mezzo
Come dimostra una lettura anche parziale delle consulte e pratiche della Signoria fiorentina e come testimonia ad abundantiam il vastissimo carteggio pubblico del Segretario della seconda cancelleria, il linguaggio politico machiavelliano è perfettamente sintonizzato con quello contemporaneo: partecipa al medesimo repertorio semantico e al medesimo codice formale, utilizza la stessa serie di formule ed espressioni cristallizzate dall’uso, sul filo di tecnicismi amministrativi e diplomatici spesso trasformati in stereotipi. Ciò non significa che M. accetti in tutto e per tutto le convenzioni, poiché una buona parte della sua verve polemica è diretta contro alcuni concetti tradizionali della politica fiorentina, contestati, trasformati e spesso capovolti nel ragionamento dello scrittore: anche la terminologia che li comunica subisce allora opportune piegature, è riutilizzata con differenze di accento o di sfumatura, trasformandosi in una nuova lingua tecnica della politica. Parole come mezzo e fine appartengono a quest’area di frontiera, termini neutri impiegati nelle normali comunicazioni di cancelleria, ma anche ripensati in profondità quando l’analisi dell’attualità e la rete degli esempi antichi e moderni cristallizzano in un giudizio originale, sul filo di una rivoluzionaria concezione dell’uomo e del suo agire sociale.
«Mezzi / mezzo» fra polemica e apprezzamento. In una famosa frase del Principe M. critica la tradizionale politica fiorentina, fondata sulla dilazione e la procrastinazione nei momenti di crisi:
Né piacque mai loro [ai Romani] quello che è tutto dì in bocca de’ savi de’ nostri tempi, di godere il benefizio del tempo, ma sì bene quello della virtù e prudenza loro; perché il tempo si caccia innanzi ogni cosa e può condurre seco bene come male e male come bene (iii 30).
Come in altri casi, tuttavia, la diagnosi può subire degli aggiustamenti adattandosi ai problemi affrontati di volta in volta, fino a sfiorare la contraddizione.
M. è convinto «che sia meglio essere impetuoso che respettivo» (Principe xxv 26) e afferma ripetutamente che «le diliberazioni lente sono nocive» (Discorsi II xv 1); tuttavia non esclude affatto l’utilità politica e bellica del prendere tempo: «temporeggiare» la «fortuna con la industria» (Istorie fiorentine VI ii 3), «col temporeggiarsi aspettare tempo» (Discorsi III xi 12). A questa dimensione temporale, che oscilla fra lentezza e velocità mentre il giudizio machiavelliano oscilla anch’esso fra polemico rifiuto e apprezzamento, appartiene anche il termine mezzi / mezzo nel suo significato di gradualità e insieme di medietà, di movimento progressivo e di compromesso.
È il tempo, appunto, a «condurre seco bene come male e male come bene», tanto che la gradualità può essere un male («Vennesi a questo inconveniente non a un tratto ma per i mezzi, come si cade in tutti gli altri inconvenienti», Discorsi I xviii 17) o può essere un requisito necessario e collegato alla «virtù», come risulta fra l’altro dal titolo di un capitolo dei Discorsi (Saltare dalla umiltà alla superbia, dalla piatà alla crudeltà, sanza i debiti mezzi, è cosa imprudente e inutile, I xli) o dal giudizio sullo Sforza («Francesco, per li debiti mezzi e con una sua gran virtù, di privato diventò duca di Milano», Principe vii 6). Allo stesso modo la convenzionale «via del mezzo», come scelta politica ugualmente legata al «rispetto» e alla prudenza è certamente uno dei bersagli polemici costanti di M., che dedica il ventitreesimo capitolo del secondo libro dei Discorsi a dimostrare Quanto i Romani nel giudicare i sudditi per alcuno accidente che necessitasse tale giudizio fuggivano la via del mezzo (II xxiii 1), ribadendo quanto aveva già scritto in Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati:
i Romani nel giudicare di queste loro terre ribellate, pensarono che bisognasse o guadagnare la fede loro con i benefizii o trattarle in modo che mai più ne potessero dubitare; e per questo giudicavano dannosa ogni altra via di mezzo che si pigliasse (§ 14).
