metafisica
Termine non utilizzato nella filosofia antica, ed entrato nell’uso in epoca tardo-antica e medievale, dapprima per designare i trattati di Aristotele che seguono quelli di fisica («μετὰ τὰ φυσικά», da cui la forma contratta μεταφυσικά), raccolti ed editi da Andronico di Rodi (1° sec. a.C.), e successivamente per indicare la «scienza prima» o «delle cose prime», logicamente e ontologicamente collocata in rapporto fondante e subordinante rispetto alle altre scienze. In tal senso Aristotele la designa come «filosofia prima» (πρῶτη φιλοσοφία), concernente le «sostanze separate», distinta e fondante rispetto alla «filosofia seconda», o fisica, come anche rispetto alle conoscenze etiche e produttive. Le molte accezioni secondo cui tale ambito della conoscenza è stato trattato, hanno moltiplicato, nello svolgimento storico, la già ampia gamma di significati o specificazioni presenti nello scritto di Aristotele, nel Medioevo principalmente in rapporto alla teologia naturale, in età moderna relativamente allo studio dell’essere (ontologia). In epoca kantiana si assiste alla messa in crisi della possibilità della m. intesa come scienza, mentre con Hegel essa viene recuperata mediante la concezione dialettica della filosofia come sapere assoluto, per poi di nuovo essere criticata in quanto «stadio intermedio» della conoscenza, da superare, evolvendo in una reale comprensione scientifica, nel positivismo. Nel pensiero del Novecento, con il prevalere della problematica fenomenologica ed esistenziale, la m. si è specificata in ‘ontologia’ (➔), mentre una ripresa della m. di impianto classico, seppur con profonde rielaborazioni, si è avuta in indirizzi filosofici quali il neotomismo o, in prospettiva opposta, l’idealismo. Sempre in età contemporanea, a partire dal riconoscimento del ruolo ineliminabile, seppur impreciso, della m. nell’elaborazione di teorie scientifiche o filosofiche, sono state proposte nuove integrazioni, settoriali o meramente ‘regolative’, della m. nell’ambito delle filosofie analitiche o della riflessione epistemologica, quali, per es., la m. descrittiva o la m. funzionale.
Parlando di m. in relazione all’antichità e alla tarda antichità si intende, in primo luogo, lo studio dell’essere, della sostanza, dei principi primi della realtà e della conoscenza e delle cause prime, ma anche la riflessione sul divino (teologia) e sull’uno, principalmente nel neoplatonismo antico (per es., in Plotino e Proclo, il quale indica la m. appunto con il termine «teologia»). In questo ultimo senso la m. viene a convergere con aspetti del platonismo rigettati nell’originario progetto aristotelico, dove la riflessione intorno all’«essere in quanto essere» («τὸ ὄν ᾗ ὄν»; Metafisica, IV, 2, 1003 a 20; la futura ‘ontologia’) assorbe la riflessione sull’uno quale si è venuta configurando nella filosofia dell’Accademia, guidata, negli anni in cui opera Aristotele, da Speusippo: «l’essere e l’uno sono identici e hanno una sola natura» (1003 b 22-23); «l’uno non è nulla al di fuori dell’essere» (1003 b 32). Aristotele, nel determinare lo statuto scientifico della «scienza prima», intesa come conoscenza delle cause, ripercorre le dottrine dei suoi predecessori (Metafisica, I, 3-9) rilevandone l’insufficienza principalmente nella mancata identificazione delle cause finali ed efficienti. I naturalisti, come Talete, si sono limitati alle cause materiali; Platone si è limitato alle cause formali. Problematiche risultano inoltre la concezione pitagorica del numero come principio e dunque sostanza, e la teoria platonica delle idee come cause formali ‘separate’, da cui ha preso avvio la speculazione sull’uno e la diade, centrale nella riflessione condotta presso l’Accademia di Speusippo. In Aristotele la m. si connota come scienza teoretica del divino («ϑεολογική»; Metafisica, VI, 1, 1026 a 19; 1064 b 2) proprio in quanto studio della sostanza (οὐσία) e, in partic., della sostanze prime, separate e immobili. La questione della priorità (in merito al conoscere e all’essere) si poneva già in Platone sia relativamente al rapporto fra le diverse idee – anche in relazione alla centralità e superiorità dell’idea del Bene (ἀγαϑόν; «oggetto