dell'uno (Griffo, 1942) e in riva sinistra dell'altro (Orsi, 1916, pp. 11-80), le hanno offerto i confini meridionale al piede della falce e settentrionale di fronte alla sua estremità, sui quali sin da epoca romana si sono attestate le mura che avrebbero difeso M. dalle invasioni barbariche (Procopio di Cesarea, De bello Gothico, III, 3).La diffusione del cristianesimo nei secc. 3°-4° consolidò tale configurazione con la trasformazione di templi pagani in chiese (Buonfiglio Costanzo, 1606, pp. 16b, 17a, 22b, 32b) e la costruzione di altre chiese, talora con elementi di spoglio, così aggiornando i significati urbani del sito e i valori simbolici di riferimento della comunità, a discapito dei centri limitrofi, come nel caso del duomo, in cui sarebbe stato riutilizzato lo smontaggio del tempio di Nettuno di Ganzirri, centro più settentrionale della costa in prossimità del capo Peloro (Gallo, 1755, pp. 15, 254).A seguito delle invasioni barbariche M. rinsaldò i legami con Bisanzio, che la premiò con lo scalo delle navi mercantili, riconoscendole il governo stratigoziale e il controllo della costa calabra. L'allevamento del baco da seta nei territori pedemontani contribuì alla floridità di un lungo periodo di stabilità, in cui la città consolidò il proprio perimetro e si espanse saturando le aree interne, e cui vanno ascritte la prima fase, del tutto interrata per il susseguirsi delle alluvioni, della piccola chiesa di S. Tommaso Apostolo (Campo, 1994, pp. 173-174) sull'od. via Romagnosi - i saggi stratigrafici hanno restituito in profondità cocciame di epoca tardoantica, bizantina e altomedievale - e le due chiese extra moenia di S. Giovanni Battista il Precursore, del 536, in riva sinistra del torrente Boccetta, poi S. Giovanni di Malta e del tutto trasformata (Gallo, 1755, pp. 25, 33), e dei Ss. Stefano, Pancrazio ed Epulio, del 602, in riva destra (Gallo, 1755, p. 242), l'una ridimensionata e l'altra distrutta dal terremoto del 1908.Quando la città capitolò agli Arabi nell'843, molti messinesi migrarono a Rometta, roccaforte peloritana. Quasi distrutta dall'invasore nel 901 a causa d'una flotta greca in porto (Amari, 1933-19392, II, p. 91), M. decadde a villaggio costiero (Yāqūt, Mu'jam al-buldān, sec. 13°; Amari, 1933-19392, I, p. 570); la caduta di Rometta nel 965 determinò il ritorno di un cospicuo numero di abitanti e una nuova disposizione dei musulmani, che favorirono la graduale ripresa di M., rifortificandola e riaprendone il porto ai traffici (Peri, 1953-1956, pp. 107-108).Nel 1061 M. fu la prima città conquistata dai Normanni (Amari, 1933-19392, III, p. 70), che la elevarono a propria residenza. Attorno al porto, potenziato e affrancato, si concentrò l'attività edificatoria: il palazzo, poi Reale, in riva sinistra della foce del Portalegni, probabile ristrutturazione del castello arabo, fu caposaldo della nuova cinta voluta da Ruggero I nel 1081 (Goffredo Malaterra, De rebus gestis Rogerii).Furono così inserite nel perimetro urbano vaste aree finalizzate alla sussistenza della popolazione in caso d'assedio, che in parte offrirono accoglienza al flusso di etnie diverse (al-Idrisī, Nuzhat al-mushtāq fī'khtirāq al-āfāq, sec. 12°): lungo le mura meridionali, gli ebrei nella contrada del Paraporto, con piazza e ponte della Giudecca, e gli armeni più a O in prossimità della porta dei Gentilmeni; i greci attorno alle numerose chiese ortodosse, come i mercanti genovesi, amalfitani, fiorentini, pisani e veneti raccolti attorno ai propri culti (Ioli Gigante, 1980, p. 15), sicché tante chiese sono documentate dalle fonti, ma di poche permangono tracce.La chiesa di S. Tommaso Apostolo ha restituito frammenti d'intonaco dipinto con resti d'iscrizione greca, "di stile bizantino ma di migliore attribuzione cronologica a epoca normanna" (G. Scibona, S. Tommaso Apostolo. Saggio di scavo archeologico, gennaio-luglio 1987; Messina, Arch. della Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali, prot. 29.12.1987, nr. 3194, p. 29), che documentano una seconda fase riferibile al "periodo della conquista e della contea" (Di Stefano, 19792, p. XLI), cui pure andava ascritta la cattedrale di S. Niccolò all'Arcivescovado, "ristorata, non già edificata dal Conte Ruggiero" (Gallo, 1755, p. 222). Ruggero II (1130-1154) costruì un nuovo duomo, S. Maria la Nuova (Buonfiglio Costanzo, 1606, p. 11a), agibile dal 1168 e consacrato nel 1197 (Basile, 1981, p. 57), che della fondazione medievale conserva le dimensioni, l'impianto tipologico basilicale con colonne e archi a sesto acuto, ampio transetto in risalto sulle navate laterali con absidi deassiate e la 'chiesa di sotto' scandita da colonne di spoglio e crociere ogivali, poi decorate da stucchi barocchi.Descrizioni letterarie, che indicano il palazzo Reale "bianco, come una colomba, il quale domina la spiaggia" (Ibn Jubayr, Riḥla, sec. 12°), munito di due torri (Buonfiglio Costanzo, 1606, p. 2a) o con tre torri nei prospetti orientale e occidentale (Di Marzo, 1858-1864, V, pp. 314-315), trovano vaga conferma nella cartografia cinquecentesca e nella vedutistica sei-settecentesca, ove esso è rappresentato con pianta quadrangolare e torri d'angolo (Consolo, 1993); tale configurazione, se originaria, costituirebbe un precedente autoctono dei castelli svevi.Con Ruggero II, M. fu sede dal 1131 