Tuttavia, anche in questo caso il punto di vista può essere più sfumato, poiché la «via del mezzo sarebbe la più vera, quando si potesse osservare; ma [...] io credo che sia impossibile» (Discorsi III ii 8) e «tenere la via del mezzo non si può appunto perché la nostra natura non ce lo consente» (III xxi 12). E se la rinuncia alla strategia tradizionale è dettata, come si vede, da motivazioni antropologiche più che politiche, almeno in un caso M. la raccomanda come soluzione pratica e insieme psicologica, quando nell’Arte della guerra considera l’arruolamento di soldati «proprii»: «Però si debbe prendere una via di mezzo, dove non sia né tutta forza né tutta volontà, ma sieno tirati da uno rispetto ch’egli abbiano al principe, dove essi temano più lo sdegno di quello che la presente pena» (I 167).
Una delle raccomandazioni che M. fa più spesso agli uomini politici è quella di calcolare con la migliore approssimazione possibile le forze in campo: «Quando due potenti contendono insieme, a volere giudicare chi debbe vincere, conviene [...] misurare le forze dell’uno e dell’altro» (M. a Francesco Vettori, 20 dic. 1514, Lettere, p. 343). È il tema del decimo capitolo del Principe, Quomodo omnium principatuum vires perpendi debeant, a proposito della «abbondanzia di uomini o di danari» che permetta di «mettere insieme uno esercito iusto» (x 2). È anche il tema del secondo capitolo del terzo libro dei Discorsi, a partire da un esempio di Lucio Giunio Bruto:
Dallo esempio di costui hanno a imparare tutti coloro che sono male contenti d’uno principe; e’ debbono prima misurare e prima pesare le forze loro e, se sono sì potenti che possino scoprirsi suoi inimici e fargli apertamente guerra, debbono entrare per questa via [...] Ma se sono di qualità che a fargli guerra aperta le forze loro non bastino, debbono con ogni industria cercare di farsegli amici (III ii 5-6).
Questo calcolo delle forze proprie e altrui, indispensabile preliminare di ogni azione politica o militare, deve tener conto, appunto, dei mezzi e dei fini, degli scopi che si vogliono raggiungere e degli strumenti per ottenerli. Questa accezione dei termini è ovviamente convenzionale e M. la usa regolarmente, come in questi esempi dei Discorsi: «Perché, quanto alla fede, si ha a estimare che, qualunque volta e’ possano per altri mezzi che per gli tuoi rientrare nella patria loro, che lasceranno te e accosterannosi ad altri, nonostante qualunque promesse ti avessono fatte» (II xxxi 6); «sempre s’ingegnarono avere nelle province nuove qualche amico che fussi scala o porta a salirvi o entrarvi, o mezzo a tenerla: come si vede che per il mezzo de’ Capuani entrarono in Sannio (II i 29); «Possono adunque i cittadini per molti mezzi e molte vie aspirare al principato, dove e’ non portano pericolo di essere oppressi» (III vi 165). Provocatoria è la riduzione della religione a semplice m. di controllo in un famoso capitolo degli stessi Discorsi («ei sapevano che a volere vincere era necessario indurre ostinazione negli animi de’ soldati e che a indurvela non era migliore mezzo che la religione», I xv 3); ma l’impiego terminologico è standard ed è semmai l’allargamento della sfera dei mezzi nell’opera machiavelliana ad attirare l’attenzione: tutto, anche ciò che tradizionalmente non rientra nella sfera dell’utile, può diventare strumento in vista di uno scopo.