della massima disciplina è l’idea del bene», Repubblica, VI, 504 a) – sia relativamente allo statuto dell’essere in rapporto al divenire e al non-essere (temi affrontati nel Parmenide, nel Sofista e nel Teeteto) ossia dell’uno in rapporto al molteplice. Tale problematica comportava quella dell’anteriorità dell’uno (ἕν) rispetto all’essere stesso, che sarebbe poi andata precisandosi nel neoplatonismo antico, fino a giungere alle posizioni radicali di Plotino e di Proclo: «l’uno è il primo, mentre l’intelligenza [νοῦς], le forme, e l’essere [ὄν] non sono primi» (Enneadi, VI, 9, 2); «l’uno non è neppure essere» (Enneadi, VI, 9, 3; VI, 8, 14-16); «vi è un uno anteriore all’essere, che fa esistere l’essere ed è sua causa in modo primario» (Teologia platonica, 3, 8). Per Platone la conoscenza, mediante la dialettica (διαλεκτική, procedimento conoscitivo conforme alla struttura metafisica del reale), supera il sensibile e perviene al livello della scienza (ἐπιστήμη) attingendo mediante la ragione discorsiva (διάνοια) gli oggetti matematici e mediante l’intelletto (νοῦς) le idee. Il fine della dialettica, e dunque della scienza, è la conoscenza dell’idea del bene (Repubblica, VI, 534 b-d). La contrapposizione fra l’idea o forma (εἶδος), che si connota come universale e come uno, e il molteplice attestato sia dall’esperienza sia dalla pluralità delle idee stesse, conduce alla critica della tesi parmenidea dell’essere come unico e identico, scevro da molteplicità (Parmenide, Περί φύσηως, «Intorno alla natura», framm. 8) in favore della concezione dell’essere come «potenza» o «possibilità» (δύναμις) esposta nel Sofista (241 d-242 a; 247 d-e). Contrariamente a quanto avviene in Platone, Aristotele riconduce sia il divino sia l’uno all’essere, che già risolve e fonda la sostanza, la causa e i principi. In tale prospettiva la m. è, in primo luogo, scienza della sostanza (οὐσία), che è a sua volta prioritaria rispetto alle successive determinazioni categoriali, ossia ai «molti modi» in cui «l’essere si dice» («πολλαχῶς λέγεται τὸ ὄν»; Metafisica, VI, 2, 1026 a 32-b 2; V, 7, 1017 a 9; XIV, 2, 1089 a 26-28). In tal modo, poiché l’essere non è un predicato univoco, la m. aristotelica risolve il problema del molteplice e le aporie fra essere e non-essere, simile e dissimile, identico e altro, uno e molteplice (Metafisica, IV, 1-2). L’indirizzo prevalente nella m. antica successivamente ad Aristotele è quello di un’integrazione fra temi platonici (e pitagorici), legati alla trascendenza dell’uno rispetto all’essere, e riflessione ontologica aristotelica, che culmina, come si è detto, nel neoplatonismo di Plotino, Porfirio e Proclo. All’incentrarsi della speculazione sulla trascendenza dell’uno rispetto all’essere consegue anche una riflessione sull’uno come causalità effettivamente produttiva che, in luogo dell’aristotelico «motore immobile», in cui culmina la risalita aristotelica verso una «causa prima» che senza muoversi suscita il movimento (Metafisica, XII, 7, 1072 b 3-4; Fisica, VIII, 10), pone una realtà trascendente (l’uno) autocostituentesi («αὐτὸ ποιεῖ»), la quale è ‘attivamente’ «causa di sé stessa» (Enneadi, VI, 8, 7). In Proclo dalla ‘sovrabbondanza’ di tale attività produttiva causante deriva, secondo una struttura triadica di processioni conseguenti che governa la derivazione della realtà, una serie di «enadi» che, in certa misura, colmano lo spazio di trascendenza e ineffabilità che separa l’uno dall’essere, articolandosi in «permanere» o «manenza» (μονή), «processione» (πρόοδος), che deriva dal principio precedente, e «ritorno» o «conversione» (ἐπιστϱοφή) verso il principio (Elementi di teologia, 30-35; Teologia platonica, 3, 7-9). In tale legge di derivazione del reale Hegel vedrà una prefigurazione della propria dialettica (Geschichte der Philosophie, 1833-36, III; trad. it. Lezioni sulla storia della filosofia) e sarà per questo stigmatizzato da Feuerbach come «il Proclo tedesco». Di un indirizzo rigorosamente aristotelico nella tarda antichità è testimone Alessandro di Afrodisiade, che insegna ad Atene fra il 198 e il 211, ma la storia della m. aristotelica è destinata a migrare verso gli studiosi