dell'archimandritato del S. Salvatore in lingua Phari (Basile, 1981, p. 7), in prossimità della torre S. Anna, con giurisdizione sui monasteri di rito ortodosso siculo-calabri, di cui rimangono nel circondario, trasformati e in abbandono, quelli di S. Maria (1092) a Mili San Pietro e di S. Filippo il Grande (1100) a San Filippo Superiore; demolito nel 1540 per far luogo all'omonimo forte, resta evidente la valenza urbanistica d'assunzione della falce portuale alla città con un insediamento di carattere territoriale. La torre S. Anna persiste, 'nocciolo' del bastione del forte e struttura fondale della novecentesca stele della Madonna della Lettera.Unica testimonianza delle fabbriche religiose del periodo successivo è la chiesa dell'Annunciata del Castellammare, che rientra nel novero delle supposte trasformazioni di templi pagani e che prende nome dal vicino forte normanno (Buonfiglio Costanzo, 1606). Un intervento di ricomposizione del prospetto in posizione arretrata ha dimezzato il corpo delle navate precedentemente di otto campate; essa presenta caratteristiche stilistiche siculo-calabre di matrice bizantina che ne consentono un accostamento, in versione più matura, essendo "Cappella Reale, fondata con ricche entrate da' Rè di Sicilia" (Samperi, 1644, p. 41), alla chiesa del monastero basiliano dei Ss. Pietro e Paolo d'Agrò, edificata nel 1116 e 'rinnovata' nel 1172 a seguito del terremoto del 1169 (Campo, 1991, p. 18), con cui ha in comune la pianta basilicale a croce commissa, la cupola calva, le volte a crociera estradossate a terrazza nelle navatelle, la vivace policromia dei paramenti esterni (ottenuta dalla composizione di disegni geometrici attraverso un uso alternato di laterizio, pomice basaltica, tufo calcareo e pietra di Siracusa), i portali lunettati e il doppio archeggiato cieco perimetrale a sesto centrale, qui limitato alla parte postica e al tamburo e impostato su marmoree colonnine a tutto tondo; in via ipotetica, lo stesso terremoto del 1169 (Catalogo dei forti terremoti, 1995, pp. 192-193) potrebbe aver determinato l'arretramento del prospetto dell'Annunciata, la cui edificazione risalirebbe così a Guglielmo I (1154-1166). All'interno la chiesa presenta nelle ghiere degli archi gli stessi giochi cromatici, e quello absidale con le colonne di doppio ordine alveolate negli stipiti ne conferma il radicamento nella tradizione arabo-normanna.Persistono i ruderi del monastero extra moenia di S. Maria del Carmelo, fondato nel 1166 in riva sinistra del torrente Giostra, e, in un edificio dell'od. via I Settembre, due campate con crociere ogivali pertinenti alla chiesa di S. Maria la Cattolica, utilizzata dal clero greco di fede cattolica dal 1168 (Gallo, 1755, p. 191).Nei primi anni della dominazione sveva si configurò la trama ortogonale che ha poi definito costantemente il disegno urbano cittadino sino al piano di ricostruzione conseguente al terremoto del 1908. Le vaste aree libere interne alla cinta normanna, a N del centro civico definito dal duomo e dal palazzo Reale, vennero urbanizzate secondo una regolare scacchiera, adottata per la prima volta e riscontrabile nei successivi insediamenti di fondazione federiciana. La datazione di questa 'nova urbe' è documentata da atti di compravendita d'immobili, i più antichi risalenti al 1200 (Ioli Gigante, 1980, pp. 18-19). L'ampiezza e la regolarità dell'addizione urbana sono deducibili dalla cartografia cinquecentesca, in cui essa risulta compiuta e con le residenze dei nuovi ceti artigiani, che determinarono una toponomastica per mestieri, scandite da edifici civili e religiosi non pervenuti.In due lettere del 3 aprile 1240 da Lucera, Federico II lamenta ritardi nella costruzione, da poco avviata, di un novum castrum non diversamente documentato (Agnello, 1961, pp. 375-381), ma che dall'analisi iconografica è ipotizzabile che fosse il castello di Matagrifone sulla rocca Guelfonia, dove Riccardo Cuor di Leone aveva svernato nel 1190; le osservazioni in merito già sviluppate sulla vedutistica (Basile, 1972, pp. 5, 23, n. 1) trovano conforto in più precise rappresentazioni cartografiche seicentesche (Negro, Ventimiglia Ruiz, 1640, ed. 1992, cc. 76v, 77r, pp. 160-161, 217, nrr. 81-82; Dufour, 1992, p. 199, tavv. 152-153), in cui risaltano la tipologia castrense sveva e l'adozione del mastio pentagonale come ripetuta soluzione angolare, diversamente dal castello di Augusta (prov. Siracusa), dove è impiegato come unica torre mediana (Campo, in corso di stampa).M. annovera tre chiese del periodo: S. Maria della Valle o della Scala, detta Badiazza; S. Maria degli Alemanni, detta l'Alemanna, e S. Francesco d'Assisi (Bottari, 1950, p. 3). Rispetto alla smaterializzazione simbolica proposta dall'archeggiato cieco nella normanna Annunciata, anticipatrice di quella compiuta dall'architettura gotica, queste chiese costituiscono un ritorno alla compatta scatola muraria romanico-sicula, solo in parte dovuto all'ubicazione suburbana dei monasteri di cui la Badiazza e S. Francesco facevano parte e alla qualificazione militare dell'Ordine dei Cavalieri Teutonici, cui l'Alemanna e l'annesso ospedale appartenevano.Nella Badiazza - del cui convento si ha traccia documentale sin dal 1168 con la denominazione S. Maria de Scalis (Samperi, 1644, p. 315) - l'addizione del corpo longitudinale delle