Conseguentemente M. dà largo spazio all’analisi dei fini ovvero degli obiettivi che ogni azione politica si propone di raggiungere, esaminando, per es., quale sia il «perfetto e vero fine» delle repubbliche (Discorsi I ii 5) o quale «fine [...] avesse indotto» Romolo a uccidere Remo e Tito Tazio (I ix 4). Anche in questo caso il termine rientra nella norma, ma l’analisi è molto raffinata, poiché l’autore sovrappone continuamente al discorso politico altre considerazioni: antropologiche («Perché si vede li uomini, nelle cose che gli conducono al fine quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze, procedervi variamente [...] e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no», Principe xxv 12 e 14), sociali («quello del populo è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso», ix 6), militari («Il fine di chi vuole fare guerra è potere combattere con ogni nimico alla campagna e potere vincere una giornata», Arte della guerra I 54) e persino – in apertura dei Discorsi – personali («quelli che umanamente di queste mie fatiche il fine considerassino», proemio A 1). Anche per il «fine», del resto, M. non esita ad ampliare l’area di applicazione alle credenze religiose («Né ad altro fine tendeva questo modo dello aruspicare, che di fare i soldati confidentemente ire alla zuffa», Discorsi I xiv 13) e perfino a stravolgerle, se è vero che nella Mandragola il discorso ipocritamente devoto è frutto di una cinica valutazione dei vantaggi sessuali e finanziari («Oltra di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose; el fine vostro si è riempire una sedia in paradiso, contentare el marito vostro», III xi). Non stupisce allora che i fini, in questa minuziosa analisi, si trovino spesse volte in contrasto con i mezzi, cattivi questi e buoni quelli, anche se in nessun luogo M. ha scritto la mitica frase «il fine giustifica i mezzi»: si pensi al giudizio sui «tumulti» sociali nella Roma repubblicana («gl’infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono, non nocerono anzi giovorono alla Republica», Discorsi I xvii 12) o all’ipotesi di un dittatore che rinnovi gli «ordini» di una «città corrotta» («si troverrà che radissime volte accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia diventare principe», I xviii 27).
Questa ironica asimmetria permette a M. di perfezionare la sua riflessione sui fini, soffermandosi su un’altra accezione tradizionale del termine, ma portando all’estremo la logica dell’utile. «Fine» significa infatti non solo intenzione, ma anche ‘evento’ cioè esito o effetto, come in questi esempi: «Niccolò Soderini [...] se ne andò nella sua villa, per aspettare quivi il fine della cosa, il quale reputava a sé infelice e alla patria sua dannoso» (Istorie fiorentine VII xvi 4), «E quanto questa opinione fusse falsa si vide per lo evento della cosa» (Discorsi II xxii 12). Anche il risultato di un’azione, come l’intenzione dell’agente, può discordare dai m. impiegati: «molte volte le cose bene consigliate hanno non buono fine e le male consigliate lo hanno buono» (Istorie fiorentine IV vii 8). Nei Discorsi , per es., esaminando «i modi [...] straordinarii e quasi efferati» dei «tumulti» sociali repubblicani, M. insiste sui loro «buoni effetti»: «chi esaminerà bene il fine d’essi, non troverrà ch’egli abbiano partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà» (I iv 5 e 7-8). Non sono dunque le intenzioni a ‘giustificare’ i metodi impiegati in un’impresa politica bensì il risultato favorevole di essa, come scandisce il Principe attingendo a una formula classica di Ovidio («exitus acta probat», Heroides II 85) e Cicerone («consilia ex eventu, non ex voluntate a plerisque probari solent», Ad Atticum IX 7a):
[...] nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa (xviii 17-18).