arabi per essere poi riassorbita in Occidente nel corso del Medioevo. In opposizione alla m. si svolgono invece le riflessioni legate agli altri grandi sistemi filosofici antichi: l’epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo. Nell’epicureismo la centralità della riflessione morale comporta, a livello della fisica, il recupero dell’atomismo democriteo integrato, mediante il concetto di «deviazione» (παρέγκλισις; che Lucrezio nel De natura rerum traduce con clinamen), con una teoria della causalità che, ovviando al determinismo meccanico, restituisce all’uomo il compito di controllare e dominare le passioni. Dal rifiuto della «filosofia prima» e dalla centralità della fisica, intesa come studio della corporeità e materialità del reale, si avvia la riflessione del capostipite dello stoicismo, Zenone. Egli nega la priorità delle idee, che sono soltanto «formazioni mentali» (ἐννοήματα) o «impressioni secondarie» (ἀνατυπώματα) ricavate dalla mente sulla base dell’impressione corporea (τύπωσις; I frammenti degli stoici antichi, I, 65). L’essere e la causa sono corporei e materiali, e la realtà dell’Universo si risolve in un tutto fluido e compatto ove una forza di tipo fisico e di natura ignea (πῦρ o αἰϑήρ; coincidente, negli stoici successivi, con lo πνεῦμα) agisce su una «materia prima» (πρώτη ὔλη) amorfa e priva di qualità. Le determinazioni qualitative e formali sono in tal modo ricondotte alla corporeità e la sostanza alla materia prima (I frammenti degli stoici antichi, I, 85-88). Lo svilupparsi della vita è prodotto da un processo razionale immanente che, al modo del seme (σπέρμα), determina lo svolgersi della vicenda cosmobiologica; concezione che sarà recepita nella tarda antichità come tesi dei λόγοι σπεματικοί (Plotino, Enneadi, II, 3, 16) e che il pensiero cristiano integrerà mediante la nozione delle «rationes seminales» (Agostino, De diversis quaestionibus, 83, q. 46). Nello scetticismo il livello della conoscenza metafisica è ritenuto inattingibile; la scienza prima, metaempirica, per il suo carattere fondativo incarna l’esigenza stigmatizzata come «dogmatica» nel Contro i matematici, ed è per confutarne le pretese che viene dispiegato l’armamentario dei «tropi» presentato da Sesto Empirico negli Schizzi pirroniani.
Nel pensiero cristiano la riflessione sulla m. si ridetermina in rapporto a concetti estranei all’accezione antica, quali quelli di creazione e di divinità personale e provvidente, secondo un percorso che condurrà alla convergenza fra m. ontologica e teologia razionale, come avverrà, esemplarmente, nella sintesi tomista. Filone di Alessandria, mediante l’impiego di tecniche allegoriche, utilizzate dai mitografi antichi per interpretare i testi poetici (principalmente Esiodo e Omero) ma anche nello studio dei miti platonici, opera un’integrazione della m. dell’essere entro l’orizzonte della religione, mediante il trattamento ontologico dello stesso essere di Dio, sulla base del testo di Esodo 3, 14: «ἐγώ εἰμι ὁ ὤν » in Settanta; «ego sum qui sum» in Vulgata (Quod deterius potiori insidiari soleat, 44, 160; De mutatione nominum, 2, 7-14). Fino al sec. 13° prevalgono, in m., indirizzi di pensiero platonici, legati al richiamo all’interiorità presente in Agostino, allo strutturarsi di una m. gradualistica fondata su una gerarchia di essenze che trova il suo trattamento logico (e ontologico) nelle opere di Porfirio, Boezio e dello pseudo-Dionigi, e successivamente in un platonismo legato ai temi plotiniani e procliani dell’anima del mondo e dell’ipostatizzarsi dell’essere, in Scoto Eriugena e nella Scuola di Chartres. Il ritorno della m. aristotelica è legato alla penetrazione dei testi originali accompagnati dai grandi commenti arabi di Avicenna e di Averroè, come anche dalla tradizione ebraica di Maimonide o da testi quali il Liber de causis (di ispirazione procliana, ma a lungo ritenuto aristotelico). In Tommaso d’Aquino la m., incentrata sull’ontologia, si dispiega in teologia naturale, attingibile con la sola ragione, senza la rivelazione soprannaturale (ossia in una «theologia philosophica»), proprio in forza dell’identificazione fra Dio ed essere che Tommaso recupera da Aristotele