navate di matrice latina e di quello centrico del santuario di derivazione bizantina riporta alla matura tradizione normanna; ma la marcata caratterizzazione palaziale dei prospetti, specie nel presbiterio, ne ha consentito l'accostamento ai castelli svevi di Siracusa e Catania (Di Stefano, 1938; Bottari, 1950, p. 5; Agnello, 1961, pp. 270, 272) e, in drastica alternativa filologico-cronologica, a quelli aragonesi (Basile, 1972, pp. 10, 26). Le volte a crociera, come nelle navatelle dell'Annunciata, sono rinfiancate a terrazza; l'articolazione spaziale del santuario è quella della sala dei Venti del palazzo Reale di Palermo, ma gli archi laterali sono alleggeriti dei setti murari superiori, sicché qui non costituiscono lo sfondamento di un contrafforte di tipo romanico, ma espletano l'azione statica di controspinta dei carichi della cupola (in pomice lavica costolonata a spicchi con tamburo raccordato all'imposta quadra da pennacchi alveolati da archetti sovrapposti); gli archi minori, però, scaricano sulla muratura senza la mediazione di elementi verticali e le crociere estradossate in piano e praticabili delle campatelle angolari del santuario sviliscono il sistema di archi degradanti, trasferendo il matroneo nello spazio liturgico, con un'innovazione dai non chiari risvolti funzionali e, quindi, di irrilevante portato tipologico.L'analisi degli elementi decorativi, associata alla frequenza e alla generosità delle donazioni risultanti da diplomi di periodo federiciano, ha consentito di indicare gotico-cistercensi gli alzati interni e di assimilare a quelli calcarei dei castelli svevi i capitelli, qui di lavorazione più sommaria perché in tenera pietra arenaria (Di Stefano, 1938; Agnello, 1961, p. 267); quelli a crochets delle colonne dell'arco absidale, incassate nello spigolo murario, riprendendo un motivo della tradizione normanno-sicula, sono della stessa fattura di quelli dell'imposta dell'arco (dai numerosi sottili conci) del portale laterale sinistro e di gusto molto prossimo a quello dei più aggiornati tra i capitelli dell'Alemanna, con cui la Badiazza condivide il ritmo austero e serrato delle absidi.Il portale sinistro, pur con forme semplificate, è accostabile a quello di castel Maniace (prov. Siracusa; Di Stefano, 1938; Agnello, 1961, p. 270), mentre i portaletti che dalla loggia posteriore destra del santuario consentivano la comunicazione con il monastero e con le terrazze di copertura, in conci in pietra calcarea e archiacuti con cornicetta sopracigliare in pietra lavica a capi estroflessi, rinviano al portale del castello di Milazzo. Nelle colonne quadrilobe in rocchi lungo le navate, su cui scaricano i convergenti archi a sesto acuto attraverso abachi cruciformi, analoghi a quelli di castel Maniace (Di Stefano, 1938), si ritrova l'evoluzione strutturale delle chiese romaniche dei secc. 11° e 12°, in specie il prolungarsi a terra delle spalle degli archi attraverso fusti di colonne; ma l'effetto spaziale è diverso.Nell'Alemanna l'ipotesi di datazione all'ultimo decennio del sec. 12°, rispetto a quella ricorrente al primo quarto del 13° (Bottari, 1950, p. 10), rende meno attardato il contrasto, tipico del Romanico maturo, fra la smaterializzazione dello spazio interno e la sua massiccia recinzione a protezione dell'azione liturgica. I rilievi architettonici del 1891, prodotti da Raimondo D'Aronco (Mus. Regionale), consentono di valutare la spazialità della chiesa precedente i parziali restauri novecenteschi (Lombardo, 1906).La chiesa, già priva degli archi trasversali della navata, denunciava, dalle tracce lasciate sui muri d'ambito, la copertura delle campate con crociere a sesto leggermente acuto nella navata e più spinto nelle navatelle; ciò ha fatto ipotizzare l'originaria presenza di nervature diagonali che avrebbero scaricato i pesi delle volte attraverso le contrapposte coppie dei più esili fusti colonnari concorrenti nel fascio polistilo (Di Stefano, 1938; Agnello, 1961, p. 292) e concludere, con rare eccezioni (Basile, 1976, p. 12), sulla sua organica goticità (Toesca, 1927, p. 722; Calandra, 1938, p. 51; Di Stefano, 1938; Agnello, 1961, p. 293; Aricò, 1989, p. 871). Senonché nelle lunette, perimetrate dalle non più esistenti crociere della navata, non vi è traccia di finestra e si sarebbe, quindi, in presenza di una chiesa gotica paradossalmente senza cleristorio e illuminata da poche monofore perimetrali; i contorni delle lunette, poi, sono linee senza spessore, al di sopra e al di sotto delle quali i rilievi denunciano il medesimo paramento a vista in conci di gesso ballatino e la cui chiave tange una superiore cornice continua che perimetra le singole campate.Si deve dedurre che le volte riferibili alle tracce riportate sui rilievi, e confermate da una foto d'epoca, non fossero coeve alle strutture pervenute, né spingenti, ma ordinariamente costituite da centine, canne e gesso, verosimilmente riferibili a documentati restauri seicenteschi (Basile, 1976, p. 14). La delicata cornicetta a nastro marcava il piano d'imposta delle originarie coperture, tangente all'estradosso degli archi diaframma della navata e alla quota dei capitelli, connessi da esili colonnine alle mensole antropomorfiche dell'abside centrale, da cui probabilmente spiccavano i salienti del catino. La chiesa aveva sin dall'origine