Analoga è la diagnosi nel cap. xxxv del terzo libro dei Discorsi («Perché, giudicando gli uomini le cose dal fine, tutto il male che ne risulta s’imputa allo autore del consiglio e, se ne risulta bene, ne è commendato», § 3). Con questo metro è possibile giudicare positivamente la violenza con la quale Romolo pose le fondamenta dello Stato romano:
Però uno prudente ordinatore d’una republica, e che abbia questo animo di volere giovare non a sé ma al bene comune, non alla sua propria successione ma alla comune patria, debbe ingegnarsi di avere l’autorità solo; né mai uno ingegno savio riprenderà alcuno di alcuna azione straordinaria che per ordinare un regno o constituire una repubblica usasse. Conviene bene che, accusandolo il fatto, lo effetto lo scusi; e quando sia buono, come quello di Romolo, sempre lo scuserà [...] (Discorsi I ix 6-7).
Ed è questo il criterio che avrebbe dovuto guidare la mano del gonfaloniere Piero Soderini ad «ammazzare» i «figlioli di Bruto» (ovvero liberarsi con la violenza dei suoi oppositori nella Firenze repubblicana), se la sua illusione di poter «superare» gli ostacoli «con la pazienza e bontà sua» (Discorsi III iii 6) non l’avesse ingannato e condannato al fallimento:
E doveva credere che, avendosi a giudicare l’opere sue e la intenzione sua dal fine, quando la fortuna e la vita l’avessi accompagnato, che poteva certificare ciascuno come quello aveva fatto era per salute della patria e non per ambizione sua; e poteva regolare le cose in modo che uno suo successore non potesse fare per male quello che elli avesse fatto per bene (§ 11).
Il paragone a distanza fra Romolo e Soderini è a tutto vantaggio del primo, ma i «buoni effetti» dipendono in parte dalla «fortuna», come soggiunge lo stesso M., ed è allora significativo che il ventinovesimo capitolo del secondo libro dei Discorsi a essa dedicato (La fortuna acceca gli animi degli uomini, quando la non vuole che quegli si opponghino a’ disegni suoi) si concluda con un accenno al suo «fine» che per definizione è imprevedibile:
[...] gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli; possono tessere gli orditi suoi e non rompergli. Debbono bene non si abbandonare mai; perché non sappiendo il fine suo, e andando quella per vie traverse e incognite, hanno sempre a sperare e, sperando, non si abbandonare in qualunque fortuna e in qualunque travaglio si truovino (§§ 24-25).
Da questo punto di vista anche un’azione destinata a un evento fallimentare può essere giustificata in nome della «virtù», come quella di Caterina Riario che difende invano la rocca di Forlì contro Cesare Borgia («E benché gli suoi sforzi non avessero buono fine, nondimeno ne riportò quello onore che aveva meritata la sua virtù», Arte della guerra VII 32). È proprio questa incertezza, che comunque getta un’ombra sul «fine» di ogni azione umana, a dare un tono ambiguo all’ottimismo e al volontarismo machiavelliano. Si dovrebbe allora ricordare che lo scrittore non esamina solo intenzioni o risultati dell’agire umano, ma anche semplicemente la fine di uomini, magistrature, città e Stati. Pensiamo al «tristo fine» di tanti imperatori romani evocato in un capitolo del Principe (xix 34), o al «fine» di Venezia annunciato apocalitticamente dalla sconfitta di Agnadello ed evocato nei Discorsi (II xxx 23). Il ciclo polibiano delle forme statuali, la vicenda inesorabile delle città corrotte, il destino organico delle repubbliche e delle sette, tutto rimanda alla conclusiva diagnosi: «Egli è cosa verissima come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro» (Discorsi III i 2). La fine delle cose ha la sua misura nel tempo ed è questo, verosimilmente, il tema centrale del pensiero di Machiavelli.
Bibliografia: F. Gilbert, Florentine political assumptions in the period of Savonarola and Soderini, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1957, 20, pp. 187-214 (trad. it. Le idee politiche a Firenze al tempo di Savonarola e Soderini, in F. Gilbert, Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna 1964, pp. 59-106); G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; C. Vivanti, Niccolò Machiavelli. I tempi della politica, Roma 2008; G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013.