e trasporta nella prospettiva cristiana, facendo coincidere il Dio biblico, creatore, personale e provvidente, con il ‘divino’, inteso in senso aristotelico come la «causa prima» o il «primo motore immobile» della Fisica (VIII, 10) e della Metafisica (XII, 7). In passi cruciali della sua opera, Tommaso richiama (come già Filone) l’interpretazione metafisica del Dio biblico come essere (Summa contra gentiles, I, 22, 6; II, 52, 7); tale identificazione è presente emblematicamente nell’introdurre le prove dell’esistenza di Dio, cioè le cinque vie (Summa theologiae, I, q. 2 a. 3). La differenza fra ente (esistente) ed essenza – modulata nel De ente et essentia (➔ essere) in modo da ovviare a un essenzialismo di tipo platonico – perviene alla concezione di Dio come «actus essendi» ossia come atto di esistere. La m. medievale conosce uno svolgimento antitomista sia con la ripresa dell’ilemorfismo in ambito platonico agostiniano (per es., in Bonaventura) sia nella ‘m. della luce’, che approfondisce il tema, già plotiniano, della derivazione dell’essere come diffusione di luce corporea, intermedia fra spirituale e materiale. È tuttavia nell’alveo stesso delle posizioni aristoteliche, con Duns Scoto e Occam, che si ha un rifiuto della subordinazione fra teologia e m., realizzata da Tommaso proprio in virtù della centralità dell’essere, come elemento comune (per analogia) fra Dio e creatura. Ciò comporta, altresì, il rifiuto della teologia rivelata come scienza ‘subalternante’ nei confronti della teologia naturale (che assume gli assiomi tratti da quella e li utilizza come media di dimostrazioni scientifiche) e, in Occam, il rifiuto della distinzione, sia mentale sia reale, fra essenza ed esistenza e la centralità dell’individuo esistente, sempre singolare e oggetto di conoscenza intuitiva. La m., superando il trattamento tomista dell’essere come «analogo», riacquista la sua priorità, fondata, in Scoto, sull’unicità e l’univocità del concetto di ente, riferito sia a Dio (ente infinito) sia alla creatura (l’ente finito), e la sua indipendenza dalla teologia rivelata. Si configura in tal modo, in epoca rinascimentale, da una parte la ripresa della m. aristotelica in termini radicalmente a-cristiani (con il ritorno ai commenti di Alessandro di Afrodisiade) nell’ambito dell’aristotelismo padovano, dall’altra, il recupero di un platonismo più marcatamente coeso con prospettive mistiche e iniziatiche dell’ermetismo, dell’orfismo, del pitagorismo e anche della speculazione cabalistica, che connotano il neoplatonismo di Ficino e di G. Pico della Mirandola, e il successivo svolgimento di indirizzi di pensiero di carattere ermetico in pensatori quali John Dee, Robert Fludd e ancora, in ambito cattolico e nel pieno del Seicento, Athanasius Kircher, ove è forte la componente pitagorica legata ai temi dell’armonia del mondo e della geometria divina, che variamente improntano anche il platonismo di Kepler. Contemporaneo all’aristotelismo e al platonismo rinascimentali è, in Telesio, lo svolgimento di un naturalismo monista, incentrato su una materia ilozoisticamente animata e vitale grazie all’azione dei principi attivi del caldo e del freddo, cui nell’uomo si «aggiunge dal di sopra» (è cioè «superaddita») l’anima infusa da Dio. Tale naturalismo evolve con la m. bruniana, nella concezione dell’infinità dell’Universo come coincidenza di atto e potenza infinita in Dio, inteso come causa, principio e uno, e, in Campanella, nella m. delle primalità, sapienza, potenza e amore, in ordine, rispettivamente, al conoscere, all’essere e all’agire. Nell’ambito della teologia filosofica di matrice metafisico-scolastica, si assiste, con le Disputationes metaphysicae di Francisco Suárez (1597), all’emancipazione della m. dal genere del commento al testo aristotelico, che inaugura l’autonomia della disciplina concepita ormai come studio dell’ente e avvia la linea che condurrà in età cartesiana all’‘ontologia’ dapprima, in Clauberg (1647; 1660; 1664; seppure il conio del termine sia già registrato nel 1606 in J. Lorhard, Ogdoas scholastica, e nel 1613 nel Lexicon philosophicum di R. Goclenius) e poi sistematicamente in Wolff (Ontologia, 1730).