l'attuale impianto a tre navate, senza transetto né cleristorio.Dei due portali, quello laterale - già conservato al Mus. Regionale e ricollocato nel corso dei restauri del 1986 - è il solo elemento in marmo, essendo il prospetto sinistro su cui si apre l'unico prospiciente la pubblica via e quindi più esposto all'usura; il centrale era invece in gesso ballatino, come documentano i ca. venti conci superstiti delle tre ghiere ogivali sovrapposte (Mus. Regionale; Di Giacomo, 1995, pp. 692-693), che confermano un'incisione seicentesca (Samperi, 1644, p. 474, fig. 56). La chiesa prospettava, probabilmente con un portico da cui potrebbero provenire alcuni capitelli pure in gesso ballatino, su un cortile dell'ospedale a cui era annessa e al cui prospetto potrebbero riferirsi tre mensoloni in calcare gessoso con figure angeliche con libri aperti (Mus. Regionale).Seppur ritenuta "l'unico monumento siciliano in cui sia documentabile un'attività nel breve periodo angioino" (Calandra, 1938, p. 51), la sola chiesa con data certa di fondazione, il 1254, è quella di S. Francesco (Buonfiglio Costanzo, 1606, p. 29a; Samperi, 1644, p. 175; Gallo, 1755, p. 127). Pervenuta ricostruita nelle forme originali reimpiegando l'apparecchiatura lapidea delle absidi, recuperata dalla distruzione del terremoto del 1908, leggermente deassiata rispetto alla prima giacitura, ad aula unica e croce commissa determinata da un possente transetto su cui s'innestano tre absidi poligonali, la chiesa supera il sistema delle campate, proponendo un unico grande spazio longitudinale omogeneamente illuminato da strette e allungate monofore a doppio strombo, simili a quelle della Badiazza (Di Stefano, 1938). Come doveva essere nell'Alemanna, i catini absidali sono volte costolonate, qui articolate in sette spicchi nella maggiore e cinque nelle laterali, irradianti da conci di chiave segnati da croci patenti; all'esterno, in corrispondenza di queste nervature, contrafforti in pietra squadrata, fra loro collegati da archi a tutto sesto, aderiscono alla muratura perimetrale delle absidi, secondo il tradizionale impiego romanico.Le navate longitudinale e trasversale sono coperte a tetto con primaria orditura a capriate; la cortina muraria è spostata all'esterno degli speroni, in modo da definire un'ininterrotta serie di otto cappelle per lato, chiamate a misurare longitudinalmente la grande aula non più scandita da campate; ma lo spazio unico così ottenuto è altro dall'integrazione pluridirezionale di unità spaziali interattive e riconoscibili dell'architettura gotica; si è ancora in presenza di perimetri continui e massicci e, se i setti laterali voltati a sesto acuto avrebbero potuto produrre anche nella navata la compenetrazione luministica interno-esterno proposta nelle absidi, le strette monofore sulla loro tompagnatura muraria registrano una volta di più la chiusura, nella pratica religiosa isolana, verso una spiritualità espressa non più dentro un recinto protetto, ma simbolicamente dispiegata nello spazio universale. La chiesa rispecchia la semplicità dell'Ordine mendicante cui apparteneva, che per definizione quello spazio universale è chiamato a percorrere e a evangelizzare.Le absidi di S. Francesco costituiscono la naturale conclusione di quel processo di smaterializzazione avviato con l'archeggiato manto paramentale dell'architettura di periodo normanno, come dimostra il confronto con quelle della chiesa ruggeriana di Santo Spirito nei pressi di Caltanissetta; che questo processo si limiti alla parte postica e non coinvolga il corpo longitudinale (Agnello, 1961, pp. 310-311), conferma ancora una volta la spazialità di tipo gerarchico corrispondente alla spiritualità romanica.Il 18 marzo 1271 la chiesa dell'Annunciata di Castellammare fu "dalli Rè d'Aragona, con molti altri Privilegi, alla Nation Catalana conceduta" (Samperi, 1644, p. 231), assumendo la denominazione di Annunziata dei Catalani, così ratificando la rilevanza di quella comunità nella vita cittadina, in specie mercantile. Le cronache del tempo riportano, invece, le distruzioni perpetrate durante la guerra del Vespro dalle truppe francesi, che divelgono "le travi e le colonne di marmo delle sacre collocazioni e dilapidano la reverenda casa santa della Madonna della Scala messinese" (Bartolomeo da Neocastro, Historia Sicula). Non rinvenendo elementi marmorei oltre all'architrave di spoglio del portale maggiore, quelle colonne potrebbero essere d'un portale originario alla cui devastazione quello pervenuto avrebbe posto rimedio nell'ambito del restauro aragonese, cui è pure riferibile la nicchia con cornice sporgente trilobata all'esterno dell'abside sinistra; così, forse, anche le crociere innervate della navata centrale, che scaricano su possenti mensole incassate negli angoli murari, avrebbero rimediato alle 'travi divelte' d'un probabile tetto originario. Di certo, il periodo aragonese produsse anche altri restauri, fra cui quello del tetto del duomo, voluto da Manfredi (1254-1266; Agnello, 1961, p. 308), ma poco dopo distrutto nel 1254 da un incendio, durante i funerali del fratellastro Corrado IV (1251-1254; Foti, 1983, p. 463).Nella seconda metà del sec. 13° e nel corso del 14° M. consolidò l'addizione sveva, i cui abitanti, prevalentemente artigiani, si confermarono ceti emergenti, al punto di ottenere l'istituzione nel 1296 dell'annuale fiera del Santo Sepolcro, tenuta in aprile fuori le mura, in riva sinistra della foce del torrente Giostra, per la promozione dei prodotti siculo-calabri, anche se il commercio cittadino, dalla metà del sec. 14°, sarebbe in parte passato sotto il controllo di mercanti forestieri, in specie genovesi (Ioli Gigante, 1980, p. 20). La fiera sancì definitivamente che le aree a N del Boccetta fossero quelle deputate all'espansione messinese dei secoli successivi; vocazione invero latente sin dal periodo bizantino.
Bibl.:
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Le sistematiche distruzioni avvenute a causa dei terremoti, e i conseguenti interventi di ricostruzione del tessuto urbano, hanno privato M. di emergenze significative e portato a stratificazioni di difficile lettura. Così anche la conoscenza delle manifestazioni artistiche relative al periodo che va dalla conquista bizantina fino a quella normanna è limitata quasi soltanto alle acquisizioni di scavo. Recenti campagne condotte nel cortile del municipio e nella chiesa di S. Tommaso Apostolo promettono sviluppi interessanti sull'importanza di M. come città portuale, e quindi ricettiva di fenomeni di importazione, ma lasciano anche intravedere possibilità di una sua individuazione come centro di produzione ceramica.Tra i manufatti, attribuibile al periodo bizantino, probabilmente non anteriore al sec. 8°, è la rilavorazione a croci e losanghe del fronte di un sarcofago romano (Mus. Regionale, inv. nr. 246). La nitida decorazione, razionalmente distribuita con tre croci inquadrate in rombi tra fiori di loto, e la stilizzazione dei motivi vegetali condotti a rilievo piatto sulla superficie liscia del fondo ne rapportano la trattazione alle decorazioni di sec. 6° di S. Clemente a Roma o, con maggiore verosimiglianza, ad alcune opere di Otranto (Mastelloni, 1995). Ancora a un'epoca che oscilla tra il periodo tardobizantino, quello arabo e quello protonormanno, possono essere assegnati un frammento di pluteo con croce racchiusa in un clipeo, a sua volta inscritto in un rombo (Mus. Regionale, inv. nr. 3075), e alcuni capitelli (Mus. Regionale, inv. nrr. 251, 265). Questi pochi elementi denunciano chiaramente la loro appartenenza alla decorazione di edifici di cui si è persa ogni traccia. L'incerta caratterizzazione stilistica, se non permette di farli risalire con certezza all'età bizantina, suggerisce però i termini di un processo di trasformazione, verificatosi nella plastica ornamentale, tendente verso forme di spiccata stilizzazione.Anche le tracce relative alla dominazione araba risultano irrilevanti e prive di documentazione, e semmai repertori figurativi e tecniche di lavorazione a essa riferibili costituiscono, come già per la produzione bizantina, un patrimonio ampiamente utilizzato nel periodo normanno. Infatti, elementi rappresentativi della persistenza della cultura araba in città sono alcuni materiali eterogenei, riutilizzati o pertinenti già a epoca normanna: reimpiegato nel sec. 15°, capovolto, come reliquiario è il flacone in cristallo di rocca (Tesoro del Duomo) ritenuto di epoca fatimide (Accascina, 1965; Scerrato, 1979; Ciolino, 1995), mentre presumibilmente oggetto di riutilizzo da due cippi tombali arabi è una coppia di pilastrini (Mus. Regionale, inv. nrr. 259, 260) con colonnine recanti iscrizioni cufiche da un lato e decorazioni fitomorfe dall'altro, coerenti queste con un modulo decorativo di tradizione bizantina. Tra i pochi reperti di chiara ispirazione araba è la scritta dedicatoria che ornava la facciata del palazzo Reale di Ruggero II (1130-1154), di elegante valore decorativo, intarsiata in marmo con lettere cufiche in porfido verde (Mus. Regionale; Amari, 1875-1885; Scerrato, 1979). Ancora d'ispirazione islamica e di spiccato carattere araldico con motivi mutuati dai repertori dei tessuti e degli avori è un rilievo frammentario, forse di un pluteo, con la raffigurazione di un leone (Mus. Regionale, inv. nr. 262).L'impulso alla rinascita del cenobitismo basiliano fu in un certo senso istituzionalizzato dallo stesso Ruggero II, quando fondò nel 1131 l'archimandritato messinese, destinato a presiedere le comunità basiliane del Val Demone, legato culturalmente con l'Oriente bizantino e indubbiamente tramite per la produzione e diffusione di quella cultura. L'indirizzo artistico che ne derivò, abbastanza omogeneo in un gruppo di manufatti, che fa ritenere ormai acquisita l'esistenza di un'officina legata al monastero, è caratterizzato da un repertorio di stilemi decorativi - nastri viminei, palmette, tralci con fogliami e pigne - che si qualifica all'interno della perdurante tradizione bizantina, i cui esempi sono costituiti da capitelli, manufatti di uso liturgico, come pilette o conche, e altri materiali di incerta utilizzazione (Mus. Regionale). Nel contesto di questa produzione gli elementi più significativi sono il sarcofago di Luca, primo archimandrita (m. nel 1149) designato da Ruggero a capo del S. Salvatore (Mus. Regionale, inv. nr. 290), rilavorato verosimilmente su un marmo di fattura bizantina - come lascerebbe supporre la decorazione a coda pavone sul lato lungo, in cui al centro era l'epigrafe racchiusa nella cornice - e caratterizzato nel lato breve di sinistra da una decorazione a nastro tripartito, con