In Descartes la m. torna a essere filosofia prima (➔ Meditazioni metafisiche), distinta sia dalla teologia, che si fonda tout-court sulla rivelazione (Lettera al decano e ai dottori della sacra facoltà teologica che apre le Meditazioni metafisiche), sia dalla m. dell’essere (ontologia) della tradizione scolastica. La priorità fondante della m. nei confronti della fisica (la fisica ‘deve’ avere un fondamento metafisico) è sottolineata nella lettera-prefazione a Picot che apre la versione francese (1647) dei Principia philosophiae (1644; trad. it. Principi di filosofia): «Tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la m., il tronco è la fisica, e i rami che sortono da questo tronco sono tutte le altre scienze». La m. si incentra sulla coscienza e sul suo contenuto, le idee, sull’evidenza attuale e sulla causalità, cui Descartes riconduce la stessa esistenza di Dio («non vi è cosa alcuna esistente della quale non si possa domandare la causa per la quale esiste. Poiché ciò stesso si può domandare di Dio», Risposte alle Seconde obiezioni). L’autoproduttività del divino diventa, nelle Risposte prime e quarte, autocausazione in senso positivo («sui causa»). La sostanza è ridefinita come in sé e per sé (Principi della filosofia, I, 51), unicamente in base al principio della ‘distinzione reale’, al di fuori dello schema categoriale e delle concezioni aristoteliche di sostrato e forma (o di sostanza e attributo) come sostanza che si esprime compiutamente quale estensione (finita o indefinita, nel caso dell’Universo nel suo insieme) o come pensiero, il «cogito»; ove il sum è già un esistere, senza che vi sia passaggio dall’essenza all’esistenza. Tale esistenza, in quanto conservata, necessita di una causa creante-conservante, Dio. La centralità della causalità comporta, secondo Descartes, la produzione causale (sotto la specie della causalità efficiente e totale) delle stesse verità eterne, dunque del ‘necessario’, rimodulando il rapporto fra verità eterne e possibili. Tale dottrina, già presente nelle lettere che Descartes scrive a Mersenne fra aprile e maggio del 1630 e presentata poi nelle Risposte alle Seste obiezioni, non viene accolta dai cartesiani occasionalisti e da Malebranche, ed è osteggiata da Leibniz. La nuova concezione – dualistica – della sostanza, come estensione e come pensiero, in Spinoza si compone con la causalità autoproduttiva nel concetto di sostanza unica, infinita, eterna, che assorbe e supera la centralità della coscienza, evidenziata da Descartes, integrandola nell’infinito ed evidenziando il carattere negativo della delimitazione («poiché in realtà l’essere finito è parzialmente una negazione, e l’essere infinito è una assoluta affermazione dell’esistenza di una natura, risulta […] che ogni sostanza deve essere infinita», Etica, I, 8, scol. 1) da cui sorge l’individualità determinata, discoprendo, in ultima analisi, il carattere illusorio dell’individualità personale. In Leibniz la concezione metafisica della sostanza si riverbera dal divino a un numero infinito di individualità, le monadi, ciascuna delle quali rispecchia in maniera completa, sebbene ‘prospetticamente’ peculiare, la totalità dell’Universo. L’intera realtà è gradazione di livelli di attività spirituale ordinata secondo principi costitutivi di ordine logico e ontologico, ossia metafisici: l’individualità della sostanza (confermata dal principio degli indiscernibili), il rapporto di reciprocità preordinata e predeterminata, senza che si dia interferenza o interazione concreta fra le sostanze (in base al principio dell’armonia prestabilita, che risolve anche il problema dell’interazione fra sostanze posto dalla teoria cartesiana e il pericolo del fatalismo, ➔ fato), il principio dell’ottimo che Dio necessariamente sceglie (come si evince in base al principio di ragion sufficiente). I capisaldi della m. leibiniziana, presenti a partire dal Discorso di metafisica (1686), vanno precisandosi nella Teodicea (1710) e nella Monadologia (1714) e comportano il rifiuto della realtà della sostanza materiale e l’identificazione delle verità eterne (o identiche) e verità di fatto (o contingenti) che coesistono con Dio (contro la teoria cartesiana della loro creazione) e da cui deriva l’articolazione logica e metafisica del reale (basata sul principio di inerenza del predicato; Verità prime, § 2) in cui la grazia e la natura (Principi della natura e della grazia fondati in ragione, 1714) si conseguono integrando il miracolo stesso (ossia l’intervento che infrange l’ordine naturale) e la teleologia entro una concezione che trova la sua sistematizzazione nelle opere di Wolff (Vernünftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen, auch allen Dingen überhaupt, 1719, solitamente indicata negli studi come Metafisica tedesca; Philosophia prima sive ontologia, methodo scientifica pertractata, qua omnis cognitionis humanae principia continetur, 1730, indicata come Metafisica latina). Da tale sistematizzazione originerà la suddivisione (che ricorda, terminologicamente, quella di Suárez) della m. in ontologia generale (scienza dell’essere) e ontologia speciale, a sua volta suddivisa in cosmologia razionale, psicologia razionale, teologia razionale, aventi per oggetto, rispettivamente, il mondo, l’anima e Dio. È la classificazione che diventa classica nelle università tedesche (è presente, per es., in Baumgarten) e che viene ripresa da Kant, nella Critica della ragion pura (1781), che proprio alla linea lebniziano-wolffiana si richiamerà per stigmatizzare la sterilità dogmatica della metafisica. Parallelamente allo strutturarsi della m. moderna si assiste allo sviluppo di critiche all’approccio metafisico, incentrato sulla possibilità di conoscenze prime e universali in ambito sia scientifico sia morale, che, sulla scorta dello scetticismo e del probabilismo antichi, caratterizza la polemica scettica e relativista rinascimentale (basti pensare a Montaigne e alla tradizione libertino erudita), e che in età moderna si consolida in costruzioni antimetafisiche quali l’empirismo di Gassendi, ove la concessione alla metafisica – cristiana – è presente soltanto come cauta estensione probabilista al di sopra delle conoscenze storiche ed empiriche, e successivamente in Locke e Hume. Per Locke la conoscenza è possibile unicamente a partire dal dato empirico e come cauta estensione probabilistica a partire dalle assunzioni empiriche. Anche dell’Io, di Dio e del mondo si può avere conoscenza su tali basi: «dico dunque che noi mediante l’intuizione conosciamo la nostra propria esistenza, mediante dimostrazione conosciamo l’esistenza di Dio, e mediante la sensazione conosciamo l’esistenza delle cose» (An essay concerning human understanding, 1690, IV, 9, 2; trad. it. Saggio sull’intelletto umano). «Proposizioni, ragionamenti e conclusioni della metafisica» sono «irrilevanti» e, pur essendo indubitabili, non accrescono la conoscenza (IV, 8, 9).