croce patente al centro di un clipeo tra girali simmetrici stilizzati ai lati, terminanti in basso con due tondi con tre pigne spiccate da palmette, nonché la conca marmorea, firmata da Gandolfo e datata 1134, ritrovata nel 1876 nel forte S. Salvatore, dove una volta era il potente monastero basiliano, che reca iscrizioni in greco correnti lungo il listello e il bordo, nelle quali si riferisce la committenza da parte dell'archimandrita Luca nel 1134. Il manufatto, caratterizzato da quattro teste angolari, ha strettissima affinità con la conca del 1136 del monastero del Patírion, presso Rossano (prov. Cosenza; New York, Metropolitan Mus. of Art), oltre che con altri esemplari francesi e britannici, e in Sicilia con due conche conservate a Siracusa (Mus. Naz. di Palazzo Bellomo) e a castel Maniace. Le quattro protomi umane ricorrono in altre conche di Bastogne in Lussemburgo (Pudelko, 1932; Mastelloni, 1995) e in altri esemplari francesi e confermano, anche per la struttura, la derivazione dell'esemplare messinese da uno schema nordico, evidenziato anche dal nome straniero dello scultore, italianizzato in Gandolfo. Questa componente nordica, individuata anche in altri esempi conservati al Mus. Regionale, quali la vaschetta con protomi umane (inv. nr. 245), un frammento con due animali che si inseguono, trattati con rude espressività (inv. nr. 324), due piccoli capitelli zoomorfi e antropomorfi (inv. nrr. 274, 275), sembra attingere a repertori romanici divulgati nell'Italia meridionale (Campagna Cicala, 1994). Ad area culturale di ascendenza franco-borgognona che richiama matrici dell'arte tardoantica si può ascrivere una testa di apostolo (Mus. Regionale, inv. nr. 231), presumibilmente frammento di una statua intera (Bonacasa Carra, 1982), che per una maggiore attenzione formale sembra da porsi in collegamento con le protomi della conca gandolfiana, confermando gli influssi dell'arte occidentale nello sviluppo del movimento romanico siciliano.All'interno del processo di ricristianizzazione dell'isola e della riorganizzazione ecclesiastica voluta dalla politica normanna, l'istituzione messinese acquistò un suo ruolo fin dai tempi di Ruggero I, ma solo nel 1098 alla Messanensis Ecclesia venne restituita la dignità episcopale; nel 1166 Alessandro III concesse la dignità metropolitica con i diritti e i privilegi a essa connessi. Alla edificazione della cattedrale di M., inaugurata nel 1197, venne dato un notevole impulso dall'interessamento di Riccardo Palmer, arcivescovo dal 1182 al 1195, esponente di una nobile famiglia di origine anglosassone, che durante i precedenti incarichi palermitani aveva partecipato al fervido clima della corte normanna e anche nei successivi mandati, a Siracusa e a M., fu promotore di cultura e d'arte. Da Siracusa il prelato portò con sé il braccio-reliquiario di s. Marziano (Tesoro del Duomo), la cui tipologia, ispirata a modelli occidentali, adotta per l'aspetto decorativo motivi ornamentali tratti dal repertorio arabo-bizantino (Accascina, 1974; Ciolino, 1995). Verosimilmente, durante la sua carica e per suo impulso ebbero avvio la costituzione dello scriptorium presso lo stesso duomo e l'importante produzione miniatoria, di cui esemplari si conservarono in città fino al sec. 15°, per poi andare in gran parte dispersi. A questa scuola è stato ascritto un gruppo di codici di cui fanno parte un evangeliario e un epistolario conservati a M. (Bibl. Painiana, 10; 11), quattro vangeli a Firenze (Bibl. Riccardiana, 227), un evangeliario a Roma (BAV, Vat. lat. 42) e una Bibbia in diciassette volumi, un'altra Bibbia, due omiliari e un sacramentario a Madrid (Bibl. Nac., 31-47; 6; 9-10; 52). Nonostante sia stata confutata l'esistenza di questo scriptorium messinese e i codici siano stati datati in epoca federiciana (Pace, 1979), è opinione più generalmente accettata (Buchthal, 1955; Daneu Lattanzi, 1966; Di Natale, 1995) che essi siano opera di miniatori operanti a M., che si ispirarono a modelli bizantini dei codici greci e gerosolimitani, fondendoli a elementi di produzioni occidentali, continentali e a reminiscenze islamiche. I codici conservati a Madrid, in particolare, presentano legami con i mosaici siciliani e monrealesi. Questi codici latini, frutto di un'iniziativa elitaria, assieme alla produzione greca dello scriptorium del S. Salvatore dei Greci, testimoniano degli orientamenti culturali ancora fortemente legati alla cultura normanna e a una forte ascendenza bizantina.A questo clima, oltre che ai frequenti rapporti con l'Oriente, vanno imputati anche alcuni manufatti di importazione, quali i capitelli corinzi provenienti dal duomo (Mus. Regionale), forse giunti dal Mediterraneo orientale, e la fine lastra marmorea con la Madonna orante (Mus. Regionale, inv. nr. 285), attribuita a officina bizantina di corte del sec. 12°, ispirata al modello dell'orante conservata a Istanbul (Arkeoloji Müz.; Farioli Campanati, 1982).Non sono molti gli elementi, allo stato attuale delle conoscenze, di una produzione figurativa monumentale, documentata per la scultura dalla lastra tombale dell'arcivescovo Riccardo Palmer, una volta nella chiesa di S. Nicola e quindi trasferita nel duomo, dove adesso è murata, frammentaria, nel pilastro di destra dell'imposta dell'arco trionfale. La lastra rettangolare, circondata da un'iscrizione dedicatoria, che racchiude su fondo liscio tre tondi con le raffigurazioni di Cristo benedicente al centro e ai lati la Madonna orante e un prelato (Bottari, 1933; Di Giacomo, 1995), appare iconograficamente e stilisticamente ispirata a esempi della produzione musiva e miniatoria bizantina all'interno della continuità sviluppata nelle imprese normanne.La svolta artistica impressa da Palmer sembra poi segnare una battuta d'arresto, ma non per la produzione miniatoria, che vede una prosecuzione nella Bibbia di Madrid (Bibl. Nac., 223), datata 1259. In concomitanza con una situazione politica tutt'altro che tranquilla fino all'assunzione al trono di Federico II, non rimangono testimonianze artistiche che documentino con certezza questo periodo. L'età sveva pone le premesse di una ripresa che orienta il suo linguaggio nella vasta koinè mediterraneo-gerosolimitana. La rete delle istituzioni monastiche messinesi, già sviluppata nel sec. 12°, con la fondazione di monasteri latini (S. Maria de Monialium, S. Maria de Scalis) e cistercensi (S. Maria di Roccamadore a Tremestieri), si arricchì di numerose obbedienze appartenenti a monasteri di Terra Santa: da S. Maria dei Latini di Gerusalemme dipendeva l'omonima grangia messinese, da S. Maria Maddalena di Giosafatte la chiesa extraurbana di S. Maria Maddalena, dall'Ordine dei Cavalieri gerosolimitani l'ospedale messinese intitolato allo stesso s. Giovanni. Ciò può aver favorito la circolazione di manufatti di uso liturgico e cultuale, estendendo anche l'importazione di repertori e di modelli: a questo orizzonte risponde la decorazione policroma del soffitto del duomo, di cui sono rimasti superstiti alcuni frammenti (Mus. Regionale, inv. nrr. 975, 1111, 1116). Riprodotto nella sua interezza dai disegni di Morey (1842), non del tutto fedeli, il complesso decorativo, che nelle diverse componenti dell'insieme mostrava raffigurazioni a carattere religioso e simbolico, ricollegate da schemi ornamentali, riflette forme e iconografie legate all'ambito mediterraneo. Il soffitto, che secondo lo storico Bartolomeo da Neocastro (Historia Sicula) fu fatto restaurare da Manfredi dopo l'incendio sviluppatosi durante i funerali di Corrado IV, sembra mutuare l'aulico linguaggio delle rappresentazioni musive, anche attraverso esempi della produzione iconica e miniatoria conosciuta grazie ai frequenti contatti con l'Oriente cristiano e alla circolazione di pittori e maestranze responsabili della propagazione del linguaggio bizantino, tali da giustificare le connessioni che si possono cogliere con il Pantocratore di Caulonia (prov. Reggio Calabria) o con quello di Santa Maria d'Anglona (prov. Matera). La scarsa conoscenza della situazione artistica locale e la frammentarietà del tessuto figurativo lasciano aperto il problema della provenienza delle maestranze; tuttavia alcuni esiti comuni con i frammenti superstiti di un'analoga decorazione del duomo di Siracusa possono far pensare a maestranze locali.Nonostante lo scarso interesse dell'iniziativa regia nei confronti della pittura monumentale e musiva, il periodo svevo non è del tutto privo di testimonianze di grande rilievo, presumibilmente dovute a committenze aristocratiche e da ricongiungersi a matrici bizantine. Tale è da considerarsi il mosaico con la Madonna in trono con il Bambino, detta della Ciambretta, originariamente in S. Maria de Monialium, poi S. Gregorio (Mus. Regionale, inv. nr. 961), in cui si può riconoscere la presenza di mosaicisti bizantini aderenti alle tendenze protopaleologhe rapportabili alla seconda metà del secolo, individuabile anche nel mosaico di Calatamauro, oggi a Palermo (Gall. Regionale della Sicilia).Analogo indirizzo, nel senso di un'ascendenza bizantina di matrice costantinopolitana, si ritrova in una croce argentea con il Cristus patiens nel recto e l'orante nel verso (Tesoro del Duomo), ricollegata all'opificio del palazzo Reale di M.: una pergamena datata 1218, già in S. Maria Maddalena di Giosafatte (Arch. di Stato, Tabulario di S. Placido Calonerò; Lanza di Scalea, 1892) - mediante la quale Federico II concedeva a Perrone Malamorte aurufaber messinese un casale nella piana di Milazzo per i suoi meriti -, fa ipotizzare un'attività di quell'opificio.La spiccata adesione a formule orientali, da cogliere anche nella vasta accezione della circolazione mediterranea, non segue un indirizzo altrettanto unitario nella vasta tematica della scultura architettonica, costituita da capitelli e mensole decorative, mirabilmente esemplate nell'apparato, frammentario, della chiesa dell'Alemanna. La varietà iconografica e stilistica dei capitelli e dei reperti pertinenti ai due portali, in parte conservati al Mus. Regionale, non sempre concordemente valutati dalla critica, sembra portare alla compresenza di maestranze di diverso orientamento tecnico, stilistico e tipologico e offrire parallelismi con gli ambienti monrealesi e di scultori oltremontani di area borgognona, tali da prospettare la presenza di lapicidi francesi (portale laterale) e di lapicidi locali fortemente influenzati da repertori e tecniche di vasta diffusione nell'Italia meridionale - dalla Puglia alla Sicilia - anche attraverso l'irradiazione delle fondazioni monastiche benedettine e cistercensi, suggestionati anche, talvolta, dai motivi diffusi nelle