Per Kant, che sottopone a critica la possibilità di una m. come scienza, le idee trascendentali della m., ossia i concetti della ragion pura, hanno a che fare non con l’unità sintetica delle rappresentazioni (l’«Io penso»), quanto con l’unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale, e hanno dunque carattere metaempirico. Tali idee «si possono ricondurre a tre classi: la prima contiene l’unità assoluta (incondizionata) del soggetto pensante [anima]; la seconda contiene l’unità assoluta della serie delle condizioni del fenomeno [mondo]; la terza contiene l’unità assoluta della serie della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale [Dio]» (Critica della ragion pura, Dialettica trascendentale, lib. I, sez. III). Esse non possono essere oggetto di conoscenza scientifica né originare giudizi, ma sillogismi che si risolvono in paralogismi (anima), antinomie (mondo) o restano comunque indimostrabili (Dio). Le pretese scienze metafisiche che concernono tali idee, ossia la psychologia rationalis, la cosmologia rationalis e la theologia transcendentalis, sono in realtà pseudo-scienze. Su esse opera la «logica dell’apparenza», la dialettica, che Kant definisce «arte sofistica di dare […] alle proprie volontarie illusioni, la tinta delle verità» (ibid., Logica trascendentale, Introduzione III). Tali ‘illusioni’ sono però inscindibilmente legate alla ragione umana che non può fare a meno di porle, seppure discoprendone, criticamente, l’inconcludenza. Se la m. non può essere scienza, infatti, come Kant assume e dimostra, essa resta comunque sullo sfondo della conoscenza conferendole una «unità sistematica». Le idee hanno dunque un uso euristico, ‘regolativo’; mediante esse la ragione, benché non si riferisca direttamente a un oggetto, si riferisce «all’intelletto, attraverso il quale accede al proprio uso empirico» e in tal modo, pur non creando ‘concetti’ (come invece fa l’intelletto), «si limita a ordinarli e a dar loro quella unità che essi possono acquisire nella loro maggior estensione possibile, cioè rispetto alla totalità delle serie» (ibid., Appendice alla dialettica trascendentale). Esclusa dunque come scienza, la m. conserva comunque un suo ruolo ‘regolativo’ sia in ordine alla speculazione sia in ordine alla pratica, rispettivamente in quanto m. della natura e in quanto m. dei costumi (ibid., Dottrina trascendentale del metodo, cap. 3). Nella Fondazione della metafisica dei costumi (Grundlegung der Metaphysik der Sitten, 1785) Kant distingue la filosofia in empirica, in quanto fondata sull’esperienza, e pura, in quanto interamente desunta da principi a priori, e questa, a sua volta, in logica, quando è solo formale, e in m. «quando è circoscritta a determinati oggetti dell’intelletto». Da ciò deriva una duplice m.: «della natura e dei costumi. La fisica avrà quindi una sua parte empirica, ma anche una razionale; lo stesso l’etica» (Prefazione). Nei Principi metafisici della scienza della natura (1786) Kant indaga l’applicazione della matematica alla natura (senza la quale non potrebbe esservi scienza), la quale presuppone una costruzione metafisica della materia, ossia lo studio dei rapporti fra attrazione e repulsione quali suoi principi. In tale prospettiva il termine m. ha un senso molto diverso da quello tradizionale di conoscenza di una realtà soprasensibile e assoluta, e concerne piuttosto il livello concettuale intermedio tra l’a priori e l’empirico.
Seppure in polemica con Kant, Hegel si avvale della critica alla m. precedente, la «vecchia m. quale si trovava costituita prima della filosofia kantiana», che riconduce alla «mera veduta intellettualistica degli oggetti della ragione» (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1817, § 27). Essa culminava in un dogmatismo sterile in quanto perveniva all’opposizione fra due affermazioni diverse, l’una delle quali doveva esser vera e l’altra falsa (§ 32) relativamente all’ontologia, ossia ai «caratteri astratti dell’essenza» (§ 33), alla psicologia razionale (§ 34), alla cosmologia (§ 35) e alla teologia (§ 36). Hegel riordina tali materiali alla luce della concezione dialettica, che coincide con la m. e che discopre l’identità fra reale e razionale rigettando la logica formale o puramente analitica di Kant. Dopo aver posto le questioni fondamentali della vecchia m., Hegel le svolge a partire dalla fondamentale scansione: essere-essenza-concetto. La posizione di un concetto come «limitata astrazione», inteso come «cosa che è e sussiste per sé» (pensiero come intelletto, § 80), comporta il sopprimersi di questo concetto e delle sue «determinazioni finite mediante il loro passaggio nelle opposte» (momento dialettico, § 81), e produce la sintesi dei due precedenti momenti, che conserva «ciò che vi ha di affermativo nella loro soluzione e nel loro trapasso» (momento speculativo, § 82). Su tali presupposti la scienza della logica si articola al tempo stesso come metodo della conoscenza e come riconoscimento della struttura dialettica del reale, in una dottrina dell’essere, dell’essenza e del concetto. È nella filosofia dello spirito (soggettivo, oggettivo e assoluto) che Hegel mostra i frutti della concezione dialettica del sapere come sapere assoluto. Nello spirito oggettivo, ossia nell’oggettività in cui l’essere è assunto come concreto, si realizza l’unità fra «essere» e «concetto» (che nella «vecchia» m. si esprimeva mediante l’argomento ontologico). La razionalità oggettiva del reale in tal modo è assunta non sulla base di una concezione formale del pensiero e della logica (come nel kantismo), ma come realizzarsi del concetto nella realtà stessa. Nello spirito assoluto si realizza la coincidenza fra «intuizione» (arte), «rappresentazione» (religione) e «concetto» (filosofia), ossia il conoscere assoluto in cui «l’idea eterna in sé e per sé, si attua, si produce e gode sé stessa eternamente come spirito assoluto» (Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 577) richiamando, in rinnovata prospettiva l’aristotelico «pensiero di pensiero» (νόησις νοήσεως, Metafisica, XII, 7).
Già nella prima metà dell’Ottocento, alla concezione hegeliana della m., proseguita dall’hegelismo (di destra), si contrappone Schopenhauer, con la sua m. dell’arte, evocata in Il mondo come volontà e rappresentazione (➔) (1819) che segna un’originale sviluppo della critica kantiana, cui anche il primo Nietzsche è vicino (➔ La nascita della tragedia). Contemporaneamente si assiste anche al riavviarsi di tradizioni spiritualiste quali quelle di Cousin, che, in Francia, recupera la m. cartesiana entro moduli hegeliani, avviando una tradizione cui, nel Novecento, da diversa angolazione afferisce lo spiritualismo di Bergson. Se la critica antimetafisica del positivismo, con Comte, identifica nel pensiero metafisico uno stadio intermedio che deve evolvere verso lo stadio positivo della conoscenza scientifica, nel Novecento il neotomismo francese e italiano (Maritain – che parla di una m. esistenziale–, Gilson, Bontadini), da un lato, e il neoidealismo italiano, inteso come filosofia dell’assoluto, fondata su un ritardato assorbimento delle opere di Hegel a opera principalmente di Croce e Gentile, dall’altro, propongono, da opposte prospettive, un recupero della m. come ambito proprio e primo della coscienza. In altra prospettiva, inoltre, si colloca, nella prima metà del sec. 20°, il rinnovato interesse per la m. in quanto ontologia (➔), riscontrabile nella fenomenologia di Husserl, nell’analitica esistenziale di Heidegger o anche nell’esistenzialismo di Sartre. Husserl riscopre come compito della fenomenologia l’identificazione di un’ontologia formale: «l’ontologia formale racchiude nello stesso tempo in sé le forme di tutte le ontologie […] e prescrive alle ontologie materiali una comune legalità formale»; «l’ontologia formale sempre intesa come logica pura nella sua piena estensione in quanto mathesis universalis» (Idee per una fenomenologia pura, I, 10). Heidegger riprende ed espande le critiche che Nietzsche aveva rivolto alla m. intendendola come «mondo dietro il mondo» (Umano troppo Umano II, 1878, 17; Così parlò Zarathustra, 1883-85, I, Di coloro che abitano un mondo dietro il mondo), come «menzogna» fondata su necessità psicologiche e vitali. Elaborando il concetto di «differenza ontologica» fra essere ed ente in polemica con