oreficerie, nei tessuti e nella produzione miniatoria. Anche le sculture dei portali, di cui una ricostruzione più certa è individuabile in quello della fiancata sinistra, si riconducono alla plastica borgognona con rilevanti assonanze con alcune espressioni di Chartres, Angers, Pathernay (Di Giacomo, 1995).Tramontato il periodo svevo, dopo anni di declino e di disordini, determinati dalla crisi del Vespro (1282), M. sposò la causa aragonese e ne ricevette in cambio franchigie e ampi poteri giurisdizionali. Sul piano delle manifestazioni figurative emergono nelle tendenze ufficiali, dovute all'iniziativa regia o a esse collegate, fenomeni ancora legati al filone aulico di cultura bizantina, favoriti dalla Corona aragonese per una rivitalizzazione dei rapporti politici ed economici con l'Oriente. A questo indirizzo si assimilano alcune opere conservate al Mus. Regionale, di diversificate tendenze stilistiche, ma aggregate da una comune matrice bizantina e orientale. Fra queste spiccano: la croce dipinta (inv. nr. 978), assai affine nel prototipo del Cristo alla Crocifissione di Berlino (Staatl. Mus.), di provenienza siciliana; il trittico frammentario della Madonna che allatta il Bambino (inv. nr. 2011), affine nel motivo iconografico a prototipi adriatici e segnatamente dalmati; il S. Placido (inv. nr. 963), compagno di un S. Benefactus (Bruxelles, Coll. Stoclet), la cui esecuzione, da legarsi alle vicende del monastero benedettino di S. Placido Calonerò, è stata recentemente attribuita a scuola locale (Zeri, Campagna Cicala, 1992), arricchita da continue importazioni dai più diversi centri, soprattutto dal Veneto, già ritenuto area di riferimento dell'opera (Garrison, 1949).Anche la presenza di imprese musive durante il regno di Federico II d'Aragona (1296-1337) riporta a una rinnovata attenzione verso l'arte bizantina: la testa frammentaria del S. Pietro (inv. nr. 967), elemento della decorazione absidale della chiesa di S. Maria della Scala, poi della Valle, si lega, anche per la finezza esecutiva che l'ha fatta già assegnare al primo periodo svevo (Bologna, 1969), ai caratteri del primo periodo paleologo, sul tipo delle costantinopolitane Fethye Cami e Kariye Cami (Zeri, Campagna Cicala, 1992). Allo stesso indirizzo di estrazione costantinopolitana appartiene la lastra a mosaico della Madonna in trono con il Bambino (inv. nr. 960) riportata in piano da un restauro ottocentesco dalla sua originaria collocazione in una nicchia (Oliva, 1892); l'opera era collocata nell'oratorio dell'ospedale di S. Angelo alla Caperrina, fondato nel 1330 e successivamente ristrutturato per ospitare il monastero di S. Gregorio, allorché la fondazione fu trasferita in città dopo la costruzione delle mura volute dal viceré Gonzaga nel 1547. Il mosaico, seppure richiama la Madonna della Ciambretta nel motivo del trono circolare, pone anche problematici rapporti con le icone di Washington (Nat. Gall. of Art, Cahn Coll.; Mellon Coll.), con cui condivide la posizione di tre quarti della Vergine rispetto alla rigorosa frontalità dei modelli bizantini, l'ageminatura dorata del panneggio e l'articolata struttura del trono. Nelle caratteristiche stilistiche ed esecutive mostra paralleli con prodotti bizantini, come l'Odighítria del monastero di S. Caterina sul monte Sinai, e con l'icona del Pantocratore del municipio di Galatina (prov. Lecce), ritenuta di esecuzione costantinopolitana, e può perciò inquadrarsi in quel fenomeno di vasta circolazione di opere e di artisti, nonché in quella persistenza di rapporti con l'arte bizantina, favorita da Federico II d'Aragona, che produsse nel primo quarto del sec. 14° anche la decorazione musiva delle absidi del duomo di M. - ormai quasi totalmente rifatta -, in cui sono raffigurati lo stesso aragonese e l'arcivescovo Guidotto de Abbiate o de Tabiatis (Campagna Cicala, 1995c).A questo eminente prelato, promotore di opere di miglioramento e abbellimento della basilica, si deve la presenza a M. di opere dello scultore senese Goro di Gregorio. Dell'attività di quest'artista le testimonianze più rilevanti sono costituite dal monumento funebre dello stesso arcivescovo, eseguito nel 1333 e conservato nella cattedrale, frammentario e rimaneggiato, e dalla Madonna con il Bambino (Mus. Regionale, inv. nr. 289), detta Madonna degli Storpi, proveniente dal duomo e tradizionalmente considerata elemento dello stesso monumento.In pittura, accanto alla preponderante preferenza accordata all'arte bizantina e bizantineggiante, che si ripercuote in alcune opere da ritenersi di fattura locale del sec. 14°, un prodotto di provenienza continentale, esempio di un fenomeno di importazioni forse di più vasta portata, è il raffinato trittico della Madonna con il Bambino tra i ss. Agata e Bartolomeo (Mus. Regionale, inv. nr. 964). Attribuito al Maestro del Dittico Sterbini (Zeri, Campagna Cicala, 1992), con una collocazione nell'area adriatica e più specificamente veneta, la sua definizione culturale è stata precisata nel riconoscimento di elementi protoducceschi su basi bizantineggianti (Santucci, 1981). Alla tendenza di ascendenza veneta possono accostarsi altri dipinti su tavola del Mus. Regionale e di alcune chiese della provincia, da porsi ormai a cavallo tra il 14° e il 15° secolo.
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