la m. classica, Heidegger riconduce l’essere al nulla e la m. dell’essere come ontoteologia, ossia come divino pensato ontologicamente, al nichilismo (➔). Per Heidegger la scienza dell’essere si attua mediante il rinnovamento del metodo fenomenolgico husserliano: «l’ontologia non è possibile che come fenomenologia» (Essere e tempo, 1927, § 7). Nella seconda fase del suo pensiero Heidegger sviluppa la teoria della verità come «ascolto dell’essere» che si dà mediante il linguaggio (Unterwegs zur Sprache, 1959; trad. it. In cammino verso il linguaggio), incentrandosi sull’«essenza del linguaggio». Tale prospettiva è al centro della ripresa del pensiero heideggeriano nell’ermeneutica di Gadamer (Wahrheit und Methode. Grund- züge einer philosophischen Hermeneutik, 1960; trad. it. Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica). Sull’attenzione posta da Husserl al problema della comunità intermonadica, evocata nella quinta delle Meditazioni cartesiane (1931), si incentra invece la riflessione di Lévinas (Totalité et infini, 1961, trad. it.Totalità e infinito; Autrement qu’être, 1974, trad. it. Altrimenti che essere), secondo il quale la m. e la stessa ontologia come ricerca della totalità dell’essere non coglie (in quanto, assorbendola nel tutto, la nega) la dimensione dell’alterità, alla quale l’autore si accosta secondo una peculiare prospettiva etica, che riprende temi morali kantiani, in cui si realizza lo studio della soggettività. Contraltare di tali indirizzi sono il neopositivismo logico, il neoempirismo e l’empiriocriticismo, o anche la filosofia del linguaggio, che nella m. vedono un ostacolo e l’origine di pseudoproposizioni. Già nell’empiriocriticismo di Avenarius (Kritik der reinen Erfharung, 1888-90; trad. it. Critica dell’esperienza pura) la m. viene coinvolta nella critica radicale a qualsiasi concettualizzazione filosofica (anche di carattere scientifico) che non abbia carattere ‘strumentale’ riguardo all’esperienza. Nell’ambito del neopositivismo o positivismo logico Carnap critica la m. attribuendole proposizioni i cui termini sono privi di significato o violano la sintassi, ossia le regole in base a cui si producono gli enunciati. Tale concezione è esplicitata da Carnap, con riferimento a Heidegger, nel saggio pubblicato su Erkenntnis (1931), rivista dei neopositivisti del Circolo di Vienna, e intitolato L’eliminazione della metafisica mediante l’analisi del linguaggio (Überwindung der Metaphysik durch logiche Analyse der Sprache; trad. it. in Il neoempirismo). Le proposizioni della m. sono «pseudo-proposizioni»; il pensiero non può generare conoscenza senza riferirsi a oggetti empirici e gli oggetti della m. sono metaempirici. Secondo Popper, invece, pur non essendo falsificabili, e dunque scientifiche, le proposizioni della m. non possono essere liquidate come «prive di senso», né ritenute del tutto sterili; dal punto di vista storico e psicologico, infatti, «non si può negare che, accanto alle idee metafisiche che hanno ostacolato il cammino della scienza, ce ne sono state altre – come l’atomismo speculativo – che ne hanno aiutato il progresso» (The logic of scientific discovery, 1934; trad. it. Logica della scoperta scientifica, I, 1, 4), pur tenendo fermo che la scienza deve essere ‘empirica’ e che dunque sia necessario «tracciare una linea di demarcazione tra la scienza e le idee della metafisica». Per Popper, quindi, le idee della m., pur essendo inconfutabili, «possono essere esaminate criticamente» (Postscript). Relativamente al problema della «demarcazione», ripresa del problema kantiano dei limiti della conoscenza scientifica, la m. non può essere confutata soltanto applicando la differenza fra ‘senso’ e ‘significato’ alle proposizioni metafisiche, per distinguerle da quelle scientifiche, come assume il neopositivismo logico (cfr. in partic. Schlick, Die Naturwissenschaften, 19, 1931), sulla scorta del Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein; le leggi di natura non sono infatti «riducibili alle asserzioni di osservazione più di quanto non lo siano gli enunciati metafisici» (Logica della scoperta scientifica, Nuove appendici, 1). Nell’ambito delle filosofie analitiche o della riflessione epistemologica, si collocano proposte che ridefiniscono, delimitandolo, il ruolo della m.: Strawson (Individuals. An essay in descriptive metaphysics, 1959; trad. it. Individui. Saggio di metafisica descrittiva) elabora una m. descrittiva che, diversamente dalla m. classica, che è «correttiva», ossia propone strutture concettuali ritenute migliori, si limita a ‘descrivere’ la realtà quale è presentata nel linguaggio comune. J. Watkins in Confirmable and influential metaphysics (Mind, 65, 1957) ha proposto una «m. influente», rimodulando il rapporto fra decidibilità empirica e falsificabilità delle affermazioni della m., che possono influire sull’elaborazione e sugli sviluppi della scienza.